Il patrimonio culturale e le sue regole
Oltre la mitologia giuridica dei beni culturali [*]
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Tre miti nel diritto dei beni culturali. - 2.1. La pandora del c.d. benculturalismo. - 2.2. La "chimera" valorizzazione. - 2.3. La fatica di Sisifo dell'infinita riforma organizzativa. - 3. Le proposte. - 3.1. Una pluralità di nozioni di bene culturale. - 3.2. Una miglior definizione delle funzioni. - 3.3. La differenziazione dei modelli organizzativi.
Beyond Legal Mythology in Cultural Property Law
The article focuses on the Italian legal regime of cultural property in order to detect its limits and to suggest possible reforms. In particular, the author deals with three legal myths that, according to him, represent the main obstacles to ameliorate this strategic field. The first one is the Pandora vase, i.e. the tendency to expand beyond any reasonable limit the notion of cultural property. The second myth is the ambiguous Chimera, i.e. the transforming and mislead concept of "enhancement" (valorizzazione). The third one is the Sisyphus punishment, which seems to afflict the Italian Ministry for Cultural Heritage and its never-ending reform process. Against these three myths, remedies can be found in a better differentiation of cultural property definition, administrative tasks, and institutional models.
Gli scritti che precedono trattano i più diversi aspetti della attuale disciplina dei beni culturali, evidenziandone le molte, spesso annose, problematicità. Tra le considerazioni che vi sono illustrate, ve ne è una dalla quale pare opportuno prendere le mosse. Il riferimento è alla necessità, sottolineata da Bruno Zanardi (e ancor prima da Giovanni Urbani), di recuperare una più stretta relazione tra conservazione del patrimonio storico-artistico e ambiente [1]. Questo punto, che appare centrale nella impostazione del contributo di Zanardi, consente di richiamare un profilo di grande importanza, ossia la dimensione internazionale, o meglio mondiale, dei beni culturali [2]. Basta leggere le definizioni di "agglomerati" e di "siti" culturali fornite dalla Convenzione Unesco riguardante la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale (1972): i primi sono "gruppi di costruzioni isolate o riunite che, per la loro architettura, unità o integrazione nel paesaggio hanno valore universale eccezionale dall'aspetto storico, artistico o scientifico" (art. 1); i secondi sono "opere dell'uomo o opere coniugate dell'uomo e della natura, come anche le zone, compresi i siti archeologici, di valore universale eccezionale dall'aspetto storico ed estetico, etnologico o antropologico" (art. 1).
Il sistema della Convenzione Unesco del 1972 è costruito sul concetto di sito, che porta con sé una accezione del patrimonio culturale integrato con il paesaggio e la natura [3]. Tale impostazione è ancor più evidente con riferimento alla definizione di patrimonio naturale [4]. La Convenzione disciplina congiuntamente, quindi, patrimonio culturale e naturale; e la testimonianza più evidente di questa concezione può essere trovata nei siti c.d. misti, ossia comprendenti entrambi le tipologie di "monumenti" (come il Monte Athos in Grecia). Ciò nonostante, la lista dei siti, oggi giunta a 962, conta una netta prevalenza di quelli culturali, 745, con solo 29 misti, al punto che l'Unesco World Heritage Committee ha ormai inserito il criterio di preferenza per il patrimonio naturale nel decidere sulle nuove iscrizioni [5]: basti pensare che l'Italia, che vanta il maggior numero di siti, ne ha 45 culturali (di cui uno transfrontaliero) e solo 3 naturali.
Il richiamo alla disciplina Unesco permette di anticipare uno dei principali aspetti che saranno evidenziati in questo contributo: l'esigenza di aumentare il tasso di internazionalizzazione - nonché di globalizzazione - dei beni culturali in Italia. La disciplina sovranazionale del patrimonio culturale, infatti, fornisce diversi elementi utili per proporre interventi di riforma. Basti citare il caso del piano di gestione Unesco, richiamato nella introduzione di Luigi Covatta: uno strumento imposto dall'Unesco per la gestione dei siti, che richiede procedure partecipate e può portare alla creazione di apposite forme organizzative [6].
Prima di delineare ipotesi di intervento, però, è necessario misurarsi con alcuni miti che campeggiano nel diritto dei beni culturali ormai da decenni [7]: la pandora del c.d. "benculturalismo"; la chimera della valorizzazione; la fatica di Sisifo della infinita riforma organizzativa. Dopo aver trattato i caratteri di questi miti giuridici, potranno formularsi le proposte finalizzate a "sfatarli". Le proposte riguardano quindi la nozione di bene culturale, la definizione delle funzioni in materia, l'assetto organizzativo.
2. Tre miti nel diritto dei beni culturali
2.1. La pandora del c.d. benculturalismo
Il primo mito giuridico riguarda il cuore del problema, ossia la nozione stessa di bene culturale. Luigi Covatta ha già richiamato i pericoli del c.d. benculturalismo, formula usata da Salvatore Settis per indicare una "malattia senile della storia dell'arte, [...] un morbo che non perdona. Se attacca le vecchie care antichità e belle arti le trasfigura in quattro e quattr'otto in beni culturali, con conseguente metamorfosi in giacimenti culturali (detti anche petrolio d'Italia), e finale metastasi in Patrimonio Spa (non senza qualche postumo di partiti della bellezza, lacrime di esteti e riunioni di dame)" [8].
