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Tutela penale del patrimonio culturale

La riforma della tutela penale del patrimonio culturale riletta alla luce dell’art. 9 Cost. Riflessioni sul patrimonio culturale reale e dichiarato

di Fabio Fortinguerra [*]

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Le fattispecie incriminatrici introdotte dalla legge 9 marzo 2022, n. 22. - 3. Le ragioni della riforma: tra la necessità di razionalizzazione del sistema e l’ottemperanza di obblighi internazionali. - 4. La riscoperta della “cultura” quale principio costituzionale ispiratore delle scelte del legislatore italiano.

The reform of the criminal protection of cultural heritage reread in the light of Article 9 of the Constitution. Reflections on real and declared cultural heritage
In this study, the offenses outlined in title VIII-bis, entitled “Crimes against cultural heritage” are examined within the context of systemic choices and their interactions with supplementary laws. The system of cultural heritage protection is analysed considering the particular nature of the object of protection, through a constitutional perspective, which allows for viewing culture as the essential nexus for the recognition and defence of fundamental human rights of the protected entity.

Keywords: cultural heritage; criminal law protection; culture; commons.

1. Introduzione

Una recente sentenza della Corte di Cassazione [1] è ritornata sulla discussa distinzione tra patrimonio culturale dichiarato e patrimonio culturale reale, al fine di individuare una chiave ermeneutica utile a delimitare quale sia la nozione penalmente rilevante di bene culturale posta alla base delle nuove fattispecie di reato introdotte nel Titolo VIII-bis del codice penale dalla legge 9 marzo 2022, n. 22 [2].

Al di là delle ricadute e della condivisibilità o meno delle conclusioni cui è pervenuta la Suprema Corte, tale pronuncia evidenzia per un verso l’infelice formulazione di alcune parti delle nuove fattispecie di reato e per altro verso la scarsa familiarità dei giudici (in particolar modo in materia penale) a “maneggiare” la complessa e delicata materia del diritto dei beni culturali, finendo per offrire risposte spesso fondate su un fraintendimento del concetto di cultura invalso nel nostro ordinamento e in particolar modo nel dettato costituzionale.

È, infatti, sempre più frequente assistere a provvedimenti legislativi che, sebbene si propongano il nobile obiettivo di contenere comportamenti in sé deprecabili, di fatto finiscano per introdurre nuove fattispecie criminose, il cui unico fine si risolve nella raccolta di un facile consenso politico attraverso il soddisfacimento della pulsione securitaria dell’opinione pubblica, spesso “solleticata” da fatti di cronaca eclatanti.

Il risultato è la creazione di un corpus normativo (nel caso dei beni culturali ciò è ancor più evidente per l’inevitabile richiamo alla complessa disciplina speciale prevista per tali beni), caotico, contraddittorio, completamente lontano da quegli ideali di tutela che storicamente hanno animato la nostra legislazione in materia di beni culturali sin dall’epoca preunitaria [3], senza una visione del futuro, piani di riforme ad ampio respiro, e al contrario costituito da provvedimenti che si limitano a prevedere nuove fattispecie di reato e/o spesso solo pene più severe, completamente schiacciati sul presente immediato. Costruzioni giuridiche farraginose difficilmente applicabili in concreto, spesso con profili di dubbia legittimità costituzionale, che paradossalmente finiscono per produrre l’effetto contrario a quello voluto.

Nelle nuove norme penali sopra indicate, il dato che emerge e che segna un netto distacco rispetto al passato è la affermazione di un concetto di tutela della cultura, e di ciò che ne costituisce uno strumento (paesaggio e patrimonio storico-artistico), direttamente collegato all’art. 9 della Costituzione e non più (e non solo) quale riflesso della funzione sociale della proprietà. Un radicale cambiamento di paradigma che attribuisce a tale tutela, sia pure con inevitabili limiti applicativi sui quali si avrà modo di ritornare nel prosieguo, un contenuto “positivo”, non rappresentando più un mero limite “negativo” all’esercizio delle facoltà legate al diritto di proprietà.

La soluzione adottata dalla sopra citata sentenza della Corte di Cassazione n. 41131/2023, sebbene non ne sia fatta esplicita menzione, richiama gli esiti del dibattito in voga molti anni fa tra gli esperti di diritto dei beni culturali, in cui si disputava se all’apposizione del vincolo (all’epoca definito “notifica”) dovesse essere attribuita valenza e natura costitutiva [4] o dichiarativa [5], con tutte ciò che ne conseguiva a seconda della soluzione seguita [6].

E infatti, se il vincolo ha natura costitutiva, è esso stesso che attribuisce alla cosa una qualità che prima non aveva attraendola nella sfera giuridica protetta dei beni culturali. Se, invece, il vincolo ha natura dichiarativa (in tal senso l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale oggi dominante) la cosa ha già in sé la qualità che lo connota quale bene culturale particolarmente importante, senza la necessità di dover attendere il relativo provvedimento amministrativo che, pertanto, si limita a riconoscere detta qualità.

L’adesione alla tesi della natura dichiarativa ha portato alla formulazione dell’art. 13, comma 1 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, a norma del quale “la dichiarazione accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto, dell’interesse richiesto dall’art. 10, comma 3”. Una disposizione dal chiaro significato e contenuto nominalistico laddove letta e interpretata in ottica sistematica, atteso che il presupposto indefettibile della dichiarazione di interesse culturale restava sempre il preventivo accertamento da parte della pubblica amministrazione del requisito della culturalità particolarmente importante. Al di là delle novità introdotte da tale norma sotto il profilo terminologico, il principio era sempre lo stesso: vale a dire che in tanto un bene poteva considerarsi rientrante nella sfera protettiva attribuita dall’ordinamento ai beni culturali, in quanto fosse preventivamente intervenuta la dichiarazione di interesse prevista dal citato art. 13.

La logica conseguenza di tale impostazione, in cui prevale una maggiore attenzione verso le cose e i beni in quanto possibili oggetti del diritto di proprietà piuttosto che non verso una esaltazione del principio costituzionale della cultura, è che tutte le disposizioni inerenti a un bene qualificato come bene culturale, sia sotto il profilo civilistico/amministrativo (obbligo di denuncia degli atti di disposizione inter vivos, prelazione in favore dello Stato, obbligo di comunicazione alle autorità competenti nel caso di spostamenti e/o restauri), sia sotto il profilo penale, possano ritenersi operative solo ed esclusivamente con riferimento a quei beni culturali per i quali sia intervenuto un provvedimento della pubblica amministrazione che abbia accertato la sussistenza di un interesse storico-artistico particolarmente rilevante.

A tale chiaro disposto normativo, parte della giurisprudenza [7], anche sulla scorta di un cambiamento di impostazione del legislatore (oltre alla legge n. 22/2022 in cui non è indicato espressamente quando un bene assuma la valenza di bene culturale, si ricorda anche la legge n. 109/2005, in cui l’art. 2, nell’intento di non ricomprendere nella protezione disposta dal Codice dei beni culturali le collezioni di monete di carattere ripetitivo, sembra legittimare l’idea che le collezioni importanti possano rientrare nella suddetta protezione pur in assenza della dichiarazione di interesse prevista dall’art. 13, comma 1), ha risposto ritenendo che la natura meramente dichiarativa del vincolo preludesse all’esistenza di un patrimonio culturale “reale” rispetto al quale è assente l’accertamento della importante culturalità da parte della pubblica amministrazione.

