Lo spettacolo dal vivo
Le opere e i giorni
di Antonio Cognata e Michele Trimarchi
Sommario: 1. In attesa della grande riforma. - 2. Lo stato delle cose. - 3. Profili finanziari: tagli e vincoli. - 4. Autonomia e responsabilità. - 5. Possibili indirizzi per un ridisegno.
The Critical reading of the legislation order 100 of June 29th, 2010 shows that this act is unable to effectively address the unsolved problems of the Italian Opera, perpetuating an outdated paradigm without affecting the actual opera system. A brief analysis of the 2009 annual balance sheets of 12 on 14 Italian Opera Theatre highlights the current double weakness of Foundations: the importance of public grants on the revenue side, something which is going to drastically drop, and the relevance of payroll expenses. Such an act evidently aims at the mere containment of current expenditure devoted to Opera while the present situation (being the result of a long lasting stratification and institutional paralysis) evidently required a substantial change both from organizational and financial side. The public support to culture has always been the cornerstone of a well-established paradigm. The current trend seems to show a new perspective based on a radical change: markets' strength and dynamism set the cultural consensus of the local community which is able to activate the interest of the enterprises justifying the need of a coordinated public action which could benefit the whole cultural process, facilitating its sustainable growth. A new sector reform is necessary to combine the need for autonomy and entrepreneurship, together with the effective protection of cultural sector professionalism. In this sense it is thus essential to adopt a constructive way of thinking in spite of prejudice.
1. In attesa della grande riforma
La lettura critica del testo della legge 29 giugno 2010, n. 100 e le reazioni dei dipendenti delle Fondazioni liriche e di buona parte del mondo della cultura mostrano un'evidente sproporzione. Annunciata da tempo come una 'riforma necessaria' e accolta da molte e vistose proteste, la legge scontenta molti ma appare sostanzialmente incapace di affrontare con la necessaria efficacia i problemi irrisolti della lirica italiana.
La legge arriva alla fine di un lungo processo che da una parte ha progressivamente irrigidito le opzioni strategiche e operative dei teatri d'opera, dall'altra ha sottratto risorse finanziarie al Fondo Unico dello Spettacolo senza però introdurre alcun sistematico e affidabile meccanismo correttivo. L'idea che lo spettacolo dal vivo possa continuare a essere sostenuto essenzialmente con iniezioni di risorse pubbliche senza l'assistenza di alcun meccanismo incentivante (cioè senza sistemi di monitoraggio e sanzioni) appare sempre meno credibile. Tanto più in un periodo di radicale cambiamento in cui da una parte il ruolo della cultura muta perdendo alcune delle ragioni un tempo condivise; dall'altra nuove tecnologie e nuove aspettative sociali schiudono l'opportunità di una più intensa e vantaggiosa relazione con i mercati.
In questo contesto, perpetuare le modalità produttive (e distributive) di un paradigma superato senza incidere sull'ossatura stessa del sistema della lirica risulta una scelta riduttiva e di scarsa efficacia. L'esperienza della trasformazione degli enti lirici in Fondazioni avrebbe dovuto insegnare tanto al legislatore quanto agli operatori del settore che le operazioni di maquillage giuridico non solo non producono apprezzabili effetti, ma finiscono per aggravare una malattia cronica della quale tuttora non è stata individuata né sperimentata la terapia.
Per molti versi la questione è ben più ampia, per quanto la lirica costituisca la voce più ingombrante del bilancio dello spettacolo dal vivo, e riguarda l'intero sistema culturale, tuttora strutturato in modo obsoleto tanto sul piano istituzionale quanto su quello finanziario. La contraddizione di fondo, che riguarda lo spettacolo dal vivo così come i musei e i siti archeologici, risiede nella presenza pervasiva di vincoli e garanzie derivanti dalla rilevanza dello Stato, ma al tempo stesso dal progressivo disimpegno dello Stato stesso (non soltanto per la riduzione continua dei finanziamenti, si pensi anche, per esempio, al disegno insufficiente delle relazioni tra pubblico e privato nella vendita di servizi o nella stessa gestione).
