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Dimensione materiale e immateriale del patrimonio culturale

Patrimonio culturale immateriale e funzioni amministrative [*]

di Gloria Mancini Palamoni [**]

Sommario: 1. Introduzione: le nozioni di patrimonio e di bene culturale tra materialità estrinseca e immaterialità intrinseca. - 2. La protezione indiretta dell’immaterialità culturale da parte del codice dei beni culturali e del paesaggio: le ‘espressioni di identità culturale collettiva’. - 3. La prospettiva nazionale ‘extra-codice’ e il livello sovranazionale: le liste dell’Unesco. - 4. (segue) la lingua italiana come bene culturale immateriale. - 5. La tutela in via immediata e diretta dell’immaterialità della manifestazione culturale: il livello regionale e locale. - 6. Conclusioni: due prospettive.

Intangible cultural heritage and administrative functions
The administrative functions of intangible cultural heritage are exercised at several levels. Besides the regulations of the code, which focus on cultural heritage in its tangibility, there are 'extra-code' instruments deriving from international regulations. This approach, also caused by the difficulty of legal framing of the notion of intangible cultural heritage, has for a long time encouraged greater attention to tangible cultural assets. In recent times, however, also as a consequence of emergency events, the intangible perspective takes on an more relevant role and leads to reflection on the potential of the instruments available.

Keywords: intangible cultural heritage; administrative functions; italian language; dialects; local traditions; participation.

1. Introduzione: le nozioni di patrimonio e di bene culturale tra materialità estrinseca e immaterialità intrinseca

La normativa italiana in materia di patrimonio culturale [1] trova il suo fulcro nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (d’ora in avanti anche solo “codice”). In attuazione dell’art. 9 Cost. ed in coerenza con le attribuzioni di cui all’art. 117 Cost., la Repubblica lo tutela e lo valorizza secondo le disposizioni ivi contenute [2].

Il codice si compone essenzialmente di due parti, una dedicata ai beni culturali e una relativa al paesaggio, precedute dalle disposizioni generali le quali includono i principi e le definizioni. Una di queste (art. 2, comma 1) racchiude la nozione di patrimonio culturale inteso come l’insieme dei beni culturali e paesaggistici [3].

Il binomio ‘beni culturali-beni paesaggistici’ risente della distinta disciplina precedentemente costituita dalla legge sulle “cose di interesse artistico e storico” e dalla legge sulle “bellezze paesistiche”.

Nel 1939, l’allora ministro dell’Educazione Nazionale emana, il 1° giugno, la prima legge organica tesa a disciplinare la tutela dei beni culturali [4], alla quale, il 29 giugno, segue la legge per la tutela del paesaggio [5]. L’impianto di tali disposizioni si fonda su una concezione puramente estetica (il ‘bello’ [6]) e mira principalmente alla conservazione delle cose di interesse artistico e storico.

Con riferimento alle funzioni amministrative [7], a lungo, l’attenzione verso il patrimonio culturale gravita soprattutto intorno alla funzione di tutela, espressa in particolar modo nel divieto di esportare determinati beni, così proseguendo sulla strada tempo prima tracciata dall’Editto del Cardinale Pacca [8]. La funzione di tutela del patrimonio culturale, infatti, si inserisce tra i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, trovando la sua consacrazione all’art. 9 [9], commi 1 e 2, della Costituzione del 1948, secondo i quali “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Nel corso del tempo si susseguono molteplici testi normativi [10], anche sovranazionali (in particolare a partire dal 1954 [11]), a testimonianza di una crescente attenzione del legislatore, non solo italiano, per questo tema, la cui disciplina, sino agli inizi degli anni Duemila, è composta da numerose disposizioni sparse.

Intorno agli anni Settanta del Novecento, data l’esigenza, sorta con l’affermarsi dello stato sociale, di aumentare la conoscenza e la fruizione pubblica dei beni culturali, nonché sulla spinta degli atti pubblicati all’esito della Commissione Franceschini [12], il legislatore inizia ad occuparsi, oltre che di tutela, anche di valorizzazione [13] e di gestione.

Le due funzioni mostrano una dicotomia, da sempre alla ricerca di equilibrio, tra fisicità ed immaterialità, posto che, mentre la tutela tende alla conservazione della res, la valorizzazione mira ad incrementare la diffusione e la promozione del valore culturale immateriale in essa insito [14].

Nel 2004, l’emanazione del testo unico n. 42 recante il codice dei beni culturali e del paesaggio ridisegna la materia del patrimonio culturale, anche semplificandola e riordinandola in attuazione dei principi costituzionali.

Il cardine attorno al quale ruotano tutte le disposizioni del codice è il bene considerato nella sua tangibilità. Il dettato normativo pone, infatti, al centro delle funzioni di tutela, di valorizzazione e di gestione del patrimonio culturale la materialità della cosa che ne costituisce l’oggetto [15], specificando come la prima attività di protezione di un bene culturale consista nella sua identificazione e, per ciò, nel suo riconoscimento, come tale [16]. È proprio attraverso tale riconoscimento da parte dell’ordinamento che i beni culturali assumono rilevanza giuridica.

Quello della materialità è, d’altronde, uno dei tratti caratterizzanti la nozione di bene culturale ai fini del codice [17]. Come sancisce il secondo comma dell’art. 2, si tratta proprio delle res quae tangi possunt che, “ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico” e delle “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.

Nonostante la scelta del legislatore sia saldamente ancorata alle cose (mobili e immobili) tangibili, non ritenendosi possibile estendere tutti gli strumenti di tutela dei beni culturali materiali previsti nel codice a quelli che non sono dotati di un tale substrato (si pensi, ad es., ai c.d. interventi vietati), è indubbio che la definizione sopra riportata metta in luce come la culturalità di un bene abbia un insito valore immateriale. Del resto, “il bene culturale non è bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da questa distinta, nel senso che esse sono supporto fisico, ma non bene giuridico” [18]. Così, tenendo distinta l’immaterialità del bene culturale dalla materialità propria della cosa che funge da supporto del bene stesso non si può che affermare che il “bene culturale è bene immateriale, perché immateriale è il valore culturale che opera da elemento di qualificazione della categoria” [19]. È, dunque, “l’immanenza culturale intrinseca alla cosa che la rende “bene culturale”, il prodotto, cioè, di un valore immateriale che sovrasta e domina la res, ma non la cancella” [20].

Sebbene la prospettiva tradizionale del codice sia materiale (solo i beni materiali riconosciuti culturali sono sottoposti, infatti, alle norme sulla tutela e sulla valorizzazione contenute nel d.lg. n. 42 del 2004 [21]), l’ordinamento italiano, anche grazie alle spinte sovranazionali, non esclude una protezione nei confronti del patrimonio culturale immateriale. Gli interventi normativi che lo riguardano, tuttavia, sono meno organici e non vi è una codificazione ad esso specificamente dedicata [22].

Un esempio di come materialità e immaterialità siano indissolubilmente connesse è rappresentato dalla vicenda che nel 2010 ha coinvolto la foto della statua del David di Michelangelo armato [23]. Al di là del contenzioso [24], l’episodio ha sollevato un dibattito, anche tra l’opinione pubblica, per l’uso improprio della riproduzione del bene in ragione del valore che esso rappresenta (cioè, dell’elemento intangibile), nonostante, trattandosi di un fotomontaggio, l’operazione non abbia comportato nessun intervento sul substrato materiale dello stesso.

Sul piano del diritto positivo, la saldatura normativa tra materialità e immaterialità all’interno del codice è data, seppure in modo minimale [25], dall’art. 7-bis, rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”. Con questo richiamo indiretto, introdotto dall’art. 1, comma 2, lett. c), del d.lg. 26 marzo 2008, n. 62, il legislatore italiano ancora le forme di protezione e di valorizzazione ivi indicate alla materialità attraverso la quale il bene culturale immateriale si manifesta. In tal caso, l’immaterialità che connota il bene culturale non è legata solo alla res, ma al valore culturale in essa intrinseco [26].

Altro riferimento del codice, che, però, non riconosce il dato immateriale come concetto giuridico autonomo, al valore culturale intangibile riposa all’art. 52, inserito nella Sezione III del Capo IV, dedicata alle “altre forme di protezione”. La traccia, in particolare, è ai commi 1-bis e 1-ter. Questi, rispettivamente, evidenziano il valore culturale delle attività di artigianato tradizionale e di altre attività commerciali tipiche riconosciute espressione dell’identità culturale collettiva (comma 1-bis) e il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale (e delle aree ad essi contermini) interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti (comma 1-ter) [27]. Anche in tal caso, queste altre forme di protezione, pur dipendenti dal valore culturale e, dunque, dall’immaterialità, incidono sul bene materiale.

Nonostante i suddetti riferimenti, l’idea posta dal codice alla base delle funzioni amministrative di tutela, di valorizzazione e di gestione rimane la concezione materiale (la c.d. ‘coseità’) del bene culturale [28] - i beni culturali immateriali sono del resto anche detti ‘extra codice’ [29] -, col che per altre vie [30] il patrimonio culturale immateriale trova tutela e valorizzazione.

2. La protezione indiretta dell’immaterialità culturale da parte del codice dei beni culturali e del paesaggio: le ‘espressioni di identità culturale collettiva’.

La formula ‘espressioni di identità culturale collettiva’ di cui all’art. 7-bis del codice sopra richiamato rimanda alla locuzione “patrimonio culturale immateriale”, a sua volta ricondotta all’art. 1 della Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale [31].