Senza soffermarsi qui sulla evoluzione della nozione di bene culturale [9], in questa sede è necessario porre in risalto una conseguenza determinata dalla nascita della locuzione bene culturale, ossia di un concetto, un denominatore comune, tale da mettere insieme le più diverse ed eterogenee categorie di cose. La conseguenza è che l'attenzione è stata spostata sull'oggetto, sulle cose, a discapito di altri elementi, come ad esempio gli istituti. Sotto questo profilo, il caso degli archivi e delle biblioteche è particolarmente indicativo: la necessità di ricondurre nei beni culturali anche i beni archivistici e i beni librari, e la successiva inclusione degli archivi e delle biblioteche nella struttura del ministero per i Beni culturali [10], hanno portato a uno "scolorimento" degli Istituti, innanzitutto sul piano della visibilità normativa, e, di conseguenza, l'attenzione della scienza giuridica per questa materia è progressivamente diminuita [11].
Una ulteriore conferma della tendenza del nostro ordinamento verso il "benculturalismo" si rintraccia anche nel modo in cui è stata attuata la Convenzione europea del paesaggio del 2000: attraverso la distinzione tra beni paesaggistici, inclusi nel patrimonio culturale, e paesaggio, riguardante l'intero territorio. In altri termini, la legislazione italiana è costruita intorno alla nozione di beni culturali e paesaggistici, con entrambe le categorie incluse nel patrimonio culturale. Ciò, però, si deve essenzialmente alla esigenza di attrarre il paesaggio, non menzionato nell'art. 117 della Costituzione, verso il medesimo regime previsto per i beni culturali.
In conclusione, la codificazione della nozione di bene culturale operata introducendo una nuova definizione intesa come "raccoglitore" delle categorie già regolate dalla legge di tutela del 1939 ha determinato non pochi problemi: la disattenzione verso i soggetti, le istituzioni, ad eccessivo favore dell'oggetto regolato; la progressiva "dimenticanza" del contesto, specialmente ambientale, in cui i beni sono inseriti; l'ambizione - se non l'ossessione - di includere tutte le possibili cose meritevoli di tutela nella nuova categoria, assunta al ruolo di vaso di Pandora in cui collocare ogni bene.
2.2. La "chimera" valorizzazione
Il secondo mito riguarda una delle più grandi novità nel panorama giuridico italiano degli ultimi decenni: la valorizzazione. Un concetto sfuggente, intraducibile, una vera e propria "chimera", e per questo molto amata dai giuristi, che pure solo alla fine degli anni Novanta hanno iniziato a cimentarsi seriamente con essa [12].
La ormai cinquantennale storia della valorizzazione mostra le difficoltà dell'ordinamento italiano nel regolare una funzione amministrativa "diversa" dalla tutela; ed è esemplare di come troppo spesso la "lotta" per il riparto delle attribuzioni prevalga sulla corretta individuazione del fine pubblico che una funzione dovrebbe perseguire.
La parabola della valorizzazione inizia in Francia, nemmeno un secolo fa, nel 1918, quando Marcel Proust includeva l'"arte di 'valorizzare'" tra "les Arts du Néant", le Arti del Nulla [13]. Un anno dopo Piero Gobetti la usò per la prima volta nella lingua italiana, ma in un contesto diverso da quello dei beni culturali [14]. Nel 1964, il vocabolo valorizzazione inizia ad essere usato per indicare ogni attività, diversa della tutela, volta a perseguire la fruizione, la promozione e la diffusione della conoscenza del patrimonio culturale. Nel 1998, la funzione di valorizzazione dei beni culturali acquisisce piena dignità giuridica e, nel 2001, è inserita - al pari della tutela - nell'art. 117 della Costituzione. Nel 2004, invece, la valorizzazione è ridimensionata dal codice e, soprattutto, perde tra le sue finalità proprio quella per la quale essa è stata ideata, la fruizione, che, viceversa, è assorbita in parte dalla tutela. Nel 2009, viene creata una struttura del ministero dedicata alla valorizzazione, con il merito di mettere in primo piano i compiti attivi di promozione e di sviluppo della cultura assegnati al Mibac
Una Direzione generale per la valorizzazione, però, sarebbe servita subito nel 1974-75, quando per la prima volta in un testo normativo fu stabilito che il ministero "tutela e valorizza" il patrimonio storico e artistico, senza tuttavia che fosse ben chiaro il significato e la portata di una tale espressione. Solo dopo trentacinque anni, la valorizzazione, già consacrata nella Costituzione e più volte definita dal legislatore e dalla Corte costituzionale, trova pieno riconoscimento anche in termini organizzativi all'interno del ministero. Proprio tale ritardo potrebbe rivelarsi addirittura controproducente, tanto da legittimare quelle tesi che considerano la valorizzazione unicamente come ago della bilancia nel ripartire le competenze tra Stato e regioni, senza cogliere le potenzialità di questa funzione per sviluppare nuove e più avanzate forme di fruizione del patrimonio culturale.
Sotto questo aspetto, le vicende della valorizzazione rischiano di rappresentare un'ulteriore occasione mancata per rilanciare le politiche dei beni culturali in Italia, dato che il legislatore si è preoccupato prevalentemente di ripartire i compiti tra Stato, regioni ed enti locali, invece di dotare questa funzione di mezzi, istituti e procedure [15]. Con il paradossale risultato di avere ora un sofisticato livello di regolazione dei profili della fruizione e della accessibilità, concepito però per delimitare le competenze più che per soddisfare le esigenze delle collettività. Basti vedere quanto avvenuto recentemente, con riguardo al trasferimento di funzioni a Roma Capitale [16].