Che l'intero sistema italiano dei teatri d'opera richieda una riforma sostanziale è difficile da confutare. I problemi del settore sono noti a tutti e più volte evidenziati: bassa produttività, costi eccessivi in alcune voci, debiti elevati, frequenti crisi di liquidità. D'altra parte, la sequenza di commissariamenti, la contrazione dei programmi produttivi e distributivi, il livello febbrile e concitato della contrapposizione tra management e lavoro vanno interpretati come i sintomi di una crisi profonda che non conviene più a nessuno ignorare. Il rischio potrebbe essere, come è avvenuto in più occasioni per alcune compagnie aeree di tutto il mondo, la cessazione definitiva delle attività da un giorno all'altro. Per evitarlo occorre un esame lucido e privo di pregiudizi, che superi la tentazione tanto ricorrente di un'attribuzione univoca delle molteplici responsabilità. Se colpe ci sono, si dovrebbero comunque ascrivere a una sorta di miopia interpretativa condivisa che ha indotto tutti gli attori in campo a ostinarsi a insistere su un modello istituzionale ormai decisamente superato.
Qualche dato può fornire indicazioni utili a definire la portata della crisi. La lunga anamnesi dei teatri d'opera italiani è nota; l'esame sintetico dei bilanci consuntivi 2009 evidenzia la situazione attuale, mostrando con una certa chiarezza gli snodi fragili e per più di un verso lanciando un segnale d'allarme non più eludibile con interventi parziali ed esclusivamente finanziari. I dati che si elencano di seguito riguardano dodici delle quattordici Fondazioni lirico-sinfoniche; dall'analisi sono escluse la Fondazione Santa Cecilia che come è noto non mette in scena opere liriche (eseguendole ogni tanto in forma di concerto), e la Fondazione Petruzzelli di Bari che, dalla sua riapertura e fino alla chiusura del bilancio dell'esercizio 2009, non ha ancora realizzato una completa stagione operistica.
L'esame disaggregato delle entrate indica su quali basi finanziarie si fonda l'attività delle Fondazioni. Preliminarmente, va chiarito che - a dispetto di un convincimento piuttosto diffuso negli ultimi decenni - il peso delle entrate private sul bilancio complessivo non può essere assurto a sintomo principale della capacità gestionale e finanziaria delle Fondazioni stesse: la complessità della crisi impone un'interpretazione meno binaria e semplicistica. Va altresì segnalata l'esigenza di valutare i dati che seguono in termini complessivi, tenendo presente pertanto che la situazione di diverse Fondazioni può risultare sostanzialmente eterogenea tanto in termini quantitativi quanto relativamente alle modalità gestionali e produttive. Tuttavia, sebbene in modo sintetico i dati mettono a fuoco in modo molto eloquente lo stato complessivo del comparto delle Fondazioni lirico-sinfoniche.
A fronte di un valore complessivo della produzione pari a € 520.448.249 il totale dei costi di produzione risulta uguale a € 528.388.185. A prima vista, i quasi otto milioni di differenza non appaiono così scoraggianti, tuttavia sono il primo sintomo di una situazione di fragilità e incertezza. Il dato non è ovviamente distribuito uniformemente, e alcune Fondazioni (poche in verità) nel 2009 hanno registrato differenze positive. Per interpretare in modo pertinente i dati stessi, bisogna considerare che il comparto ha subito una sequenza di commissariamenti, e che alcuni teatri hanno ridotto sostanzialmente la propria produzione.
Esaminando specificamente le entrate, si registra una preponderanza delle voci derivate: i contributi statali, pari a € 229.249.403; quelli regionali, pari a € 49.706.478; quelli municipali, pari a € 52.682.800; infine, quelli provenienti da fonti private (ossia societarie, data l'assenza nel nostro Paese della prassi altrove diffusa e consolidata delle donazioni individuali), pari a € 39.872.560. Le entrate derivate sono dunque quasi esclusivamente di fonte pubblica, e ciò induce a qualche preoccupazione se si considera non soltanto l'andamento discendente che esse registrano da anni, ma anche il regime sempre più stringente dei vincoli che attanagliano tanto la finanza statale quanto quella regionale e locale, il che fa presagire possibili ulteriori contrazioni negli anni a seguire. Le entrate caratteristiche, essenzialmente ricavi dalla vendita di biglietti e abbonamenti, risultano pari a € 84.454.431, ossia il 16,22% delle entrate complessive. Se ne può evincere, di primo acchito, l'ambito estremamente limitato dell'autonomia progettuale delle Fondazioni, e a contrario sensu l'area di una dipendenza finanziaria che non è negativa in sé ma che appare precaria e incerta nel futuro, limitando dunque la possibilità di superare una condizione di forte dipendenza dalle contingenze della finanza pubblica.