L’art. 2, comma 1, di tale Convenzione lo identifica, infatti, con “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. Il documento precisa, proseguendo, che tale patrimonio, “trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.

La Convenzione indica, altresì, un elenco di settori nell’ambito dei quali il patrimonio culturale immateriale si manifesta anche attraverso l’esercizio di funzioni amministrative relativamente a: “a) le tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; e) l’artigianato tradizionale” [32].

La rilevanza di queste previsioni è dimostrata dal fatto che, prima della loro approvazione, l’ordinamento italiano trascurava il patrimonio culturale immateriale fungendo così da ‘spartiacque’ rispetto ad una fase che ha visto gradualmente crescere l’attenzione nei confronti dell’immaterialità. Gli unici riferimenti normativi in qualche modo attinenti, almeno all’epoca, alla tematica (seppure incapaci di comporre una disciplina organica a tutela del patrimonio culturale immateriale tanto che non sono state emanate disposizioni volte alla sua salvaguardia) erano rappresentati dalla legge sul diritto d’autore [33], dall’art. 148, c. 1, lett. a), d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 [34] e dalla disciplina delle sponsorizzazioni [35].

A questa definizione di “espressioni culturali” si aggiunge quella contenuta nella Convenzione Unesco per la protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali del 20 ottobre 2005, ratificata dall’Italia il 2 febbraio del 2007; quest’ultima le intende come le espressioni “a contenuto culturale che derivano dalla creatività degli individui, dei gruppi e delle società”(art. 4, n. 3). Lo scopo è, infatti, rafforzare la cultura come veicolo per lo sviluppo sociale, economico e umano, promuovendo il patrimonio culturale in tutte le sue forme.

La nozione di patrimonio culturale immateriale è altresì intimamente connessa ai contenuti della Convenzione di Faro del 27 ottobre 2005 [36] che definisce, con un’accezione più ampia, inclusiva anche del valore culturale intangibile, l’“eredità culturale” come “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”, comprensiva di “tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi” [37]. Le finalità perseguite sono sostenere e trasmettere i valori e gli aspetti specifici dell’eredità culturale nel quadro di un’azione pubblica [38].

È proprio a seguito della sottoscrizione delle convenzioni richiamate [39], ma quasi in una prospettiva di ‘negazione’ del senso più profondo di tali atti, che si fa strada l’art. 7-bis sopra menzionato, disponendo che le “espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni Unesco [...] sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’art. 10”.

La disposizione suddetta, come recentemente ricordato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, esprime l’esigenza di salvaguardare un quid pluris rispetto alla res rappresentato dalla “continuità della condivisione, della riproduzione e della trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata” [40].

L’art. 7-bis non introduce, insomma, una forma di tutela ontologicamente distinta o alternativa e autonoma rispetto alle misure di protezione e conservazione previste dal codice, ma integra e rafforza il sistema di tutela ivi contemplato. È il tutt’uno inscindibile che plasma l’espressione storica o artistica ritenuta meritevole di perpetrarsi nel tempo.

Ecco perché questa disposizione rappresenta, sebbene nei limiti delineati dal codice e nei termini sopra esposti, l’anello congiunturale tra materialità e immaterialità, la cui disciplina è regolata da leggi apposite e da convenzioni europee e internazionali e tutelata dal codice allorquando ci sia un collegamento qualificato tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali.

Attraverso l’art. 7-bis sono valorizzate le espressioni culturali condivise, riprodotte e trasmesse dalle collettività di riferimento, aventi per propria natura valore immateriale, purché, però, di tali espressioni sussista una testimonianza materiale e vi siano i presupposti indicati all’art. 10 del codice [41].

Non può essere trascurata, poi, una distinzione ulteriore. L’art. 7-bis, nonostante la sua derivazione (Convenzioni Unesco), resta slegato dal procedimento di candidatura dei siti Unesco, così come tale candidatura non coincide necessariamente con la funzione di tutela esercitata dal ministero della Cultura sul territorio italiano. In analogia, i provvedimenti di tutela emessi ai sensi dell’art. 7-bis non impongono l’attivazione delle candidature rilevanti per l’Unesco. In altre parole, le fattispecie che costituiscono espressioni di identità culturale collettiva possono essere assoggettate alle funzioni del codice se rappresentate “da testimonianze materiali” e purché “sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’art. 10”.

Un carattere da attribuire al patrimonio culturale immateriale, in questa prospettiva, è dunque la dinamicità: le espressioni culturali che lo compongono sono viventi e consentono di identificare una determinata comunità.

Tale peculiarità è strettamente associata alla dimensione antropologica del c.d. cultural heritage nel segno dell’appartenenza ad una certa realtà e dell’indipendenza da chi ne detiene la proprietà.

Rifacendosi agli studi di diritto comparato, ove si individuano quali elementi della nozione di patrimonio culturale immateriale la natura intangibile, l’essere patrimonio vivente, il costante divenire e il valore identitario per una determinata comunità, la definizione di patrimonio culturale immateriale risulta fondata proprio su una concezione antropologica comprensiva di conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società [42].

Questo rilievo evidenzia e rafforza l’idea per cui, anche a livello nazionale, sia indispensabile ripensare la categoria del patrimonio culturale o, più correttamente, dei patrimoni culturali, in una dimensione ultrastatale [43] che superi l’elaborazione codicistica italiana sinora delineata.

Sono proprio le norme sovranazionali e le convenzioni internazionali, difatti, ad offrire una definizione di patrimonio culturale immateriale quale “espressioni di identità culturale collettiva” e a ‘scardinare la cultura, come oggetto di tutela sul piano giuridico, dalla materia.

Se la disciplina codicistica nazionale richiede, ai fini della tutela dell’immaterialità, un collegamento qualificato con l’elemento materiale (la res), in ambito convenzionale sovranazionale questo nesso è eventuale e non è necessaria la rilevanza degli elementi tangibili (come manufatti e strumenti o spazi): la protezione dell’immaterialità della manifestazione culturale in sé è, in questo ambito, immediata e diretta, sebbene fuori dalle previsioni del codice.

A questa prospettiva, ossia a come il patrimonio culturale immateriale si pone nel codice dei beni culturali e del paesaggio, si affianca dunque la tutela (e la valorizzazione) extra-codice composta da un livello sovranazionale e nazionale e da un livello regionale che presta attenzione all’immateriale culturale. Gli aspetti essenziali dei suddetti profili saranno oggetto dei prossimi paragrafi.

3. La prospettiva nazionale ‘extra-codice’ e il livello sovranazionale: le liste dell’Unesco

Come anticipato l’Unesco ha tra i suoi obiettivi prioritari la realizzazione di misure e l’adozione di strumenti tesi a favorire la trasmissione del patrimonio culturale immateriale di generazione in generazione.

Tale scelta poggia sull’idea che esso sia fondamentale per il mantenimento della diversità culturale di fronte alla globalizzazione e che la sua conoscenza contribuisca al dialogo interculturale incoraggiando il rispetto reciproco dei diversi modi di vivere al di là della manifestazione (materiale) culturale in sé.

A tal fine, la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale prevede delle procedure per identificare, documentare, preservare, proteggere, promuovere e valorizzare i beni culturali immateriali.

È interessante osservare, a proposito, come il criterio per la candidabilità di detti beni sia la rappresentatività delle diversità e della creatività umana, profili che emergono proprio dall’insieme delle caratteristiche che, per essere iscritti nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale [44] o nella Lista del patrimonio culturale immateriale che necessita di urgente tutela [45] tali beni devono possedere [46].

Oltre a determinate qualità, affinché la richiesta di iscrizione del bene sia accolta, i richiedenti devono dimostrare la sussistenza di precisi requisiti a seconda della lista in cui questo sarà inserito [47].

Ad ottobre 2023, gli elementi italiani che costituiscono quel patrimonio di conoscenze e saperi trasmesso di generazione in generazione, narrazione delle comunità e della creatività umana, iscritti nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale, sono sedici [48]. Nel Registro delle buone pratiche di salvaguardia, come elemento transnazionale condiviso con Belgio, Cipro, Croazia e Francia, è inserito, nel 2022, il programma condiviso per la salvaguardia di giochi e sport tradizionali “Tocatì”, un progetto multinazionale sulle ludo-diversità promosso dalla città di Verona.

La crescente attenzione dell’Italia nei confronti del patrimonio culturale immateriale è dimostrata, dal punto di vista organizzativo, dall’istituzione dell’Osservatorio patrimonio immateriale Unesco in seno al Segretariato Generale del ministero della Cultura [49], insediatosi a Roma il 17 gennaio 2022.

Questo organismo consultivo, la cui creazione è stata prevista in ragione dell’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus Sars-Cov-2 e delle misure restrittive adottate, ha l’obiettivo di razionalizzare gli interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale immateriale attraverso il monitoraggio, la comprensione e la valutazione dello stato e l’orientamento delle azioni a vantaggio degli elementi iscritti nelle liste di cui sopra. Una delle iniziative più recenti dell’Osservatorio è l’approvazione, nel maggio 2022, del Progetto pilota di educazione al patrimonio immateriale a seguito del quale è stato istituito il Tavolo tecnico per la progettazione di un programma di educazione al patrimonio immateriale e la costituzione di una rete museale tematica ispirato dalla Convenzione europea sul paesaggio di Firenze (2000), dalla Convenzione di Parigi del 2003 e dalla Convenzione di Faro [https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list?module=treaty-detail&treatynum=199] del 2005 [50].