2.3. La fatica di Sisifo dell'infinita riforma organizzativa
Il terzo mito riguarda l'organizzazione. Si collega al vizio di origine della struttura ministeriale, ricordato nella Introduzione da Luigi Covatta, citando Sabino Cassese: le fondamenta del ministero furono uffici e strutture già esistenti e almeno in parte già "vecchi". E l'unico serio tentativo di riforma, nel 1998, viene poi travolto dalle più generali difficoltà di mettere in atto i modelli organizzativi concepiti con il d.lg. 300 del 1999.
Con il d.p.r. 2 luglio 2009, n. 91, infatti, si è avuta l'ultima fatica, almeno per ora: il "Regolamento recante modifiche ai decreti presidenziali di riorganizzazione del ministero e di organizzazione degli Uffici di diretta collaborazione del ministro per i Beni e le Attività culturali" [17]. Si tratta della quarta riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (Mibac): istituito nel 1974, esso è stato riformato nel 1998 e poi riordinato per ben tre volte in soli sei anni (nel 2004, nel 2007 e nel 2009) [18]. Il d.p.r. n. 91/2009, però, non è un nuovo regolamento di organizzazione del ministero, ma apporta modifiche sia al d.p.r. n. 233/2007, vigente regolamento, sia - seppur in misura minore - al d.p.r. n. 307/2001, relativo agli uffici di diretta collaborazione, sia infine, a conferma delle travagliate vicende istituzionali del Mibac, alle esigue disposizioni rimaste del d.p.r. n. 805 del 1975, primo atto di organizzazione dell'allora ministero per i Beni culturali e ambientali.
Nonostante questo "sciame normativo" [19], i problemi che da tempo affliggono l'amministrazione dei beni culturali - dalle eccessive giacenze finanziarie (i noti residui passivi del Mibac, richiamati da Pennisi e Graziani [20]) allo scarso coordinamento tra uffici centrali e uffici periferici - non hanno ancora trovato adeguata risposta. Sotto questo profilo, anche il regolamento del 2009, pur contenendo alcune positive innovazioni, conferma la necessità e l'urgenza di avviare un più ampio percorso di riforma della materia, in modo da eliminare lo iato - sorto nel 1998 e divenuto progressivamente più evidente - tra il processo di codificazione della disciplina e quello di riorganizzazione delle strutture [21].
I nodi da sciogliere, infatti, sono molti. Basti pensare alle questioni connesse alla europeizzazione e alla globalizzazione, le cui implicazioni sono solo parzialmente trattate nel Codice [22]. In altri termini, anche la riorganizzazione del Mibac operata nel 2009 - la quarta - sembra rappresentare una fatica di Sisifo, destinata a dar vita a una nuova operazione di riordino.
Il quadro descritto mostra la necessità di proporre interventi di riforma in grado di superare i tre miti giuridici considerati: un'unica definizione omnicomprensiva di bene culturale; la definizione della valorizzazione collegata esclusivamente al riparto di competenze; l'infinita riforma organizzativa.
Nella consapevolezza, però, che il legislatore negli ultimi anni è sembrato impegnato più nell'attività di coordinamento normativo che nel far fronte alle nuove sfide lanciate alla disciplina dei beni culturali dall'europeizzazione e dalla globalizzazione [23]: si pensi alle questioni relative alla "diversità culturale" e al patrimonio culturale immateriale richiederanno, in futuro, attenta considerazione. Visto il ruolo strategico che il patrimonio culturale ormai riveste sotto il profilo economico, le misure di carattere fiscale - nella forma di agevolazioni e incentivi - appaiono ancora decisamente inadeguate [24].
3.1. Una pluralità di nozioni di bene culturale
La prima importante questione riguarda le nozioni di patrimonio culturale e di bene culturale. Le forme di espressione e di manifestazione, o meglio, le testimonianze prodotte dalla civiltà attuale impongono di considerare nuovamente i confini della disciplina, anche per non correre il rischio di distruggere oggi ciò che domani potrebbe essere concepito come un valore da tutelare [25]. Analogamente a quanto avvenuto negli anni dal secondo dopoguerra agli anni Settanta, quando si passò dalle cose d'arte e di interesse storico ai beni culturali, attualmente vi sono molteplici fattori di cambiamento, come le installazioni di arte contemporanea ad esempio, che mettono in crisi la "materialità" della disciplina; analoga pressione è esercitata dalle misure di protezione del patrimonio culturale immateriale dettate dalla Convenzione Unesco. Tutto questo, peraltro, si pone in linea con l'idea di bene culturale "giuridicamente valida in quanto nozione liminale, ossia nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, una propria definizione per altri tratti giuridicamente conchiusi, bensì opera mediante rinvio ad altre discipline non giuridiche" [26].
Ancor di più, poi, vi è il problema di conciliare un'idea di patrimonio culturale universale, da proteggere "in termini funzionali ad una distribuzione internazionale dei beni culturali" [27], con la necessità di tutelare i tanti diversi patrimoni culturali nazionali, ognuno dei quali elemento di identità per il rispettivo Stato di appartenenza. In questa contrapposizione, che si riflette nella disciplina internazionale e comunitaria della circolazione e della restituzione dei beni, è sempre attuale la distinzione tra le c.d. source nations (come l'Italia, la Spagna o la Grecia), dove "the supply of desirable cultural property exceeds the internal demand", rispetto alle c.d. market nations, come per esempio i Paesi scandinavi, dove "the demand exceeds the supply" [28].