Questa impostazione sostanziale, se da un lato inaugura un nuovo e sotto molti aspetti condivisibile filone, in cui si attribuisce al principio costituzionale della cultura un ruolo autonomo e di primo piano e non più ancillare rispetto ad altri (primo tra tutti il diritto di proprietà), dall’altro lato pone una serie di interrogativi sia di applicabilità sotto il profilo oggettivo e soggettivo delle disposizioni penali [8], sia di carattere generale [9]. E infatti, come si fa a individuare il parametro dell’interesse rilevante laddove, ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali, ogni testimonianza di civiltà è qualificabile come bene culturale? E ancora, chi sarebbe il soggetto legittimato a porre in essere la valutazione della particolare importanza?

2. Le fattispecie incriminatrici introdotte dalla legge 9 marzo 2022, n. 22

Il sistema normativo conseguente all’entrata in vigore della legge n. 22/202 nasce dopo un lungo e complicato iter legislativo per cercare di dare una risposta, sia sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo sanzionatorio, al crescente numero di reati aventi come oggetto i beni culturali [10].

Le disposizioni normative introdotte da tale riforma, infatti, costituiscono un corpus organico inserito all’interno del Codice penale, Titolo VIII-bis “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, dall’art. 518-bis all’art. 518-undevicies c.p., in cui sono previsti gli illeciti penali più gravi, in precedenza ripartiti tra Codice penale e Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Oltre a tale aspetto “topografico”, che assume un suo rilievo sostanziale sotto il profilo pedagogico [11], e a una razionalizzazione della normativa di settore, le recenti norme hanno introdotto nuove fattispecie di reato (in alcuni casi riprendendo quanto già previsto nel Codice dei beni culturali) [12], un innalzamento delle pene edittali rispetto a quelle previste per le ipotesi di delitti contro il patrimonio, un sistema di attenuanti e di aggravanti per le ipotesi di reati comuni che abbiano a oggetto beni culturali e la responsabilità dell’ente per la commissione delle fattispecie contemplate nel nuovo titolo [13].

Tali scelte hanno determinato un radicale cambiamento di paradigma, passando da un sistema di tutela indiretta a un sistema di protezione penale diretta del patrimonio culturale in cui sono ricomprese tutte le fattispecie di condotta idonee a conculcare un bene culturale.

Questa scelta legislativa, da molti definita meramente simbolica [14], è stata criticata da coloro i quali [15] ritengono che, oltre a questa opera di razionalizzazione e integrazione delle fattispecie di reato previste nell’ambito del codice penale, la via del perfezionamento della esistente disciplina di settore si sarebbe potuta perseguire attribuendo un maggior rilievo alla parte sanzionatoria del Codice dei beni culturali. Tale ultima opzione avrebbe consentito di avere in un unico testo legislativo non soltanto l’intero sistema sanzionatorio, ma anche quello definitorio così da avere un quadro completo, sistematico e unitario.

Un altro aspetto importante della riforma riguarda, come detto, la previsione di delitti contro il patrimonio quale fonte di responsabilità penale delle persone giuridiche ex d.lg. n. 231/2001 [16]. Si tratta di disposizioni destinate ad avere un enorme impatto sia per tutti quegli enti che operano a vario titolo nel settore del patrimonio culturale (si pensi, ad esempio, agli enti museali o alle case d’asta), sia per enti proprietari o gestori di beni culturali o aventi un interesse culturale, senza dimenticare anche tutti quei soggetti che occupano come propria sede lavorativa immobili sottoposti a vincolo o comunque che operano in contesti rilevanti sotto il profilo ambientale, paesaggistico e storico-artistico.

3. Le ragioni della riforma: tra la necessità di razionalizzazione del sistema e l’ottemperanza di obblighi internazionali

Il contesto normativo in cui si inseriscono le nuove disposizioni penali si presentava sotto molti aspetti lacunoso e contraddittorio, in particolar modo con riferimento a quelle fattispecie di reato, come il furto e il danneggiamento, il cui scopo principale dovrebbe essere quello di tutelare i beni culturali dalle forme di aggressione immediata e diretta alle quali possono essere esposti.

E infatti, prima dell’intervento riformatore, il furto di un bene culturale poteva essere punito solo nelle ipotesi in cui potesse trovare applicazione la circostanza aggravante di cui all’art. 625 n. 7 c.p. Tale soluzione, oltre a presentarsi del tutto inadeguata rispetto alla finalità di garantire una effettiva tutela del patrimonio culturale nelle ipotesi di concorso di circostanze attenuanti considerate prevalenti da parte del giudice nel relativo giudizio di bilanciamento, non offriva alcuna definizione del concetto di bene culturale. L’applicabilità della citata aggravante anche alle ipotesi di furto di beni culturali, infatti, non derivava da una precisa definizione di questi ultimi, ma dalla ricomprensione degli stessi fra i beni materiali suscettibili di pubblica fruizione contemplata espressamente dall’art. 625 n. 7 c.p. (ove si legge “se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici e stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza”).

Una impostazione che, limitandosi a ricollegare, in via meramente interpretativa, la tutela e la salvaguardia di un bene culturale alla possibile pubblica fruizione dello stesso (peraltro non riscontrabile in tutti i casi) finiva per rappresentare una evidente frustrazione della funzione primaria attribuita alla cultura e al patrimonio storico e artistico cui la nostra Costituzione (art. 9) attribuisce un ruolo fondamentale. E infatti, se il discrimen per l’applicazione di tale aggravante era costituito dalla pubblica fruizione, il furto di un’opera d’arte rischiava di essere valutato alla stessa stregua del furto di un oggetto esposto in un supermercato. Senza trascurare l’ulteriore considerazione della dubbia applicabilità dell’aggravante anche ai beni culturali di proprietà privata.

Analoghe considerazioni possono essere fatte anche per quel che riguarda il reato di danneggiamento che, nelle ipotesi in cui la condotta lesiva avesse riguardato un bene facente parte del patrimonio storico-artistico, vedeva l’applicazione della aggravante di cui all’art. 635, secondo comma, n. 3 c.p. La individuazione dell’oggetto materiale tutelato ha subito nel corso degli anni una serie di precisazioni grazie ad alcuni interventi del legislatore. In particolare, l’art. 13 della legge n. 352/1997, successivamente confermato dal d.lg. n. 7/2016, aveva espressamente definito nell’ambito dell’oggetto della tutela le cose di interesse storico o artistico indipendentemente dalla loro collocazione e i beni immobili ricompresi nel perimetro dei centri storici. Tale precisazione, anche per cercare di arginare il fenomeno di imbrattamento e deturpamento di monumenti e altri beni di interesso storico-artistico, venne inoltre inserita nell’art. 639 c.p. relativo al reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (a tal riguardo, si rimanda a quanto previsto dalla legge n. 94/2009). Un ulteriore passo in avanti verso una maggiore tutela dei beni culturali da condotte lesive si è avuto con il citato d.lg. n. 7/2016, che ha “trasformato” le aggravanti di cui all’art. 639, comma 2, c.p. in autonome fattispecie di reato, al fine di evitare che l’eventuale giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti potesse lasciare di fatto i beni culturali sprovvisti di tutela.

I due nodi irrisolti hanno sempre riguardato e riguardano tuttora le ipotesi di danneggiamento colposo di beni culturali e di danneggiamento di cosa propria sottoposta a vincolo. La norma di riferimento per tali fattispecie è sempre stata l’art. 733 c.p. che contempla il “Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale” quale contravvenzione relativa alla attività sociale della pubblica amministrazione [17]. L’applicazione di tale norma da parte della giurisprudenza è sempre stata, non senza ragioni, scarsamente coltivata oltre che contestata, da un lato per la dubbia ascrivibilità della stessa tra i reati comuni o i reati propri e dall’altro lato, soprattutto, per la difficile individuazione dei presupposti necessari perché si potesse considerare perfezionata la condizione obiettiva di punibilità divisata dalla norma come “danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”.