Il valore del progetto risiede nel riconoscimento, formale e sostanziale, dell’importanza della conoscenza del patrimonio culturale immateriale affinché questo possa essere tramandato alle generazioni future in una prospettiva, oggi sempre più rilevante, di uno sviluppo anche culturale sostenibile [51] aderente al paradigma costituzionale di cui al nuovo comma 3 dell’art. 9.

La diffusione e, quindi, la conoscenza del patrimonio culturale facilitano le funzioni amministrative di tutela e di valorizzazione, tanto più quando si tratta di saperi, tradizioni e cose intangibili poiché la partecipazione della collettività - attraverso la ripetizione e la ri-creazione - è indispensabile per la piena realizzazione e per la prosecuzione di quelle testimonianze aventi valore di civiltà.

Oltre agli elementi immateriali che legano il livello sovranazionale al livello nazionale attraverso le Convenzioni Unesco, vi sono le attività culturali (spettacolo dal vivo, cinema e audiovisivo) la cui amministrazione spetta al ministero della Cultura e la cui disciplina lungamente ha fatto capo allo spettacolo.

I principi costituzionali ispiratori delle attività culturali riposano agli artt. 9, 21 e 33 Cost. e negli ultimi anni sono stati emanati due testi normativi: nel 2017, la legge n. 175 del 22 novembre sullo spettacolo dal vivo, che fa riferimento proprio alle Convenzioni Unesco, e nel 2016 la legge n. 220 del 14 novembre che reca la disciplina del cinema e dell’audiovisivo; entrambe tendono a regolare, vigilare e finanziare questi settori.

Ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., inoltre, a differenza di quanto accade per i beni culturali e i beni paesaggistici, la tutela è di competenza legislativa concorrente tra lo Stato e le regioni tanto che molteplici sono le leggi regionali sul punto.

I tre ambiti in cui gravitano le attività del MiC sono distinti, anche in ordine alla dimensione organizzativa [52], in cinema e audiovisivo e spettacolo dal vivo, in relazione al quale si è recentemente chiuso un avviso per la presentazione di proposte da parte delle associazioni di settore per la redazione del Codice dello spettacolo 2024. Le attività inglobate nello spettacolo afferiscono, in particolare, ai settori della musica, del teatro, della danza, dei circhi e degli spettacoli viaggianti e ad altri ambiti, tra i quali i carnevali storici, i festival, i cori, le bande e la musica jazz e le rievocazioni storiche.

Queste iniziative fanno registrare una tendenza che evidenzia come il patrimonio culturale immateriale sia fragile tanto quanto quello materiale e, pertanto, bisognoso di misure e di interventi sostanziosi, nonché della costruzione di un adeguato sistema di governance capace di garantirne la trasmissione dei valori culturali alle generazioni future anche in ragione delle crisi nazionali e internazionali sempre più frequenti.

4. (segue) la lingua italiana come bene culturale immateriale.

Tra gli elementi individuati nella Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 sopra richiamata vi è il linguaggio, definito, all’art. 2, lett. a), manifestazione del patrimonio culturale immateriale in quanto suo vettore [53]. Ciò è interessante riguardo alla vicenda che, sebbene abbia investito la Corte costituzionale oramai qualche anno fa (il riferimento è al noto caso della internazionalizzazione del Politecnico di Milano attraverso l’erogazione di corsi esclusivamente in lingua inglese e alla conseguente marginalizzazione dell’italiano in alcuni rami del sapere) non ha ancora condotto ai risultati da taluni auspicati.

La questione rileva nell’ambito della tutela del patrimonio culturale immateriale poiché per la prima volta la lingua italiana è intesa non alla stregua del linguaggio quale veicolo di trasmissione del patrimonio culturale, ma come autonomo elemento del patrimonio culturale immateriale in quanto ‘bene culturale in sé’ [54].

Occorre preliminarmente distinguere la lingua dal linguaggio più con riferimento al loro rapporto e, dunque, alla tutela accordata al secondo, sulla base della sua strumentalità rispetto alla prima, che relativamente all’elemento ontologico. I due lemmi, lingua e linguaggio, infatti, non sono sinonimi [55]. La lingua è una manifestazione della facoltà del linguaggio che riflette il modo di funzionare della mente quando produce e interpreta degli enunciati indossando “i segni delle operazioni attraverso cui si esprime l’universo delle cose sensibili e dei concetti” [56]. Da questo ragionamento deriva che se il linguaggio è ciò che accomuna gli esseri umani, la lingua è ciò che li differenzia, caratterizzandoli come appartenenti ad una specifica comunità; è la forma di un determinato sistema comunicativo [57]. Al tempo stesso, nella sua mutevole dinamicità, è istanza di conservazione della vita passata e, pertanto, ciò che forse le culture umane hanno di più vivo, ma che, come tutti gli elementi del patrimonio culturale immateriale, sono mortali se non ci si sforza per tenerli in vita [58].

Siffatto percorso logico, ai fini della Convenzione Unesco, fa sì che il linguaggio comprenda anche le lingue, la cui salvaguardia dev’essere garantita attivamente dagli Stati membri, attraverso l’adozione di provvedimenti ritenuti a ciò necessari [59]. Per l’Unesco, tuttavia, la protezione del linguaggio è teleologica perché la sua tutela non si fonda sull’elemento ontologico (l’essere un “bene culturale in sé”), ma dipende dal suo essere strumento per la diffusione della cultura e non cultura di per sé.

Viene da domandarsi, allora, se si possa traslare la funzione amministrativa di tutela prevista per i beni culturali immateriali alla lingua italiana. L’attribuzione di tale categoria giuridica è utile per capire se le modalità di protezione e di valorizzazione previste dal nostro ordinamento per i beni culturali immateriali possano valere anche per la lingua italiana, sebbene il dibattito dottrinale maturato sul punto mostri una complessità notevole e linee evolutive ancora da sviluppare [60].

La preoccupazione per i beni culturali immateriali [61], per le ragioni esposte nei paragrafi precedenti, seppure in aumento, è difatti ancora marginale se paragonata a quella nei confronti delle res quae tangi possunt [62].

L’oggetto della tutela e della valorizzazione diventa non tanto l’involucro materiale, quanto l’essenza culturale insita in ciascun bene, cosa che condurrebbe, sul piano generale, ad un possibile superamento della nozione di bene culturale così come prevista nel Codice [63]. Per poter fare questo, nel caso del patrimonio linguistico, è necessario, da un lato, utilizzarlo, dall’altro, offrirgli strumenti per preservarlo [64].

D’altra parte, è indubbio che una maggiore attenzione ai beni culturali immateriali permetterebbe anche una “più puntuale tutela della lingua italiana” che, “fattore primario ed essenziale per la cultura di un popolo, [...] oggi più che mai avrebbe necessità di essere protetta dalla pervadente egemonia alloglotta” [65].

La questione appena rappresentata si lega e fa emergere un’altra problematica strettamente connessa al patrimonio culturale immateriale: i beni ‘volatili’ che lo compongono sono “in continua quanto naturale evoluzione”, risultano più complesse le attività di valorizzazione e di protezione, delle quali, proprio per tale natura, è investita, in primo luogo, la comunità. Come per gli altri beni culturali immateriali si tratta di attività di ‘naturale’ competenza della collettività in cui germinano e di cui costituiscono elementi valoriali ed identitari [66].

Lo dimostra la tutela offerta dalla normazione regionale ai dialetti attraverso l’attivazione di iniziative e di interventi che ne esaltano l’utilizzo e che, in buona sostanza, conferiscono a tali beni una certa essenza di materialità, rendendoli, in qualche modo, res.

A distanza di alcuni anni i principi della Corte costituzionale, tuttavia, non sono stati recepiti in toto, o comunque non hanno indirizzato l’azione nel senso ivi inteso, sebbene continuino a farsi strada proposte per regolare, tutelare e promuovere la lingua italiana.

Se, da un lato, proseguono numerosi i corsi in lingua inglese [67], i progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN) prevedono la presentazione nella sola lingua inglese [68], per i concorsi pubblici la conoscenza “di una lingua straniera” è sostituita con la conoscenza “della lingua inglese” [69], dall’altro, due sono le proposte di legge presentate al riguardo: una, ordinaria, del 23 dicembre 2022, recante “Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana” (C. 734), assegnata alle Commissioni riunite I Affari Costituzionali e VII Cultura in sede Referente il 31 marzo 2023; l’altra, costituzionale, presentata il 16 novembre 2022, intitolata “Riconoscimento dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica” e assegnata il 27 dicembre 2022 alla Commissione Affari costituzionali (n. 337 degli Atti del Senato).

Queste linee di azione non solo pongono la questione dell’esistenza o meno di una politica linguistica in Italia, in relazione alla quale si segnalano le perplessità di illustri esperti [70], ma consentono di riflettere sulle misure possibili e più adeguate alla sua tutela e promozione, da raggiungere, in primo luogo, ritenendola alla stregua di elemento del patrimonio culturale immateriale.

Sotto altro profilo, da una parte, l’inserimento nell’art. 12 della Carta costituzionale del comma 2 secondo il quale “l’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo” [71] significa assurgere l’italiano e il suo utilizzo a parametro di legittimità costituzionale, dall’altra, regolamentarlo mediante legge ordinaria farebbe sì che, ad es., taluni atti e/o attività amministrative possano essere ritenute invalide e, dunque, annullate per violazione di legge.

Occorre, però, scindere due piani, uno amministrativo e uno culturale, seppure entrambi tendano inevitabilmente a sovrapporsi.