In aggiunta, tra gli effetti prodotti dalla inclusione di tutte le cose di interesse storico, artistico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico in un'unica categoria - quella dei beni culturali - vi è stata, come visto, la tendenza a trascurare, in qualche misura, i beni meno "attrattivi", come quelli archivistici e librari. Proprio questi ultimi, peraltro, sono maggiormente soggetti alla evoluzione delle nuove tecnologie e delle modalità di fruizione, talché appare sempre più necessario un intervento organico in questi settori, paradossalmente penalizzati, sia sul piano della disciplina che su quello organizzativo, dall'essere stati assorbiti nel sistema complessivo dei beni culturali.
E' in questo contesto che quanto suggerito da Bruno Zanardi può trovare una adeguata collocazione. Ed è in questa prospettiva che la disciplina internazionale del patrimonio culturale può offrire elementi molti utili. Nel contesto globale, infatti, non esiste una sola definizione di patrimonio culturale o di bene culturale, ma ne esistono diverse, funzionali alla finalità pubblica perseguita (per es. il controllo della circolazione, la protezione in caso di conflitto armato, o ancora la menzionata protezione del patrimonio mondiale dell'umanità) [29].
La proposta dei "cerchi concentrici", prima avanzata da Luigi Covatta, può quindi trovare applicazione in una pluralità di nozioni di patrimonio, differenziate a seconda della finalità e dei diversi interessi pubblici: conservazione, fruizione, circolazione [30]. In questa ottica, è certamente possibile recuperare la stretta relazione tra beni culturali e ambiente. E, a tal fine, la proposta potrebbe anche essere avviata con riferimento ad alcune esperienze pilota, quali i siti Unesco, soprattutto se in condizioni di "degrado", come Pompei.
3.2. Una miglior definizione delle funzioni
Una volta definite le nozioni, occorre tornare sulle funzioni, in modo da correggere il vizio di prospettiva derivante dalla "lotta" per le attribuzioni. Bisogna partire nuovamente dalla molteplicità degli interessi che connotano la materia dei beni culturali.
Tale pluralità di interessi, del resto, è problematica perché non solo essi sono spesso in contrasto tra loro - aumentare l'accesso ad un sito culturale determina problemi di protezione; limitare la circolazione può ridurre la fruizione; decontestualizzare un bene può preservarlo meglio e persino valorizzarlo - ma anche perché spesso tali interessi insistono sulla medesima cosa [31].
La molteplicità degli interessi si riflette - inevitabilmente - sul rapporto tra autorità pubblica e privati, a seconda che questi ultimi siano proprietari di beni, parte del pubblico fruitore del patrimonio storico e artistico, mecenati o finanziatori interessati ad investire in opere d'arte o semplicemente in un ritorno pubblicitario [32]. Già a metà degli anni Settanta, d'altronde, veniva osservato come "il dialogo" non fosse più solo "tra Stato e privato detentore del bene culturale" [33]. In tale settore, quindi, la dialettica tra pubblico e privato ha natura consustanziale e, nel corso del tempo, ha attraversato tre differenti fasi [34]: una prima, in cui i rapporti tra pubbliche amministrazioni e privati hanno una struttura bilaterale, dove si contrappongono, da un lato, l'interesse pubblico alla conservazione del bene, e, dall'altro, l'interesse del privato proprietario; una seconda, nella quale, grazie all'affermazione della funzione sociale del patrimonio culturale sancita dall'art. 9 cost., si forma una struttura trilaterale, dove vi sono l'interesse pubblico, l'interesse del privato proprietario, l'interesse della collettività; una terza, infine, evoluzione della precedente, connotata da una struttura multilaterale, dove compaiono anche altri interessi, come quelli dei privati finanziatori. Attualmente, queste tre strutture di rapporti coesistono e si concretizzano in relazione alle singole situazioni [35].
In questo contesto, diviene possibile - e auspicabile - seguire quanto suggerito da Bruno Zanardi e stabilire un maggior collegamento tra beni culturali e ambiente. In questa direzione, del resto, erano andate le modifiche al Codice operate nel 2006, soprattutto in materia di valorizzazione: la previsione di un'apposita programmazione degli interventi e l'integrazione con infrastrutture e altri settori produttivi arricchiscono le finalità della valorizzazione e consentono di configurare forme di "valorizzazione sostenibile" [36].
Non può non considerarsi, inoltre, il mutato ruolo dei privati. Anche perché la valorizzazione, declinata e strutturata dal Codice lungo il crinale della dicotomia pubblico-privato, postula che la dialettica tra sfera pubblica e sfera privata sia vista non come sterile contrapposizione, bensì come criterio per dettare differenti regole sulle modalità di svolgimento delle funzioni amministrative in materia di beni culturali.
3.3. La differenziazione dei modelli organizzativi
I cambiamenti nel riparto delle competenze e nelle strutture organizzative mostrano che ancor oggi permane il problema di concepire un adeguato assetto dell'apparato centrale. Se, da un lato, l'inquadramento giuridico delle funzioni amministrative - prima fra tutte la valorizzazione - e l'equilibrio tra centro e periferia hanno trovato una copiosa regolazione nel Codice del 2004, dall'altro, una razionale organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali resta una delle principali questioni irrisolte, come evidenziato anche da Covatta. Esso, infatti, risulta in gran parte ancora "ordinato come la struttura da cui nacque per partenogenesi, il complesso degli uffici del ministero della Pubblica Istruzione diretto a tutelare le cosiddette cose d'arte" [37].
