Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)
Venti anni di Codice dei beni culturali e del paesaggio [*]
di Lorenzo Casini [**]
Sommario: 1. Il contesto. - 2. I retaggi secolari. - 3. Le “tensioni” nella costruzione. - 4. Le scelte e le lacune. - 5. Venti anni di vita: i filoni di modifica. - 6. Bilancio e prospettive.
L’articolo ricostruisce i venti anni di vita del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42. L’analisi, in particolare, si sofferma sul contesto, sui retaggi e sulle tensioni che hanno caratterizzato la preparazione del Codice, sulle scelte compiute e sulle lacune della normativa, nonché sui filoni di modifica che si sono manifestati negli anni successivi all’entrata in vigore del provvedimento. Infine, sono formulate alcune considerazioni conclusive sul bilancio complessivo di questi venti anni e sul futuro del Codice.
Parole chiave: patrimonio culturale; paesaggio; codificazione; pubblico/privato; proprietà.
Twenty years of the Code for Cultural Property and Landscape
The article traces the twenty years of the Code of Cultural Property and Landscape (Legislative Decree No. 42 of January 22, 2004). In particular, the analysis focuses on the context, legacy, and points of tension that characterized the preparation of the Code, the choices made, and the gaps in the legislation, as well as the trends toward change that have emerged in recent years. Finally, some concluding remarks are made on the overall assessment of these twenty years and the future of the Code.
Keywords: cultural heritage; landscape; codification; public/private; ownership.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio nacque in una stagione di codificazione e di riordino normativo [1]. A partire dal 1997, l’Italia, guardando in particolare all’esperienza della Francia, aveva iniziato a investire, anche mediante l’istituzione di appositi uffici e nuclei, nella produzione di testi unici e di codici [2]. Di fatti, proprio con riguardo al settore del patrimonio culturale, nel 1999 arrivò, dopo sessant’anni dalle leggi del 1939, il Testo unico sulle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali (d.lg. n. 490 del 1999), adottato sulla base della legge delega n. 352 del 1997 [3].
In quegli anni fu programmata dal governo una intensa attività di codificazione, con una cadenza che potesse essere addirittura annuale tramite apposite leggi di semplificazione [4], secondo quel tipo di codificazione c.d. “à droit constant” ispirata dal sistema francese [5]. Così, nel 2002, con la legge n. 137, fu approvata una delega per l’adozione di numerosi codici in diverse materie: a) beni culturali e ambientali; b) cinematografia; c) teatro, musica, danza e altre forme di spettacolo dal vivo; d) sport; e) proprietà letteraria e diritto d'autore. Di tutti questi codici, alla fine venne approvato solo il codice dei beni culturali e del paesaggio, fatto salvo l’importante intervento in materia di cinema realizzato sempre nel 2004. Nelle altre materie, invece, l’attività di codificazione non fu portata a termine; peraltro, mentre alcuni di questi settori hanno successivamente trovato una sistemazione organica (come avvenuto per il cinema con la legge n. 220 del 2016), per altre materie sono più volte naufragati tentativi di codificazione (è il caso dello spettacolo dal vivo) oppure sono stati poi adottati più atti normativi non raggruppati in unico testo (si pensi ai decreti legislativi del 2021 in materia di sport, la cui gestazione è stata a dir poco travagliata) [6]. Viceversa, vi sono altri settori dell’attività governativa/amministrativa che sono stati oggetto di una importante attività di codificazione, come per esempio l’ambiente (con il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), dove tuttavia il riordino è stato per certi versi agevolato dal ruolo predominante svolto dalla normativa europea in questa materia (secondo quindi una dinamica non dissimile da quella che in Italia si è verificata anche nell’ambito dei contratti pubblici) [7]. In ogni caso, in termini generali di politiche legislative, va sottolineato che, dopo un ulteriore tentativo realizzato nel 2009 per ravvivare la produzione di codici e testi unici, anche solo di carattere compilativo, l’attenzione verso le buone pratiche di riordino normativo è poi progressivamente diminuita [8].
Un’altra indicazione fondamentale per comprendere il contesto in cui il Codice ebbe origine viene dalle modifiche al titolo V, seconda parte, Cost., che, come è noto, hanno inserito in Costituzione per la prima volta sia la locuzione “beni culturali”, sia il vocabolo “valorizzazione” (la tutela era presente sin dal 1947-48 tra i principi fondamentali, all’art. 9). Le modifiche al titolo V imposero al legislatore di cominciare a dirimere le controversie - risolte poi di volta in volta dalla Corte costituzionale a partire dal 2003 - riguardanti il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e valorizzazione di beni culturali e di paesaggio [9]. Il Codice, dunque, giunse esattamente in questo momento, proprio quando la Corte aveva iniziato a sciogliere i nodi relativi all’assetto di dette competenze (sentenze n. 94 del 2023 e n. 9 e n. 26 del 2004).
Vi è, poi, un’altra informazione di contesto molto importante, vale a dire che il periodo di esercizio della delega 2002-2004 coincise con una stagione di privatizzazioni, anche immobiliari, realizzate dallo Stato mediante operazioni di cartolarizzazione (con i programmi Scip 1 e Scip 2) [10]. I progetti di sdemanializzazione e di vendita del patrimonio immobiliare, anche di interesse storico e artistico, erano così numerosi che nel 2003, prima che il Codice fosse pronto, venne per la prima volta approvata una norma di grande impatto (negativo) sul sistema di tutela del patrimonio culturale, perché fu introdotto un meccanismo di silenzio-assenso sulla verifica di interesse culturale finalizzata ad autorizzare la vendita di immobili [11].