A tal riguardo, tuttavia, vi è da dire che con ogni probabilità il legislatore abbia “volutamente” fatto ricorso a una condizione obiettiva di punibilità di così elevato “valore”, al fine di evitare che ci si potesse trovare dinanzi a una eccessiva applicazione di tale fattispecie. Al di là delle ipotesi in cui vi sia un riconoscimento formale da parte ministeriale sulla sussistenza di un interesse culturale di un bene, l’operatività dell’art. 733 c.p. rischia di determinare la punibilità anche in ipotesi marginali in cui rileva l’interesse del privato piuttosto che non quello dello Stato (si pensi, ad esempio a quei beni antichi di scarso valore che spesso si trovano presso le rivendite di antiquariato).

In tale contesto normativo, in cui erano evidenti le lacune e/o l’insufficienza delle misure dettate per garantire la tutela dei beni culturali spesso tra loro in contraddizione, è intervenuto anche il Consiglio d’Europa con la Convenzione di Nicosia del 19 maggio 2017, con misure destinate ad avere un notevole impatto sia dal punto di vista del danno che tali beni culturali possono subire, sia dal punto di vista economico. Tale Convenzione, che ha sostituito la precedente Convenzione di Delfi sullo stesso tema (aperta alla firma nel giugno del 1985, ma mai entrata in vigore per il mancato raggiungimento del numero di ratifiche necessarie), è il risultato di un lungo lavoro preparatorio svolto dal Consiglio d’Europa con la collaborazione di numerose organizzazioni internazionali quali l’Unione europea, l’UNIDROIT, l’UNESCO e l’Ufficio delle Nazioni Unite.

Uno dei punti più importanti su cui si sofferma la Convenzione (cui si ispirano anche i giudici [18] allorquando debbano stabilire quando un bene possa qualificarsi come bene culturale) è la definizione di beni culturali, c.d. cultural property (contenuta nell’art. 2 e sostanzialmente identica a quella disposta dalla Convenzione UNESCO del 1970), cui i legislatori nazionali devono far riferimento quale presupposto per le nuove fattispecie incriminatrici e che comprende tra gli altri i “prodotti di scavi archeologici (sia quelli regolari che clandestini) o di scoperte archeologiche”, “gli elementi di monumenti artistici o storici o siti archeologici che sono stati smembrati”, “le antichità che hanno più di cento anni, come le iscrizioni, le monete e le incisioni” [19].

4. La riscoperta della “cultura” quale principio costituzionale ispiratore delle scelte del legislatore italiano

Sebbene la definizione precisa del bene giuridico oggetto della tutela costituisca la premessa logica, oltre che per certi versi necessaria, per individuare quali siano le vie da seguire per garantire la prevista protezione, il legislatore italiano nel dare attuazione agli impegni internazionali, seguendo una scelta criticata da larga parte della dottrina [20] in ragione delle ricadute negative sotto il profilo delle richieste di determinatezza e rimproverabilità in questo ambito, non ha formulato alcuna definizione specifica su cosa debba intendersi per bene culturale a fini penali.

Il richiamo, pertanto, come confermato anche negli stessi lavori preparatori della riforma e nei vari dossier parlamentari, è alla nozione di patrimonio culturale stabilita per fini amministrativi dall’art. 2 del d.lg. n. 42/2004 da sempre utilizzata anche in ambito penale.

In tale norma, il concetto di patrimonio culturale [21] rappresenta una categoria più ampia in cui sono ricompresi da una parte i cosiddetti “beni culturali” (definiti come “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”) e dall’altra parte i cosiddetti “beni paesaggistici” (che ricomprendono “gli immobili e le aree indicati dall’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e degli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”).

La ricomprensione di queste due categorie di beni sotto l’ombrello di un unico genus (sia pure con terminologia differente, anche in sede UNESCO il patrimonio mondiale è costituito dal patrimonio culturale e dal patrimonio naturale) rispecchia perfettamente la situazione italiana. La peculiarità di quest’ultima, infatti, è proprio la diffusione capillare dei beni culturali sul territorio, la perfetta osmosi fra il “piccolo” e il “grande”, fra i musei e le città, l’identità di paesaggio e tessuto storico-artistico, il radicamento al suolo di una stratificazione millenaria che non si esprime solo nei siti visitabili, ma anche nei dati archeologici (a rischio) che potrebbero spiegarli meglio. Il paesaggio italiano, infatti, si presenta come un paesaggio fortemente antropizzato, in cui le strutture architettoniche possono essere considerate alla stregua di una “seconda natura” intesa alla pubblica utilità [22] costruita dall’uomo per fini civili e in cui l’interesse archeologico, storico, artistico e lato sensu culturale coesiste con quello paesaggistico, intendendo per paesaggio la forma del territorio come trasformato nei secoli anche dall’intervento dell’uomo [23].

Sebbene queste due categorie siano intrinsecamente connesse tra loro, non foss’altro che per la medesima funzione culturale e per la comune necessità di salvaguardia espressamente richiamate dalla Costituzione, non sono tuttavia perfettamente sovrapponibili, così che si assiste a una differente modulazione delle tecniche di tutela in ragione delle specifiche esigenze di protezione necessarie. Il paesaggio, infatti, sebbene si presenti come un fatto fisico e oggettivo, è caratterizzato da un continuo divenire riconducibile all’azione di eventi tanto naturali quanto legati all’attività dell’uomo [24], a differenza di quanto invece accade per i beni culturali. Di contro alla dinamicità del paesaggio, questi ultimi si caratterizzano per la loro staticità, in quanto testimonianza storico-artistica del passato da tutelare e conservare il più possibile nella sua integrità [25].

La trasposizione normativa di tali “differenti identità ontologiche”, nell’ambito della riforma penale del 2022, si traduce in disposizioni che in alcuni casi sono applicabili, sia pure con i dovuti distinguo, a entrambe le categorie (in particolare le norme che tutelano l’integrità), e in altri casi direttamente e più facilmente ai soli beni culturali (in particolare le norme a tutela della disponibilità e quelle contro il rischio di dispersione).

L’elemento che accomuna entrambi tali beni (culturali e paesaggistici), riconducibile in maniera diretta al dettato costituzionale, è costituito dalla medesima funzione culturale, che rischia di essere conculcata anche in maniera definitiva qualora il bene fisico (sia esso culturale o naturale) venga distrutto o danneggiato o qualora lo stesso bene venga reso indisponibile alla fruizione collettiva. L’essenza della culturalità, infatti, è la sua pubblicità e, di conseguenza, la sua comune e massima fruibilità. Ciò è ancor più evidente con riferimento alla situazione italiana ove, come si è evidenziato, il paesaggio presenta una doppia identità come sintesi di natura e cultura.

La complessa natura dei beni che costituiscono il patrimonio culturale e il loro diretto collegamento funzionale a interessi pubblici di rilevanza costituzionale giustificano un sistema di tutela altrettanto articolato di diritto amministrativo e penale in cui coesistono misure sanzionatorie, premiali [26], ripristinatorie [27] e, soprattutto, di tutela anticipata. Lo scopo, infatti, è quello di prevenire il compimento di condotte gravemente lesive che, sebbene censurate attraverso l’individuazione e la punizione dei responsabili, rischiano, nelle ipotesi più gravi, di obliterare in maniera definitiva la funzione culturale connaturata a tali beni. Nessuna misura ripristinatoria o sanzionatoria potrà, infatti, compensare la distruzione, il danneggiamento e la dispersione di detti beni, per i quali alla fragile unicità “materiale” corrisponde la altrettanto fragile unicità “ideale” strettamente e intimamente collegata ai valori culturali, sociali ed etici di cui sono espressione [28].

