E qualche proposta di riforma
La tutela del patrimonio archeologico italiano: i limiti dell'attuale normativa e nuove proposte di integrazione al Codice
di Luigi Malnati, Maria Grazia Fichera e Sonia Martone
Sommario: 1. Premessa. - 2. La natura del bene archeologico (Disposizioni generali e Capo I, Oggetto della tutela). - 3. La verifica e la dichiarazione dell'interesse archeologico. Autorizzazioni e premesse all'archeologia preventiva (Capo III, sezione I, Misure di protezione). - 4. La destinazione finale dei beni archeologici "mobili": l'istituto del "deposito" presso i musei civici e i nuovi "Poli museali" (Capo III, sezione II, Conservazione e protezione). - 5. Le esposizioni temporanee di materiale archeologico e la circolazione dei beni archeologici (Capo III, sezione III, Altre forme di protezione). - 6. Il patrimonio archeologico: caratteristiche. Patrimonio visibile e conservato nel sottosuolo: l'archeologia preventiva come strumento di tutela (Capo VI, Ritrovamenti e scoperte). - 7. Le concessioni di scavo tra ricerca e tutela (Capo VI, sezione I, artt. 88, 89). - 8. Il significato attuale della scoperta fortuita e del premio di rinvenimento (Capo VI, sezione I, artt. 90 e ss.). - 9. Il territorio: siti archeologici, aree archeologiche, parchi archeologici (Titolo II, Capo I, sezione I, art. 101).
The Protection of the Italian Archaeological
Heritage: The Limits of the Current Legislation and new Proposals for Reform of
the Code
The text is inspired by the proposals that the then General Direction of Antiquities had drawn up at the establishment of a Commission to reform the Code of Cultural Heritage. It was noted that the current text of the law on archeology did not present substantial innovations compared to the Law of 1939. The current conception of the discipline and the idea of the value of the archaeological heritage have changed soundly over time and replacing a merely financial evaluation with an estimate of the historical context of the archaeological finds. Various articles of the Code are examined and many substantial changes are proposed in the definition of the archaeological heritage to be protected and in the part concerning the declarations of interest and activities of preventive archeology. Some problems still present are also addressed, such as the destination of the archaeological finds from the excavations wich are in the museums, including through the deposit, and the issue of loans for exhibitions. The articles that in the Code relate to the excavations and discoveries are analyzed with an updated point of view both about the excavations under concession both regard to accidental discoveries, emphasizing the relevance of the discovery's context compared to the acquisition of material goods. It also proposes a more precise definition of different concepts of park, area and archaeological site.
Keywords: Archeology; Reform of
Code; Context;
Archaeological Finds.
In materia di archeologia il d.lgs. 42/2004 ha innovato solo in misura molto modesta rispetto a quanto sancito dalla legge 1089 del 1939, meglio conosciuta come "Legge Bottai" [1]. A ciò va aggiunto il fatto che tale Codice ha mantenuto in vigore, seppure a titolo transitorio e per quanto non normato da leggi successive, il R.D. 30 gennaio 1913, n. 363, "Regolamento per l'esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364, e 23 giugno 1912, n. 688, relative alle antichità e belle arti".
Nel 2013 il Ministro per i Beni Culturali, Massimo Bray, diede avvio ad una revisione del Codice, costituendo una commissione ministeriale di cui vennero chiamati a fare parte il prof. Salvatore Settis, il prof. Giuliano Amato, il dott. Paolo Carpentieri, il dott. Gino Famiglietti e la dott.ssa Maria Laura Maddalena. A tale commissione l'allora Direzione Generale per le Antichità volle inviare una serie di proposte di modifica [2] relativamente agli articoli riguardanti la materia archeologica. I lavori di tale commissione non sono mai pervenuti a conclusione, tuttavia quanto elaborato in quell'occasione dalla Direzione può costituire, in questa occasione, un'utile base di discussione per una riforma del Codice, quanto mai necessaria dal momento che il progresso degli studi ha assai dilatato e approfondito il concetto stesso di bene archeologico.
2. La natura del bene archeologico (Disposizioni generali e capo I, oggetto della tutela)
Un punto fondamentale è certamente costituito dalla definizione di "bene archeologico". Nel Codice, all'art. 2 comma2 e all'art. 10 comma 1 i beni archeologici sono identificati come "cose immobili e mobili [...] di interesse archeologico". I beni archeologici sono così immediatamente equiparati a quelli artistici, storici e monumentali secondo una logica che privilegia l'elemento materiale, in qualche modo quantificabile, rispetto al contesto in cui si colloca [3]. Si tratta di una definizione schematica che sarebbe stato opportuno anche nelle disposizioni generali ampliare almeno a livello di estensione territoriale (aree, siti archeologici). Il tema sarà necessariamente affrontato in modo dettagliato nella trattazione degli articoli del Codice riguardanti specificamente l'archeologia.