In sintesi, il Codice nacque in un periodo in cui vi era una grande attenzione sul patrimonio culturale sotto questa triplice prospettiva: semplificazione e razionalizzazione della normativa; riparto delle competenze tra Stato e Regioni a seguito delle modifiche del titolo V; ricerca di un equilibrio nei rapporti tra pubblico e privato. Non a caso questi elementi si trovano sia nella legge delega del Codice, sia, conseguentemente, nelle scelte che sono state effettuate nel testo.
Da ultimo, sempre nel quadro di contesto, va ricordato che l’Italia non fu il solo Paese in quegli anni a procedere con un’attività di codificazione del diritto del patrimonio culturale. La Francia approvò infatti il Code du patrimoine il 22 gennaio 2004, ossia lo stesso giorno in cui era adottato il Codice italiano (con un singolare sincronismo, non il primo né l’ultimo nei rapporti italo-francesi) [12].
Gli estensori del Codice dei beni culturali e del paesaggio si dovettero misurare con l’eredità di una stratificazione normativa secolare, solo in parte rielaborata dal Testo unico del 1999, che pure aveva introdotto importanti innovazioni, come quelle in materia di circolazione dei beni. Si tratta di retaggi che riguardano il lessico, l’idea stessa di “cosa” e di “materialità” sottesa alla concezione italiana di bene culturale, gli istituti giuridici ereditati dal passato, nonché una storica asimmetria nella disciplina legislativa del paesaggio rispetto a quella dei beni culturali.
Innanzitutto, vi è la questione del lessico e della terminologia. La nostra legislazione in materia di patrimonio culturale affonda le proprie radici nei provvedimenti dello Stato pontificio: basti pensare che il noto editto del Cardinale Pacca, adottato nel 1820, è servito da riferimento anche per altri ordinamenti, come quello greco all’indomani dell’indipendenza [13]. Questo sedimento storico ha consolidato nel tempo un vocabolario che il legislatore anche più recente ha solo parzialmente aggiornato. Il Testo unico, per esempio, ha sostituito la dicitura “notifica” con “dichiarazione” e ha introdotto stabilmente l’espressione “beni culturali” in luogo di “cose di interesse storico-artistico”. Tuttavia, la terminologia giuridica, così come gli istituti di tutela (prelazione, controllo dell’esportazione, vigilanza sulla circolazione, per citarne solo alcuni), rimangono fortemente ancorati a una tradizione che ha influenzato persino i testi internazionali: si pensi ai termini adottati dall’Unesco per individuare i criteri sulla base dei quali sottoporre un sito alla tutela del patrimonio mondiale - “pittoresco”, “capolavoro”, “outstanding” (nel senso di eccezionale) - che ricalcano quelli presenti nella nostra legislazione fin dall’inizio del Novecento.
Accanto alla questione terminologica, si pone il tema della “coseità” e della “materialità” dei beni culturali. La concezione codicistica resta fedele all’insegnamento di Salvatore Pugliatti [14]: le “cose” diventano “beni” solo nel momento in cui entrano nel perimetro del regime giuridico speciale previsto per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. Tuttavia, l’impostazione resta focalizzata sulla dimensione tangibile, lasciando ai margini l’idea di patrimonio immateriale, centrale invece in altri ordinamenti - come quello giapponese, che già nel 1950 introdusse una legge di tutela anche del patrimonio culturale immateriale [15].
Esemplare, a questo proposito, è il mantenimento di espressioni come “calchi”, riferite alla riproduzione degli originali: oggi, grazie alle tecnologie di scansione laser, è possibile replicare opere come il David di Michelangelo senza alcun contatto fisico con l’originale. Eppure, il lessico normativo continua a fare riferimento a strumenti e concetti risalenti e, in molti casi, superati.
Infine, un altro retaggio riguarda il ritardo con cui la normativa italiana ha affrontato il tema del paesaggio. La legge Croce del 1922, pur rappresentando un momento fondativo, arrivò dopo esperienze normative già consolidate in Paesi come Germania, Francia e Giappone [16]. La legislazione italiana ha seguito una traiettoria sbilanciata, con un impianto impostato principalmente sulle “cose” storico-artistiche e solo successivamente esteso al paesaggio. È con la legge Galasso negli anni Ottanta del XX secolo che si compie un passaggio decisivo: essa introduce un sistema di tutela ex lege, che copre vaste porzioni del territorio nazionale (Alpi, Appennini, laghi, fiumi, coste, ghiacciai, vulcani), sostituendo la logica puntuale dichiarativa della legge Croce e della legge n. 1497 del 1939 con una protezione d’area vasta e, soprattutto, automatica [17].