La tutela anticipata viene attuata, oltre che con misure promozionali [29], anche e soprattutto attraverso la tecnica del cosiddetto “pericolo astratto”. Nell’ambito del sistema penale ciò si traduce nelle sanzioni che vengono comminate per condotte poste in essere senza le prescritte autorizzazioni. Una di queste misure è la contravvenzione prevista nei confronti di chiunque demolisca, rimuova, restauri ovvero realizzi opere di qualunque tipo su beni culturali senza le necessarie autorizzazioni. La fattispecie, già presente nelle leggi del 1939, è oggi disciplinata dagli artt. 169 (per i beni culturali) e 181 (per i beni paesaggistici) del d.lg. n. 42/2004. Secondo una parte della dottrina [30], la tecnica legislativa dell’astrazione applicata ai beni culturali rischia di tutelare non già il bene giuridico in sé, quanto piuttosto il sistema amministrativo preposto alla gestione e conservazione degli stessi. Si tratterebbe, in altri termini, di una tutela di una mera funzione (quella amministrativa preposta al rilascio delle autorizzazioni), piuttosto che non del bene giuridico vero e proprio. Tali obiezioni, tuttavia, non sembrano cogliere nel segno dal momento che non prendono in considerazione la ratio sottesa alle norme incriminatrici. Lo scopo del legislatore, infatti, è quello di garantire una tutela anticipata del bene culturale in ragione della peculiare natura e rango (costituzionale) dello stesso e della intrinseca pericolosità delle condotte descritte in tali norme. Sono proprio tali circostanze ad aver spinto il legislatore verso una anticipazione della tutela penale attraverso una tipizzazione del pericolo. Dalla scelta operata dal legislatore, pertanto, si deduce che il bene giuridico tutelato non si formi a seguito di una decisione amministrativa, ma preesista alla norma ed è riconosciuto costituzionalmente.

Nello stesso solco si pone anche la contravvenzione disciplinata dall’art. 175 d.lg. n. 42/2004 relativa alle violazioni in materia di ricerche archeologiche. Dispone, invero, tale norma: “È punito con l’arresto fino ad un anno e l'ammenda da euro 310 a euro 3.099: a) chiunque esegue ricerche archeologiche o, in genere, opere per il ritrovamento di cose indicate all’articolo 10 senza concessione, ovvero non osserva le prescrizioni date dall'amministrazione; b) chiunque, essendovi tenuto, non denuncia nel termine prescritto dall’articolo 90, comma 1, le cose indicate nell’articolo 10 rinvenute fortuitamente o non provvede alla loro conservazione temporanea”.

Anche in questo caso, si assiste a una scelta precisa del legislatore: quella di attribuire in via esclusiva allo Stato il potere di effettuare ricerche archeologiche e/o di tutte quelle attività finalizzate al ritrovamento di beni culturali. La ratio di tale scelta è da ravvisare nella volontà di garantire una tutela anticipata che si traduce tanto nella esigenza preventiva di evitare una illecita appropriazione di beni ritrovati, quanto nella necessità di far sì che le operazioni di ricerca si svolgano secondo precise metodologie scientifiche che consentano di conservare da un lato la integrità fisica del bene ritrovato e dall’altro la sua integrità ideale, non foss’altro perché il significato e il valore di un bene culturale ritrovato derivano sia dalla natura intrinseca dello stesso che dal contesto originario in cui è stato ritrovato (la posizione nel terreno, la collocazione uno specifico strato e più in generale il contesto originario del ritrovamento offrono spesso molte più informazioni del bene in sé).

Come si è avuto modo di evidenziare innanzi, la principale novità che emerge dalle nuove norme penali introdotte nel 2022 è costituita dal passaggio da un sistema di tutela penale indiretta a un sistema di tutela penale diretta del patrimonio storico-artistico. Il valore “ideale” e culturale del bene, infatti, non ha più una posizione ancillare rispetto alla materialità del bene e quindi non costituisce più il mero presupposto di limiti imposti al proprietario nell’esercizio dei suoi poteri di godimento e di disposizione. Questo regime “privatistico” dei beni è sostituito da un regime “pubblicistico protettivo”, in cui il valore culturale del bene è a tal punto intimamente collegato all’elemento materiale da incidere sulla natura stessa del bene che assume una valenza differente e autonoma (direttamente riconducibile al principio costituzionale di cui all’art. 9) suscettibile di una protezione diretta da parte del legislatore e quindi dello Stato. L’elemento pubblicistico (che possiamo identificare nella publica utilitas), costituito dalla funzione culturale, rappresenta pertanto il dato predominante che soppianta quello privatistico e giustifica le scelte operate dal legislatore.

Al di là delle critiche, più o meno fondate, che sono state mosse nei confronti delle norme introdotte dalla riforma [31], il principale pregio di quest’ultima è ravvisabile nel tentativo di razionalizzazione del sistema di tutela e in particolar modo nel riconoscimento della centralità del patrimonio culturale come bene da tutelare direttamente e autonomamente nel codice penale, soprattutto in ragione della sua valenza costituzionale.

Questa “riscoperta” centralità del patrimonio culturale consente, inoltre, di sciogliere uno dei principali dilemmi su quanto debba costituire oggetto della tutela in assenza di una specifica definizione legislativa del concetto di patrimonio culturale in ambito penale.

Una parte della dottrina [32] e della giurisprudenza [33] ritiene che la tutela (anche penale) debba riguardare il solo patrimonio culturale dichiarato, vale a dire tutti quei beni il cui valore culturale sia stato oggetto di una preventiva dichiarazione in tal senso rilasciata dalle competenti autorità. Dall’altra parte, invece, si pongono coloro i quali [34], aderendo a un indirizzo “sostanzialistico”, ritengono che la tutela debba riguardare il patrimonio culturale reale che ricomprende tutti i beni dotati di un intrinseco valore culturale a prescindere da un preventivo accertamento a opera delle autorità competenti [35].

La limitazione della tutela al solo ambito del patrimonio culturale dichiarato, se da un lato soddisfa una apparente esigenza di certezza (che in ambito penale si traduce in una preventiva tipizzazione dell’oggetto di tutela con ricadute sulla valutazione della condotta tenuta dall’autore del fatto inconsapevole o in errore sul carattere culturale del bene [36]), dall’altro lato rischia di lasciare senza tutela una larga parte di beni culturali, tra i quali in particolar modo quelli di proprietà privata sforniti della necessaria dichiarazione.

In ambito europeo, la posizione assunta dai vari ordinamenti non è univoca. A fronte di una sostanziale convivenza dei due sistemi di tutela, infatti, vi è una prevalenza del profilo di tutela del patrimonio culturale dichiarato in Paesi come la Francia in cui vi è una forte esperienza ed efficienza nella catalogazione [37], mentre in Paesi come la Grecia vi è una marcata prevalenza del sistema di tutela del patrimonio culturale reale.

La scelta per l’uno o per l’altro profilo, inoltre, è spesso determinata anche dalle caratteristiche delle fattispecie lesive. L’approccio cosiddetto sostanzialistico, infatti, prevale nelle ipotesi di esportazione illecita del bene o in quelle di danneggiamento, vale a dire in tutti quei casi in cui vi sia un elevato rischio di perdita definitiva del bene o del controllo sul bene. Nell’ambito delle disposizioni in tema di alienazione di beni culturali o di obblighi di conservazione concorrono entrambi i sistemi, con una prevalenza di quello dichiarato nelle fattispecie in cui vi sia una efficiente opera di catalogazione.