Nell'art. 10 al comma 4 lett. a) si introduce un ulteriore elemento di confusione precisando che sono sottoposte a tutela le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà [4]. L'archeologia, infatti, non ha limiti di riferimento cronologici né di natura culturale e quindi non si comprende perché l'archeologia preistorica debba richiedere un riferimento specifico e diversificato; allo stesso modo dovrebbero essere tutelate l'archeologia protostorica, medievale e post-medievale. È opportuno sottolineare che la definizione "primitive civiltà" è del tutto obsoleta, oltre che generica e soggettiva [5]. Comunque tutte le "civiltà" e le testimonianze della cultura umana, sono oggetto della ricerca archeologica, che è una disciplina scientifica eminentemente storica, nella misura in cui contribuisce a integrare le fonti scritte, laddove esistenti, ovvero supplendo alla mancanza con il recupero, la documentazione e la interpretazione delle testimonianze materiali e delle loro relazioni reciproche. Per quanto riguarda la paleontologia, invece, si tratta di una scienza che si inserisce nel campo delle scienze naturali, pur utilizzando le stesse metodologie d'indagine sul campo dell'archeologia; in questo caso il riferimento specifico può essere opportuno [6].
Così come non esistono discriminanti di tipo cronologico o culturale, nella definizione del patrimonio archeologico non ve ne possono essere a livello di tutela dal punto di vista qualitativo, in relazione ad un particolare pregio estetico o alla rarità del bene, così come invece in campo numismatico viene sancito all'art. 10 comma 4 lett. b) del Codice. Certamente questi elementi vanno considerati nella valutazione patrimoniale, ma ciò che conta dal punto di vista archeologico è in primo luogo la conoscenza del contesto in cui questi beni si trovano/trovavano. Il valore patrimoniale, quando esiste (il che per molti reperti a livello frammentario, specie dagli scavi di abitato, non è scontato) deve quindi tenere conto anche del rilievo scientifico del bene [7].
3. La verifica e la dichiarazione dell'interesse archeologico. Autorizzazioni e premesse all'archeologia preventiva (Capo III, sezione I, Misure di protezione)
Il Codice dei beni culturali all'art. 28 ha posto le premesse per l'applicazione anche in Italia, come già in molti paesi europei, delle pratiche di archeologia preventiva almeno per quanto riguarda i lavori pubblici. In particolare, prevedendo la possibilità per i soprintendenti di intervenire con prescrizioni anche in assenza della dichiarazione di importante interesse, ha modificato in modo sostanziale la prassi di tutela archeologica in uso introducendo il concetto di un interesse di carattere presuntivo o indiziario. Tale innovazione rivoluzionaria ha trovato attuazione negli artt. 95 e 96 del d.lgs. 163/2006 (c.d. Codice dei contratti) riguardanti l'archeologia preventiva [8].
Tali norme devono essere recepite anche nel Codice dei beni culturali. In particolare per quanto riguarda gli artt. 25-28, che trattano delle conferenze dei servizi (art. 25) e delle procedure di valutazione d'impatto ambientale (art. 26). Nel caso delle conferenze di servizi deve essere inserito il parere definitivo della procedura di verifica preventiva dell'interesse archeologico espresso dalla soprintendenza competente. Nel caso non sia stato acquisito, l'organo ministeriale preposto alla conferenza deve chiederne il rinvio [9].
Per i progetti di opere da sottoporre a valutazione di impatto ambientale, l'autorizzazione prevista dall'articolo 21 è espressa dal ministero in sede di concerto per la pronuncia sulla compatibilità ambientale, sulla base del progetto definitivo da presentarsi ai fini della valutazione medesima. In sede di redazione dello studio di impatto ambientale (SIA), ex art. 22, d.lgs. 152/2006, dovranno essere valutati i principali effetti sull'ambiente e sul patrimonio culturale (co. 2, lett. c) che i progetti possono produrre; in particolare si dovranno predisporre descrizioni relative al potenziale impatto sul patrimonio architettonico ed archeologico (d.lgs. 152/2006, All. VII). Per quanto riguarda l'archeologia, tali descrizioni si sostanziano nella relazione di valutazione ex art. 95 del d.lgs. 163/2006, cui potranno seguire gli approfondimenti ex art. 96.
È bene ribadire nel Codice l'importanza che, nel settore dei lavori pubblici, riveste l'archeologia preventiva [10]. È, infatti, ancora frequente il caso in cui il committente sottopone alla conferenza dei servizi elaborati progettuali definitivi, senza avere svolto le prescritte indagini archeologiche preliminari; tale anomalia vanifica la norma costringendo le soprintendenze ad intervenire in corso d'opera, senza possibilità di modificare i progetti. Ciò può comportare ritardi nell'esecuzione o, addirittura, la cancellazione di opere pubbliche già progettate.