Questa asimmetria è riscontrabile anche nel testo del Codice: circa due terzi degli articoli sono dedicati ai beni culturali, mentre solo un terzo, o anche meno, al paesaggio. Ancora più evidente è la sproporzione in tema di valorizzazione, trattata in modo dettagliato per i beni culturali, ma in modo assai più vago per il paesaggio. Emblematico è il dibattito svoltosi nella Commissione incaricata di predisporre il Codice - presieduta da Gaetano Trotta - sul significato stesso della “valorizzazione del paesaggio”, al punto che si faticò a trovare esempi concreti: solo l’intervento del Presidente Severini, richiamando gli itinerari nel Chianti come forma di valorizzazione, offrì un riferimento concreto che aiutò a definire un concetto fino ad allora sfuggente e poco adoperato. Tutto ciò evidenzia come il ritardo storico nell’elaborazione normativa in materia di paesaggio costituisca, ancora oggi, un retaggio irrisolto.
3. Le “tensioni” nella costruzione
Nella costruzione del Codice dei beni culturali e del paesaggio si sono manifestate con evidenza almeno tre tensioni fondamentali: quella tra “patrimonio” e “beni”, relativa cioè all’estensione e ai confini della materia; quella concernente il riparto di competenze tra Stato e Regioni; e, infine, quella - sempre attuale - tra pubblico e privato. Queste tensioni hanno accompagnato costantemente il lavoro di redazione, condizionandone l’impostazione, al di là dei retaggi storici precedentemente richiamati.
La tensione tra “patrimonio” e “beni” è comune a tutti i processi di codificazione in materia culturale, a qualsiasi latitudine. È una questione di definizione dei confini concettuali: cosa intendiamo per patrimonio culturale? Ci riferiamo solo alla dimensione materiale? Includiamo anche il paesaggio? E l’immateriale? Alcuni Paesi, come il Giappone sopra ricordato, hanno scelto un’impostazione onnicomprensiva già nel 1950, con una legge che tutela congiuntamente beni tangibili, paesaggi e patrimoni immateriali - fino a includere i cosiddetti “beni culturali viventi”, ossia le competenze artigianali e le professioni che incarnano una tradizione [18].
L’Italia, invece, ha mantenuto nel Codice una linea di continuità con la propria tradizione: la codificazione si è limitata a due ambiti - il patrimonio tangibile e quello paesaggistico - escludendo del tutto il patrimonio culturale immateriale [19]. In seguito si è tentato di rimediare con l’introduzione di un articolo “7-bis”, che ha recepito in forma molto limitata alcuni aspetti della Convenzione Unesco del 2003. Il risultato è che, a distanza di vent’anni, l’Italia è ancora indietro nella protezione e valorizzazione dell’immateriale rispetto a Paesi come la Cina - che vanta il maggior numero di elementi iscritti nelle liste del patrimonio immateriale Unesco - la Francia o il Giappone. L’Italia ha ottenuto il riconoscimento della dieta mediterranea, dell’arte dei pizzaioli napoletani, della tradizione dei liutai di Cremona, dell’alpinismo (in forma condivisa) e più di recente dell’opera lirica, ma permane la carenza di una strategia di sistema su questo fronte.
È interessante notare che la legislazione italiana conteneva già elementi di immaterialità: basti pensare alla nozione di “interesse relazionale”, presente nella legge Croce: si pensi al celebre caso dello scoglio di Quarto. Ed è la giurisprudenza, soprattutto amministrativa, ad aver colmato alcuni vuoti, riconoscendo per esempio rilevanza culturale a luoghi legati a pratiche, memorie o significati, come nel caso del ristorante Alfredo [20]. Un altro esempio rilevante è la tutela del decoro: concetto immateriale per definizione, che consente di intervenire anche in assenza di danni fisici al bene. È il caso della riproduzione per usi commerciali del David di Michelangelo che impugnava un mitra, vietata anche perché lesiva del decoro dell’opera, pur senza alterarne la materia [21].
La seconda tensione è quella relativa al riparto di competenze tra Stato e Regioni, resa ancora più evidente dalle modifiche costituzionali del 2001. La fase di elaborazione del Codice fu segnata da frizioni molto forti: i rappresentanti delle istanze regionali, designati dalla Conferenza Stato-Regioni, abbandonarono i lavori, e la redazione finale avvenne senza la loro partecipazione. È stata però la Corte costituzionale, dal 2003, a ricostruire progressivamente un equilibrio, spostando il pendolo a favore dello Stato. Un passaggio decisivo è rappresentato dalla sentenza n. 26 del 2004, che ha introdotto il criterio del regime dominicale e della “disponibilità del bene” per attribuire allo Stato anche competenze in materia di valorizzazione. In sua assenza, si sarebbe determinata una situazione paradossale: lo Stato non avrebbe potuto legiferare sulla valorizzazione dei propri beni - si pensi al Colosseo o a Pompei - con gravi conseguenze operative.
Questa riappropriazione di funzioni da parte dello Stato - rafforzata ancora di più con i decreti correttivi del 2006 e del 2008 - ha avuto però un costo sul piano dell’efficienza amministrativa: il recupero di competenze non è stato accompagnato da un adeguato rafforzamento delle strutture, con effetti negativi in termini di capacità gestionale. È il caso dell’autorizzazione paesaggistica: lo Stato si è riappropriato del relativo procedimento, con un parere obbligatorio e vincolante al posto del potere successivo ed eventuale di annullamento; il tutto però senza disporre del personale o delle risorse necessarie per assicurarne l’efficacia.