Nel primo caso, la lingua italiana rileva nell’ambito dell’azione dei poteri pubblici poiché dall’utilizzo dell’italiano dipende la comprensione degli atti dell’amministrazione e, conseguentemente, il rispetto del principio di trasparenza dell’attività amministrativa [72]. Nella seconda ipotesi, supponendo che l’italiano rappresenti un elemento del patrimonio culturale immateriale, diventa necessaria l’attivazione di meccanismi che ne garantiscano la tutela e la valorizzazione.

In ordine al piano amministrativo, la questione si pone in relazione all’azione dell’amministrazione (con conseguenze anche riguardo all’effettività dei diritti) da almeno due punti di vista.

Il primo ha rilevanza soprattutto esterna poiché il principio di trasparenza non sarebbe rispettato qualora l’amministrazione non si esprimesse in lingua italiana agli amministrati parlanti l’italiano (riguarda, insomma, la comunicazione dell’amministrazione). Il secondo punto di vista, invece, pur avendo riflessi anche all’esterno, ha effetti per lo più interni poiché riguarda la comunicazione nell’amministrazione. In questo senso, i codici di comportamento e i codici etici paiono rappresentare la sede più adeguata ad ospitare norme tese a promuovere l’utilizzo della lingua italiana da parte delle pubbliche amministrazioni.

In relazione al secondo piano, il fatto che l’italiano rappresenti un elemento del patrimonio culturale immateriale (e non solo suo vettore), se da un lato, ha il pregio di scongiurare potenziali derive nazionalistiche [73], dall’altro, pone la questione dell’individuazione delle forme più adeguate a tutelarlo e valorizzarlo.

Sulla scia delle considerazioni a cui la Corte costituzionale, con la sentenza n. 4 del 2017, è giunta (non costringere l’italiano ad una posizione di marginalità), è indubbio dunque che, come accade in molti casi per le lingue regionali e per i dialetti (v. paragrafo seguente), un’esplicita previsione normativa tesa a proteggere e valorizzare l’italiano parrebbe utile per scongiurare il pericolo che l’idioma perda rami del sapere (specialmente in ambiti tecnici e scientifici).

L’inserimento di un secondo comma all’art. 12 della Costituzione, come nella proposta di legge sopra richiamata, tuttavia, rischia di risultare non pienamente appagante e di acquisire un valore per lo più simbolico.

Ritenere la lingua italiana un bene culturale immateriale, rappresentativo del patrimonio vivente (essendo in costante divenire e narrando il valore identitario di una determinata comunità) induce a ritenere che la sede costituzionale più appropriata sia non tanto l’art. 12 quanto l’art. 9 che già promuove la cultura e la ricerca scientifica e tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione. Ciò anche alla luce del recente riferimento all’“interesse delle future generazioni”, le quali rischiano più di altre di subire le conseguenze (negative) di una marginalizzazione della lingua italiana.

5. La tutela in via immediata e diretta dell’immaterialità della manifestazione culturale: il livello regionale e locale

Negli spazi non contemplati dalle norme nazionali, nonostante l’approvazione della Convenzione Unesco del 2003 e le novelle agli artt. 7-bis e 52-bis del codice, si inseriscono le leggi regionali e le azioni degli enti locali riguardanti le manifestazioni e le espressioni culturali di comunità determinate, anche attraverso la regolazione di misure per la tutela e la valorizzazione.

Tra gli elementi del patrimonio culturale immateriale oggetto di norme regionali, una posizione di rilievo è occupata dai dialetti, considerati “un patrimonio straordinario dell’Italia, unico” [74].

La rilevanza giuridica del loro ruolo emerge dalla legislazione regionale in materia di dialetti e lingue regionali, di complessa sistematizzazione: alcune regioni affrontano il tema tutelando le lingue minoritarie e quelle degli immigrati, altre evidenziando l’importanza dei dialetti presenti. Le regioni a statuto speciale, ad es., prevedono una tutela incisiva sia della lingua italiana, sia delle lingue minoritarie e dei dialetti [75].

In Sardegna esiste una ‘lingua sarda’ disciplinata dalla l.r. 15 ottobre 1997, n. 26. Oltre che un bene fondamentale da valorizzare, avente la medesima dignità dell’italiano, il sardo è ritenuto una lingua ancora viva, al pari di altre, tra le quali il catalano [76]. Conseguenza di tale riconoscimento è l’esistenza di un’effettiva e specifica politica concretizzatasi in una normativa puntuale di potenziale ispirazione per altre regioni, soprattutto per i profili di partecipazione pubblica.

In Sicilia, a differenza che altrove (Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna), invece, la tutela è meno precisa e diretta [77], mentre maggiore attenzione alle minoranze linguistiche si rileva in Valle d’Aosta dove sono tutelati il tedesco ed il francese [78] con conseguenze sia riguardo alla redazione degli atti pubblici [79], sia sul piano organizzativo [80].

Anche le regioni ordinarie dedicano uno spazio, più o meno ampio, alle minoranze linguistiche. Forte è la protezione accordata ad esse in Puglia ove, però, come in Basilicata, nessuna legge regionale tutela direttamente i dialetti [81]. L’Emilia-Romagna [82], le Marche [83] e la Toscana [84] incentrano la protezione delle lingue minoritarie sulle norme in tema di accoglienza, di accesso ai servizi, di integrazione e di partecipazione delle popolazioni straniere.

Interessante è il caso della Calabria, ove, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle altre regioni, la lingua e qualsiasi altro aspetto della cultura materiale e sociale sono riconosciuti formalmente come beni culturali dei comuni ed è prevista una programmazione di attività didattiche e formative (come l’insegnamento bilingue), in ossequio alle leggi nazionali sull’istruzione [85].

Accanto alla tutela delle lingue minoritarie vi è poi la protezione dei dialetti attraverso leggi ad hoc,     come in Veneto, Calabria e Liguria, oppure all’interno di discipline più ampie, come avviene in Toscana [86] e in Umbria [87], dove i dialetti sono tutelati nell’ambito delle attività degli ecomusei [88]; altre volte, invece, i due piani si incontrano, come nel Lazio [89] e nel Piemonte [90].

Anche lo Statuto della Campania merita un cenno poiché inserisce tra i suoi obiettivi la promozione di ogni utile iniziativa per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale regionale e delle diversità anche linguistiche, comprese quelle relative ai dialetti locali [91]. Qui, sulla scia della Conferenza generale dell’ONU per l’educazione, la scienza e la cultura che ha censito l’Atlas of the World’s Languages in Danger [92], è stata approvata la legge regionale per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano [93].

Particolarmente rilevante è poi il recente approccio ai dialetti da parte della regione Abruzzo: pur non risultando specifiche leggi regionali di tutela, vi sono talune norme che dedicano una quota dei finanziamenti alle iniziative socio-culturali alla Rassegna regionale del teatro dialettale [94].

Rilevanti sono i risvolti sociologici: successivamente al terremoto de L’Aquila del 2009, i gravi danni subiti dai “beni ‘oggettuali’ della comunità” hanno portato ad “aggrapparsi” “al bene ‘inoggettuale’ per eccellenza, il dialetto, che ha rapidamente recuperato spazi di comunicazione, diventando così una sorta di bandiera di un’‘aquilanità’ in pericolo” [95].

Accanto a queste testimonianze locali e alle differenti discipline normative regionali, sempre più numerose sono le iniziative attivate nell’ambito della tutela dei dialetti a livello ministeriale e periferico come la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, organizzata dall’UNPLI [96].

Alcune regioni tutelano, poi, le parlate locali anche attraverso la creazione e l’implementazione di istituti volti ad incrementare la partecipazione attiva, in ossequio al principio di sussidiarietà orizzontale ex art. 118, ultimo comma, Cost., come la Cunferentzia aberta, la Consulta de su sardu e l’Ofitzios de su sardu [97], il Centro regionale di documentazione per i Dialetti e le Tradizioni popolari della Liguria (C.D.T.) [98], le consulte locali per la lingua lombarda [99] e la previsione, in Piemonte, di incentivi per la collaborazione con lo Stato e gli altri enti e con le università, le associazioni e gli istituti di cultura pubblici e privati [100].

In alcune regioni, da ultimo, le parlate locali sono preservate attraverso istituti ed attività regionali che operano nel mondo [101].

Ad oggi, dunque, sono molti gli strumenti, tra i quali i social network [102], che, al di là delle disposizioni legislative, agevolano la tutela e la diffusione dei dialetti, anche aiutando a riscoprirli. Questa ricostruzione mostra come sia fondamentale per la tutela e la valorizzazione della lingua italiana, delle lingue regionali e dei dialetti il ruolo dei parlanti: è soprattutto così che un dialetto (o una lingua) riesce ad essere valorizzato, protetto e trasmesso alle generazioni future come parte del patrimonio culturale.

Le considerazioni appena esposte conducono ad almeno due riflessioni che possono essere estese alla maggior parte dei beni culturali immateriali, se non a tutti.

In primo luogo, questo approccio può considerarsi valido per ciascuno degli elementi che compongono il patrimonio culturale immateriale, i quali, per continuare ad esistere, devono essere riconosciuti come tali, salvaguardati e tramandati di generazione in generazione.

In secondo luogo, mettono in luce come la protezione attraverso le norme non sia, da sola, sufficiente, seppure fondamentale. È necessario, infatti, in quanto elementi identitari e testimonianze aventi valore di civiltà, individuare strumenti amministrativi capaci di garantirne la protezione e la promozione.