Con riguardo ai profili istituzionali, la prima questione con cui l'amministrazione dei beni culturali deve misurarsi è quella di ritrovare un collegamento tra la disciplina di tutela e di valorizzazione, da un lato, e l'assetto del Mibac, dall'altro. Lo "scollamento" verificatosi nel 1998-99, quando in sede di redazione del Testo unico (d.lg. n. 490/1999) si optò per "ignorare" i due atti legislativi che avevano ridisegnato il sistema organizzativo dei beni culturali (ossia i d.lg. n. 112 e 368 del 1998), si è ulteriormente accentuato con il processo di codificazione realizzato nel 2004 e proseguito nel 2006 e nel 2008. Il Codice, infatti, ha regolato il riparto di competenze tra Stato, regioni ed enti locali, ma non ha considerato i profili organizzativi del Mibac, né in generale ha disciplinato in modo esauriente gli istituti e i luoghi della cultura. A differenza di rilevanti esperienze straniere, come quella del Code du patrimoine francese, ad esempio, la disciplina italiana è costruita innanzitutto sulle cose, sui beni, e non sulle istituzioni, come i musei, gli archivi e le biblioteche [38].
Un'altra questione è quella dell'innovazione e della sperimentazione dei modelli organizzativi. A oltre trent'anni dalla sua istituzione, il Mibac non sembra aver ancora superato la "stranezza organizzativa" che lo ha accompagnato sin dalla propria nascita [39]. La straordinaria importanza del patrimonio culturale italiano dovrebbe imporre invece di cercare soluzioni più flessibili e diversificate a seconda delle cose oggetto di tutela e valorizzazione. Nel caso degli archivi e delle biblioteche, ad esempio, potrebbe essere utile fare riferimento al modello agenzia, in modo da riconoscere la specificità e l'autonomia di tali categorie di beni. Maggior rilievo meriterebbero gli istituti e i luoghi della cultura, la cui direzione è affidata in misura pressoché esclusiva a funzionari, e non a personale dirigenziale. Alcune di queste esigenze, in realtà, hanno trovato risposta non in un ripensamento delle strutture organizzative, quanto in un una moltiplicazione dei regimi speciali per gli uffici periferici: basti pensare alla crescita smisurata delle c.d. contabilità speciali del Mibac, oggi superiori a 300, un caso unico nel bilancio dello Stato italiano, che hanno contribuito, almeno in parte, alla formazione di consistenti residui passivi [40].
Rispetto a questi aspetti, che costituiscono oggi i principali problemi della amministrazione dei beni culturali, anche l'ultimo regolamento del 2009 non prende alcuna posizione, né offre strumenti per farvi fronte [41]. Molti di questi punti critici sono stati adeguatamente sottolineati dalla Corte dei conti, che ha rilevato "un affievolimento delle risorse disponibili in capo all'Amministrazione centrale" e della "funzione di indirizzo politico amministrativo che la legge ha assegnato al ministero", affievolimento imputabile anche alla organizzazione del Mibac e alla "differente configurazione di organismi che operano nell'ambito della cura del patrimonio culturale italiano: si fa riferimento alle gestioni Commissariali, alle Fondazioni ed infine alle società Arcus S.p.a. e Ales S.p.a." [42], nonché al "permanere di difficoltà nell'effettivo raccordo fra Direzioni generali, nonostante un positivo ruolo del Segretario generale, nell'interazione tra centri e sedi periferiche, con riflessi negativi sull'esercizio del controllo sull'attività svolta dalle soprintendenze" [43].
Note
[*] Il presente scritto costituisce il capitolo III del volume I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, a cura di Luigi Covatta. Si ringrazia il prof. Franco Bassanini per averne permesso la pubblicazione su Aedon.
[1] La letteratura sul punto è copiosa - basti menzionare l'ultimo volume di S. Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento, La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, Torino, Einaudi, 2010, specialmente p. 242 ss., in cui sono ricostruite le tappe dei "dissennati divorzi" tra paesaggio e ambiente - e ad essa può rinviarsi. Può comunque precisarsi che, in queste analisi, talvolta viene poco considerato, tra i fattori causali di questa separazione, la progressiva formazione di un distinto interesse alla tutela dell'ambiente inteso come biosfera. Interesse che fino agli anni Ottanta veniva ricondotto alternativamente all'urbanistica, al paesaggio o alla sanità, ma che, soprattutto grazie alle politiche comunitarie - dall'Atto unico europeo del 1986 in avanti - ha acquisito una piena autonomia.
[2] Su queste problematiche, sia consentito rinviare a L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010, e L. Casini, "Italian Hours": The Globalization of Cultural Property Law, in International Journal of Constitutional Law, 9, 2011.
[3] D. Zacharias, The Unesco Regime for the Protection of World Heritage as Prototype of an Autonomy-Gaining International Institution, in German Law Journal, 9, 2008, n. 11, pp. 1833 ss.