Anche l'art. 28 che, nella sua genericità, ha posto le basi per la normativa successiva, dovrebbe essere adeguato secondo quanto definito dagli artt. 95 e 96 del d.lgs. 163/2006. È necessario inoltre recepire anche in sede legislativa gli accordi stipulati nella Convenzione di Malta, che prevede l'impegno per i paesi aderenti ad estendere le procedure di archeologia preventiva anche ai lavori privati [11]. Anche per tali lavori, qualora questi comportino significative trasformazioni del sottosuolo dovrebbe essere possibile chiedere da parte del Soprintendente, con provvedimento motivato, l'attivazione, a spese del committente, delle procedure di cui all'art. 96 del d.lgs. 163/2006. Nel caso in cui al committente privato venga richiesta l'attivazione di tali procedure sarebbe importante che il ministero concedesse, a richiesta dell'interessato, l'applicazione delle agevolazioni previste dalla normativa fiscale in merito alle iniziative di carattere culturale, analogamente a quanto previsto dall'art. 48, comma 6. Di fatto la procedura è già applicata da molti regolamenti comunali, primo fra tutti quello di Roma.
4. La destinazione finale dei beni archeologici "mobili": l'istituto del "deposito" presso i musei civici e i nuovi "Poli museali" (Capo III Sezione II Conservazione e protezione)
L'art. 44 del Codice si occupa del Comodato e deposito di beni culturali dal punto di vista della possibilità da parte dei direttori degli istituti culturali di ricevere e accogliere collezioni e raccolte di privati proprietari purché "la custodia non risulti particolarmente onerosa". La realtà per quanto riguarda i beni archeologici è diversa, anzi opposta. Infatti, il problema delle soprintendenze archeologia è proprio la difficoltà di ospitare nei propri depositi la massa ingente dei reperti proveniente dagli scavi, tanto da dovere chiedere l'ausilio di strutture comunali. Ci soccorre per fortuna l'art. 121 del R.D. n. 363 del 30 gennaio 1913, che così recita: "Le cose provenienti da scavo o da scoperte fortuite che per qualsiasi titolo spettino allo Stato saranno destinate ad Istituti governativi della regione donde provengono. In casi eccezionali il Ministro dell'istruzione, su parere conforme del Consiglio superiore, potrà destinarle ad altro Istituto. Oltre al caso speciale, di cui all'art. 17 ultimo comma della legge, potrà il ministero consentire, sul parere conforme del Consiglio predetto, che tali cose siano lasciate in deposito, dietro ogni più ampia garanzia di custodia, ad Istituti comunali e provinciali della regione in cui vennero scoperte."
Su questa base diverse circolari della Direzione Generale alle Antichità (ora Archeologia) hanno cercato di regolamentare la materia (2/2010, 17/2010, 10/2011). Si tratta di definire le modalità con cui i reperti mobili frutto delle centinaia di scavi condotti per motivi di tutela e di ricerca nel nostro paese possano essere affidati a istituti pubblici e raccolte museali appartenenti ad enti territoriali, in particolare quando questi coincidono con la provenienza dei materiali. Premesso che è necessario che gli autori degli scavi provvedano al loro ordinamento scientifico e alla loro catalogazione, i direttori di tali istituti li possono richiedere in deposito: ci si riferisce ai reperti degli scavi recenti, mentre sarebbe opportuno che quelli appartenenti alle collezioni storiche dello Stato da più di cinquant'anni restassero comunque affidati ai musei nazionali.
Il deposito può essere finalizzato oltre che all'esposizione, anche ad una adeguata conservazione in magazzini convenientemente attrezzati, previo assenso del competente organo ministeriale. In capo alle autorità richiedenti è attribuito l'obbligo di garantire fruizione e custodia adeguate dei beni loro affidati.
In questa situazione si inserisce la nuova organizzazione del ministero per i Beni Culturali e il Turismo, con la creazione di un sistema museale completamente autonomo dalle soprintendenze. Al capo III, art. 20, comma 2, lett. d) viene attribuita alla direzione dei musei, sentiti i competenti organi consultivi, il compito di stabilire criteri e linee guida per la ricezione di beni in comodato e deposito (ex art. 44 del Codice). Continua di fatto a essere considerata come normale una situazione che per l'archeologia è in realtà molto limitata, mentre non si considera l'ipotesi opposta, che, come detto, è frequentissima. Per altro, l'art. 35 del citato decreto, citando specificamente i musei archeologici, attribuisce alla Direzione Generale Archeologia la definizione delle modalità di collaborazione con le soprintendenze archeologia anche ai fini delle attività di ricovero, deposito, catalogazione e restauro dei reperti. Ciò perché i musei nazionali, anche archeologici, non dipendono più dalla direzione archeologia, per cui sarà necessario definire i rapporti tra le soprintendenze che scavano e i poli museali che dovrebbero conservare e esporre i reperti: da questo punto di vista la divisione delle competenze può generare forti difficoltà sul piano organizzativo.