Infine, la terza tensione riguarda il rapporto tra pubblico e privato [22]. Il Codice nasceva in un contesto, già descritto, di forti pressioni per la valorizzazione economica e persino dismissione del patrimonio pubblico. La costituzione di veicoli societari come Patrimonio S.p.A. alimentò il timore - ben rappresentato nel dibattito culturale da interventi come quelli di Salvatore Settis [23] - di una privatizzazione eccessiva. Tuttavia, da un punto di vista strettamente giuridico, va ricordato che la natura pubblica o privata della proprietà non incide sulla qualificazione del bene culturale: ciò che conta è il vincolo. Certo, la proprietà pubblica è preferibile, per ragioni di accessibilità, tutela e gestione, e il legislatore stesso lo riconosce, ma essa non determina la qualità culturale del bene.
Questa dicotomia tra pubblico e privato ha finito per orientare anche le norme sulla valorizzazione, che nel Codice distinguono spesso tra luoghi pubblici e privati [24]. Tale distinzione è poi stata utilizzata in altre normative, come nel caso del decreto-legge del 2015 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, che ha assimilato l’apertura di musei e luoghi della cultura a un servizio pubblico da garantire sempre.
Diviene quindi possibile giungere al nucleo concettuale e strutturale del Codice: le scelte compiute e, al contempo, le lacune che lo attraversano. Per riprendere un’espressione di Paolo Grossi, il Codice non può essere considerato una fonte «unitaria, completa ed esclusiva» in materia di patrimonio culturale [25]. Ciò non rappresenta un limite assoluto, purché lo si riconosca: il Codice è una fonte importante, verosimilmente la più rilevante, ma parziale, e deve essere intesa come tale.
Sul piano delle scelte, una delle più significative è l’introduzione, nella parte iniziale del testo, di un sistema di principi generali. Questo elemento era assente nel Testo unico del 1999 e si è rivelato fondamentale per orientare un settore normativo di per sé frammentato, complesso e segnato da molte tensioni. In Commissione si discussero a lungo le definizioni e l’impostazione: si scelse di articolare il concetto di “patrimonio culturale” come somma di due componenti - i beni culturali e i beni paesaggistici - unificando così ambiti normativi che fino ad allora avevano avuto percorsi contigui, ma separati. Lo stesso Testo unico li aveva riuniti solo formalmente, accostandoli anche alla disciplina archivistica, mentre il Codice li integra in un disegno organico.
Particolarmente significativa fu la scelta di affrontare, con coraggio, il tema della valorizzazione. Fino ad allora il concetto era rimasto poco definito: la prima elaborazione normativa risaliva al 1998, ma fu solo con il Codice che se ne diede una definizione compiuta, accompagnata da una chiara individuazione degli strumenti e dei soggetti competenti. Anche in questo caso, va sottolineato che la fase di elaborazione coincideva con un momento di fermento nella riflessione giuridica: era appena nata la rivista Aedon, si assisteva alla pubblicazione di nuovi manuali e studi dopo un lungo periodo di vuoto. Il Codice, dunque, si inserì in una stagione di rinnovato interesse scientifico per il diritto dei beni culturali.
Sul fronte del paesaggio, le scelte normative si sono consolidate nel tempo, anche grazie al recepimento della Convenzione europea del paesaggio del 2000. Qui si è adottata una logica “a cerchi concentrici”: al centro, i beni paesaggistici propriamente detti - sui quali lo Stato mantiene una competenza esclusiva - e intorno, il paesaggio nel suo complesso, come realtà più ampia e diffusa. Anche qui si è tentato di dare una definizione sistematica, sebbene non esaustiva.
Quanto ai principi generali, accanto a quelli di diritto pubblico e amministrativo (su tutti, il principio di leale cooperazione), il Codice ne esplicita alcuni che risultano centrali per la materia [26]. La leale cooperazione, in particolare, ha assunto un ruolo chiave anche nella giurisprudenza costituzionale, specie per quanto riguarda la valorizzazione. Tuttavia, come ha spesso osservato Sabino Cassese, tale principio si confronta con un problema strutturale del sistema italiano: le istituzioni tendono a sviluppare una concezione “proprietaria” delle funzioni amministrative, il che rende difficile un’effettiva cooperazione. Un esempio emblematico è rappresentato dalla prima impostazione seguita nella riforma dell’allora Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo avviata nel 2014, quando si tentò di introdurre una collaborazione tra musei e soprintendenze in materia di prestiti: la semplice formula “sentito il soprintendente” si tradusse, nella prassi, in un vincolo paralizzante, tale da rendere preferibile poi rimuoverla.
Accanto alla leale cooperazione, troviamo nel Codice la riaffermazione della prevalenza dell’interesse pubblico sulla proprietà privata, in linea con l’art. 42 della Costituzione. Viene inoltre ribadito - con un’espressa disposizione, frutto di un dibattito interno alla Commissione - che la tutela prevale sulla valorizzazione: principio logico, ma che si volle sancire testualmente, per evitare ambiguità. Altro principio rilevante è la preferenza accordata alla proprietà pubblica dei beni culturali, come dimostra l’istituto della prelazione. Anche in questo caso, non si tratta di una peculiarità italiana: sistemi come quello francese o giapponese prevedono meccanismi analoghi, sebbene attuati con strumenti diversi.