[4] Esso comprende i monumenti naturali "costituiti da formazioni fisiche e biologiche o da gruppi di tali formazioni di valore universale eccezionale dall'aspetto estetico o scientifico", le "formazioni geologiche e fisiografiche e le zone strettamente delimitate costituenti l'habitat di specie animali e vegetali minacciate, di valore universale eccezionale dall'aspetto scientifico o conservativo", e "i siti naturali o le zone naturali strettamente delimitate di valore universale eccezionale dall'aspetto scientifico, conservativo o estetico naturale" (art. 2).
[5] Si vedano le Operational Guidelines for the Implementation of the World Heritage Convention.
[6] C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 177 ss.
[7] Sulla nozione di "mito giuridico", si leggano Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico (1947), Milano, Giuffrè, 1983, p. 126 ss., e P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2001, p. 43 ss.
[8] S. Settis, Benculturalismo parolaio: il Patrimonio "boccheggia", ma tutti esaltano le "Eccezionali Mostre", in il Sole 24 ore, 28 maggio 2006.
[9] Tradizionalmente fatta risalire alla Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, firmata all'Aia il 14 maggio 1954, la definizione di bene culturale appare in realtà già in M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Roma, Soc. Il Foro It. Ed., 1952, p. 124 e 145, il quale riprese l'espressione dal rapporto steso dal prof. Georges Berlia a conclusione della riunione di esperti convocati dell'Unesco, tenutasi a Parigi dal 17 al 21 ottobre 1949 e presieduta dal prof. Paulo de Berredo Carneiro; per un resoconto di tale riunione, R.F. Lee, Compte rendu de la Réunion d'Experts, in Museum, 1950, p. 90 ss. Il Rapporto descrive il concetto di bene culturale, comprendendovi "i beni mobili o immobili, pubblici o privati, che costituiscono dei monumenti d'arte o di storia, o sono delle opere d'arte, o documenti di storia, od oggetti di collezione", ed includendovi, inoltre, "gli edifici la cui destinazione principale e attuale è di conservare queste opere, questi documenti o questi oggetti".
[10] Già durante i lavori della Commissione Franceschini, del resto, l'attenzione sui beni archivistici e beni librari fu incentrata sull'oggetto e, nelle Dichiarazioni L e seguenti, non v'è alcun riferimento alle istituzioni ad essi adibite. La Relazione e le Dichiarazioni della Commissione sono in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1966, 119 ss., mentre le Dichiarazioni sono ora anche in M.A. Cabiddu e B. Boschetti, Codice dei Beni Culturali. Norme, provvedimenti, documenti, Milano, Giuffrè, 2005, 1073 ss.
[11] La vicenda delle biblioteche è molto significativa. Si prendano, per esempio, le trattazioni di diritto amministrativo generale. Agli inizi del XX secolo, i Principii di diritto amministrativo italiano di Santi Romano contengono quattro pagine dedicate alle biblioteche. Nel secondo dopoguerra, nel Manuale di diritto amministrativo di Aldo M. Sandulli, le biblioteche sono menzionate tre volte, insieme alle cose di interesse storico-artistico. Nel Diritto amministrativo di Massimo Severo Giannini (la terza edizione del 1993), le biblioteche neanche compaiono nell'indice analitico.
[12] Sulla funzione di valorizzazione, possono leggersi, da ultimo, M. Dugato, Fruizione e valorizzazione dei beni culturali come servizio pubblico e servizio di pubblica utilità, in Aedon, n. 2/2007, e, in termini più ampi, i volumi di D. Vaiano, La valorizzazione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2011, L. Degrassi (a cura di), Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, Milano, Giuffrè, 2008, mentre, con riguardo alla disciplina codicistica, C. Barbati, La valorizzazione: gli artt. 101, 104, 107, 112, 115, 119, in Aedon, n. 3/2008 e, tra le opere più recenti, la seconda edizione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2012; in precedenza, L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2001, p. 651 ss.
[13] Insieme all'"arte di saper 'riunire', [...] di 'stare nell'ombra', di 'fungere da tramite'": M. Proust, À la recherche du temps perdu, II. A l'ombre des jeunes filles en fleurs (1918), Paris, 1987, 171 (trad. it., Milano, Mondadori, 1983, I, 727).
[14] P. Gobetti, Verso una realtà politica concreta, 1919 (così riporta T. De Mauro, Grande dizionario italiano dell'uso, Torino, Utet, 1999, ad vocem).
[15] Questo il rilievo formulato alla fine degli anni Novanta da S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giornale di diritto amministrativo, 1998, p. 673; un rilievo che, pur se attenuato dalle novità introdotte con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 42/2004 e successive modifiche), resta ancora oggi valido.
[16] Sul punto, si veda L. Casini, Audizione parlamentare sullo Schema di d.lg. recante Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento di Roma Capitale (425), Capo II, Beni storici, artistici, paesaggistici, ambientali e fluviali, in Aedon n. 3/2011.
[17] Un'analisi del d.p.r. n. 91/2009 può trovarsi in G. Sciullo, Il Mibac dopo il d.p.r. 91/2009: il "centro" rivisitato, in Aedon, n. 3/2009, C. Barbati, L'amministrazione periferica del Mibac nella riforma del 2009, ivi, e in L. Casini, Il mito di Sisifo ovvero la quarta riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali, in Giornale di diritto amministrativo, 2010, p. 1006 ss.