Indispensabile diventa, pertanto, la più ampia partecipazione della comunità di riferimento [103], particolarmente efficace durante e successivamente le crisi. Uno degli strumenti utilizzabili a tal fine potrebbe essere rappresentato dai patti di collaborazione, i quali costituiscono una delle principali manifestazioni dell’amministrazione condivisa dei beni comuni.

Il patto di collaborazione è un accordo tra un soggetto pubblico e uno o più cittadini attivi teso a definire le linee della collaborazione per la cura di beni comuni, materiali e immateriali. Data l’informalità che caratterizza questo istituto rispetto ad altri strumenti, quali affidamenti e concessioni, esso rappresenta una modalità che ben può essere utilizzata nel caso di beni culturali immateriali come i dialetti, le rievocazioni storiche e le tradizioni da tramandare. Sono cinque le regioni italiane che hanno adottato leggi regionali in materia di amministrazione condivisa, mentre 295 sono gli enti locali (comuni, province, unioni di comuni e comunità) che hanno approvato i regolamenti per l’amministrazione condivisa [104].

Il Comune di Pistoia ha, ad es., stretto un patto di collaborazione con la Compagnia dell’Orso per la realizzazione di corsi gratuiti e aperti a tutti per le attività di rievocazione medievale, come quelle degli sbandieratori, dei tamburini e delle chiarine, degli arcieri e degli spadari, dei danzatori, eccetera.

Il Comune di Trento, invece, ne ha stipulato uno con la Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, con lo scopo di produrre utilità collettive promuovendo la cultura della storia della città. Il patto si fonda sul presupposto per cui il patrimonio culturale e la memoria storica della comunità locale costituiscono un bene comune, immateriale, da tutelare e valorizzare; sono così attivate connessioni tra le diverse risorse presenti sul territorio [105].

Altra espressione del patrimonio culturale immateriale è costituita, poi, dalle feste popolari, tradizionali e folkloristiche rappresentative (insieme ai dialetti) del patrimonio c.d. demo-etnoantropologico [106]. Si tratta di manifestazioni e di attività spesso riproposte con differenze anche notevoli rispetto ai riti delle origini e che, negli ultimi anni, appaiono strettamente legate ai flussi turistici, mostrando una tendenza alla ‘economicizzazione’ di queste espressioni delle culture popolari locali e della gente comune [107].

Nei beni demo-etnoantropologici la componente immateriale trova un riscontro attuale nell’attenzione all’Intangible Heritage da parte dell’UNESCO che ha attivato intorno ad essa una pluralità di azioni, fra cui la Proclamation of Masterpieces of the Oral and Intangibile Heritage of Humanity e, successivamente, la Convention for the Safeguarding of the Intangibile Cultural Heritage [108].

Oltre alle difficoltà legate alle forme di tutela di dette attività, altra questione delicata è rappresentata dalla loro individuazione, prima, e dalla selezione delle modalità per la loro valorizzazione, diffusione e conoscenza, poi. Come si è visto nel caso della lingua italiana e dei dialetti, la principale forma di tutela è il loro riconoscimento e il fare in modo che siano tramandati di generazione in generazione.

Si pone, però, un’ombra che riguarda la priorità e l’individuazione degli interessi da parte delle amministrazioni, profilo che si allinea con quanto sopra richiamato in materia di patti di collaborazione e amministrazione condivisa. Se è vero che la partecipazione della collettività e, dunque, l’attivazione di meccanismi e strumenti per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale rappresentano una delle forme più adeguate a questi fini, è vero anche, però, che dietro a tali sistemi potrebbe celarsi il rischio del dominio di determinati interessi su altri (perché maggiormente rappresentati o, meglio, organizzati o perché chi ne è portatore ha una influenza maggiore di altri).

Nell’ambito di un patrimonio così fragile come quello immateriale la prevalenza dell’interesse riguardo determinati beni culturali immateriali rispetto ad altri rischia di comportare, invece, un depauperamento della diversità culturale tanto auspicata a tutti i livelli, compreso quello sovranazionale.

6. Conclusioni: due prospettive

Queste considerazioni illuminano almeno due prospettive attraverso le quali poter leggere il rapporto che intercorre tra le funzioni amministrative ed il patrimonio culturale immateriale.

La prima afferisce ad un tema ‘tradizionale’ del diritto dei beni culturali rappresentato dalla costante difficoltà, che da sempre caratterizza questa disciplina, di fornire una definizione di patrimonio culturale immateriale. Questo, come si è visto, è in ampliamento ed evoluzione continui.

Da un punto di vista giuridico, il problema è essenziale poiché per attivare gli strumenti amministrativi e legislativi finalizzati alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione è indispensabile delinearne i confini.

Gli strumenti messi a disposizione dal codice dei beni culturali e del paesaggio, nonostante gli ultimi interventi, non sono tuttavia sufficienti e, comunque, non permettono, proprio per le caratteristiche ontologiche dell’elemento culturale immateriale, una traslazione ‘automatica’ delle misure ivi previste, specie di quelle per la tutela e la gestione (appare invece più agevole operare in questa direzione per le attività relative alla funzione di valorizzazione).

Un primo sforzo, perciò, è costruire una nozione di patrimonio culturale immateriale a livello nazionale (ma ancor di più a livello europeo) che tenga conto degli aspetti sovranazionali e delle peculiarità locali così da procedere verso una catalogazione, in parte in atto, di tali beni, evitando, nel contempo, di incappare nel c.d. ‘panculturalismo’.

Si inseriscono in questo contesto la protezione e la promozione della lingua italiana, in relazione alle quali possono scorgersi almeno tre linee di espansione.

La prima, più discussa e criticata, riguarda l’opportunità di sviluppare una politica linguistica diretta alla sua diffusione, che risulta essere più incisiva all’estero che in Italia [109].

La seconda linea di espansione tende ad incidere sulla comunicazione interna ed esterna dell’amministrazione, da una parte, per assicurare il benessere organizzativo di chi opera nella pubblica amministrazione, dall’altra, per garantire il raggiungimento dell’interesse pubblico anche attraverso il rispetto del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.

La terza, infine, si fonda sul riconoscimento dell’italiano come bene culturale in sé e sull’attivazione di strumenti amministrativi che consentano di tutelarlo e valorizzarlo quale elemento del patrimonio culturale immateriale.

Quest’ultima linea di espansione si collega alla seconda prospettiva messa in luce dalle considerazioni sopra esposte, contemporanea perché afferisce alle crisi e alle emergenze che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Anche in relazione a siffatte eventualità, gli strumenti normativi per preservare il patrimonio culturale tangibile non mancano. Occorre, però, rafforzare i meccanismi di tutela e di diffusione del patrimonio culturale intangibile in una visione globale [110], tanto più in ragione del fatto che, come sopra rappresentato, il legame con il patrimonio culturale immateriale si rafforza a seguito e durante le emergenze.

La promozione degli elementi del patrimonio culturale intangibile e dei valori in essi insiti non solo contribuisce alla conoscenza dell’altro, evidenziando le diversità culturali tra comunità, luoghi, regioni e nazioni, ma può diventare una leva turistica (come accaduto nel caso della ‘notte della Taranta’) e, dunque, economica per i diversi Paesi. Occorre poi aggiungere che la funzione di valorizzazione del patrimonio culturale immateriale presenta, rispetto a quella del patrimonio culturale materiale, meno rischi dal punto di vista del substrato materiale e degli effetti che potrebbero subire le res quae tangi possunt, ad es., in conseguenza di calamità e catastrofi naturali.

La questione si pone con ancor più vigore alla luce dei recenti conflitti bellici considerato che “distruggere le memorie e i simboli di una collettività può diventare un obiettivo altrettanto importante di quanto non sia vincere militarmente il conflitto armato e, in più, può rappresentare una delle forme di governo del territorio nel medio e lungo termine” [111].

La via maestra sia per la tutela che per la valorizzazione e diffusione, come insegna la Corte costituzionale, è la trasmissione tra generazioni e ciò dipende, stante il quadro normativo vigente, in primo luogo, dalle comunità e dai singoli individui che le compongono [112].

 

Note

[*] Il presente contributo è una rielaborazione del capitolo Patrimonio cultural inmaterial y función administrativa en Italia contenuto nel volume in corso di pubblicazione: E. Hernández-Diez (a cura di), Las administraciones ante las fiestas y el turismo. Elementos para una discusión abierta.

[**] Gloria Mancini Palamoni, assegnista di ricerca presso l’Università di Camerino, Via Madonna delle Carceri 9, 62032 Camerino (MC), gloria.mancinipalamoni@unicam.it.

[1] Per un quadro sistematico complessivo, da ultimo, L. Casini, Patrimonio culturale (voce), in Enc. Dir. - I tematici, III, Milano, 2022, pagg. 817-839.

[2] Spec. c. 1, 2 lett. s) e 3, art. 117 Cost.: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: [...] s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: [...] valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; [...]”

[3] L’inserimento dei beni paesaggistici nel patrimonio culturale può ricondursi all’esigenza di “attrarre il paesaggio, non menzionato nell’art. 117 Costituzione, verso il medesimo regime previsto per i beni culturali”: L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, pag. 49.

[4] Legge 1° giugno 1939, n. 1089 “per la tutela delle cose di interesse artistico e storico” (c.d. legge Bottai).

[5] Legge 29 giugno 1939, n. 1497 “per la tutela delle bellezze paesistiche”.

[6] Oggi, sulla bellezza come chiave di lettura di molteplici principi costituzionali, recentemente, M.A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale, Napoli, 2021.