L’orientamento che si trae dalle norme della riforma penale è a favore della tutela del patrimonio culturale reale, secondo un solco già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità [38]. Specie con riferimento al reato di impossessamento illecito di beni culturali (art. 518-bis, primo comma, seconda parte c.p., art. 176 d.lg. n. 42/2004) i giudici hanno da sempre adottato un approccio sostanziale in cui non è richiesto, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l’accertamento dell’interesse culturale, né che gli stessi abbiano un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un precedente provvedimento amministrativo, ritenendo sufficiente che il valore culturale sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni, quali ad esempio la tipologia, la localizzazione, la rarità (la cui prova può desumersi tanto dalla testimonianza di organi della pubblica amministrazione competente quanto da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria) [39].

Si tratta di una scelta precisa, che trova il suo dato fondativo nell’art. 9 della Costituzione che indica quale compito fondamentale della Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Solo un sistema di tutela ampio, in cui siano ricompresi tutti i beni culturali, può consentire una piena attuazione di tale compito, in particolar modo in un sistema come quello italiano in cui la tutela dei beni culturali (che come detto costituiscono una categoria di beni giuridici autonoma in ragione della intrinseca e inscindibile connessione tra l’elemento culturale e quello materiale) non può essere considerata un mero precipitato della funzione sociale della proprietà, quanto piuttosto il preciso adempimento di un obbligo imposto dalla Costituzione.

La mancanza di una precisa definizione di patrimonio culturale ai fini penali oltre che di un espresso collegamento con tutte le disposizioni definitorie contenute nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (fatta eccezione per le ipotesi in cui vi sia una correlazione obbligata con queste ultime), se per un verso rischia di aumentare il livello di discrezionalità giurisdizionale (inconciliabile con i principi di precisione e tassatività del diritto penale), per altro verso costituisce l’escamotage formale che consente una maggiore flessibilità applicativa verso la tutela del patrimonio culturale reale.

Il ruolo centrale che viene attribuito all’art. 9 della Costituzione [40] consente di “riscoprire” un concetto antico che nella tradizione italiana è stato sempre identificato con il “bene comune” o con la “pubblica utilità”, in cui è forte e vivo il richiamo a valori collettivi, a responsabilità sociali e a un comune significato della cultura e della memoria quali elementi fondativi di una comunità.

Sebbene nel testo della Costituzione non sia presente in alcun punto l’espressione “bene comune”, le discussioni dell’Assemblea Costituente e una lettura sistematica e ragionata dello stesso testo confermano come il principio ordinatore della Costituzione sia proprio quello di “bene comune” in perfetta continuità con il bonum commune e la publica utilitas che hanno da sempre innervato l’intera storia civile e giuridica dell’Italia [41].

Il diritto alla tutela cui rimanda l’art. 9 Cost., lungi dal dover essere visto come un ambito riservato ai soli esperti del settore, costituisce il prisma costituzionale attraverso il quale vedere e interpretare i diritti oggi molto spesso messi in discussione. La centralità del tema della tutela del patrimonio culturale (in cui ricomprendere tanto i beni culturali quanto quelli paesaggistici) può, infatti, essere intesa solo qualora si comprenda la sua correlazione ed essenzialità alla democrazia, all’uguaglianza e all’esercizio di tutte le libertà civili.

Nell’ottica costituzionale, il concetto di bene comune, la cui titolarità spetta al popolo e ai cittadini, si declina in numerose e differenti fattispecie che ricomprendono l’interesse della collettività (art. 32), l’interesse generale (artt. 35-42), l’utilità sociale (art. 41), la funzione sociale (art. 42), l’utilità generale (art. 43), il pubblico interesse (art. 82).

Secondo la nostra Costituzione, il concetto di bene comune, inteso come valore, informa ogni aspetto della società. Questo è quanto si deduce dall’art. 2, secondo il quale la Repubblica richiede ai cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, additando due strategie convergenti all’art. 3, l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale.

È questo il contesto in cui deve essere letto e interpretato l’art. 9, che assegna un ruolo altissimo alla ricerca, alla tutela e alla cultura, vista come lo strumento funzionale alla libertà, alla democrazia e all’uguaglianza nella misura in cui consente di comprendere e riconoscere quali siano i diritti costituzionali della persona e di una comunità.

La tutela del paesaggio e dell’ambiente non deve essere considerata fine a sé stessa, ma intimamente e intrinsecamente collegata alla libertà di pensiero, di parola e di stampa (art. 21), alla libertà dell’arte, dell’insegnamento, all’autonomia dell’Università (art. 33), alla centralità della scuola pubblica statale e al diritto allo studio (art. 34). Solo la conoscenza, infatti, consente di riconoscere quali siano i nostri diritti e di difenderli dalle continue e pericolose erosioni cui sono quotidianamente esposti [42].

La Costituzione deve essere intesa come la “nostra” carta dei valori e dei diritti che tutelano la collettività e ciascuno di noi in quanto membro, cittadino della comunità; un’arma, senza dubbio la migliore a disposizione, per continuare a esercitare una nuova e più orgogliosa resistenza. In un memorabile discorso agli studenti degli anni Cinquanta, Piero Calamandrei scrisse: “La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Non è un gretto compromesso tra partiti che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dell’immediato domani, è un progetto politico, diventato legge che è obbligo realizzare”. E, continua Calamandrei: “Se la Costituzione si volesse considerare come una sinfonia le si adatterebbe una denominazione di Schubert, l’incompiuta. Soltanto in parte è una realtà, in parte è un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Realizzare tutto questo deve essere il nostro programma comune”. Nella complessa situazione attuale tutto ciò riguarda l’ambiente, il paesaggio e tutto quanto costituisce una manifestazione della cultura.

 

Note

[*] Fabio Fortinguerra, Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale, Sede Secondaria di Lecce, prov.le Lecce-Monteroni (LE), c/o Campus Universitario Ecotekne, 73100 Lecce, fabio.fortinguerra@cnr.it.

[1] Cass., sez. II, 27 settembre 2023, n. 41131, con commento di D. Colombo, La “culturalità del bene nei reati contro il patrimonio culturale. Anche dopo la riforma la Cassazione accoglie la tesi “sostanzialistica, in Sistema penale, 2023, 1, pagg. 109-117.

[2] Per un esame delle norme della riforma, si rimanda a D. Colombo, Osservazioni in tema di furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.), in Aedon, 2023, 1, pagg. 68-80; A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Torino, Giappichelli, 2023; G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel Codice Penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Dir. penal. contemp, 2022, 1, pagg. 1-26; G. De Marzo, La nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, in Il Foro it., 2022, 4, col. 125; N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, passim.

[3] La legislazione sulla tutela del patrimonio culturale nell’Italia preunitaria è al centro delle osservazioni di S. Settis, Costituzione, cultura, tutela: i beni culturali e i paesaggi italiani, in Notizie dall’auditorium Montani Antaldi, 2013, 3, pagg. 1-8.

[4] La tesi della natura costitutiva del vincolo era sostenuta autorevolmente da A.M. Sandulli, Natura e funzione della notifica e della pubblicità delle cose di interesse storico e artistico qualificato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, pag. 1024 ss., il quale affermava che la dichiarazione di interesse pubblico, aggiungendo al bene un attributo di carattere puramente giuridico, non poteva non avere forza costitutiva. Secondo M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, Padova, 1957, pag. 98, la cosa non è altro che “un’entità extragiuridica che si qualifica giuridicamente, in quanto si presenta un interesse che può essere tutelato dal diritto”.