[18] Dapprima è stato emanato il d.l. 14 dicembre 1974, n. 657 (conv. in legge 29 gennaio 1975, n. 5), seguito dal d.P.R. 3 dicembre 1975, n. 805; poi sono stati approvati il d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368, e il d.lg. 30 luglio 1999, n. 300 (artt. 52-54), che, modificati dal d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3, e, successivamente, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286 (art. 2, comma 94), ancora oggi regolano il Mibac a livello legislativo. Più complessa la vicenda sul piano regolamentare: il citato d.p.r. n. 805/1975 è stato soppresso - seppur non integralmente - dal d.p.r. 29 dicembre 2000, n. 441, a sua volta abrogato dal d.p.r. 10 giugno 2004, n. 173, poi sostituito dall'attuale regolamento di organizzazione d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233, ora modificato dal d.p.r. n. 91/2009. Una ricostruzione delle vicende organizzative del Mibac può ricavarsi, con riguardo alla riforma del 1998, da G. Corso, Il ministero per i Beni e le Attività culturali (articoli 52-54), in La riforma del governo, a cura di A. Pajno e L. Torchia, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 375 ss., C. Barbati, Funzioni del ministero per i Beni e le Attività culturali nella più recente legislazione, in Aedon, n. 1/1999, n. 1, G. Pastori, Il ministero per i beni e le attività culturali: il ruolo e la struttura centrale, ivi, e G. Sciullo, ministero per i Beni e le Attività culturali e riforma dell'organizzazione del governo, ivi; con riferimento alla riforma del 2004, M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, n. 3/2003, e gli scritti di M. Cammelli, G. Pastori, G. D'Auria, G. Sciullo, C, Barbati, S. Foà e F. Merusi, ivi, n. 1/2005; per le modifiche del 2006, G. Sciullo, Il 'Lego' istituzionale: il caso del Mibac, ivi, n. 3/2006. Sulla struttura originaria del ministero, invece, anteriormente alla riforma del 1998, si leggano S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rassegna Archivi di Stato, 1975, p. 116 ss. (anche in Id., L'Amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976, p. 152 ss.), D. Serrani, L'organizzazione per i ministeri, Roma, Officina, 1979, p. 52, M. Dallari, Sull'organizzazione del ministero per i Beni culturali e ambientali, in Foro amministrativo, 1976, I, p. 3166 ss., S. Italia, L'amministrazione dei beni culturali, Udine, Del Bianco, 1988, e T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, III ed., Milano, Giuffrè, 1995, p. 91 ss., nonché M.S. Giannini, Infine un'organizzazione per i beni culturali, inedito ora in Id., Scritti, X, Milano, Giuffrè, 2008, p. 405 ss. Sull'organizzazione amministrativa dei beni culturali precedentemente alla istituzione del ministero, può leggersi M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, cit., p. 508 ss.
[19] Così G. Severini, La seconda novellazione "correttiva ed integrativa" del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giornale di diritto amministrativo, 2008, p. 1057 ss., qui 1058, riferendosi alle ripetute modifiche del d.lg. n. 42/2004; ma la formula ben può essere usata anche per i continui interventi di riassetto organizzativo.
[20] Tema che ha interessato non solo la Corte dei conti (Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2010, p. 399 ss., Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2009, p. 695 ss., e Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2008, p. 819 ss.) e la Ragioneria generale dello Stato (Rapporto sulla spesa delle amministrazioni pubbliche 2009, p. 480 ss.), ma anche la stampa specializzata (R. Rosati, Residui passivi: ecco il vero problema, in Il Giornale dell'Arte, n. 298, maggio 2010).
[21] Il punto è ben messo in luce da C. Barbati, L'amministrazione periferica del Mibac, nella riforma del 2009, cit., la quale lamenta l'assenza di un "consapevole parallelismo" e di "una stretta consequenzialità tra il mutare delle condizioni di azione e di organizzazione".
[22] In argomento, si leggano M. Cammelli, Per uno sguardo oltre la siepe, in Aedon, n. 1/2008, nonché i contributi raccolti in La globalizzazione dei beni culturali, cit.
[23] Ancora M. Cammelli, Per uno sguardo oltre la siepe, cit.
[24] Basti considerare, invece, l'attenzione che la questione riceve in altri ordinamenti, come quelli anglosassoni: si v. V.A. Ginsburgh e D. Throsby (eds.), Handbook of the economics of art and culture, Amsterdam, Elsevier, 2006.
[25] In questi termini, S. Cassese, Problemi attuali dei beni culturali, in "Giornale di diritto amministrativo", 2001, p. 1064.
[26] M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, p. 8.
[27] Così S. Cassese, I beni culturali: sviluppi recenti, in Beni culturali e comunità, a cura di M. Chiti, Milano, Giuffrè, 1994, p. 341 ss., qui 348.
[28] J.H. Merryman, Two ways of thinking about cultural property, in "American Journal of International Law", 80, 1986, p. 831 ss., ora in Id., Thinking About the Elgin Marbles. Critical Essays on Cultural Property, Art and Law, cit., 66 ss.
[29] Sul punto, si rinvia a L. Casini, "Italian Hours": The Globalization of Cultural Property Law, cit.
[30] Si v. C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, cit., p. 171.
