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Editoriale

Mibac e valorizzazione
[The Ministry for the Culture Heritage and Activities and the valorization actions]

di Girolamo Sciullo

Il motore immobile: questo il titolo di un libro, snello quanto fortunato, sulla pubblica amministrazione italiana fotografata agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso.

Certamente l'espressione risulterebbe oggi inadatta o meglio fuorviante se la si volesse utilizzare a proposito della organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali. Come ben ha illustrato Marco Cammelli nell'editoriale del precedente numero della Rivista, il Mibac dal 1998, anno della sua costituzione (peraltro per trasformazione), ha conosciuto nell'assetto organizzativo modifiche a ritmo serrato. Verrebbe da dire che è stato sottoposto ad un prolungato stress test strutturale, che trova pochi riscontri nelle vicende occorse agli altri ministeri.

Vero è che le istituzioni si sottraggono (in genere), a differenze delle banche, al market risk e quindi sono (più) stabili, ma pur sempre per effetto di innovazioni organizzative ripetute nel tempo si espongono ad un rischio perverso: ossia che all'abbandono dei vecchi schemi operativi, ormai inutilizzabili anche se collaudati, non si accompagni un serio sforzo di implementarne dei nuovi, come richiederebbe il mutamento organizzativo, nella convinzione che anche questi diventeranno presto non più impiegabili.

E' di questi giorni la notizia dell'imminente emanazione di un nuovo regolamento sull'organizzazione del Mibac, destinato in particolare a innovare quello contenuto nel d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233.

In generale, quanti si sono occupati delle trasformazioni, talora convulse, intervenute negli anni recenti nell'organizzazione ministeriale italiana hanno indicato tra i motivi che le hanno promosse anche il fatto che il mutamento organizzativo rappresenta un terreno di scontro, e al contempo di scambio, fra la politica e l'amministrazione. Il mutare degli assetti consentirebbe, infatti, un avvicendamento dei vertici delle strutture al di là dei limiti permessi allo spoil system, ma costituirebbe anche l'occasione per dare risposta ad aspirazioni di carriere e di ruoli dirigenziali (si può escludere, ad esempio, che sull'adozione del modello dipartimentale da parte del Mibac non abbia pesato anche questo fattore?).

Oggi però pare trattarsi di qualcosa di fondamentalmente diverso. I cambiamenti sono imposti dalle esigenze del bilancio pubblico (leggasi tagli imposti dall'art. 74 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112) e si connotano in particolare per l'istituzione della "Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale". E' possibile che le etichette nuove abbiano alcunché di enfatico. Eppure a "prendere sul serio" questa nuova struttura, il dato non pare da sottovalutarsi.

Nelle organizzazioni (non solo pubbliche) la creazione di una struttura o centro di interesse è la condizione, non sufficiente, ma necessaria perché venga curata la relativa funzione. Certo sono decisivi le risorse materiali e di personale messe a disposizione, come pure le relazioni e le prassi operative che verranno attivate, ma, senza una struttura che se ne occupi, una funzione è destinata a restare fatalmente sulla carta.

Se ciò è esatto, la novità organizzativa si palesa anche come novità per la valorizzazione nel suo aspetto funzionale. Per la prima volta dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 la valorizzazione acquista un rilievo e una consistenza operativa all'interno dell'organizzazione centrale del Mibac rispetto alla tutela. Senza scadere nell'esagerazione, potrebbe dirsi che si allenta il primo anello di quella progressione, anzitutto concettuale, che continua a pesare sull''approccio ministeriale' ai beni culturali (specie) dello Stato: la valorizzazione non sarebbe altro che un momento della tutela e a questa andrebbe ricondotta, stante l'intima compenetrazione delle due funzioni, e in quanto tale non potrebbe che essere essenzialmente pubblica e fondamentalmente statale.

Ora la valorizzazione dei beni culturali dello Stato troverà un "interprete", presumibilmente più sensibile alla sussidiarietà istituzionale e sociale. Può pensarsi anche che esso si presterà a livello centrale a fungere "da sponda" a quelle esigenze di inserimento delle politiche culturali all'interno delle politiche di sviluppo territoriale (secondo il modello delineato dall'art. 112 del Codice) di cui si facessero portatori gli organi periferici del ministero.