Pare evidente a questo punto che, anche per quanto riguarda i musei civici, saranno le soprintendenze archeologia a gestire i reperti provenienti dagli scavi secondo le indicazioni dell'ICCD, anche a livello di schedature di complessi piuttosto che di singoli reperti, nonché a valutare le condizioni di sicurezza e agibilità degli istituti cui i depositi sono destinati e i progetti scientifici correlati, mentre ai poli dovrebbe se mai spettare la valutazione delle condizioni materiali delle eventuali esposizioni, dal punto di vista delle norme in materia di musei.
5. Le esposizioni temporanee di materiale archeologico e la circolazione dei beni archeologici (capo III, sezione III. Altre forme di protezione)
Non è questa la sede per discutere sull'opportunità delle iniziative espositive in campo archeologico. Serve ricordare che la necessità di sottoporre il prestito dei beni indicati agli art. 10 e 12 del Codice ad una autorizzazione del Mibact vuole indicare in capo all'autorità dello stato il compito di un coordinamento generale che miri non semplicemente all'accertamento delle condizioni di sicurezza in cui tali beni vengono posti in circolazione ed esposti, ma anche ad una valutazione della validità scientifica delle iniziative e dell'opportunità che i singoli beni lascino le sedi originarie di esposizione. Da più parti si è proposto in anni recenti di creare una sorta di lista di beni considerati "inamovibili": crediamo che tale proposta costituisca una oggettiva remissione di responsabilità da parte del ministero, cui spetta invece una decisione critica che non distingua aprioristicamente in linea di principio, anche dal punto di vista giuridico, tra i beni archeologici.
L'art. 48 del Codice che regola la materia conserva la sua validità; resta da segnalare l'opportunità che al comma 2 la tempistica per la presentazione delle richieste di autorizzazione al ministero, definita in quattro mesi prima dell'inizio dell'esposizione, venga ridotta almeno a due. L'esperienza prova che per molteplici motivi organizzativi e di carattere amministrativo l'elenco definitivo non possa essere prodotto con l'anticipo indicato: questo ha comportato la necessità di continue deroghe ed eccezioni: una tempistica più credibile renderebbe più agevole imporre il necessario rigore nel rispetto delle norme.
6. Il patrimonio archeologico: caratteristiche. Patrimonio visibile e conservato nel sottosuolo: l'archeologia preventiva come strumento di tutela (Capo VI. Ritrovamenti e scoperte)
Il Codice si occupa dell'archeologia specificamente nel capitolo VI. Già nel titolo, Ritrovamenti e scoperte, che ricalca quello analogo del 1939, si può notare una concezione fortemente limitativa della disciplina archeologica, che denota una forte suggestione antiquariale. L'immagine dell'archeologia è ristretta a ciò che viene "ritrovato", secondo il modello romantico dell'archeologia ottocentesca. Andrebbe al contrario sottolineato che l'archeologia non si identifica con i rinvenimenti, più o meno eccezionali, di "oggetti", singoli monumenti o, peggio, di "tesori nascosti", ma è una disciplina che indaga, utilizzando metodologie e strumenti propri, tutte le tracce lasciate sul terreno dalle attività dell'uomo. Si tratta di un patrimonio diffuso, di consistenza variabile a seconda delle condizioni storiche e difficilmente fruibile in quanto prevalentemente conservato nel sottosuolo [12]. L'archeologia deve quindi tutelare non tanto le "cose" mobili e immobili ma, cosa ancor più importante, il contesto in cui si trovano, nella sua totalità. Il titolo del Capo VI andrebbe quindi modificato in Archeologia o, meno opportunamente, Beni archeologici.
Alla base di una normativa specifica in materia di archeologia sarebbe necessario innanzitutto enunciare le caratteristiche della tutela, definendo in cosa consista il patrimonio archeologico e poi le condizioni per le attività di archeologia preventiva e per la ricerca. Gli articoli che attualmente nel Codice si riferiscono alle cosiddette scoperte fortuite (Sezione I, art. 90 e ss.) sono invece da considerarsi residuali, in quanto questo tipo di rinvenimenti assume ormai un carattere marginale nel panorama generale dei ritrovamenti archeologici
Il patrimonio archeologico nazionale è costituito da tutte le testimonianze lasciate dalla presenza umana nelle diverse epoche la cui conoscenza si attua preminentemente attraverso scavi e rinvenimenti; tali testimonianze, conservate sia in superficie che nel sottosuolo, sono identificabili, oltre che con beni immobili ancora completamente o parzialmente visibili e con i reperti mobili recuperati nel corso di scavi o in occasione di scoperte fortuite o conservati in collezioni pubbliche e private, come definiti dall'art. 2, comma 2 e art. 10, commi 1, 2 e 3, anche con i depositi stratificati e variamente estesi presenti nei centri urbani, pur se di costituzione relativamente recente, e nel territorio, rappresentativi dei diversi periodi preistorici e storici [13].