Infine, il Codice accoglie i principi della prevenzione e della precauzione, che garantiscono che l’avvio di un procedimento di dichiarazione determini immediatamente, in via cautelare, l’applicazione delle misure di tutela.
Con riguardo alle lacune, le più rilevanti sono almeno tre, che si aggiungono a quella riguardante la disciplina del patrimonio culturale immateriale, sopra menzionata. La prima riguarda l’organizzazione amministrativa: una scelta dettata dal fatto che, mentre si redigeva il Codice, era in corso una riorganizzazione del Ministero. Si preferì quindi adottare un lessico neutro (semplicemente “Ministero”, salvo i pochi riferimenti espliciti al soprintendente) per non vincolare il testo a una struttura in evoluzione. La scelta è comprensibile, ma comportò la conseguenza che la dimensione organizzativa dell’amministrazione culturale rimase sostanzialmente fuori dal Codice. Ciò rappresenta una netta divergenza rispetto, per esempio, al Code du patrimoine francese, che dedica interi libri alle istituzioni culturali - musei, archivi, biblioteche - come soggetti giuridici. L’impostazione italiana, invece, è incentrata sugli oggetti da tutelare, secondo quella tendenza che è stata definita “benculturalismo”: le “cose” prima di tutto, le istituzioni solo in secondo piano. Le definizioni che il Codice fornisce di museo, archivio, biblioteca, area o parco archeologico restano, infatti, molto generiche.
La seconda lacuna riguarda le disposizioni fiscali. Durante la redazione del Codice, si stabilì purtroppo - e nonostante il suggerimento di Sabino Cassese - che questi aspetti competessero al Ministero dell’economia, e non furono quindi inclusi. Fu un errore: oggi, misure fondamentali come il beneficio fiscale c.d. Art bonus, introdotto nel 2014, si trovano in provvedimenti separati, estranei al corpo del Codice, il che ne riduce la coerenza e il carattere sistematico.
Infine, una lacuna sopravvenuta: quella delle norme penali. In origine, il Codice conteneva una parte sulle sanzioni; ma, anche per la necessità di recepire la Convenzione del Consiglio d’Europa di Nicosia del 2017, fortemente voluta dall’Italia, i reati contro il patrimonio culturale sono stati nel 2022 introdotti in un apposito titolo del Codice penale [27]. Di conseguenza, le disposizioni penali del Codice dei beni culturali e del paesaggio sono state abrogate, con una ulteriore perdita di organicità del provvedimento.
5. Venti anni di vita: i filoni di modifica
A vent’anni dall’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è possibile individuare alcuni filoni ricorrenti di intervento normativo, che riflettono, da un lato, le tensioni originarie della materia; dall’altro lato, l’evoluzione del contesto giuridico, amministrativo e politico. Le principali linee di modifica possono essere ricondotte a cinque ambiti: il riparto di competenze tra Stato e Regioni; il rapporto pubblico-privato; la definizione dei confini del patrimonio culturale; la disciplina delle riproduzioni; la gestione del paesaggio, con particolare attenzione all’autorizzazione paesaggistica.
Il primo ambito di intervento riguarda il riparto di competenze, soprattutto nella fase immediatamente successiva all’entrata in vigore del Codice. I cosiddetti decreti “correttivi” adottati nei primi cinque anni hanno proseguito il processo di ri-accentramento a favore dello Stato, in particolare in materia di paesaggio. Tuttavia, questa scelta si è scontrata con un problema strutturale: lo Stato non disponeva più delle risorse - umane, tecniche, organizzative - per esercitare in modo efficace le funzioni riassunte. Funzioni che, in alcuni casi, non esercitava direttamente dagli anni Settanta del XX secolo. Si pensi al procedimento di autorizzazione paesaggistica: pur mantenendo formalmente un ruolo decisivo attraverso il parere obbligatorio e vincolante, lo Stato non era nelle condizioni di assicurare una risposta tempestiva ed efficiente. Il risultato è stato un forte rallentamento dell’attività amministrativa, che ha generato malcontento, inasprito il dibattito politico e innescato, negli anni successivi, una serie di interventi normativi volti a ridimensionare il ruolo e i poteri dello Stato in materia paesaggistica.
Il secondo filone riguarda il rapporto tra pubblico e privato. Nella prima fase di applicazione del Codice si ebbe un orientamento restrittivo nei confronti dell’intervento dei soggetti privati, in particolare di quelli a scopo di lucro. L’uso di strumenti giuridici di natura societaria veniva spesso osteggiato, mentre si privilegiavano soggetti non lucrativi, come fondazioni o associazioni. Questo approccio ha avuto un effetto collaterale rilevante: le forme di partenariato pubblico-privato sono state regolate non all’interno del Codice, ma nel quadro del Codice dei contratti pubblici. Ciò ha determinato una “fuga dal Codice”, con la conseguenza che le norme più significative per il funzionamento delle collaborazioni tra pubblico e privato nel settore culturale - partenariato, sponsorizzazioni, mecenatismo - non si trovano oggi nella disciplina specifica del patrimonio, ma altrove.