[5] Gli esponenti della teoria della dichiaratività sono storicamente individuabili in G. Palma, I beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971, pag. 386; M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, pag. 132; M. Grisolia, La tutela delle cose dell’arte, Milano, 1952, pag. 222. Sempre sulla stessa posizione, sebbene più risalenti nel tempo, P. Calamandrei, Immobilizzazione per destinazione artistica, in Foro it. 1933, I, pag. 1722; L. Biamonti, Natura del diritto dei privati sulle cose di pregio artistico e storico, in Foro it., 1913, I, pag. 1014. M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 9, afferma che la qualità di bene culturale non viene attribuita dall’ordinamento giuridico, ma è propria di quella “dimensione metagiuridica qualificata” che fa sì che la nozione di bene culturale sia “liminale”. Secondo P.G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. pubbl., Torino, 1987, vol. II, pag. 220 ss., il procedimento posto in essere dal ministero ha carattere essenzialmente ricognitivo in quanto l’individuazione del bene da parte dell’amministrazione dipende dalla presenza di caratteri originariamente presenti nel bene stesso.

[6] In relazione alla questione concernente la natura giuridica del decreto ministeriale di imposizione del vincolo storico-artistico, va rilevato come la dottrina sembra oramai propensa ad accogliere la tesi della natura dichiarativa, cfr. sul punto F. Lemme, Compendio di diritto dei beni culturali, Padova, 2018, pag. 29; G. Sciullo, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2000, pag. 44; G. Garzia, Imposizione del vincolo storico-artistico e comunicazione di avvio del procedimento agli interessati (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 16 aprile 1998, n. 515), in Aedon, 1999, 1, pagg. 1-2; S. Benini, La discrezionalità dei vincoli culturali e ambientali, in Foro it., 1998, III, pag. 326 ss.; I beni culturali - tra interessi pubblici e privati, (a cura di) G. Cofrancesco Roma, 1996; G. Garzia, Il procedimento di individuazione dei beni privati di interesse storico e artistico, in Riv. giur.urb., 1994, 2, pag. 267 ss. Si è in ogni caso precisato che l’attività svolta dal ministero non si esaurisce in un una pura e semplice attività di certazione o di acclaramento di un fatto, in tal senso cfr. T. Alibrandi, P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1985, pag. 307.

[7] Oltre alla citata sentenza Cass. n. 41131/2023, si ricordano Cass., sez. III, 14 novembre 2008, n. 42516, in Cass. pen., 2009, pag. 305; Cass., sez. III, 17 ottobre 2017, n. 10468, in Dir. pen. contemp., 2018, 5, pag. 11 ss.

[8] Si veda, in particolare, G. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale, cit., pagg. 20-21.

[9] Si veda in tal senso F. Lemme, Patrimonio reale e dichiarato, in Il giornale dell’arte, n. 295, Febbraio, 2010, pag. 32.

[10] La dottrina ha lungamente analizzato la inadeguatezza della tutela penale in tema di reati contro i beni culturali, cfr., a tal riguardo, C. Perini, Itinerari di riforma per la tutela penale del patrimonio culturale, in Legislazione penale, 2018, pagg. 17-21; A. Massaro, Diritto penale e beni culturali: aporie e prospettive, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, Roma, 2017, pag. 186 ss.; V. Manes, La circolazione illecita dei beni artistici e archeologici. Risposte penali ed extrapenali a confronto, in Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, AA.VV., Milano, 2015, pag. 89; V. Manes, La tutela penale, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 290 ss.; S. Manacorda, La circolazione illecita dei beni culturali nella prospettiva penalistica, in AA.VV., Circolazione dei beni culturali, cit., Milano, 2015, pag. 21 ss.; A. Manna, Introduzione al settore penalistico del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, (a cura di) A. Manna, Milano, 2005, pagg. 1010-17.

[11] C.E. Paliero, “Minima non curat praetor”. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, pag. 92; M. Romano, Commentario sistematico del Codice Penale, I, artt. 1-84, Milano, 2004, pagg. 2-3. Secondo S. Moccia, Riflessioni sulla tutela penale dei beni culturali, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1993, pag. 1305, l’inserimento nel Codice penale dei reati contro i beni culturali potrebbe avere anche una significativa valenza in termini di integrazione sociale, in quanto sarebbe utile a correggere l’ancora diffusa ed erronea idea che molti di tali fatti, sebbene gravissimi sotto il profilo della dannosità sociale, costituiscano dei “reati da gentiluomini”.

[12] In particolare, il richiamo è alle fattispecie di cui agli artt. 170, 173, 174, 176, 177, 178 e 179 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42.

[13] Le fattispecie di reato introdotte nel codice penale ricomprendono gli artt. 518-bis “Furto di beni culturali”, 518-ter “Appropriazione indebita di beni culturali”, 518-quater “Ricettazione di beni culturali”, 518-quinquies “Impiego di beni culturali provenienti da delitto”, 518-sexies “Riciclaggio di beni culturali”, 518-septies “Autoriciclaggio di beni culturali”, 518-octies “Falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali”, 518-novies “Violazioni in materia di alienazione di beni culturali”, 518-decies “Importazione illecita di beni culturali”, 518-undecies “Uscita o esportazione illecite di beni culturali”, 518-duodecies “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”, 518-terdecies “Devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”, 518-quaterdecies “Contraffazione di opere d’arte”, 518-quinquiesdecies “Casi di non punibilità”, 518-sexiesdecies “Circostanze aggravanti”, 518-septiesdecies “Circostanze attenuanti”, 518-duodevicies “Confisca”, 518-undevicies “Fatto commesso all’estero”, 707-bis “Possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli”.

[14] In tal senso, D. Manacorda, La circolazione illecita dei beni culturali, cit., pag. 18.

[15] L. Ponzoni, F. Dimaggio, I reati contro il patrimonio culturale e l’aggiornamento dei Modelli 231, in Giurisprudenza penale, 4, 2023, pagg. 1-26; V. Aragona, La responsabilità delle persone giuridiche nella tutela penale dei beni culturali: dalle influenze internazionali alle prospettive de iure condendo, in Il diritto dei beni culturali. Atti del convegno Ogipac in memoria di P.G. Ferri, Roma, 2021, pagg. 291-307.

[16] L. Ponzoni, F. Dimaggio, I reati contro il patrimonio culturale e l’aggiornamento dei Modelli 231, in Giur. pen., 2023, 4, pagg. 1-26; V. Aragona, La responsabilità delle persone giuridiche nella tutela penale dei beni culturali: dalle influenze internazionali alle prospettive de iure condendo, in Il diritto dei beni culturali. Atti del convegno Ogipac in memoria di P.G. Ferri, Roma, 2021, pagg. 291-307.

[17] P. Troncone, La tutela penale del patrimonio culturale italiano e il deterioramento strutturale del reato dell’art. 733 c.p., in Diritto penale contemporaneo, 2016; R. Zannotti, L’art. 733 c.p. e la tutela del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, in Cassazione penale, 1997, pagg. 1343-1347.

[18] In tal senso anche la citata sentenza Cass., sez. II, 27 settembre 2023, n. 41131, in cui si fa espresso riferimento al contenuto della Convenzione di Nicosia.

[19] La Convenzione di Nicosia si articola lungo tre direzioni d’azione: la prima, relativa alla rimodulazione del diritto penale sostanziale (Cap. II); la seconda, più propriamente procedurale che investe le modalità procedimentali finalizzate a rafforzare l’attività di prevenzione e di reazione del sistema di giustizia penale (Cap. III); la terza, contenente misure amministrative, nazionali ed internazionali per la lotta ai reati relativi ai beni culturali (Cap. IV).