[7] La parte del codice dedicata ai beni culturali può distinguersi anche in relazione ad esse (tutela, valorizzazione, gestione).

[8] Si tratta dell’editto emesso dal cardinale Bartolomeo Pacca e approvato il 7 aprile 1820 da Papa Pio VII al fine di evitare la spoliazione e la fuoriuscita dallo Stato pontificio dei numerosi beni culturali presenti, per controllare le esportazioni delle cose d’arte dallo Stato pontificio e impedire il distacco dagli edifici. È il primo provvedimento legislativo organico di protezione storica e artistica delle antichità e delle cose d’arte ad assumere rilevanza anche al di fuori dello Stato pontificio.

[9] A sostegno dell’importanza della tutela, prima, e della valorizzazione, dopo, del patrimonio culturale, C. cost. 29 dicembre 1988, n. 1146 secondo la quale l’art. 9 ben può costituire uno di quei “principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. La Corte cost. (9 marzo 1990, n. 118) ha, inoltre, precisato come lo Stato debba provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale della cultura sia per il loro valore culturale intrinseco, sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale oltre che ad assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa.

[10] Nel 1974, ad esempio, è costituito il ministero per i Beni culturali e ambientali rinominato (precedentemente ad occuparsi della materia era la Direzione generale antichità e belle arti del ministero della Pubblica istruzione), nel 1998, ministero per i Beni e le Attività culturali e, dal 2021, ministero della Cultura. In concomitanza con la costituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali la scienza giuridica italiana inizia a studiare sistematicamente i beni culturali.

[11] Come la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, grazie alla quale, in ambito internazionale, si afferma l’espressione “patrimonio culturale”. Il TFUE menziona all’art. 167 il “patrimonio culturale di importanza europea”.

[12] La Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, presieduta dall’onorevole Franceschini, è istituita a seguito della legge n. 310 del 26 aprile 1964, su proposta del ministero della Pubblica istruzione, e ha operato fino al 1967, anno in cui sono emanate ottantaquattro Dichiarazioni. Tra queste, la prima contiene la nozione di bene culturale inteso come “tutto ciò che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà”, poi recepita nel d.lg. n. 42 del 2004.

[13] In verità il lemma ‘valorizzazione’ era stato utilizzato già negli anni Venti (r.d. 31 dicembre 1922, n. 1809) e Trenta (r.d.l. 24 giugno 1937, n. 905) e, poi, con riguardo al turismo, al paesaggio, alle riserve naturali e ai limiti e ai problemi ad essi connessi (ad es. r.d.l. 20 giugno 1935, n. 1425 sugli organi provinciali per il turismo o la legge 22 luglio 1939, n. 1450 sulla valorizzazione dell’isola di Ischia o, più tardi, alla legge 6 marzo 1958, n. 243 sul restauro e la valorizzazione delle ville venete). Col tempo la funzione di valorizzazione del paesaggio è passata in secondo piano in favore di quella della tutela dei beni culturali.

[14] La Corte costituzionale (sent. n. 9 del 13 gennaio 2004) ha evidenziato, in tema di restauro, come l’intervento debba caratterizzarsi per la inscindibilità tra la struttura materiale e il valore ideale che essa esprime.

[15] L’art. 20 del codice sugli interventi vietati, ad es., presuppone la dimensione fisica.

[16] G. Morbidelli, Dei beni culturali immateriali, in AA.VV., Scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani, 1, ESI, 2018, pag. 571 ss.

[17] La dottrina individua tra i tratti della nozione di bene culturale ai sensi del codice, oltre alla materialità, la tipicità (poiché una testimonianza avente valore di civiltà diventa bene culturale in senso giuridico solo sulla base della fissazione di una fattispecie operata dal legislatore) e la pluralità (nel senso di pluralità di tipi di beni culturali o categorie, non configurandosi nel codice una nozione unitaria di bene culturale): C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2020, pagg. 40-41 anche con riferimento alla bibliografia ivi citata.

[18] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 24.

[19] C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 60.

[20] C. Lamberti, Ma esistono i beni culturali immateriali? (in margine al Convegno di Assisi sui beni culturali immateriali), in Aedon, 2014, 1.

[21] Il codice indica le misure di tutela e di protezione (artt. 3 e 4 e 10 e ss.) dei beni ritenuti culturali per legge (artt. 10 e 11) o a seguito del procedimento di verifica (art. 12) o di dichiarazione dell’interesse culturale (artt. 13-16), nonché le misure per valorizzarli (artt. 6 e 7 e 111 ss.), valorizzazione che sempre incontra il limite principale nella tutela (art. 6 c. 2) dovendo essere attutata in forme compatibili con la protezione e la conservazione e tali da non pregiudicarne le esigenze.

[22] La dottrina per la prima volta ha affrontato il tema in maniera organica durante il Convegno di Assisi 25-27 ottobre 2012. I contributi sono oggi raccolti nel numero 1 del 2014 di questa Rivista.

[23] Si vedano le considerazioni di M. Cammelli, Patrimonio culturale e sviluppo, in Declinazioni di patrimonio culturale, (a cura di) M. Malo, F. Morandi, Bologna, 2021, pagg. 71-72.

[24] Una società statunitense aveva usato l’immagine della statua senza l’autorizzazione ministeriale richiesta per le riproduzioni di beni culturali dagli artt. 107 e 108 del codice.

[25] Quasi al punto che il legislatore italiano pare aver paura “di far uso della locuzione “patrimonio culturale” se non limitata ad elementi materiali”: L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., pag. 49.

[26] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.

[27] Come, ad es., i casi di Venezia e delle Cinque Terre in Liguria.

[28] È evidente come difettano i requisiti della riproducibilità e della indistruttibilità se il bene è immateriale. Sul punto, M. Are, Beni immateriali, in Enc. dir., V, Milano, 1959, pag. 251 ss.

[29] C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, cit., pag.42.

[30] L’International Council of Museums (ICOM) nel fornire la definizione di museo fa riferimento al “patrimonio culturale, materiale e immateriale”. L’espressione è confermata nella versione della definizione di museo approvata il 24 agosto 2022 a Praga: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale”.

[31] Si tratta della Convenzione di Parigi del 17 ottobre 2003 che l’Italia ha ratificato con la legge 27 settembre 2007, n. 167.

[32] Art. 2, comma 2, Convenzione Unesco 2003.

[33] L. 22 aprile 1941, n. 633 a salvaguardia, però, delle opere creative dell’ingegno ai fini del loro sfruttamento economico.

[34] Che individuava come beni culturali quelli che “compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demo-etnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge”.

[35] Art. 120, d.lg. 2 febbraio 2006, n. 42. Sul rapporto tra l’istituto e il patrimonio culturale immateriale G. Manfredi, Le sponsorizzazioni dei beni culturali e il mercato, in Aedon, 2014, 1.

[36] Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società.

[37] Art. 2 lett. a) Convenzione di Faro. Ritiene il patrimonio culturale “vera eredità del futuro” e non solo memoria del passato M. Cammelli, La ratifica della Convenzione di Faro: un cammino da avviare, in Aedon, 2020, 3; L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, cit., pag. 19.

[38] Art. 2 lett. b) Convenzione di Faro.

[39] Relazione illustrativa al d.lg. n. 62 del 2008.

[40] Cons. St., Ad. Plen., 3 marzo 2023, n. 5, spec. punto 4.1.

[41] Cons. St., Ad. Plen., n. 5/2023, punto 4.3.

[42] In argomento, P.L. Petrillo, La tutela giuridica del patrimonio culturale immateriale a vent’anni dall’adozione della Convenzione UNESCO del 2003. Profili di diritto comparato, in DPCE online, 2023, 2, pagg. 1695-1696 anche per la bibliografia ivi indicata.

[43] S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781 ss.

[44] È la Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity che contribuisce a dimostrare la diversità del patrimonio intangibile e ad aumentare la consapevolezza della sua importanza.

[45] Si tratta della List of Intangible Cultural Heritage in Need of Urgent Safeguarding la quale ha lo scopo di mobilitare la cooperazione internazionale e fornire assistenza ai portatori di interessi per adottare misure adeguate.

[46] Tra le caratteristiche: la trasmissione del bene culturale immateriale di generazione in generazione; la sua costante ricreazione da parte delle comunità e dei gruppi in relazione con l’ambiente circostante e la sua storia; il permettere alle comunità, ai gruppi e ai singoli di elaborare il senso di appartenenza; la promozione del rispetto per le diversità culturali e la creatività umana e la diffusione del rispetto dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile.

[47] I requisiti che consentono all’elemento candidato di essere iscritto nella Lista Rappresentativa sono: costituire il patrimonio culturale immateriale ai sensi dell’art. 2 Convenzione; contribuire a garantire visibilità e consapevolezza del significato di patrimonio culturale immateriale e a favorire il confronto sulla diversità culturale e la creatività umana; elaborazione di misure di salvaguardia per tutelare e promuovere l’elemento; ampio riscontro di partecipazione da parte di comunità, gruppi o, eventualmente, singoli con il loro libero, preventivo e informato consenso; inserimento in un inventario del patrimonio culturale immateriale del territorio dello Stato proponente (artt. 11 e 12 Convenzione).

Per essere iscritto nella Lista del Patrimonio Immateriale che Necessita di Urgente Tutela, invece, un elemento deve rispondere, oltre che ai criteri di cui sopra, anche ai seguenti: rischio di sua sopravvivenza o minaccia di probabile estinzione e, in casi di estrema urgenza, debita consultazione dello Stato proponente circa l’iscrizione, in conformità all’articolo 17.3 della Convenzione.