Un terzo ambito di intervento ha riguardato la definizione dei confini del patrimonio culturale [28]. In particolare, le forti lamentele del mercato dell’arte hanno spinto il legislatore a rivedere la disciplina sulla circolazione dei beni, con un innalzamento delle soglie temporali per la dichiarazione di interesse culturale, allineate poi ai settant’anni. Analogamente, sono state modificate le regole sulla circolazione internazionale dei beni, con l’intento di rendere il sistema più flessibile e meno gravoso per gli operatori economici [29].
Il quarto filone è quello delle riproduzioni e delle fotografie. Anche in questo ambito si è assistito a un progressivo allentamento del sistema di autorizzazioni e controlli, volto a favorire la fruizione, la divulgazione e il riuso - anche commerciale - delle immagini del patrimonio culturale, pur nel rispetto della tutela del decoro e dell’integrità dei beni [30].
Infine, un ambito di intervento costante è stato quello relativo all’autorizzazione paesaggistica. L’articolo 146 del Codice è uno dei più modificati nell’intero corpus normativo, oggetto di continui ritocchi. Ma ancor più significativo è l’articolo 149, che individua gli interventi esclusi dall’autorizzazione. Ogni intervento normativo - anche il più distante, dal fisco alla finanza - sembrava portare con sé un emendamento volto ad ampliare la casistica degli interventi esonerati dall’autorizzazione paesaggistica. È un segnale evidente della difficoltà di bilanciare le esigenze di tutela con quelle di semplificazione procedurale. Più in generale, il tema paesaggistico è stato oggetto di un’intensa attività normativa, a testimonianza di quanto questa componente - in origine marginale rispetto ai beni culturali - sia oggi al centro del dibattito giuridico e politico sul patrimonio. In particolare, la crescente necessità di realizzare impianti di energia da fonti rinnovabili a progressivamente alimentato contrasti tra l’interesse paesaggistico e l’interesse ambientale, comportando anche modifiche legislative dirette ad assicurare una prevalenza del secondo rispetto al primo (ciò anche nella prospettiva di raggiungere gli obiettivi energetici fissati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza-Pnrr).
Da ultimo, va segnalato che il Codice ha sostanzialmente retto anche di fronte alle numerose istanze di de-legificazione e semplificazione innescate dalla pandemia e dai diversi interventi di ripresa. Tra le norme che hanno prodotto il maggior impatto sulla disciplina codicistica vi è stata, oltre a quelle dirette a favorire la realizzazione di impianti di energia da fonti rinnovabili, la misura volta a consentire agli esercizi di bar e ristorazione di poter estendere il numero di sedute e tavolini all’aperto, derogando all’autorizzazione prevista dall’articolo 21 del Codice nelle piazze e nelle vie pubbliche. In altre occasioni, invece, interventi normativi ispirati da specifiche esigenze di tutela hanno comunque sempre fatto riferimento agli istituti e alla disciplina generale del Codice: è il caso delle norme legislative riguardanti Venezia e il limite di circolazione imposto alle grandi navi da crociera dopo aver dichiarato monumento nazionale come vie d’acqua ai sensi dell’articolo 10 del Codice il bacino e il canale di San Marco e il canale della Giudecca.
Quale bilancio si può trarre, a vent’anni di distanza, dall’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio? Una valutazione complessiva, pur nella consapevolezza dei suoi limiti, non può che essere positiva. Il Codice ha mostrato una notevole capacità di tenuta: ha resistito a spinte derogatorie, ha fornito un quadro di riferimento solido per la tutela e ha rappresentato un presidio efficace contro iniziative legislative che avrebbero potuto compromettere il sistema di protezione del patrimonio culturale [31]. In aggiunta, va sottolineata la circostanza che nessun altro settore dell’attività governativa-amministrativa può vantarsi, come avviene per l’ambito del patrimonio culturale, di avere tanto sistematicamente raccolte le teste di capitolo della propria attività.
Naturalmente, restano aperte molte sfide. La prima riguarda i confini stessi della materia: è ancora attuale un modello che esclude o marginalizza il patrimonio culturale immateriale? Alla luce dell’evoluzione del diritto internazionale e di altri ordinamenti - basti pensare alla crescente attenzione riservata dalle Convenzioni internazionali e da Paesi come la Cina e la Francia agli elementi immateriali - l’Italia appare oggi in ritardo. Una riflessione su questo aspetto diventa imprescindibile, soprattutto se si considera che attività come il cinema e lo spettacolo dal vivo - pur rappresentando forme vitali della cultura - restano ai margini della codificazione.
Una seconda questione cruciale riguarda la proprietà. Il nostro ordinamento prevede che un bene privato possa essere assoggettato a vincolo culturale con conseguenze sostanziali sulla sua disponibilità, senza che ciò comporti un indennizzo. È un impianto consolidato dalla giurisprudenza costituzionale, risalente agli anni Sessanta del XX secolo, ma occorre chiedersi quanto esso possa reggere di fronte alla giurisprudenza più recente della Corte europea dei diritti dell’uomo, che impone standard più stringenti sul punto. Il tema, dunque, non è solo giuridico, ma anche politico e culturale: quale equilibrio è ancora attuale tracciare tra funzione pubblica del bene e diritti del proprietario?