[20] Sulla mancanza di una definizione esplicita di patrimonio culturale, cfr., in senso critico, C. Iagnemma, I nuovi reati inerenti ai beni culturali. Sul persistere miope di una politica criminale ricondotta alla deterrenza punitiva, in Arch. Pen., 1/2022, pag. 7, la quale ritiene che tale mancanza rischi “trascurare la funzione promozionale della personalità umana che si intende attribuire agli oggetti d’arte”. Sui rapporti con il principio di determinatezza, F.C. Palazzo, La nozione di cosa d’arte in rapporto al principio di determinatezza della fattispecie penale, in La tutela penale del patrimonio artistico, Milano, 1977, pag. 236 ss., nonché A. Massaro, Diritto penale e beni culturali, cit., pag. 185; A. Massaro, Illecita esportazione di cose di interesse artistico: la nozione sostanziale di bene culturale e le modifiche introdotte dalla legge n. 124 del 2017 (nota a Cass., Sez. 3, n. 10468 del 17/10/2017), in Diritto penale contemporaneo, 5, 2018, pag. 119 e 122, la quale sottolinea le tensioni che il principio costituzionale di determinatezza è destinato a sopportare “in presenza di una nozione di bene culturale affidata a un non meglio precisato ‘oggettivo interesse culturale’ della cosa mobile”. Secondo A. Visconti, La repressione del traffico illecito di beni culturali nell’ordinamento italiano. Rapporti con le fonti internazionali, problematiche applicative e prospettive di riforma, in Legislazione penale, 2021, pag. 64, la riforma non risolve e anzi acuisce ancor di più i problemi di determinatezza, conoscibilità e rimproverabilità da sempre presenti nel diritto penale dei beni culturali. Su quelle che vengono definite “scorciatoie presuntive” nei processi penali che hanno a oggetto beni culturali, si rimanda a L. Luparia, La tutela penale dei beni culturali nella dimensione processuale: avvertenze e proposte nello scenario di riforma, in Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato, internazionale, Milano, 2015, pag. 243.

[21] Sulla nozione di patrimonio culturale in ambito internazionale si vedano A. Visconti, La repressione del traffico illecito, cit., pag. 63; L. D’Agostino, Dalla “vittoria di Nicosia” alla “navetta” legislativa: i nuovi orizzonti normativi nel contrasto ai traffici illeciti di beni culturali, in Diritto penale contemporaneo, 1, 2018, pag. 89; M. Trapani, Riflessioni a margine del sistema sanzionatorio previsto dal c.d. codice dei beni culturali, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro Roma, 2017, pag. 245. Si veda anche L. Casini, La globalizzazione giuridica dei beni culturali, in Aedon, 2012, 3, passim.

[22] In tal senso, S. Settis, Costituzione, cultura, tutela: i beni culturali e i paesaggi italiani, cit., pag. 3, in cui chiarisce come la storia della tutela in Italia trovi la sua ratio nelle caratteristiche del paesaggio italiano afferma che “La piena integrazione del manufatto umano entro il paesaggio, anzi la natura mirabilmente artefatta del paesaggio italiano in quanto forgiato dalla mano dell’uomo; la produzione di uno spazio sociale che rispecchia secolari processi di civiltà agraria, artistica, letteraria, e in cui l’edificato e il paesaggio operano congiuntamente a fini civili; infine, il trapasso armonioso dalla campagna alla città che pittori e visitatori d’ogni nazione avevano per secoli ammirato e registrato. Il legante fra campagna e città, fra natura e cultura, fra il paesaggio e le “antichità e belle arti” sono proprio i “fini civili”, la publica utilitas, insomma un tessuto etico e civile sedimentato nei secoli, ed egualmente connaturato alle piazze di città, alle valli e colline coperte di vigneti e d’ulivi, alle strade bordate di cipressi”.

[23] Sulla necessità di superare il tradizionale concetto che individua le ricchezze del patrimonio culturale esclusivamente in musei, aree archeologiche e grandi complessi monumentali, cfr. M. Guaitoli, Attività di ricerca per la conoscenza del patrimonio culturale del territorio di Ugento, in AA.VV., Contributo alla conoscenza dei Beni Culturali del territorio di Ugento, Ugento, 2012, pagg. 14-15, secondo il quale “le grandi ricchezze e gli attrattori culturali ed economici (di conseguenza le priorità della ricerca), vanno cercati nel sistema paesaggio, inteso come complesso che integra l’ambiente naturale con le azioni di antropizzazione succedutesi nel tempo, cioè come contenitore di tutte le testimonianze e le tracce dell’azione umana storicizzata, più o meno consistenti ed evidenti: complessi archeologici visibili ed interrati, centri urbani storici, monumenti, beni mobili ed immateriali”. Il paesaggio è un concetto molto complesso perché ha a che fare con l’idea di comunità, con l’idea di governo, con straordinarie competenze molto diverse l’una dall’altra, non è possibile immaginare una persona che le contenga tutte, c’è un aspetto storico, archeologico, c’è un aspetto molto importante di economia, c’è un aspetto altrettanto importante di diritto, di diritto costituzionale, c’è un problema sociologico, l’atomizzazione delle famiglie che spiega in parte l’esplosione di nuove costruzioni (in parte, ma non del tutto), c’è un problema antropologico. Il concetto di paesaggio non può limitarsi soltanto a una definizione di natura estetica (il paesaggio che si guarda, il paesaggio che ci piace, il paesaggio bello), ma deve ricomprendere anche una definizione “etica”, paesaggio da vivere, il paesaggio che regola i nostri comportamenti e sulla base del quale i nostri comportamenti dovrebbero essere regolati.

[24] In tal senso, A. Predieri, Paesaggio, in Enciclopedia del diritto, XXXI, Milano, 1981, pag. 507.

[25] P.B. Campbell, The illicit antiquities trade as a transnational criminal network: characterizing and anticipating trafficking of cultural heritage, in International Journal of Cultural Property, 2013, pag. 114 ss., il quale evidenzia il carattere “limitato” e “non rinnovabile” dei beni culturali.

[26] Sul valore delle misure premiali, cfr. G. Bettiol, Dal diritto penale al diritto premiale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1960, pagg. 701-714; N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1969, pagg. 1313-1329; F. Bricola, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in La questione criminale, 1981, pp. 445-460; E. Resta, Il diritto premiale penale. “Nuove” strategie di controllo sociale, in Dei delitti e delle pene, 1983, pagg. 41-69.

[27] A. Porporato, Misure ripristinatorie. Governo del territorio, Ambiente, Beni Culturali e Paesaggio, Torino, 2018.

[28] Cfr. L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3, passim.

[29] F. Resta, Anticipazione e limiti della tutela penale in materia di “danneggiamento” di beni culturali, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, (a cura di) A. Manna, Milano, 2005, pag. 54 ss.; G.P. Demuro, Beni culturali e tecniche di tutela penale, 2002, Milano, 2002, pag. 87 ss.; G. Morgante, Nuove tecniche repressive nei confronti delle condotte di aggressione al patrimonio culturale, in Legislazione penale, 1998, pagg. 627 ss.; C.E. Paliero, “Minima non curat praetor”, cit., pag. 134.

[30] L. Conti, Considerazioni brevi sulla tutela dei beni culturali e suoi possibili riflessi penalistici, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, II, 2001, pag. 641 ss.; S. Moccia, Riflessioni sulla tutela penale dei beni culturali, cit., pagg. 1294-1295; G. Pioletti, Patrimonio artistico e storico nazionale (reati contro il), in Enciclopedia del Diritto, XXXII, Milano, 1982, pag. 398; F. Mantovani, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, pag. 69.