[31] A questa pluralità di interessi, poi, si aggiungono le diverse concezioni di patrimonio culturale che possono adottare le politiche pubbliche in materia: L. Bobbio, Le concezioni della politica dei beni culturali, in I beni culturali: istituzioni ed economia. Tavola rotonda nell'ambito della Conferenza annuale della ricerca (Roma, 20 maggio 1998), Atti dei Convegni Lincei, Roma, 1999, 13 ss. Non stupisce, quindi, che la scienza giuridica abbia tentato di fornire una classificazione dei diversi interessi pubblici collegati al patrimonio culturale e, tra queste, la più interessante sembra essere quella fornita da J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property, in California Law Review, 77, 1989, p. 339 ss., ora in Id., Thinking About the Elgin Marbles. Critical Essays on Cultural Property, Art and Law, cit., 94 ss., secondo cui il public interest è scomposto in quattro componenti: la conservazione fisica (preservation); l'autenticità (cultural truth); l'accessibilità (access); l'identità nazionale (cultural nationalism). Si leggano anche E. Jayme, Globalization in Art Law: Clash of Interests and International Tendencies", "Vanderbilt Journal of Transnational Law", 38, 2005, p. 927 ss., che individua anche l'interesse relativo ai diritti umani, nonché, in precedenza, S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, cit., p. 673 ss., dove sono descritti gli interessi alla: conservazione, finalizzata a preservare fisicamente i beni; ritenzione, riguardante la circolazione internazionale del patrimonio artistico; conservazione nel contesto, con conseguenti problematiche relative tanto alla conservazione fisica che alla fruizione dei beni culturali; accessibilità, relativa alla fruizione collettiva delle opere d'arte.
[32] In argomento, si legga ora F. Merusi, Pubblico e privato e qualche dubbio di costituzionalità nello statuto dei beni culturali, in Diritto amministrativo, 2007, 52 ss.
[33] Così S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, 140.
[34] Una prima classificazione in tal senso è in G. Alpa, Imprese e beni culturali. Il ruolo dei privati per conservazione, restauro e fruizione, in "Quaderni regionali", 1987, 507 ss., in particolare 514.
[35] Per una analisi più approfondita, si rinvia a quanto scritto in Pubblico e privato nella valorizzazione dei beni culturali, in Giornale di diritto amministrativo, 2005, 785 ss., mentre, per gli aspetti civilistici, si veda M. Basile, Rapporti tra soggetti pubblici e privati a fini di valorizzazione di beni culturali, in F. Trimarchi (a cura di), Beni culturali e politiche di sviluppo in Sicilia, Milano, Giuffrè, 2004, 103 ss.
[36] Con la nozione di "valorizzazione sostenibile" si fa riferimento ad interventi che siano in grado di conciliare il processo di espansione del patrimonio culturale con l'esigenza di sempre più consistenti risorse, impedendo, al contempo, che una gestione troppo imprenditoriale possa disattendere l'obiettivo primario della valorizzazione: la diffusione dei valori culturali a livello globale rendendo ogni testimonianza di civiltà parte integrante ed imprescindibile del territorio e della società (sul punto, si rinvia a quanto scritto in La valorizzazione dei beni culturali, cit., 705 ss.).
[37] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, cit., 675. Negli anni Settanta, d'altra parte, la scienza giuridica accolse con scetticismo la creazione del ministero: per esempio, S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, cit., 133 ss., pur riconoscendo un progresso nell'aver riunito entro un unico organo competenze distribuite fra più ministeri, considerò l'evento come come un'occasione mancata; analogamente, D. Serrani, L'organizzazione per i ministeri, cit., 52, usò la formula "vino vecchio in otri vecchie".
[38] Nell'ordinamento francese, la posizione strategica degli istituti appare evidente sin dalla sistematica del Code du patrimoine, approvato nel 2004, in cui vi sono parti dedicate interamente a archivi (livre II), biblioteche (livre III) e musei (livre IV); sul code du patrimoine, si legga il dossier "Codification e révolution du patrimoine", in "Actualite Juridique - Droit Administraif", 2004, 1330 ss., e in particolare lo scritto di J.-M. Pontier, Le code du patrimoine, 1330 ss., mentre, più in generale, sulla normativa francese in materia di beni culturali, si rinvia a P.-L. Frier, Droit du patrimoine culturel, Paris, Puf, 1997, e all'ampia bibliografia ivi citata. Si rinvia, inoltre, a L. Casini, La codificazione del diritto dei beni culturali in Italia e in Francia, in "Giornale di diritto amministrativo", 2005, p. 98 ss., e B.G. Mattarella, La codificazione del diritto dei beni culturali e del paesaggio, ivi, p. 793 ss.
[39] L'espressione è di M.S. Giannini, Infine un'organizzazione per i beni culturali, cit., p. 410, il quale osservava che "il ministero fu istituito per ragioni di governo, ma seguitò a restare, per l'attività, la direzione generale che era prima", ossia la ex Direzione generale delle cose d'interesse artistico presso il ministero della pubblica istruzione.
[40] Come osserva la Ragioneria generale dello Stato, Rapporto sulla spesa delle amministrazioni pubbliche 2009, p. 480.
[41] C. Barbati, L'amministrazione periferica del Mibac nella riforma del 2009, cit. Tali questioni venivano del resto già evidenziate da M.S. Giannini, Ristrutturiamo il ministero dei Beni culturali (1986), in Id., Scritti, VIII, Milano, Giuffrè, 2006, p. 541 ss.
[42] Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2009, p. 689, che prosegue ribadendo "le osservazioni, già formulate nella Relazione sul Rendiconto 2008, circa le criticità relative alla scarsa propensione delle strutture periferiche ad interagire con gli organi centrali nel processo di definizione degli obiettivi strategici".
[43] Corte dei conti, Relazione sul rendiconto generale dello Stato sull'anno finanziario 2010, p. 385.