Del patrimonio archeologico ancora conservato nel sottosuolo non si conosce a priori la consistenza e quindi non è possibile intervenire con la dichiarazione di cui agli artt. 13 e 14, per mancanza di requisiti accertati (a meno che non si pensi di vincolare il sottosuolo di intere citta); questo patrimonio è tuttavia a rischio di manomissione e distruzione e non è inesauribile [14]. Deve quindi essere oggetto di tutela preventiva da parte dell'amministrazione dello stato sulla base dell'art. 28 del Codice, del d.lgs. 163/2006 agli artt. 95 e 96 e della Convenzione di Malta. Tuttavia, qualora ne sussistano le condizioni, in presenza di elementi archeologici accertati e di contesti particolarmente significativi, anche il patrimonio conservato nel sottosuolo può essere sottoposto a provvedimenti di dichiarazione di interesse culturale come da art. 14 comma 1. Nell'ambito della pianificazione territoriale e urbanistica, in accordo con regioni, province e comuni, normative di tutela preventiva possono opportunamente essere definite con la redazione di carte di potenzialità archeologica. Tali carte identificano mediante accertamenti diretti, acquisizione di documentazione storica, di archivio e di scavo, e studi di carattere geologico, la consistenza dei depositi archeologici potenzialmente conservati nel sottosuolo sia a livello urbano che territoriale e definisce le aree i cui depositi devono essere conservati integri, quelle che possono in caso di necessità essere oggetto di scavo e quelle in cui i depositi sono possibilmente assenti o perché mai insediate o perché i depositi sono già stati asportati [15].
È importante definire a livello legislativo il significato dell'archeologia in quanto disciplina storica e tecnica, nonché la reale consistenza del nostro patrimonio e superare, in campo normativo, le definizioni generiche o limitative fino ad ora utilizzate, al fine di evitare gli equivoci e le inevitabili polemiche nel caso in cui lavori eseguiti in ambito urbano o per la realizzazione di grandi infrastrutture, intercettino resti archeologici. Quando si interviene con scavi in un centro urbano, ad esempio, è infatti assolutamente inevitabile intaccare le stratigrafie archeologiche; il problema è, se mai, identificare in anticipo i depositi archeologici che verranno intercettati dai lavori, in modo da poter operare scelte consapevoli, decidendo preventivamente ciò che può essere "sacrificato" (e che, in ogni caso, deve essere adeguatamente documentato) e ciò che va assolutamente preservato, anche a costo di rinunciare - del tutto o parzialmente - alle opere previste. Tali scelte devono comunque essere effettuate sulla base di una accurata valutazione scientifica della consistenza quantitativa dei depositi archeologici, del livello di conservazione degli stessi, della rarità o meno dei contesti dal punto di vista cronologico e tipologico, della possibilità o meno di effettuare una eventuale valorizzazione: in buona sostanza si tratta di valutazioni che sono pertinenti alla responsabilità degli archeologi e che si devono basare su di una adeguata conoscenza della materia.
7. Le concessioni di scavo tra ricerca e tutela (Capo VI, sezione I, artt. 88, 89)
Il Codice concepisce la ricerca archeologica ancora come un'attività volta a ritrovare cose indicate all'articolo 10 (comma 4), riserva tale compito al ministero, che agisce direttamente o tramite concessione. È opportuno sottolineare che l'amministrazione è attualmente impegnata soprattutto negli scavi di tutela e di emergenza, mentre le indagini finalizzate alla conoscenza sono per lo più condotte da Istituti universitari o scientifici. Il concetto di ritrovamento di cose è ancora strettamente legato ad una concezione meramente patrimoniale del bene archeologico e non sembra in alcun modo valutare gli aspetti relativi alla acquisizione di informazioni di carattere storico e scientifico o anche le problematiche degli interventi di scavo legati alla necessità di acquisire tutti i dati possibili in situazioni in cui i depositi archeologici devono/possono essere asportati per permettere la realizzazione di opere diverse.