Quanto alle voci di spesa, la loro disaggregazione appare molto eloquente: i costi del personale dipendente ammontano a € 316.588.644, quelli del personale artistico scritturato a € 75.047.504; la spesa per l'acquisto di beni e servizi risulta pari a € 90.231.199; le altre voci sono inferiori, e riguardano perlopiù spese di manutenzione e/o amministrazione non assimilabili alle voci precedenti. La questione del peso che il personale dipendente rappresenta all'interno dei bilanci delle Fondazioni, richiedendo inevitabilmente un controbilanciamento sul versante delle entrate, risulta in tutta la sua evidenza. Essa non può essere affrontata in termini semplicistici: le interpretazioni estreme, in base alle quali il personale sarebbe numericamente eccessivo, o al contrario garantirebbe l'eccellenza delle produzioni vanno rigettate. Entrambe queste interpretazioni, sia pure da posizioni opposte, mostrano di non affrontare la sostanza del problema. La consistenza numerica del personale e/o il suo costo devono essere valutati con riguardo al rapporto tra risorse e prodotti, e naturalmente alla pertinenza tecnica dei prodotti stessi.
La debolezza ormai cronica delle Fondazioni lirico-sinfoniche è confermata dal debito netto dei teatri, che nel 2009 ammontava a € 281.916.537. Si tratta di una zavorra a lungo accumulata e adesso sul punto di esplodere irreversibilmente. Per sintetizzare, le Fondazioni soffrono di una duplice debolezza: sul versante delle entrate un peso preponderante dei contributi di fonte pubblica i cui andamenti futuri registreranno con ogni probabilità contrazioni ulteriori; su quello della spesa un peso rigido e notevole del personale dipendente. Questo costo prevalentemente fisso assorbe un'elevata percentuale della spesa complessiva e finisce per determinare una forte limitazione delle risorse variabili destinate alle produzioni artistiche (compagnie di canto, direttori d'orchestra, registi, scenografi, allestimenti scenici, etc.) e agli investimenti.
3. Profili finanziari: tagli e vincoli
La fotografia dello stato patrimoniale e finanziario delle Fondazioni lirico-sinfoniche appare certamente di gravità inedita. La situazione origina da lontano, e dovrebbe essere affrontata nel suo complesso, con un approccio radicale che incida sui diversi profili rilevanti: l'assetto istituzionale, la struttura produttiva, i meccanismi di finanziamento. A monte di tutto ciò andrebbe discusso il ruolo che la lirica può ricoprire nel sistema culturale dei prossimi anni, abbandonando l'insostenibile modello esistente, costruendo un realistico indirizzo strategico e dotando i teatri d'opera di efficaci strumenti d'azione. Un intervento in questa direzione appare indifferibile non soltanto per evitare la chiusura delle Fondazioni, ma anche per i riflessi che potrebbe generare sul regime più ampio della lirica in Italia, coinvolgendo in una diversa filosofia creativa, produttiva e distributiva anche i teatri di tradizione e la cosiddetta lirica minore.
In questo senso la legge 100/2010 mostra di lambire appena la superficie della questione, ponendosi pienamente in un alveo già frequentato dal governo e dal legislatore e volto essenzialmente a contenere alcuni fenomeni senza realmente incidere sulle loro cause strutturali. Già la stessa enunciazione degli obiettivi di ampio respiro con i quali si apre l'articolato suona generica e rituale, soprattutto se si considera che uno dei difetti più vistosi dell'intera legislazione in materia di spettacolo dal vivo è proprio lo scollamento tra gli obiettivi identificati e i meccanismi di determinazione dei sussidi pubblici. Questi ultimi non dipendono in alcun modo dalla misurazione del grado di conseguimento degli obiettivi da parte dei soggetti da finanziare, con questo rendendo meramente formale e di fatto inutile l'identificazione degli obiettivi stessi.
Scendendo nel dettaglio, le norme della legge coprono uno spettro piuttosto ampio di argomenti (dall'attrazione di finanziamenti privati alla responsabilità personale degli amministratori): non si tratta certo di novità, ma di un'enfatizzazione di fatti e strumenti già ampiamente previsti dalla legislazione preesistente. Il richiamo forte ed esplicito operato nel testo sembra rivelare una sorta di sconfessione nei confronti di norme vigenti ma con tutta evidenza poco operative, come dire che il legislatore del passato aveva previsto delle norme ma l'amministrazione non si era curata troppo di applicarle.
Non si vede - ad esempio - come i finanziamenti privati possano convergere sulle Fondazioni da adesso in poi, se le ragioni di fondo che dovrebbero motivarli mancano tuttora. O come la responsabilità degli amministratori, già comunque prevista dal codice civile, possa adesso diventare operativa. Né incoraggia la previsione - anch'essa redatta come se si trattasse di una novità - delle competenze tecniche e della comprovata esperienza richiesta per la nomina dei vertici manageriali delle Fondazioni. Leggendo alla lettera, sarebbe impossibile nominarne di nuovi, in quanto non avrebbero l'indispensabile esperienza specifica; leggendo con ragionevolezza la norma non inserisce alcunché di nuovo, ma continua a trascurare che la differenza nella strategia e nella condotta del management spesso risiede nella diversa a tra innescare un deciso cambiamento o a lasciare che la macchina delle Fondazioni mantenga un abbrivio gestionale statico.
Non mancano, nel testo della legge 100/2010, equilibrismi e cavilli degni di un tempo che si ostina a non passare: per suggerire uno degli esempi più eclatanti, si veda la norma che prevede la "rideterminazione dei criteri di ripartizione del contributo statale, salvaguardando in ogni caso la specificità della Fondazione nella storia della cultura operistica italiana e tenendo conto degli interventi strutturali effettuati a carico della finanza pubblica nei dieci anni antecedenti alla data di entrata in vigore del presente decreto". Capolavoro di drafting all'italiana, in cui palesemente viene negato quanto stabilito in premessa, e senza che si possa basare qualsiasi decisione sull'evidenza di dati o indicatori di alcun genere. In questo modo, l'imprecisione dei principi e delle regole di fondo consente il mantenimento dello status quo.
Uno dei principi ricorrenti nella lettera della legge (così come delle leggi precedenti) è quello dell'autonomia delle Fondazioni liriche. Senza dover ripercorrere il sentiero della legislazione a partire dalla legge Corona, va sottolineato che, al contrario, lo statuto delle Fondazioni liriche appare caratterizzato proprio dalla sostanziale mancanza di autonomia. Non è previsto alcuno spazio di autoregolazione, dal momento che lo statuto - predisposto dettagliatamente dalla legge di trasformazione degli enti lirici in Fondazioni - può cambiare ma è sottoposto all'approvazione ministeriale; che le relazioni con le risorse umane presentano un grado massimo di rigidità; che il rapporto stesso tra conferimenti finanziari e potere decisionale è in qualche misura regolato dalla legge stessa, omogeneizzando situazioni palesemente difformi e in ogni caso limitando l'autonomia negoziale di ciascuna Fondazione.
In una situazione caratterizzata da così bassa autonomia sorprende che gli sforzi del legislatore siano indirizzati verso questioni secondarie anziché verso profili più rilevanti ai fini della solidità delle Fondazioni. In definitiva il legislatore nega autonomia alle Fondazioni quando si tratta di decisioni inerenti l'assetto finanziario, inserisce vincoli, condizioni e autorizzazioni per una molteplicità di scelte e azioni, ma consente che ogni Fondazione possa stabilire qual è l'ammontare della produzione destinata agli spettatori, a dispetto delle massicce erogazioni di denaro pubblico giustificato, tra le altre finalità, dalla diffusione della lirica e dall'espansione dell'accesso.
D'altra parte, appaiono poco significativi anche i tagli previsti dalla legge 100/2010. Nonostante la forte reazione dei dipendenti, dei loro rappresentanti sindacali e di molti operatori culturali e semplici appassionati, va detto che le norme che tentano di fermare la deriva finanziaria delle Fondazioni sono piuttosto blande. Non dimentichiamo che la previsione di limitare le assunzioni a tempo indeterminato, se non in presenza di fondi resi disponibili dai pensionamenti, è già in vigore in quasi tutti i settori produttivi del Paese, e risponde a un criterio che può non piacere ma riflette l'esigenza di contenimento della spesa corrente e della sua influenza sulle dinamiche finanziarie future.
In ogni caso la logica sottesa alla legge appare con tutta evidenza quella di un parziale e provvisorio contenimento, senza che alcuna innovazione strutturale lasci presagire ragionevolmente inversioni di tendenza che potrebbero condurre a regimi finanziari ordinari sani e fisiologici. Il punto è cruciale, se si considera che gli interventi possibili dipendono essenzialmente da come s'interpreta il coagulo di cause che hanno generato, con lenta ma ostinata efficacia, la situazione attuale. Non si tratta certo di indicare delle colpe, ma quanto meno sarebbe indispensabile attribuire delle evidenti responsabilità causali. Il fatto che la legge ribadisca principi e criteri quasi fingendo che essi non fossero previsti in passato - dalla responsabilità degli amministratori alla scelta di persone competenti, dall'economicità di gestione all'imprenditorialità e all'efficienza operativa - conferma in modo del tutto chiaro che l'attuale legislatore ritiene che nella passata condotta dei teatri tali principi e criteri siano stati violati da attori e controllori: ossia da consigli di amministrazione, sovrintendenti, direttori artistici, sindacati e ministeri vigilanti.
Tuttavia, a dispetto dell'enunciazione incisiva di tali principi e criteri, la legge non contiene previsioni che effettivamente agiscano sulle leve concrete della macchina lirica. Per fare l'esempio più facile: non è prevista alcuna parametrazione della capacità gestionale dimostrata dai vertici delle Fondazioni. La questione non è esclusivamente finanziaria, al contrario si deve ritenere che il futuro delle Fondazioni liriche (così come quello dei teatri di tradizione e della lirica minore) si possa fondare su una radicale innovazione dei meccanismi produttivi e gestionali. In questo senso è opportuno considerare come nel passato, nelle regolamentazioni nazionali e locali, sia stata data sistematica accoglienza a richieste, aspettative e pretese non necessariamente in linea con la natura stessa della produzione operistica.
5. Possibili indirizzi per un ridisegno
L'accentuarsi dei profili polemici del dibattito, che si riflette anche stilisticamente tra gli articoli della legge 100/2010, finisce per distrarre da alcuni punti cruciali che invece vanno considerati di sostanziale importanza. In primis, la gestione delle risorse interne e le relazioni esterne delle Fondazioni. Non va dimenticato, sotto questo profilo, che si tratta di un settore per lo più privo di reference prices: la maggior parte dei beni e servizi che costituiscono gli input dell'attività produttiva non vengono venduti in massa in una molteplicità di mercati ma creati ad hoc in esemplari unici (le scenografie e i costumi), realizzati nell'ambito di un rapporto di scambio non diffuso (pubblicità e comunicazione), scritturati in un mercato nel quale in alcuni casi si determinano forti rendite di posizione (direttori, cantanti, registi, etc.). Si deve ritenere che questo sia uno dei più evidenti ambiti nei quali si possa perseguire e conseguire l'ottimizzazione delle risorse rispetto alla propria disponibilità finanziaria.
Pur non potendo qui sviluppare l'argomento fino in fondo, ci limiteremo a osservare che la produzione culturale è infungibile: nessun consumatore sceglie esclusivamente in base alla convenienza finanziaria, piuttosto si sente più incline ad apprezzare forme specifiche di esperienza cognitiva. La produzione lirica è "plastica", ossia consente di raggiungere la pertinenza linguistica attraverso una varietà indefinita di opzioni (messe in scena della stessa opera): non necessariamente la più costosa e sontuosa risulta quella qualitativamente più coerente. La corsa alla spesa per input straordinari (le superstar) non è affatto indispensabile, e si può evitare senza incidere negativamente sulla qualità.
Sullo sfondo rimane la questione dell'assetto istituzionale del settore, questione dirimente rispetto a qualsiasi scelta che intenda incidere sulla struttura e sulle modalità di funzionamento del sistema della lirica, superando una filosofia dell'azione pubblica basata su interventi contingenti e una strategia produttiva fondata sul perpetuarsi di un modello senza incentivi. Il primo passo da compiere, in questa direzione, è verificare il peso che la produzione e la diffusione della lirica assumono nello spettro strategico e decisionale della pubblica amministrazione, delle imprese, delle organizzazioni culturali e delle comunità locali, in modo da inserire efficacemente la lirica in un quadro di consenso condiviso, nel quale le sinergie istituzionali, finanziarie e operative siano la regola.
Il paradigma consolidato, dal quale il settore culturale sta lentamente e decisamente uscendo, si fondava sulla forza primigenia del sostegno statale all'offerta, dal quale scaturivano le opzioni produttive e, di conseguenza, le opportunità di fruizione. La prospettiva che l'evoluzione attuale sembra indicare si basa, invece, su una radicale inversione della sequenza: la solidità e il dinamismo dei mercati culturali attiva un consenso diffuso da parte della comunità territoriale, che a sua volta attrae l'interesse delle imprese e giustifica la necessità di un'azione pubblica coordinata che agisca sugli snodi fragili dell'intero processo culturale e ne faciliti la crescita sostenibile. Anticipare con forza questa prospettiva, anche attraverso una riforma del settore che sappia conciliare l'esigenza di autonomia e imprenditorialità del settore con un'efficace tutela delle sue professionalità. In questo senso è indispensabile sotterrare l'ascia di guerra e ragionare costruttivamente, senza pregiudizi e prevenzioni.