Musei e servizi di accoglienza.
Ovvero: come due cose sbagliate non facciano una cosa giusta
Questo numero è in larga parte dedicato ai musei, ai quali sono riservati interventi volti ad approfondire il profilo istituzionale e giuridico, economico e finanziario, organizzativo e territoriale. