Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)
I beni culturali ecclesiastici [*]
di Girolamo Sciullo [**]
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Le scelte operate dal Codice. - 3. Le questioni risalenti. - 4. Le sfide del presente. - 5. Le prospettive.
Lo scritto analizza il regime dei beni culturali appartenenti ad enti ecclesiastici, partendo dalla disciplina codicistica. In primo luogo, si analizzano le questioni più dibattute in dottrina, come quella relativa alla nozione di bene culturale ecclesiastico. In secondo luogo, si tratta delle questioni aperte che nel contesto attuale coinvolgono tale tipologia di beni, soprattutto per quanto attiene al carattere dell’immaterialità e all’applicabilità dell’Art bonus.
Parole chiave: beni culturali; beni culturali ecclesiastici; cultura; enti ecclesiastici.
Ecclesiastical cultural goods
The paper analyzes the regime of cultural property belonging to ecclesiastical entities, starting from the codictic discipline. First, it analyzes the most debated issues in doctrine, such as that concerning the notion of ecclesiastical cultural property. Second, it discusses the open questions that involve this type of property in the current context, especially regarding the character of immateriality and the applicability of the Art bonus.
Keywords: cultural goods; church cultural goods; culture; church bodies.
Infatti, al comma 1, ribadisce il contenuto dell’art. 8 della legge n. 1089/1039, prevedendo con il vincolo dell’intesa il necessario contemperamento fra le esigenze di tutela e quelle di culto, ma al contempo ne generalizza la portata: con l’estensione ai beni culturali delle confessioni religiose diverse da quella cattolica [7], ad attività anche di valorizzazione, nonché, sotto il profilo soggettivo, alle Regioni per quanto di loro competenza (significativa in tema di tutela nel caso di talune Regioni a statuto speciale).
Per altro verso, al comma 2, vincola all'osservanza delle disposizioni stabilite dalle intese concluse ai sensi dell’Accordo del 1984 [8] o emanate sulla base di quelle sottoscritte dallo Stato con le altre confessioni religiose ex art. 8, comma 3, Cost. [9]. Si tratta di un 'rinvio dinamico', capace di interessare, aspetti ulteriori, non legati cioè ad esigenze di culto, relativi alla tutela e alla valorizzazione dei beni.
La disposizione nel suo insieme ha posto tre questioni (o nuclei di questioni) che possono definirsi “risalenti” perché da tempo affrontate nel dibattito dottrinale.
La prima, e più importante, concerne la nozione di bene culturale di interesse religioso. Ad essa sono connessi il tema del rapporto fra “interesse religioso” e “esigenze di culto”, e quello dell’appartenenza ossia della configurabilità di beni culturali di interesse religioso in capo a soggetti (pubblici o privati) diversi da entità confessionali.
La seconda questione riguarda la portata del principio di collaborazione nell’ambito della disciplina complessiva dei beni culturali di interesse religioso.
Connessa alla precedente, la terza questione si riferisce alla qualificazione della normativa concernente detti beni, ossia se essa possa inquadrarsi in termini di res mixta.
A mio avviso il Codice offre una preziosa (quanto sottovalutata) guida all’interprete nell’art. 10, comma 3, lett. d), laddove prevede la individuazione come beni culturali delle cose immobili e mobili che presentino interesse “quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni”, menzionando (accanto alle “pubbliche” e alle “collettive”) quelle “religiose”. La formula suggerisce la possibilità di qualificare di interesse religioso i beni culturali che testimonino la storia delle istituzioni religiose oppure la loro identità. Il riferimento all’identità appare particolarmente significativo, perché è agevole identificarla con il patrimonio di valori, il complesso di dottrine, l’”originale concezione del mondo” [11] che contraddistinguono ogni confessione, unitamente alla sua vicenda storica e missione pastorale. È appena il caso di notare che, per individuare l’area dell’interesse religioso, occorre riferirsi ai valori e alla storia della singola confessione che viene in rilievo. Il che appare pienamente coerente con i principi desumibili dall’art. 8 Cost. di pluralismo e di libertà delle confessioni nonché di laicità dello Stato.
Qualora si accolga questa opinione risulta possibile operare un approfondimento sulla categoria del bene culturale di interesse religioso. Se appare pacifico che, in termini strutturali, in tale bene alla qualificazione della cosa sotto il profilo dell’interesse culturale si somma quella della cosa in quanto supporto per l’esplicazione del valore costituzionalmente tutelato della libertà di religione [12], la categoria esprime una duplice configurazione: bene culturale che presenta anche la connotazione di essere di interesse religioso, ossia bene che sarebbe culturale già per caratteristiche intrinseche (perché ad es. di interesse artistico o storico), ma che assomma la presenza di un interesse religioso, e bene che è culturale per relationem (ex art. 10, comma 3, lett. d), del Codice) in quanto testimonianza dell’identità o della storia di un’istituzione religiosa. Duplice configurazione che non si riflette in un diverso regime giuridico, che resta identico, ma che rileva ai fini della struttura del bene [13].
Il collegamento fra l‘interesse religioso dell’art. 9, comma 1, e l’identità e la storia delle istituzioni religiose dell’art. 10, comma 3, lett d), consente anche di sciogliere il problema se detto interesse possa essere presente in beni culturali ad appartenenza laica. La circostanza che l’art. 10, cit. non richieda che la cosa faccia capo all’istituzione religiosa la cui identità o storia viene in rilievo, ma utilizzi la formula “a chiunque appartenente”, consente di dare un preciso e inequivoco supporto normativo alla tesi che nel Codice l’interesse religioso di un bene culturale sia slegato dall’assetto proprietario della cosa.
Alla luce del collegamento appena suggerito si può affrontare la nozione di “esigenze di culto”. Se la connessione con l’identità e la storia delle istituzioni religiose facilita la individuazione dell’interesse religioso in un bene culturale e se questo interesse, come è desumibile dall’analisi dell’art. 9, comma 1, ha una portata più ampia delle “esigenze di culto”, appare plausibile ritenere che dette esigenze attengono, come suggerisce immediatamente la formula lessicale, allo “svolgimento delle celebrazioni liturgiche e rituali” [14] ovvero all’”espressione esteriore di una fede religiosa” [15]. Il vincolo previsto da tale disposizione si sostanzia dunque nella necessità dell’accordo con l’autorità della confessione interessata in ordine all’esercizio delle funzioni, specie di tutela, spettanti allo Stato o alla regione laddove queste siano in grado di incidere sulle celebrazioni (o le espressioni esteriori) di fede [16].
Passando al tema della portata del principio di collaborazione occorre fare cenno alla natura dell’ambito in cui si estrinseca e all’estensione dello stesso.
Quanto al primo aspetto, l’art. 9 sempre del Codice, considerato alla luce del citato art. 12 dell’Accordo del 1984 (dove si individua la finalità delle intese ivi previste nell’obiettivo di “armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso”) nonché delle analoghe disposizioni contenute nelle intese intercorse con altre confessioni, è da pensare che, al comma 1, si riferisca al livello della azione amministrativa, mentre, al comma 2, demandi ad una normazione secondaria di carattere “procedimentale” [17], o in senso più ampio (e preferibile) di tipo “integrativo-attuativo” [18], per fissare regole e impegni di collaborazione attinenti alla salvaguardia e/o alla valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso, nel rispetto peraltro del distinto interesse di cui sono portatrici l’autorità secolare e quella confessionale [19].
Il che non toglie che il comma 2 in qualche modo “legiferi” i contenuti delle intese non assunte con atto legislativo - nel senso di integrarle nel corpo legislazione nazionale, così consentendo che da esse possano anche essere desunti principi vincolanti le Regioni [20] - e che, al pari del comma 1, comporti la qualificazione in termini di ‘violazione di legge’ degli atti adottati dalle autorità nazionali non previamente concordati con le autorità confessionali o non rispettosi degli accordi intervenuti.
Quanto, infine, all’estensione del principio di collaborazione, l’art. 9, come già accennato, amplia la portata dell’art. 8 della legge n. 1039, sotto il profilo oggettivo, coinvolgendo oltre al profilo della tutela quello della valorizzazione/fruizione e, sotto quello soggettivo, interessando anche confessioni religiose diverse da quella cattolica e le Regioni.
Merita di essere aggiunto per apprezzare l’area completa coperta nel Codice dal principio di collaborazione che, al di là di quanto disposto (al comma 1) o previsto come possibile (al comma 2) dall’art. 9, è dato rinvenire una serie di ipotesi in cui ricorre o può ricorrere lo strumento dell’accordo fra l’autorità laica e quella confessionale. Si pensi, ad esempio, alle convenzioni da stipularsi fra il ministero e i proprietari dei beni restaurati con il concorso dello Stato circa la loro apertura al pubblico (art. 38, commi 1 e 2) e agli accordi fra il soprintendente e il proprietario nel caso di beni culturali assoggettati a visita (art. 104, comma 1) in ordine alla modalità di effettuazione della stessa (comma 3).
Poco importa che la previsione dello strumento consensuale sia formalmente riferita ai “proprietari” e quindi coinvolga gli organismi confessionali non come tali, ma solo perché soggetti inquadrabili in tale categoria. Quello che conta è che, al di là delle previsioni dell’art. 9, la disciplina del Codice finisce per contemplare per altri aspetti un’attuazione concordata fra l’autorità laica e l’autorità confessionale. Sicché può ben dirsi che dalla trama del Codice emerge un più ampio principio di collaborazione per la gestione dei beni culturali appartenenti ad organismi confessionali che travalica le previsioni dell’art. 9, e che in particolare investe detti beni come tali, indipendentemente cioè dalla possibile presenza dell’interesse religioso.
Un cenno, infine, alla questione se nell’ordinamento italiano i beni culturali di interesse religioso costituiscano una res mixta.
La risposta dipende dall’ottica con cui si considera la questione. Se, come autorevolmente sostenuto [21], una “materia è mista natura sua” [22], se cioè lo specifico della materia considerata è quello di “presentare ... un certo grado di estraneità rispetto all’ordinamento statuale così come rispetto a quello canonico” (o, è da aggiungere, di altra confessione), i beni culturali di interesse religioso sono da considerarsi esemplarmente una res mixta, coinvolgendo interessi di pertinenza secolare e confessionale. Se, invece, si considera mista una materia perché oggetto di una regolamentazione pattizia fra lo Stato e la confessione religiosa intervenuta a livello primario (nel caso della Chiesa cattolica, a livello concordatario), la risposta è negativa. Come emerge chiaramente dall’Accordo del 1984, l’impegno di collaborazione della Repubblica italiana e della Santa Sede è sancito “nel rispettivo ordine” - ovvero nel quadro delle competenze di ciascuna parte (art. 12, n. 1, comma 1) - ed è finalizzato ad “armonizzare l’applicazione della legge italiana” (n. 1, comma 2) [23]. E analogamente è da dirsi a proposito delle intese ex art. 8, comma 3, Cost. intervenute fra lo Stato e le altre confessioni [24]. Al più si può affermare che possono qualificarsi come res mixtae, ma di normazione secondaria, integrativa-attuativa della legge italiana, gli aspetti di disciplina dei beni culturali assunti sulla base dell’Accordo del 1984 o eventualmente delle intese intervenute ex art. 8, comma 3, Cost.
I beni culturali di interesse religioso offrono nel tempo presente temi di interesse, spesso rappresentanti vere e proprie ‘sfide’, taluni comuni alla intera categoria dei beni culturali, altri peculiari. Fra i primi alcuni sono raggruppabili sotto l’etichetta della immaterialità. C’è quello della riproduzione c.d. immateriale, la possibilità, cioè, fornita dalla moderna tecnologia di riprodurre serialmente l’immagine del bene culturale e di diffonderla, anche a fini pastorali, specie facendo uso degli strumenti del web. Il che consente di parlare di valorizzazione culturale dell’immagine (ovvero dell’immateriale del bene culturale), come pure di valorizzazione economica della stessa, allorché la riproduzione e il riuso di quanto riprodotto siano subordinati al pagamento di un corrispettivo, in particolare nel caso di un utilizzo per finalità lucrativa. Valorizzazione economica da intendersi ormai a fini non solo di una miglior tutela e di una più ampia fruizione del bene materiale riprodotto [25], ma anche in vista dello sviluppo del territorio su cui esso insiste, come già prefigurato nell’art. 112, comma 4 [26], del Codice e ora esplicitato con chiarezza dalla legge 27 dicembre 2023, n. 206 (c.d. sul made in Italy) all’art. 1 [27].
Sussiste, poi, la immaterialità come caratteristica consustanziale di una categoria di beni culturali, ossia dei beni culturali immateriali: si tratta di un’immaterialità che ha acquisito crescente rilievo sulla base di Convenzioni internazionali, a partire da quella Unesco del 2003, che fa riferimento al ‘patrimonio culturale immateriale’, per tale intendendo “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how ... che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale” (art. 2, comma 1). Fra i settori considerati figurano esplicitamente menzionati anche gli “eventi rituali”. (art. 2, comma 2) [28].
Il rilievo ormai assunto da tale declinazione dell’immaterialità ha fatto osservare che “la stessa nozione ecclesiale di beni culturali - così come è avvenuto per la nozione civilistica - diventa più ampia e flessibile, potendo essere sovrapposta o quanto meno affiancata a quella di patrimonio culturale di interesse religioso, che ne include anche la dimensione immateriale” [29].
Ed è forse l’espressione “patrimonio culturale di interesse religioso” quella che ormai sembra racchiudere in termini aggiornati i molteplici aspetti dei beni culturali in questione. Che a essi così intesi possa essere riferita poi la formula dell’art. 12, n. 1, comma 2, dell’Accordo del 1984 riterrei sostenibile non fosse altro perché risulterebbe priva di motivi plausibili una portata del principio di collaborazione fra lo Stato e la Santa sede limitata ai soli beni culturali materiali, e che quindi lasciasse fuori quelli consistenti in “intangibile espressione dell’identità culturale collettiva del Paese”, secondo la dizione dell’art. 21, comma 1, della legge sul made in Italy.
Sempre fra i temi del presente, comuni agli altri beni culturali, c’è quello poi di una considerazione integrata del bene culturale e del bene paesaggistico (o del paesaggio) nel cui contesto il primo si colloca, contesto che rileva nel determinare sia le condizioni di salvaguardia del bene culturale sia le possibilità della sua valorizzazione culturale ed economica [30].
Nel caso del patrimonio culturale di interesse religioso la figura che sembra mettere assieme il complesso degli elementi fin qui ricordati (materiale e immateriale, beni culturali e beni paesaggistici) è costituito dal Parco culturale ecclesiale (Pce), inteso, secondo la nozione fornitane dalla Cei, come “sistema territoriale che promuove, recupera e valorizza ... il patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo, ludico di una o più Chiese particolari” [31]. Progetto pastorale questo esemplificativo dell’approccio più recente della Chiesa cattolica italiana al turismo religioso, interpretato “come ambito nel quale può essere incluso in senso lato il turismo spirituale, che diventa uno spazio e un tempo per proporre, comunicare e condividere i messaggi dello stesso magistero pontificio” [32].
Altri temi, anch’essi comuni alla generalità dei beni culturali, ma che presentano peculiari profili per quelli di interesse religioso, in particolare appartenenti a enti e a istituzioni ecclesiastiche, concernono la conservazione e valorizzazione di tali beni in chiave di concorso personale o economico dei privati e degli organismi pubblici.
Una recente ricerca, promossa dall’Acri su impulso di Marco Cammelli e diretta da Antonio Chizzoniti, ha messo in evidenza il ruolo meritorio svolto dalle fondazioni ex bancarie e quello non meno di rilievo assolto dal volontariato cattolico, da comunità di fedeli e da cooperative no profit [33]. Si tratta di ruoli che trovano garanzia nel principio di sussidiarietà orizzontale presente in Costituzione. La ricerca ha anche però evidenziato che i rapporti delle entità ecclesiastiche con le autorità territoriali, i privati finanziatori e gli organi periferici del Mic presentano margini di miglioramento, specie sul versante della domanda ecclesiale, in termini di maggiore coordinazione delle richieste di finanziamento, di utilizzo del criterio della conservazione programmata a preferenza del restauro episodico, e di salvaguardia del bene in un’ottica di valorizzazione nel medio/lungo periodo.
Il finanziamento pubblico presenta aspetti in chiaroscuro. In particolare, della somma assegnata alla Chiesa cattolica in base al meccanismo dell’8 per mille Irpef solo una quota ridotta è destinata a beneficio di beni culturali ecclesiastici. A titolo di esempio, dal miliardo e centotrenta milioni circa introitato per il 2019 centosette milioni sono stati destinati dalla Cei a interventi sull’edilizia di culto e venticinque a misure di tutela di beni culturali [34].
A livello regionale e locale si rileva che in pressoché tutte le intese concluse fra Regioni e Conferenze episcopali regionali sono previste misure finanziarie dirette o indirette a favore della conservazione, valorizzazione e fruizione di beni culturali ecclesiastici e non mancano accordi conclusi fra le stesse Conferenze e le istituzioni locali a sostegno del patrimonio culturale di interesse religioso [35].
Come dato negativo va sottolineata, invece, la non utilizzabilità di regola dell’Art bonus a sostegno di istituti e luoghi nella cultura di appartenenza non pubblica. Solo eccezionalmente - per i territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria interessate dagli eventi sismici a far data dal 2016 e per i territori di Venezia e Matera dal 2019 - anche i beni culturali di interesse religioso sono stati ammessi alla possibilità di usufruire di tale meccanismo (cfr. d.l. 17 ottobre 2016, n. 189, conv. dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, nonché d.l. 24 ottobre 2019, n. 123, conv. dalla legge 12 dicembre 2019, n. 156) [36].
Altri temi, invece, investono peculiarmente i beni culturali di interesse religioso. Essi sono il portato del processo di secolarizzazione che da tempo interessa la società occidentale, in particolare quella europea. Per quanto in questa sede rileva, tale processo si manifesta, verrebbe da dire “emblematicamente”, nel fenomeno dell’abbandono [37], della dismissione e/o del riuso di luoghi di culto [38] e in generale di edifici ecclesiastici.
Se il “riuso adattivo” (per tale intendendosi l’adattamento degli spazi pastorali ai processi di riordino liturgico) rappresenta una costante del patrimonio religioso [39], lo studioso di beni culturali non può non avvertire due pericoli del processo di secolarizzazione: anzitutto che si perdano, o quantomeno si stemperino, le tracce di quello che con felice espressione è stato definito “il debito dei laici nei confronti dei religiosi nel passato e nel presente” [40] e conseguentemente venga meno o almeno si offuschi la consapevolezza che, nel nostro Paese in particolare, il patrimonio culturale storicamente si è costruito con la presenza di un interesse religioso, che tuttora continua a connotarlo in misura quantomeno significativa [41]; in secondo luogo, e forse soprattutto, se è vera l’affermazione per la quale “sempre più persone in tutta Europa crescono senza un background religioso” [42], il rischio è che si affievolisca la stessa “leggibilità artistica” del bene culturale di interesse religioso, la capacità cioè da parte dell’osservatore di cogliere i significati spirituali sottesi dalle scelte iconografiche compiute dall’autore, e che quindi entri in forse la capacità di apprezzare appieno il valore culturale dell’opera. Le belle pagine di recente dedicate da Massimo Cacciari ai significati della Madonna del Parto di Piero della Francesca [43] ci raccontano le difficoltà che da sempre si incontrano nella lettura di un’opera d’arte.
Se ora sulla base di quanto fin qui osservato ci interroghiamo sulla “durata” del Codice, ossia sulla sua capacità di fungere anche per il futuro da quadro di riferimento per la disciplina della tutela e della valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso, la risposta è senz’altro affermativa, pur con talune precisazioni.
Il Codice, da un lato, offre elementi idonei per la individuazione di tali beni nel rispetto dei principi costituzionali del pluralismo confessionale e della libertà delle confessioni religiose, dall’altro, e in particolare, sempre in attuazione delle previsioni della Carta, puntualizza nella collaborazione e nell’accordo fra le istituzioni della Repubblica e le confessioni il metodo per garantire e promuovere la tutela e la valorizzazione di detti beni, senza imporre limiti quanto ad ambito di applicazione. Si tratta di due indicazioni che per il futuro meritano di essere confermate senza riserve. Il che non esclude interventi normativi a latere del Codice, ad esempio per un allargamento della possibilità di utilizzare l’Art bonus.
Naturalmente il Codice ha un ambito di applicazione circoscritto ai beni culturali materiali e lascia quindi sguarnito l’area del patrimonio culturale immateriale di interesse religioso, che come ricordato ha assunto un rilievo di tutto rispetto.
Per l’immateriale la strada intrapresa dal legislatore con la legge 7 ottobre 2024, n. 152, è quella ormai di una disciplina extra Codice (forse anch’essa di carattere codicistico), strada preferibile rispetto ad una dilatazione della disciplina del Codice perché, come è stato sottolineato da Giuseppe Morbidelli, nei confronti dei beni culturali immateriali sono configurabili “misure di riconoscimento, di protezione e di autenticazione e soprattutto forme di traditio della memoria e con esse di promozione della conoscenza... ma non di controllo inteso come divieto di modifiche” [44], ovvero, mi permetto di sintetizzare, l’immateriale richiede una peculiare “salvaguardia dinamica”, attenta cioè a preservarne la memoria, ma anche il suo costante riprodursi e rinnovarsi.
Oltreché su interventi di carattere normativo, il futuro del patrimonio culturale di interesse religioso riposa però significativamente su stili di comportamento delle istituzioni tanto laiche quanto religiose basati in particolare sulla condivisione di obiettivi e su comuni prassi operative di salvaguardia e valorizzazione. In questa area va collocata l’attenzione da dispiegare sulle scelte di dismissione o di riuso [45] dei luoghi di culto e in generale degli edifici ecclesiastici, da formalizzare in futuro magari in un’intesa ex art. 12, n. 1 dell’Accordo del 1984.
Ma nel processo di secolarizzazione in atto le sorti del patrimonio culturale di interesse religioso sembrano affidarsi in via decisiva alla capacità del corpo sociale di non smarrire il senso della storia e quindi di non disperdere o cancellare il lascito del passato, anche quando questo sia, a torto o a ragione, ritenuto superfluo o perfino dannoso per il presente. In altre parole, il problema di salvaguardia di tale patrimonio è anzitutto un problema di consapevolezza culturale.
Con una battuta finale fin troppo facile, potrebbe dirsi che, prima ancora dei pericoli della I.A. quotidianamente sottolineati, a dover preoccupare, pure in questo campo, è la finitezza dell’essere umano, anche contemporaneo.
Note
[*] Il contributo riproduce la relazione al Convegno organizzato dalla fondazione CESIFIN, Firenze, il 25 novembre 2024.
[**] Girolamo Sciullo, già professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, g.sciullo@studiogam.it.
[1] Beweb (il portale del patrimonio culturale ecclesiastico facente capo alla Cei - Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l'edilizia di culto) annovera 67.642 edifici di culto e beni architettonici della Chiesa cattolica e oltre 2.143.541 opere e oggetti d’arte presenti negli edifici di culto e nelle collezioni appartenenti alla rete territoriale dei beni culturali ecclesiastici. A proposito dei beni cultuali di interesse religioso il compianto professor Paolucci parlava de “la fetta più grossa del “museo d’Italia”, come ricorda A.G. Chizzoniti, in Le carte della Chiesa, (a cura di) A.G. Chizzoniti, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 14.
[2] G. Boni, I ‘beni culturali ecclesiali’ e il diritto canonico, specie codiciale: verso la riabilitazione di una reputazione ingiustamente intaccata, in Archivio giuridico online, 2024, 1, spec. pag. 46 ss.
[3] Cfr. G. Boni, cit., in particolare pagg. 29 e 53.
[4] Per ulteriori indicazioni sull’espressione ‘beni culturali’ mi permetto rinviare al mio I Beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento italiano, Relazione al Convegno organizzato dalla Facoltà di diritto canonico San Pio, Venezia, 6 marzo 2024, in corso di pubblicazione in Ephemerides Iuris Canonici, 2024, 2, par. 2.
[5] Disposizione che - va sottolineato - letto in connessione con gli artt. artt. 2, comma 1, 10, 11 e 13, comma 1, del Codice fa riferimento a beni culturali materiali o tangibili.
[6] Cfr., anche per ulteriori riferimenti, S. Amorosino, I beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento amministrativo italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003, 2, pag. 384 ss.; E. Camassa, Art. 9, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Trotta, G. Caia, N. Aicardi, in Le nuove leggi civ. comm., 2005, 5-6, pag. 1102 ss.; Id., I beni culturali di interesse religioso. Principio di collaborazione e pluralità degli ordinamenti, Torino, Giappichelli, 2013, pag. 102 ss.; A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, Libellula, Tricase, 2009, pag. 187 ss.; A. Crosetti, D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Torino, Giappichelli, 2014, pag. 42 ss.; A. Fuccillo, I beni immobili culturali ecclesiastici tra principi costituzionali e neo dirigismo statale, in www.statoechiese.it, marzo 2009, spec. par. 1 e 2; N. Gullo, Art. 9, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 107 ss.; F. Margiotta Broglio, Articolo 19, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2000, pag. 81 ss.; Id., Articolo 9, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, 84 ss.: G. Pastori, L’art. 12 dell’accordo 12 febbraio 1984, in Beni culturali di interesse religioso, (a cura di) G. Feliciani, Bologna, Il Mulino, 1995, pag. 21 ss.; Id, I beni culturali di interesse religioso: le disposizioni pattizie e la normazione più recente, in Quaderni di dir. e pol. eccl., 2005, 1, pag. 194 ss.; A. Roccella, I beni culturali ecclesiastici, in Quaderni di dir. e pol. eccl., 2004, 1, pag. 199 ss.; Id., Manuale di legislazione dei beni culturali, Bari, Cacucci, 2007, pag. 62 ss.; V. Sessa, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone, A.L. Tarasco Cedam, Padova, 2006, pag. 78 ss.
[7] Come già aveva fatto l’art. 19, comma 1, del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 (T.U. in materia di beni culturali e ambientali).
[8] Per le intese intervenute con le autorità ecclesiastiche vanno ricordati in particolare il d.p.r. 26 settembre 1996, n. 57, di esecuzione dell’Intesa del 13 settembre 1996, e il d.p.r. 4 febbraio 2005, n. 78, di esecuzione dell’Intesa del 26 gennaio 2005, ambedue relativi alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche, e il d.p.r. 16 maggio 2000, n. 189, di esecuzione dell’Intesa del 18 aprile 2000 in tema di archivi di interesse storico e di biblioteche (art. 7, comma 2).
[9] Anche in questo caso è ripreso il contenuto dell’art. 19 (ma comma 2) del d.lg. 490/1999. Per le intese intervenute fra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse da quella cattolica v., ad es., l’art. 17 della legge 11 agosto 1984, n. 449 (“beni culturali afferenti al patrimonio storico, morale e materiale delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese”), e l’art. 17 della legge 8 marzo 1989, n. 101 in tema di regolazione dei rapporti tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane (“beni afferenti al patrimonio storico e artistico culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell’ebraismo italiano” e “beni culturali ebraici”) nonché l’art. 29 della legge 30 luglio 2012, n. 128 (“beni afferenti al patrimonio storico e culturale della Chiesa apostolica in Italia”).
[10] Pervenendo alla conclusione che presenterebbero interesse religioso i beni culturali che risultino funzionali alle attività in tali accordi definite “di religione o di culto” (Cfr. A.G. Chizzoniti, Profili, cit., pag. 136 ss.) oppure che l’interesse religioso potrebbe risolversi nella mera appartenenza ad un ente o ad un’istituzione confessionale, dal momento che, in particolare, le intese con confessioni diverse da quella cattolica “in modo inequivocabile si occupano dei beni culturali prescindendo dalla loro destinazione” (M. Renna, Introduzione, in Codice dei beni culturali di interesse religioso, ed. M. Renna - V.M. Sessa - M. Vismara Missiroli, Milano, Giuffrè, 2003, pag. 3 ss.
[11] Per l’espressione v. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 2014, pag. 78.
[12] Cfr. G. Pastori, La legge sulla tutela dei beni culturali, le Regioni, 1981, pag. 336.
[13] La possibilità di questa duplice configurazione è stata già rilevata da S. Amorosino, I beni, cit., 376.
[14] F. Margiotta Broglio, Articolo 9, cit., pag. 85.
[15] E. Camassa, Art. 9, cit., pag. 1103.
[16] Se poi, lasciando da parte le previsioni dell’art. 9, ci si interroga sul rilievo presentato dai beni culturali di interesse religioso nel quadro della complessiva disciplina dei beni culturali, non può che concordarsi con le opinioni secondo le quali “non esiste il genus dei beni culturali di interesse religioso” (A.G. Chizzoniti, Profili, cit., pag. 192, fatte salve le specificità derivanti dalle caratteristiche di taluni beni oppure dettate in ragione dell’appartenenza secondo categorie di soggetti), ovvero che essi non si sottraggono “al generale regime previsto dal (...) Codice per tutti i beni (...) che costituiscono il patrimonio culturale” (F. Margiotta Broglio, Articolo 9, cit., pag. 85). L’unica eccezione resta rappresentata dal vincolo dell’accordo stabilito per l’esercizio delle funzioni previste dal Codice laddove si pongano esigenze di culto (art. 9, comma 1) e dal rinvio alle disposizioni delle intese concluse con le confessioni religiose (art. 9, comma 2), in breve dalla vigenza di principio di collaborazione ‘attuativa’ desumibile dall’art. 9.
[17] F. Margiotta Broglio, Articolo 9, cit., pag. 85.
[18] G. Pastori, L’art. 12, cit., 33 e 38 a proposito appunto dell’art. 12 dell’Accordo del 1984, ma altresì F. Margiotta Broglio, Articolo 9, cit., pag. 87.
[19] Per tale puntualizzazione cfr. G. Pastori, L’art. 12, cit., pag. 40.
[20] Cfr. G. Pastori, I beni, cit., pag. 195 e 196 ss. Di “rilievo normativo” assicurato alle intese dall’art. 19 del T.U parla F. Petroncelli Huebler, Beni, cit., pag. 7.
[21] G. Dalla Torre, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli, 2019, pag. 291.
[22] Corsivo riportato.
[23] Sulla non configurabilità nell’art. 12 dell’Accordo come res mixta della materia beni culturali di interesse religioso cfr. fra gli altri F. Margiotta Broglio, Articolo 9, cit., pag. 87, G. Pastori, L’art. 12, cit., pag. 30 ss., A. Roccella, Conservazione, cit., pag. 40 ss. e 99 ss.
[24] Cfr., ad es., art. 17 dell’intesa con la Tavola Valdese del 21 febbraio 1984, e art. 17 dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche del 27 febbraio 1987.
[25] In tal senso cfr. S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 3, pag. 673.
[26] In tale disposizione si prevede infatti che gli accordi da stipularsi dallo Stato e dagli enti territoriali per definire “strategie e obiettivi comuni di valorizzazione” dei beni culturali, “promuovono altresì l’integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati” (corsivo dell’A.).
[27] Recita tale disposizione “La presente legge reca disposizioni organiche tese a valorizzare e promuovere, in Italia e all'estero, le produzioni di eccellenza, il patrimonio culturale e le radici culturali nazionali, quali fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari, ma anche per la crescita dell'economia nazionale nell'ambito e in coerenza con le regole del mercato interno dell'Unione europea” (corsivo dell’A.).
[28] Fra i beni culturali immateriali G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1, par. 7, annovera anche le feste patronali e le processioni religiose.
[29] A. Gianfreda, I beni culturali, cit., pag. 63.
[30] Cfr. A.G. Chizzoniti, Un tema vecchio con una veste nuova: la collaborazione necessaria, in Il patrimonio, (a cura di) G. Mazzoni, cit., pag. 35 ss.
[31] Cei, Ufficio nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, bellezza e speranza per tutti. Parchi e Reti Culturali Ecclesiali: quando il Turismo diventa via di vita buona e speranza concreta, Roma 2018, par. 33. Cfr. anche N. Palazzo, I Parchi, in Il patrimonio, cit., 219 ss. e L.M. Guzzo, Il patrimonio culturale, in particolare quello di rilevanza religiosa, e la Convenzione di Faro, in Aedon, 2022, 1, par. 3.
[32] Così A.G. Chizzoniti, A. Gianfreda, Il turismo religioso: nuove dimensioni per la valorizzazione del patrimonio culturale, in Aedon, 2020, 2, par. 3. Sul Pce cfr. fra gli altri, M. Tigano, Turismo, cit., par. 7 e 8.
[33] I risultati della ricerca sono riportati in Acri, Beni ecclesiastici di interesse culturale, Bologna, 2021. Per gli aspetti richiamati nel testo cfr. pp. 166 ss. Merita altresì di essere ricordata la quota del 5 per mille Irpef che il contribuente può destinare al finanziamento delle attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici ai sensi del d.l. 6 luglio 2016, n. 98, conv. in base alla legge 15 luglio 2011, n. 11. Il d.p.c.m. 28 luglio 2016 fra i soggetti ammessi al beneficio annovera anche gli enti senza scopo di lucro, legalmente riconosciuti, che realizzino, conformemente alle loro finalità, attività di tutela, promozione o valorizzazione di beni culturali o paesaggistici, e che operino in tale campo da almeno 5 anni (art. 2, comma2, lett. c).
[34] Cfr. Acri, Beni, cit., pag. 160.
[35] Cfr. Acri, Beni, cit., pag. 161.
[36] Cfr. L. Casini, Valorizzazione e gestione, cit., pag. 242.
[37] Al riguardo cfr. le lucide quanto accorate considerazioni di S. Marini, M. Roversi Monaco ed E. Monaci, Guida alle chiese “chiuse” di Venezia, Venezia, Libria, 2020 spec. pag. 134 ss. e T. Montanari, Chiese chiuse, Torino, Einaudi, 2021.
[38] Cfr. per tutti, A. Tomer, ‘Aedes Sacrae’ e ‘Edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico’, Bologna, University Press, 2022, pag. 251 ss.
[39] Cfr. A. Longhi, The Ecclesial Reuse of Catholic Churches: The 2018 guidelines of the Pontifical Council for Culture, in The Bloomsbury Handbook of Religion and Heritage in Contemporary Europe, ed. T.H. Weir, L. Wijnia, 2023 [accesso: 12.12.2023], pag. 340 ss.
[40] B. Meyer, What is Religious – about - Heritage?, in The Bloomsbury Handbook, ed. T.H. Weir, L. Wijnia, cit., pag. 15 ss.
[41] Vale la pena richiamare quanto scrive E. Galli della Loggia nel volume L’identità italiana, Bologna, Il Mulino, 2010, pag. 55: “è nelle forme che esso prende in Italia - ... in specie in quelle forme massimamente espressive e apportatrici di significato che sono le forme artistiche - ... che il cattolicesimo sembra attingere un’irrepetibile quintessenzialità. Dalle scene della vita di san Francesco di Giotto alle Madonne di Caravaggio, alle architetture di Michelangelo e di Bernini, è l’arte fiorita in Italia che appone sul cattolicesimo il suggello simbolico più alto e definitivo”.
[42] B. Klark, Religious Communities and Their Heritage in Secularizing Societies, in The Bloomsbury Handbook, ed. T.H. Weir, L. Wijnia, cit., pag. 249 ss.
[43] V. il volume La passione secondo Maria, Bologna, Il Mulino, 2024.
[44] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, cit., par. 9. Cfr. di recente anche P. Carpentieri, La musica fra attività culturali, patrimonio culturale materiale e patrimonio culturale immateriale, relazione al Convegno “La riforma della istruzione musicale e AFAM. I giovani e la musica classica”, Napoli 3-4 ottobre 2024, par. 4. Da tenere presenti le considerazioni di G. Severini, Artt. 1-2, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2019, pag. 29 ss.
[45] Cfr. art. 56, comma 1 e 4-bis, art. 20, comma 1, e art. 21, comma 4.