Il Codice definisce quindi innanzitutto le modalità che regolano gli scavi che definiremmo di ricerca, e quindi le occupazioni temporanee e le relative indennità (art. 88, commi 2 e 3). È ancora previsto che l'indennità sia corrisposta, a richiesta, anziché in denaro, mediante rilascio delle cose ritrovate o di parte di esse, quando non interessino le raccolte dello Stato. Il ministero ha sempre più difficoltà a reperire le risorse economiche necessarie e questo crea problemi all'attività di ricerca: per prassi tuttavia questa possibilità non viene utilizzata. Tuttavia, qualora i reperti non siano meritevoli di esposizione o di conservazione in depositi scientificamente ordinati (è il caso ad esempio di rinvenimenti seriali) non è inopportuno attivare tale possibilità, garantendo il controllo dei reperti consegnati mediante la dichiarazione d'importante interesse. Forse potrebbero essere utilizzati materiali rinvenuti fuori contesto o recuperati da sequestri.
È necessario inoltre precisare che nei casi di interventi di scavo condotti non per attività di ricerca ma per finalità diverse legate all'archeologia preventiva gli oneri nei confronti dei proprietari sono a carico della committenza e non del ministero. Attualmente mentre le occupazioni temporanee (e gli espropri eventuali) sono a carico della committenza, il premio di rinvenimento spetta al ministero, secondo percentuali diverse a seconda delle circostanze.
Il Codice regolamenta all'art. 89 le concessioni di ricerca (e, s'intende, di scavo). A favore del concessionario il ministero può emettere il decreto di occupazione degli immobili. Non si parla dell'indennizzo e quindi sarebbe opportuno precisare che, qualora definito in denaro, può essere posto a carico del concessionario e che il proprietario può rinunciare all'indennizzo in forma scritta e preventiva [16].
Il Codice prevede successivamente (comma 2) che il concessionario deve osservare, oltre alle prescrizioni imposte nell'atto di concessione, tutte le altre che il ministero ritenga di impartire. Per una questione di equità nei confronti dei concessionari di ricerche (che sono diverse centinaia all'anno) il ministero ha regolato la materia tramite circolari. Non è questa la sede per discutere tale problematica che ha sollevato un dibattito anche recente tra il prevalere di esigenze di tutela e di ricerca. Tuttavia sarebbe bene inserire nel Codice almeno due prescrizioni di fondo: gli interventi dei concessionari devono essere compatibili con le esigenze di tutela e i concessionari si devono impegnare, a seconda dell'esito degli scavi, a ripristinare lo stato dei terreni e a provvedere al restauro dei beni immobili rinvenuti che si intende, in accordo con il ministero, lasciare a vista, e al restauro e al riordino dei beni mobili.
In caso di inosservanza delle disposizioni è previsto l'istituto della revoca (comma 2) anche per sostituzione (comma 3). È appena il caso di segnalare che tali provvedimenti devono essere motivati [17].
8. Il significato attuale della scoperta fortuita e del premio di rinvenimento (capo VI, sezione I, artt. 90 e ss.)
Alle scoperte fortuite sono stati dedicati diversi capitoli del Codice, in particolare il 90, cui seguono gli artt. 91-93 che dichiarano la proprietà dello stato delle cose ritrovate e definiscono le norme relative ai premi per i ritrovamenti [18]. Premesso che le occasioni di scoperte "fortuite" sono molto diminuite proprio per l'applicazione negli ultimi decenni a livello anche non sistematico, delle attività di archeologia preventiva (se si procede ad escavazioni in un'area urbana, ad esempio, è evidente che i ritrovamenti non sono fortuiti, ma certi), è importante definire i comportamenti dei rinvenitori.
Il Codice prevede che le cose rinvenute (silicet mobili) non debbano essere rimosse; prevede anche (art. 90, comma 2) il caso in cui lo scopritore ha facoltà di rimuoverle per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione. È importante precisare che lo scopritore in tali casi deve avere cura di definire nel modo più accurato possibile le condizioni e il posizionamento del ritrovamento e, se possibile, di assicurare una documentazione fotografica. La rimozione del bene rinvenuto casualmente è infatti una pratica assai comune, dal momento che molto spesso i rinvenitori non si rendono conto dell'importanza di preservare il contesto di rinvenimento o perché temono che i materiali rinvenuti possano essere prelevati da altri. Avere un posizionamento esatto, consente i necessari approfondimenti di indagine da parte del ministero.
Per quanto riguarda la proprietà dei beni rinvenuti, il Codice conferma la proprietà dello stato (demanio o patrimonio indisponibile a seconda si tratti di immobili o mobili). Sarebbe necessario precisare che la proprietà dello stato non si dovrebbe riferire solo a ciò che è rinvenuto nel sottosuolo, ma anche a ciò che si rinviene in superficie a seguito di sommovimenti di terra (es. arature), e che ai fondali marini andrebbero aggiunti anche quelli di laghi e fiumi. La legge del 1939 opportunamente non faceva tali distinzioni.