Sempre in tema di valorizzazione, in particolare dei beni culturali dello Stato, meritano di essere segnalate inoltre quattro recenti iniziative, che pur nella loro diversità, sono accomunate dal fine di sviluppare le potenzialità della funzione.

Anzitutto l'accordo di programma intervenuto agli inizi dell'anno in corso tra il Mibac e la regione Campania, con cui i due enti hanno definito strategie e obiettivi di valorizzazione, conservazione, gestione e fruizione di complessi monumentali e di siti archeologici afferenti ad aree suscettibili di valorizzazione e gestione integrate (art. 1). L'accordo non costituisce una novità nel quadro della programmazione negoziata che a partire dalla fine degli anni novanta ha visto come parti contraenti lo Stato e singole regioni, ma si segnala per le aree che ne costituiscono l'oggetto, significative nel numero e soprattutto nell'importanza. Le sue clausole (ma ancor di più lo sarà la sua implementazione) sono d'interesse anche per talune "ambiguità" circa le forme di gestione degli interventi previsti, che non è scontato risultino del tutto allineate alle previsioni degli artt. 112 e 115 del Codice.

In secondo luogo possono essere menzionati due strumenti di soft law: le "Linee guida per la gestione innovativa dei beni culturali. Vademecum", pubblicato nell'ottobre 2008 e curato dalla Direzione per il bilancio e la programmazione economica del ministero, nonché le "Linee guida in materia di attivazione e di affidamento in concessione dei servizi per il pubblico negli istituti di cultura statali", diramate dal Segretario generale nel marzo del 2009. Come risulta dalla loro intitolazione, i due documenti trattano i temi disciplinati dagli artt. 115 e 117 del Codice e si rivolgono, nel secondo caso, alle strutture periferiche del Ministero e, nel primo, alla più ampia platea dei "decisori pubblici". Di nuovo l'interesse presentato è notevole, in particolare per la lettura fornita dei dati normativi di riferimento, che riflette esigenze applicative, ma che proprio per questo in taluni punti si presenta non "scontata".

Da ultimo può ricordarsi che sta completando la fase della sperimentazione un progetto di regolamento-quadro (o carta fondativa) dei musei statali, promosso dall'Ufficio studi del Segretariato generale del Mibac nell'ultimo scorcio del 2008. In questo caso l'interesse risiede nel metodo prescelto (la sperimentazione da parte di talune strutture museali serve alla messa a punto del regolamento) e nell'obiettivo perseguito ("valorizzare l'identità dei singoli musei" dal punto di vista della programmazione dell'attività, della gestione e dell'assetto contabile-finanziario, ma senza incidere sulla "loro piena permanenza nell'alveo istituzionale nel quale oggi sono inseriti").

Tutti gli elementi fin qui richiamati meriterebbero un approfondimento che in questa sede può solo rinviarsi a futuri numeri della Rivista. E' parso tuttavia importante farne cenno, perché essi depongono, pur nella loro varietà, per un rafforzarsi di una "cultura della valorizzazione" che tuttora trova resistenze nelle posizioni di autorevoli opinion maker.

E' noto il ruolo che in tema di competenze sulla valorizzazione gioca l'assetto dominicale dei beni culturali. Per concludere può farsi menzione ad un altro dato recente, passato in larga misura sotto silenzio. L'art. 19 della legge sul federalismo fiscale (legge 5 maggio 2009, n. 42) prevede che, ai fini della definizione del patrimonio delle autonomie territoriali, la decretazione legislativa di attuazione individui le "tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferiti, ivi compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale".

Par di capire che si aprano le porte all'introduzione all'interno dei beni culturali di proprietà dello Stato della distinzione fra i beni costituenti il "patrimonio culturale nazionale" (insuscettibili di trasferimento) e gli altri beni culturali (viceversa trasferibili a comuni, città metropolitane, province e regioni).

Sembra emergere, insomma, l'ipotesi di un'articolazione dei beni culturali fondata sulla dimensione dell'interesse (nazionale o locale) ad essi sotteso. Déjà vu, si dirà, ma in questa occasione c'è il rischio o la possibilità (a seconda dei punti di vista) che la cosa sfoci in qualcosa di concreto.

 

 



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