Infine, per essere iscritto nel Registro delle Buone Pratiche di Salvaguardia, il programma, progetto o attività deve rispondere ai seguenti criteri: ottenere la salvaguardia ex art. 2.3 Convenzione; contribuire al coordinamento degli sforzi di salvaguardia regionali e/o sub regionali e/o internazionali; riflettere i principi e gli obiettivi della Convenzione; dimostrare la propria efficacia in termini di contributo alla vitalità del patrimonio culturale immateriale interessato; messa in opera con la partecipazione della comunità, del gruppo o degli individui e con il loro consenso libero ed informato; servire da modello ad attività di salvaguardia; accordo tra i soggetti pubblici e privati per cooperare alla diffusione delle migliori pratiche di salvaguardia in casi di selezione; riunire le esperienze suscettibili di essere valutate sui loro risultati; rispondere essenzialmente ai bisogni particolari dei Paesi in via di Sviluppo.

[48] Ovvero: l’Opera dei Pupi siciliani e il Canto a tenore sardo (2008), il Saper fare liutaio di Cremona (2012), la dieta mediterranea - condivisa con Cipro, Croazia, Grecia, Marocco, Spagna e Portogallo - e le Feste delle Grandi Macchine a Spalla (2013), la vite ad alberello di Pantelleria (2014), l’arte del “pizzaiuolo” napoletano (2017) e quella dei muretti a secco - condivisa con Croazia, Cipro, Francia, Grecia, Slovenia, Spagna e Svizzera - (2018), la celebrazione della Perdonanza Celestiana, l’Alpinismo - insieme a Francia e Svizzera - e la transumanza - insieme ad Austria e Grecia - (2019), l’arte delle perle di vetro - con la Francia -, l’arte musicale dei suonatori di corno da caccia - con Belgio, Francia e Lussemburgo - (2020), la falconeria - anch’essa elemento transnazionale comprendente numerosi altri Paesi del mondo (Emirati Arabi, Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Ungheria, Kazakhistan, Repubblica di Corea, Mongolia, Marocco, Pakistan, Portogallo, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Repubblica Araba Siriana, Croazia, Irlanda, Kirghizistan, Paesi Bassi, Polonia e Slovacchia) - e le conoscenze e le pratiche tradizionali della cerca e della cavatura del tartufo in Italia (2021), la tradizione dell’allevamento dei Cavalli Lipizzani - insieme ad Austria, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Ungheria, Romania, Slovacchia e Slovenia - (2022). Le annualità indicate tra le parentesi indicano quando l’elemento in questione è stato inserito nella Lista.

[49] Decreto del ministro della Cultura di concerto con il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali e il ministro dell’Economia e delle Finanze, 8 luglio 2021. L’istituzione dell’Osservatorio era prevista dalla legge di bilancio 2021 (legge n. 178 del 2020, art. 1, comma 582).

[50] Ministero della Cultura, Direzione generale Musei, decreto n. 736 del 22 luglio 2022.

[51] Volendo, G. Mancini Palamoni, Lo sviluppo sostenibile del patrimonio culturale tra emergenze e tecnologie digitali, in Riv. it. inf. e dir., 2022, 1, pagg. 261-272.

[52] Per quanto riguarda il settore cinema e audiovisivo, oltre alla Direzione generale, vi sono una Segreteria, tre Servizi, una Segreteria tecnica, il Consiglio Superiore del cinema e dell’audiovisivo (consultivo e di supporto), una commissione di esperti, tra cui la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche. Per il settore dello Spettacolo l’organizzazione si compone, oltre che della Direzione generale, dell’Ufficio di Segreteria del Direttore generale, di due Servizi e dell’Osservatorio sullo spettacolo.

[53] Già alla Conferenza di Torino del 2001, peraltro, erano elencati tra i beni culturali “le attività collettive che si producono entro una data comunità e fondate sulla tradizione, tramandate oralmente o attraverso l’esempio gestuale, suscettibili di modificazione attraverso un processo di rigenerazione collettiva”, nell’ambito delle quali il linguaggio può indirettamente essere ricompreso. Sulla diversità culturale, altresì: Dichiarazione dei principi della cooperazione culturale internazionale coeva al Patto sui diritti civili e politici (1966), Convenzione per la Protezione del Patrimonio Mondiale culturale e naturale dell’Umanità (1972), Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali (1995) e Convenzione sulla diversità delle espressioni culturali (2005).

[54] Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 42. Se si vuole G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, in Dir. amm., 2020, 1, pagg. 193-234.

[55] Lingua e Linguaggio (Voci), in Vocabolario online, Treccani. Sul tema, L. Degrassi, Lingue e linguaggi - diritti e libertà culturali, Milano, Giuffrè, 2016.

[56] C. Hagège, Morte e rinascita delle lingue: diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Milano, Feltrinelli, 2002, pag. 11.

[57] Il linguaggio specialistico sorge da ed entro una lingua, inoltre, come uso speciale di un idioma nel contesto operativo e semantico di tecniche particolari in cui si determinano in via non isolata accezioni speciali di parecchi vocaboli. Si parla, così, di “lingue speciali” o, preferibilmente, di “usi speciali” di una lingua: T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Bari-Roma, Laterza, pag. 230-231.

[58] C. Hagège, op. ult. cit., pag. 8.

[59] Artt. 11 e 13 Convenzione Unesco 2003.

[60] V. Atti del Convegno di Assisi del 25-27 ottobre 2012, in questa Rivista, fasc. n. 1 del 2014 e fasc. n. 1 del 2023 dedicato alla pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2023 sopra richiamata.

[61] Per evitare di dilatare troppo l’oggetto della disciplina sino a giungere ad un ‘panculturalismo’ e per la convinzione che la protezione di un bene culturale non possa prescindere dalla sua ‘realità’: A. Gualdani, Primi passi verso una disciplina di settore dei beni immateriali. Il caso del disegno di legge sulle manifestazioni, rievocazioni e giochi storici, in Aedon, 2017, 3. La giurisprudenza costituzionale aveva, peraltro, dato rilievo organizzativo ai beni culturali immateriali con la pronuncia del 17 luglio 2013, n. 194 che aveva confermato la precedente Corte cost., 28 marzo 2003, n. 94, criticata da una parte della dottrina (S. Cavaliere, Oscillazioni in senso centralistico della giurisprudenza costituzionale in tema di beni culturali diversi da quelli identificati ai sensi della normativa statale, in amministrazioneincammino.it, 12 maggio 2014; M. Picchi, Tutela e valorizzazione dei beni culturali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Verso un progressivo accentramento delle competenze?, in forumcostituzionale.it, 30 ottobre 2017).

[62] Anche se a seguito della ratifica italiana nel 2007 alla suddetta Convenzione è stato aggiunto l’art. 7-bis nel d.lg. 42 del 2004 nei termini di cui sopra, profili di immaterialità sono stati inseriti dal d.l. 8 agosto 2013, n. 91 con l’aggiunta di due commi (entrambi 1-bis) all’art. 52 e sebbene siano presenti dei beni culturali ‘extra-codice’, se diverse regioni si stiano attivando con provvedimenti di protezione del patrimonio intangibile (S. Cassese, Il futuro della disciplina dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2012, 7, pag. 781) e seppure ci sia una proposta di legge settoriale contenente Disposizioni per la promozione, il sostegno e la valorizzazione delle manifestazioni, delle rievocazioni e dei giochi storici.

[63] G. Garzia, Enti locali, associazioni e i c.d. beni culturali “minori”, in Riv. giur. ed., 2018, 5, pag. 379 ss.

[64] Anzitutto come prospettato da Corte cost. n. 42 del 2017.

[65] F. Rimoli, Profili costituzionali della tutela del patrimonio culturale, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro, Roma, RomaTre Press, 2017, pag. 108.

[66] G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in Aedon, 2014, 1.

[67] Ad es. al Politecnico di Milano “con riferimento agli insegnamenti risulta che su un totale di 1.452 insegnamenti, 1046 sono in inglese, 400 in italiano e 6 sono duplicati in italiano e in inglese”: così Cons. St., 11 novembre 2019, n. 7694). La pronuncia decide sul ricorso per l’ottemperanza della sentenza n. 617 del 2018 proposta dai ricorrenti di primo grado, rilevando che il Politecnico avrebbe violato il giudicato, in quanto: “i) continua a predisporre un’offerta formativa erogata esclusivamente in lingua inglese, al più consentendo qualche insegnamento in lingua italiana; ii) non sarebbero indicati i motivi in ordine alla erogazione di singoli insegnamenti in lingua inglese” dato che “‘l’erogazione in inglese della quasi totalità degli insegnamenti presenti nella stragrande maggioranza dei corsi di studio’ avrebbe l’effetto di ‘estromettere la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di interi rami del sapere’”. Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso per l’ottemperanza della sentenza ritenendo sussistente “un numero adeguato di corsi di lingua italiana che consente di ritenere che sia stata effettuata una scelta amministrativa che rappresenta l’esito di un proporzionato bilanciamento di interessi, di rilevanza costituzionale, sottesi alle esigenze di internalizzazione dell’offerta formativa e a quelle di dare la giusta rilevanza alla lingua italiana”.

[68] Art. 5 comma 2 del decreto direttoriale n. 104 del 2 febbraio 2022 secondo il quale “ogni domanda è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana”.

[69] L’art. 7 del d.lg. 25 maggio 2017, n. 75 ha in questo senso modificato il secondo periodo del primo comma dell’art. 37 del d.lg. 30 marzo 2001, n. 165.

[70] Recentemente, C. Marazzini, Nuove leggi sull’italiano. Ma sono davvero "politica linguistica"?, in accademiadellacrusca.it, 13 aprile 2023.

[71] D.d.l. n. 337 XIX Leg.

[72] Sia consentito rinviare ancora a G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, cit., pag. 208-211.

[73] Si v. ad es. S. Cassese, Primato dell’italiano?, intervista su Il Foglio, 7 marzo 2017.

[74] C. Marazzini, L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, 2019, pagg. 8-10.

[75] Ad es., l. prov. 19 giugno 2008, n. 6, commento di S. Penasa, La promozione delle minoranze linguistiche via meccanismi di partecipazione. La legge provinciale della Provincia autonoma di Trento n. 6 del 2008 quale laboratorio del sistema multilevel di tutela delle minoranze linguistiche?, in Le Regioni, 2009, 5, pagg. 1017-1056. Il friulano, poi, è definito “lingua propria” e i parlanti tutelati oltre che dalla l. cost. 31 gennaio 1963, n. 1 anche dalla l.r. 18 dicembre 2007, n. 29. V. altresì l. cost. Friuli-Venezia Giulia, 31 gennaio 1963, n. 1, spec. art. 3; Cfr. legge 23 febbraio 2001, n. 38; C. cost. 11 febbraio 1982, n. 28; 24 febbraio 1982, n. 62; 29 gennaio 1996, n. 15.

[76] G. Poggeschi, Unità nazionale e pluralismo culturale: l’evoluzione dello status giuridico delle minoranze linguistiche dall’unità d’Italia ad oggi, in DPCE online, 2016, 2, spec. pag. 241 e pagg. 245-246.

[77] L.r. 6 maggio 1981, n. 85; l.r. 31 maggio 2011, n. 9; l.r. 9 ottobre 1998, n. 26.

[78] L.r. 19 agosto 1998, n. 47.

[79] L. cost. 26 febbraio 1948, n. 4.

[80] V. ad es., artt. 51, 52 e 54 St. e l.r. 15 giugno 1978, n. 196.

[81] L.r. 22 ottobre 2012, n. 30.

[82] Sintomo della costante attenzione della regione al pluralismo e all’integrazione, anche sul piano dell’organizzazione amministrativa: l.r. 24 marzo 2004, n. 5, spec. art. 1, c. 4, lett. b) e artt. 14 e 22.

[83] L.r. 26 maggio 2009, n. 13.

[84] Art. 6, spec. c. 27, 40, 41, della l.r. 9 giugno 2009, n. 29. In Toscana, la tutela delle minoranze comprende anche le popolazioni rom e sinti: l.r. 12 gennaio 2000, n. 2.

[85] Artt. 2 e 8, l.r. n. 15 del 2003.

[86] L.r. Toscana 25 febbraio 2010, n. 21.

[87] L.r. Umbria 14 dicembre 2007, n. 34.

[88] Art. 16 della l.r. Toscana n. 21 del 2010.

[89] La legge regionale 21 febbraio 2005, n. 12 è stata abrogata dall’art. 22 l.r. n. 29 dicembre 2014, n. 15.

[90] Art. 30, c. 1, lett. f), l.r. 1° agosto 2018, n. 11. Essa, peraltro, abroga le l.r. n. 11 e 12 del 7 aprile 2009 e la l.r. 25 ottobre 2016, n. 20 che aveva novellato la l.r. n. 11 del 2009 (art. 45, c. 1, lett. hh), ii) e tt).

[91] Art. 8, c. 1, lett. m) della l.r. 28 maggio 2009, n. 6 e ss.mm.ii.

[92] Ad ogni lingua viene attribuito un codice emanato dall’International Organization for Standardization (la principale organizzazione internazionale non governativa per la definizione di norme tecniche, nata nel 1946: https://www.iso.org), utilizzato per la classificazione delle lingue umane. Questi codici sono applicati solo alle lingue e, per ciascuna di esse, è definito il ‘grado di messa in pericolo’: safe; vulnerable; extinct.

[93] L.r. n. 8/2019.

[94] Ad es. la l.r. 9 agosto 1999, n. 49.

[95] F. Avolio, Osservazioni sull’“Alfabeto Aquiliano”, in Italienisch. Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur, 37. Jahrgang - 2015/2, pag. 50.

[96] L’UNPLI è l’associazione nazionale delle Pro Loco (associazioni senza scopo di lucro composte da volontari impegnati per la promozione del luogo, per la scoperta e la tutela delle tradizioni locali e per la valorizzazione dei prodotti e delle bellezze del territorio).

[97] Dove la partecipazione pubblica per la diffusione è ritenuta di così fondamentale importanza da essere concretamente garantita attraverso (l.r. Sardegna n. 22/2018).

[98] T.U. cultura n. 33/2006.

[99] L.r. Lombardia n. 25/2016, spec. art. 26.

[100] L.r. Piemonte n. 11/2018.

[101] È il caso dell’Umbria (l.r. n. 5 marzo 2018, n. 2), ma, soprattutto, della Calabria (l.r. 30 ottobre 2003, n. 15, della l.r. 26 aprile 2018, n. 8) e del Molise (l.r. 30 giugno 2015, n. 12 spec. artt. 3, 6, 7 e 9).

[102] P. D’Achille, I Social Network e la lingua italiana, tra neologismi e anglicismi, comunicazione al Convegno Viva i Social, abbasso i Social. Cittadini, pubbliche amministrazioni e la “rivoluzione” dei Social Network, Firenze, 17 marzo 2016, in accademiadellacrusca.it/it/scaffali-digitali/articolo/social-network-lingua-italiana-neologismi-anglicismi.

[103] Già in occasione della Conferenza di Rio+20 (2012) era emerso come la partecipazione “ampia e attiva di tutti i settori della società, incluse le comunità locali” (e dunque il patrimonio culturale immateriale), fosse il fulcro della governance globale anche nella prospettiva dello sviluppo sostenibile.

[104] Www.labsus.org.

[105] Per un quadro sui patti di collaborazione www.labsus.org.

[106] L’Associazione Italiana per le Scienze Etnoantropologiche (AISEA) e la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici (SIMBDEA) riconoscono come “beni demo-etnoantropologici” “tutti quei prodotti culturali, materiali e immateriali, che non appartengono alla “tradizione euroccidentale culta” dominante e attengono ai gruppi sociali portatori di “tradizioni” localizzate, socializzate e condivise presenti nei diversi contesti europei ed extra-europei. [...] riguardano una molteplicità di attività e prodotti materiali [...] e immateriali (cerimonie, riti, feste sacre e profane, musiche e canti, danze, poesie, fiabe, miti e leggende, proverbi, giochi, memorie, storie di vita, dialetti e parlate, saperi, pratiche, etc.)”. T. Tucci, Introduzione all’applicazione delle normative per la catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, 2015, in iccd.beniculturali.it, 2.

[107] Si pensi, su tutti, alla ormai celeberrima manifestazione pugliese ‘Notte della Taranta’, un festival itinerante di musica popolare tesa a valorizzare la tradizione musicale salentina contaminandola con altri linguaggi musicali, derivante dai riti terapeutici ai quali venivano sottoposte le vittime del ‘tarantismo’. Per la taranta è in corso la richiesta per il riconoscimento come patrimonio culturale immateriale dell’Unesco.

[108] T. Tucci, op. ult. cit., pag. 3.

[109] In argomento volendo G. Mancini Palamoni, Profili organizzativi e lingua italiana: gli istituti di cultura e le accademie, in questa Rivista, 2020, 2.

[110] C. D’Alessandro, Il patrimonio culturale immateriale. Il lungo cammino per la sua tutela giuridica e l’apporto culturale di Claude Lévi-Strauss, in Società e diritti, 2022, 13, pagg. 141-142, evidenzia l’originaria vocazione “mondialista” dell’Unesco e la sua missione tesa alla lotta ai pregiudizi razziali.

[111] Sul punto L. Marini, La protezione dei beni culturali fra interessi pubblici, diretti dei singoli, sicurezza collettiva, in Questione giustizia, 2017, 1, pag. 239.

[112] Esemplificativo è il passaggio del ballerino Pablo Moyano secondo il quale, riferendosi al tango (riconosciuto nel 2009 dall’UNESCO patrimonio culturale immateriale dell’umanità) precisa: “alcuni concetti sono andati persi a causa della dittatura militare o di altri fenomeni, ma ci sono persone (Zotto, Todaro, Pugliese) che per fortuna hanno mantenuto vive le esperienze. Queste cose non sono scritte nei libri”: E. Anzellotti, Il tango patrimonio culturale immateriale. Intervista a Pablo Moyano e Roberta Beccarini, in Mimesis Journal, [Online], 9, 2 | 2020, Messo online il 26 janvier 2021, consultato il 08 novembre 202, URL: http://journals.openedition.org/mimesis/2157. Altresì sui rapporti tra patrimonio culturale e identità: T. Montanari, Patrimonio culturale e identità, in Declinazioni di patrimonio culturale, cit., pagg. 17-26; F. Pontani, Patrimonio culturale e identità nazionale, ivi, 27-44 e L. Degrassi, Patrimonio culturale e identità europea, ivi, spec. pag. 58 secondo la quale il richiamo alla società civile è inconfutabile.

 

 

 



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