Per quanto riguarda la questione dei premi, sarebbe meglio venisse esplicitata nell'art. 92 la possibilità che proprietari, rinvenitori e concessionari manifestino una rinuncia formale, privilegiando, almeno per i concessionari, l'attività scientifica all'interesse patrimoniale. Nel momento in cui viene confermata (comma 4) la possibilità di concedere all'avente diritto anziché un premio in denaro una parte dei beni rinvenuti, sarebbe bene individuare per il ministero una terza possibilità: conferire beni archeologici di pari valore, ma seriali o privi di provenienza. Si potrebbe così evitare di separare reperti che potrebbero avere una provenienza e un contesto certo (ad esempio corredi tombali di una stessa necropoli).
9. Il territorio: siti archeologici, aree archeologiche, parchi archeologici (Titolo II, capo I, sezione I, art. 101)
Nel titolo II del Codice, che tratta di fruizione e valorizzazione, all'art. 101 vengono descritti gli Istituti e i luoghi della cultura. Tra questi ci sono, al comma 2, lettera a), i musei, ma più specificamente, per quanto riguarda l'archeologia, vengono definitivi ai commi d), e) ed f), rispettivamente le aree archeologiche e paleontologiche, i parchi archeologici e i siti paleontologici.
È bene soffermarsi su queste definizioni, specie su quella di area archeologica, perché nella formulazione del Codice è fonte di non poca confusione. Si tratterebbe di un sito caratterizzato dalla presenza di resti di natura fossile o di manufatti o strutture preistorici o di età antica. In realtà i concetti di sito archeologico e area archeologica andrebbero distinti. Un "sito archeologico" è una porzione di territorio che conserva testimonianze della presenza umana appartenenti ad un passato più o meno remoto ed indagabili con i metodi propri della ricerca archeologica; è nell'ambito dei siti archeologici che si distinguono le "aree archeologiche", conservate in condizioni di visibilità fuori terra, ed i "depositi archeologici" presenti nel sottosuolo; questi ultimi sono oggetto di tutela ex art. 13 e art. 142, comma 1, lettera m), nonché sulla base dell'art. 28.
La questione è assai dibattuta e meriterebbe una trattazione specifica. Le "aree archeologiche" sono facilmente identificabili: in ambito extra-urbano coincidono, per lo più, con insediamenti privi di continuità di vita di cui restano essenzialmente le strutture scavate e lasciate a vista, mentre in area urbana coincidono con aree monumentali poste in luce, solitamente a seguito di scavi (si pensi ai Fori a Roma ma anche al Colosseo, ecc.). Al contrario, i depositi archeologici che sul territorio coincidono con insediamenti spesso ancora da identificare, in tutto o in parte, sono sempre presenti nel sottosuolo dei centri urbani, anche di dimensioni ridotte.
È ancora da rilevare che la definizione delle aree archeologiche così come formulata limita cronologicamente l'ambito all'età preistorica e antica. Si deve, anche in questo caso, ribadire che l'archeologia non riguarda l'età antica ma le testimonianze del passato indipendentemente dalla cronologia.
I siti paleontologici, porzioni del territorio che conservano resti fossili, andrebbero comunque distinti da quelli archeologici
Per quanto riguarda i parchi archeologici, per i quali sono state emanate di recente linee guida approfondite, è necessario precisare rispetto alla definizione di cui all'articolo 101, comma 2 lettera e) che l'ambito territoriale deve essere esteso e che le evidenze archeologiche devono essere prevalenti, perché si distingua dai parchi naturalistici.
Per concludere, anche da questo punto di vista distinguere tra sito archeologico sepolto, cui si deve provvedere con gli strumenti del vincolo o dell'archeologia preventiva, dalle aree archeologiche, strutturate e visibili, cui si deve attendere con le metodologie della conservazione programmata, e dai parchi archeologici, che rispondono ad interessi molteplici e complessi, di diversa natura non solo archeologica, appare indispensabile perché da una chiara normativa discenda anche l'opera di tutela, conservazione, gestione e valorizzazione.
Note
[1] Le criticità del Codice furono ampiamente evidenziate da M. Cammelli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: dall'analisi all'applicazione, in Aedon, 2004, 2.
[2] A tale redazione, oltre agli autori di questo contributo parteciparono diversi membri della direzione, in particolare il dirigente del servizio III, Jeannette Papadopoulos; consigli preziosi sono anche pervenuti da Daniela Locatelli, Letizia Mancinelli e Anna Patera; a tutti va il nostro ringraziamento.
[3] Decisamente più ampio il concetto di bene culturale e anche di bene archeologico proposto dalla commissione Franceschini: G. Pitruzzella, La nozione di bene culturale, in Aedon, 2000, 1. Grave è il concetto per cui il bene culturale non dipende da qualità intrinseche, ma, per quanto riguarda i beni non pubblici, dalla "dichiarazione".
[4] La definizione è ripresa dal Testo Unico e quindi dalla legge 1089 del 1939 senza modifiche.
[5] Va considerata più "primitiva" la società degli Enotri o quella dei Celti? Esistevano ancora fino a pochi anni fa popolazioni, come gli aborigeni dell'Australia, che conservano un livello culturale e tecnologico non molto diverso dal le popolazioni preistoriche europee.
[6] Si deve tenere conto che si va sempre più diffondendo il commercio dei fossili, ad un livello non solo amatoriale, che può portare alla distruzione di depositi ancora conservati riferibili ad epoche precedenti alla comparsa dell'uomo.
[7] Un esempio canonico della relatività di tali valutazioni può essere costituito dal rinvenimento di un frammento di ceramica figurata di produzione attica: se viene recuperato in Magna Grecia appartiene a vasellame di uso quotidiano abbastanza comune e il suo valore patrimoniale dipende dalla qualità dell'artigiano/artista che lo ha prodotto, se rinvenuto a nord del Po è una testimonianza molto rara di contatti commerciali a vasto raggio e ha un considerevole valore scientifico anche indipendentemente dalla qualità di chi lo ha prodotto; naturalmente per un frammento di collezione privo di provenienza resta solo una valutazione patrimoniale. Nelle tabelle in uso presso il Mibact per la valutazione dei premi di rinvenimento si tiene in effetti conto del valore scientifico del bene, ma sarebbe necessario inserire nel Codice questo aspetto certo non secondario.
[8] L. Malnati, La verifica preventiva dell'interesse archeologico, in Aedon, 2005, 3; cfr. anche la Circolare della Direzione Generale per le Antichità n. 10/2012, Procedure di verifica preventiva dell'interesse archeologico ai sensi degli artt. 95 e 96 del d.lgs. 163/2006 s.m.i.
[9] Sarebbe molto importante che nella revisione del Codice degli appalti, in corso presso il ministero delle Infrastrutture ad opera di un gruppo di lavoro tecnico, gli archeologi fossero presenti.
[10] Andrebbe anche armonizzata la normativa relativa ai lavori pubblici con quelle che sono esigenze pratiche di applicazione della normativa esistente: l'archeologia preventiva si scontra infatti con difficoltà pratiche che non vengono minimamente considerate; si veda ad esempio la difficoltà di effettuare indagini su aree che non sono ancora in possesso della stazione appaltante, in quanto gli espropri vengono effettuati ovviamente solo dopo l'approvazione del progetto.
[11] All'art. 6, comma 2, lett. a) "[...] adottando disposizioni utili affinché, in caso di importanti lavori pubblici o privati di sistemazione, siano previsti fondi, provenienti in maniera appropriata dal settore pubblico e da quello privato, che si assumano la totalità dei costi delle operazioni archeologiche necessarie legate a questi lavori".
[12] R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario di archeologia, Bari, 2012.
[13] Più vicina all'attuale concezione del patrimonio archeologico è la definizione utilizzata nella Convenzione di Malta, che così recita (art. 1, comma 3): "Il patrimonio archeologico comprende le strutture, costruzioni, complessi architettonici, siti esplorati, beni mobili, monumenti di altro tipo e il loro contesto, che si trovino nel suolo o sott'acqua."
[14] A. Ricci, I mali dell'abbondanza, Roma, 1996; D. Locatelli, L. Malnati, Tutela e aspetti legislativi: il ruolo delle Soprintendenze, in Emergenza sostenibile. Metodi e strategie dell'archeologia urbana. Atti della Giornata di Studi (Bologna, 27 marzo 2009).
[15] S. Gelichi, A. Alberti, M. Librenti, Cesena: la memoria del passato, archeologia urbana e valutazione dei depositi, Biblioteca di Archeologia Medioevale, 1999.
[16] Si tratta di una norma che, date le attuali difficoltà economiche, può favorire concessioni di ricerca in alcune situazioni particolari: si pensi, ad esempio, a scavi e indagini promosse da amministrazioni locali.
[17] È poi prevista, al comma 5, una norma che estende anche al proprietario degli immobili la possibilità di chiedere la concessione. Non si comprende la ratio di questo comma. Nella legge del 1939 la distinzione era dovuta al fatto che al proprietario che intendesse eseguire ricerche archeologiche, anziché la concessione veniva più semplicemente rilasciata un'autorizzazione; abolita questa facoltà, non si vede perché si debba trattare specificamente il caso del proprietario: in realtà l'iter istruttorio è identico a qualsiasi altro richiedente, salvo che, evidentemente, non sarà necessario emettere il decreto di occupazione temporanea.
[18] Come si vede tutta l'impostazione del Codice sembra manifestare una concezione dell'archeologia come di una scienza indirizzata innanzitutto alla scoperta di beni di valore patrimoniale, non molto lontana dalla concezione di "caccia al tesoro", spesso ripresa dai titoli dei media e purtroppo di molte esposizioni pubbliche.