[31] Cfr. G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio, cit., pag. 22.

[32] Cfr., ex multis, A. Visconti, Problemi e prospettive, cit., passim; A. Visconti, La repressione del traffico illecito, cit., pag. 63, rispetto alla commentata riforma, ritiene che sarebbe stato preferibile che il legislatore offrisse una chiara e univoca definizione di bene culturale “agli effetti penali”: definizione che, pur dovendo giocoforza ispirarsi a quella, formale, di settore, ben avrebbe potuto non essere circoscritta ai soli beni culturali dichiarati ma fosse esplicitamente estesa a tutti i beni culturali “reali” ma con una chiara presa di posizione, tra le opzioni lasciate aperte dal Codice dei beni culturali, in favore di un’individuazione formale e sostanziale e con una altrettanto esplicita esclusione dell’oggetto di tutela penale dell’arte contemporanea eccetto che in relazione alle fattispecie di contraffazione. Cfr. anche L. Troyer, M. Tettamanti, Le nuove norme in materia di reati contro il patrimonio culturale ed il loro impatto sulla responsabilità degli enti ex d.lg. 231/2001, in Riv. dott. commercialisti, 2/2022, pag. 295. Secondo G. Morgante, Art. 174, in Leggi penali complementari, (a cura di) T. Padovani, Milano, 2007, pag. 73 ss., secondo la quale “in mancanza di criteri obiettivi sulla base dei quali affermare la natura di bene culturale o paesaggistico di un determinato oggetto ovvero di un determinato luogo, si rischia innanzitutto di violare il fondamentale principio di tassatività-determinatezza della fattispecie penale dal momento che la sussistenza di un interesse culturale o paesaggistico del bene offeso verrebbe fatalmente a dipendere dall’arbitrium iudicis”. Sulla complessità e delicatezza dell’individuazione del concetto di bene culturale e sui rischi della tesi sostanzialistica, cfr. R. Latagliata, Relazione di sintesi, in La tutela penale del patrimonio artistico storico ed archeologico, Perugia, 1985, pag. 180.

[33] Cass. 19 aprile 2006, n. 13701, in lexambiente.it; Cass. 10 luglio 2001, n. 27677, in Cass. pen., 2002, pag. 3546; Cass. 27 maggio 2004, n. 28929, in Cass. pen., 2005, 11, pag. 3451, con nota critica di P. Cipolla, P.G. Ferri, Il recente codice dei beni culturali e la continuità normativa in tema di accertamento della culturalità del bene. Nello stesso senso depongono anche, fra le pronunzie di merito (inedite), Trib. Roma, 14 ottobre 2005; Trib. Roma, 23 settembre 2005; App. Roma, 9 febbraio 2004; Trib. Roma, 28 novembre 2001.

[34] In giurisprudenza la tesi “sostanzialistica” è sostenuta, ex multis, in Cass. 16 luglio 2020, n. 24988; Cass. 15 maggio 2014, n. 24344; Cass. 18 luglio 2014, n. 36111; Cass. 7 luglio 2011, n. 41070; Cass. 28 giugno 2007, n. 35226. In tema di impossessamento illecito di beni culturali (fattispecie che non richiederebbe, almeno quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, un formale accertamento del cosiddetto interesse culturale, essendo sufficiente che la culturalità sia desumibile da caratteristiche oggettive del bene) la nozione sostanziale di bene culturale è affermata in Cass. 3 novembre 2016, n. 17223, in D&G, 2017; Cass., 18 luglio 2014, n. 36111, in Cass. pen., 4/2015, pag. 1597; Cass. 7 luglio 2011, n. 41070, in Cass. pen., 12/2012, pag. 4244; Cass. 24 ottobre 2006, n. 39109, in Cass. pen., 12/2007, pag. 4681; Cass. 15 febbraio 2005, n. 21400; Cass. 18 ottobre 2012, n. 45841. In dottrina, si rimanda, per tutti, a G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio, cit., pagg. 20-21; G.P. Demuro, Una proposta di riforma dei reati contro i beni culturali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, pag. 1361 ss.; si veda anche C. Perini, Itinerari di riforma per la tutela penale del patrimonio culturale, in Legislazione penale, 19/2/2018, pag. 16. Sull’alternativa patrimonio reale-patrimonio dichiarato, si era già espresso nel 1976 F. Mantovani, Lineamenti della tutela penale, cit., pag. 66, il quale riteneva che si potesse aderire, per esigenze di certezza giuridica, a una soluzione che, su una previa catalogazione generale del patrimonio artistico nazionale, consentisse di far coincidere la tutela penale del patrimonio artistico dichiarato con quella del patrimonio reale.

[35] Sicché il giudice (e prima ancora il pubblico ministero in fase di indagine) deve spingersi a una verifica dell’effettiva presenza nell’oggetto investigato - magari avvalendosi di perito all’uopo nominato - di un interesse culturale specifico e, in caso di beni di proprietà privata, anche qualificato. Sul ruolo degli “esperti qualificati”, in molti casi determinante, chiamati ad accertare la qualifica di “cosa d’arte”, cfr. F.C. Palazzo, La nozione di cosa d’arte, cit., pag. 239.

[36] Sulla distinzione tra errore su norme extrapenali integratrici, come tale inquadrabile nella disciplina di cui all’art. 5 c.p., ed errore su norme extrapenali non integratrici, da assoggettarsi alla disciplina di cui all’art. 47, comma 3, c.p., cfr. F.C. Palazzo, La nozione di cosa d’arte, cit., pag. 236 ss.; D. Pulitanò, L’errore sulla legge extrapenale, Milano, Giuffrè, 1974, pag. 113 ss.

[37] In Francia, la catalogazione e le ricerche soprattutto nell’ambito dell’archeologia preventiva, sono sviluppate in seno all’INRAP “Institut national des recherches archéologiques préventives”.

[38] U. Santoro, La riforma dei reati contro il patrimonio culturale: commento alla L. n. 22 del 2022, in Dir. pen. proc., 2022, 7, pag. 876, il quale evidenzia come tale scelta possa entrare in conflitto con i principi di legalità e colpevolezza.

[39] In tal senso, oltre alla citata sentenza n. 41131/2023, cfr. Cass. 16 luglio 2020, n. 24988; Cass. 15 maggio 2014, n. 24344; Cass. 18 luglio 2014, n. 36111; Cass. 7 luglio 2011, n. 41070; Cass. 28 giugno 2007, n. 35226). Con riferimento al reato di illecita esportazione di cose di interesse artistico, cfr. A. Massaro, Illecita esportazione di cose di interesse artistico, cit., pagg. 118-124.

[40] F. Merusi, Art. 9, in G. Branca, Commentario della Costituzione. Principi fondamentali (art. 1-12), Bologna-Roma, 1975.

[41] La storia italiana della tutela dimostra sia la precocità della stessa rispetto ad altre esperienze che l’intima fusione tra paesaggio e patrimonio storico-artistico. Lo stretto legame tra campagna e città, fra natura e cultura hanno da sempre costituito i fini civili, vale a dire la publica utilitas, già presenti prima ancora che l’Italia esistesse come autonoma entità politica. Lo studio delle leggi degli Stati preunitari dimostra, infatti, come fossero proprio la cultura e i beni che di essa rappresentavano la principale espressione a costituire la trama comune sulla quale si è costituita l’identità del popolo italiano.

[42] Si vedano le considerazioni di S. Settis, La tutela del patrimonio culturale e paesaggistico e l’art. 9 Cost., Napoli, 2008.

 

 

 



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