Un’ulteriore sfida è rappresentata dalla disciplina delle riproduzioni. L’evoluzione tecnologica, la diffusione dei contenuti digitali, le nuove forme di accesso e fruizione del patrimonio impongono una revisione dell’impianto normativo: si tratta di conciliare le esigenze di tutela con quelle di apertura, promozione e circolazione culturale, evitando da un lato derive troppo orientate a dinamiche commerciali, dall’altro lato, rigidità eccessive [32]. Collegato a questi argomenti è il tema dell’uso dell’intelligenza artificiale nella produzione di immagini, che diviene sempre più frequente e pone questioni non solo di individuazione e protezione del diritto d’autore, ma anche di tutela del patrimonio culturale. Non sembra però che l’orientamento attuale sia quello di arricchire il Codice dei beni culturali e del paesaggio con simili previsioni, in ciò replicando quanto avvenuto in passato in materia di archivi, allorché diversi aspetti riguardanti l’archiviazione informatica dei documenti sono stati regolamentati nel Codice dell’amministrazione digitale.
Un’ultima questione è quella della tenuta delle norme codicistiche e della tutela del patrimonio culturale quale interesse pubblico sensibile capace di resistere alla estensione dell’applicazione di istituti di liberalizzazione e semplificazione dell’attività amministrativa. La sentenza n. 88 del 2025 della Corte costituzionale ha rigettato l’idea di un regime speciale in materia di termine per l’annullamento in sede di autotutela. Resta invece ancora attuale l’annosa questione del silenzio assenso, su cui però la Corte sembra aver incidentalmente mostrato maggiore cautela.
Di fronte a queste sfide, il Codice, come già osservato, non è una fonte “unitaria, completa ed esclusiva”. Tuttavia, ha saputo interpretare la funzione di presidio e di orientamento in un’epoca di transizione normativa e istituzionale. E in questo senso, esso continua a rappresentare - ancora oggi - una sorta di “mitologia giuridica della modernità” [33]: non tanto per la sua perfezione formale, quanto per il ruolo simbolico e pratico che ha avuto e continua ad avere nella protezione del patrimonio culturale italiano.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Lorenzo Casini, professore ordinario di Diritto amministrativo nella Scuola IMT Alti Studi di Lucca, Piazza S. Ponziano 6, 55100 Lucca, lorenzo.casini@imtlucca.it.
[1] Per quanto riguarda la codificazione e i codici, con particolare riguardo agli scritti temporalmente vicini alle origini del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si leggano gli atti del Convegno su Faut-il codifier le droit? Expérience comparées, tenutosi a Parigi nel giugno 1997 (pubblicati in parte in Revue française d’administration publique, 1997, pag. 165 ss., e in parte in AJDA, 1997, pag. 639 ss.), e gli atti dell’incontro di studio svoltosi a Firenze nell’ottobre 2000 su Codici. Una riflessione di fine millennio (raccolti, a cura di P. Cappellini e B. Sordi, nel volume 61 della biblioteca del Centro di studi per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, Giuffrè, 2002).
[2] B.G. Mattarella, La codificazione in senso dinamico, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, pag. 709 ss., e la bibliografia ivi menzionata.
[3] Per un commento al Testo unico approvato con il d.lg. n. 490/1999, si rinvia, per tutti, a La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali. Testo Unico approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2000, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, (a cura di) G. Caia, Milano, Giuffrè, 2000, e A. Roccella, Il testo unico dei beni culturali: contesto, iter formativo, lineamenti, conferme, innovazioni, in Dir. pubbl., 2000, pag. 555 ss.
[4] Il riferimento è alle tre leggi annuali di semplificazione emanate per il 1998 (legge n. 50/1999), il 1999 (legge n. 340/2000) e il 2001 (legge n. 229/2003).
[5] Sulle vicende della codificazione in Francia, limitandosi alla letteratura più vicina temporalmente al periodo in questione, si rinvia a M. Suel, Essai sur la codification à droit constant, Paris, Journal Officiel, 1993, S. Cassese, Des codes à la codification, in Revue française d’administration publique, 1997, pag. 183 ss.; B.G. Mattarella, La codificazione del diritto: riflessioni sull’esperienza francese contemporanea, in Riv. trim. dir. pubbl., 1993, pag. 1035 ss.; Id., I rapporti tra amministrazioni e cittadini in Francia, in Giorn. dir. amm., 2001, pag. 19 ss.; in particolare pag. 21 s., e il dossier “Les perspectives de la codification”, in AJDA, 2004, pag. 1849 ss., con articoli di M. Verpeaux, G. Braibant e A. Zaradny, R. Schwartz.
[6] Il che conferma la tendenza dell’Italia, rispetto per esempio alla Francia, ad una “codification partielle” del diritto amministrativo (così B.G. Mattarella, Codification et Etat de droit: l’expérience italienne, in AJDA, 1997, pag. 665 ss., qui pag. 668).
[7] E. Morlino, Ambiente e codificazione: un’analisi comparata, in Riv. trim. dir. pubbl., 2025, pag. 361 ss.
[8] Ciò è avvenuto nonostante siano ancora vigenti gli articoli 13-bis (Chiarezza dei testi normativi) e 17-bis (Testi unici compilativi) della legge n. 400 del 1988, introdotti entrambi nel 2009. In particolare, il comma 3 dell’articolo 13-bis dispone che «[p]eriodicamente, e comunque almeno ogni sette anni, si provvede all'aggiornamento dei codici e dei testi unici con i medesimi criteri e procedure previsti nell'articolo 17-bis adottando, nel corpo del testo aggiornato, le opportune evidenziazioni».
[9] N. Aicardi, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, Giappichelli, 2001, e F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002; in precedenza, T. Alibrandi, Valorizzazione e tutela dei beni culturali: ruolo dello Stato, in Foro amministrativo, 1998, pag. 1635 ss., nonché gli scritti raccolti in La cultura e i suoi beni giuridici, (a cura di) V. Caputi Jambrenghi, Milano, Giuffrè, 1999.
[10] Si leggano gli scritti raccolti in Titolarità pubblica e regolazione dei beni, in Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Annuario 2003, Milano, Giuffrè, 2004, pag. 3 ss.; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Torino, Giappichelli, 2004, in particolare pag. 321 ss., e I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, (a cura di) A. Police, Milano, Giuffrè, 2008.
[11] Articolo 27, dal titolo “Verifica dell'interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico”, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge di conversione 24 novembre 2003, n. 326.
[12] S. Cassese, Codici e codificazioni: Italia e Francia a confronto, intervento alla tavola rotonda su Les principes et les meéthodes de la codification: les enjeux politiques, juridiques et techniques de la codification, organizzata dal Conseil d’Etat in occasione del bicentenario del Codice civile, Parigi, 25 novembre 2004, in Giorn. dir. amm., 2005, pag. 95 ss.; L. Casini, La codificazione del diritto dei beni culturali in Italia e in Francia, ivi, 2005, pag. 98 ss.
[13] See D. Voudouri, La legislation grecque: des antiquités au patrimoine culturel, in De 1913 au Code du patrimoine. Une loi en évolution sur les monuments historiques, (sous la direction de) J.-P. Bady, M. Cornu, J. Fromageau, J.-M. Leniaud, V. Négri, Paris, La documentation française, 2018, pag. 713 ss.
[14] S. Pugliatti, Beni. I. - Teoria generale, in Enc. dir., V, 1959, pag. 164 ss., e Id., Cosa. b) teoria generale, ibidem, XI, 1962, pag. 19 ss. (entrambe le voci sono contenute in Id., Beni e cose in senso giuridico, Milano, Giuffrè, 1962).
[15] Su questi aspetti, si rinvia a L. Casini, Cultural Heritage Law, Advanced Introduction Series, Cheltenham, Elgar, 2024.
[16] L. Casini, Tutelare il paesaggio: la legge Croce n. 778 del 1922 un secolo dopo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2023, pag. 693 ss.
[17] G. Sciullo, I vincoli paesaggistici ex lege: origini e ratio, in Aedon, 2012, 1-2.
[18] N. Akagawa, Heritage Conservation in Japan’s Cultural Diplomacy. Heritage, national identity and national interest, London and New York, Routledge, 2015, e A.P. Rots and M. Teeuwen (eds.), Sacred Heritage in Japan, London and New York, Routledge, 2020.
[19] A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, 2019, 1, e gli atti del convegno di Assisi su “I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche”, in Aedon [archivio/2014/1/index114.htm], 2014,1.
[20] Cons. St., ad. plen., n. 5/2023.
[21] L. Casini, “Noli me tangere”: i beni culturali tra materialità e immaterialità, in Aedon, 2014, 1.
[22] V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della ‘proprietà’ e dei ‘beni’, Torino, Giappichelli, 2022; G. Napolitano, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2003; M. Cammelli, Decentramento e ‘outsourcing’ nel settore della cultura: il doppio impasse, in Dir. pubbl., 2002, pag. 261 ss.
[23] S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002.
[24] F. Caporale, La valorizzazione dei beni culturali. Analisi giuridica delle trasformazioni in corso, Napoli, Editoriale Scientifica, 2024.
[25] In questi termini, P. Grossi, Codici: qualche conclusione tra un millennio e l’altro, 85 ss., in Mitologie giuridiche della modernità, Id., Milano, Giuffrè, 2001.
[26] Questi aspetti sono ora trattati in L. Casini, I principi in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, (diretto da) F. Caringella, R. Chieppa e B.G. Mattarella, vol. I, I principi, Milano, Giuffrè, 2025, pag. 784 ss.
[27] Legga 9 marzo 2022, n. 22. Sul punto, N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, pag. 90 ss.; in prospettiva più ampia, A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Torino, Giappichelli, 2023.
[28] L. Casini, Patrimonio culturale, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. III - Le funzioni amministrative, (a cura di) B.G. Mattarella e M. Ramajoli, Milano, Giuffrè, 2022, ad vocem.
[29] A. Pirri Valentini, Il controllo della circolazione internazionale delle opere d’arte, Milano, Giuffrè, 2023.
[30] Si leggano gli articoli dedicati ai problemi della riproduzione in Aedon, 2023, 2.
[31] C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, III ed., Bologna, Il Mulino, 2025.
[32] Per una prospettiva diversa, su questi temi, può leggersi la sesta edizione di Law, Ethics, and the Visual Arts (il celebre testo di J.H. Merryman e A. Elsen, entrambi non più in vita), curata da S.K. Urice e S.J. Frankel, pubblicata nel maggio 2025 (Cambridge University Press).
[33] Si v. P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit.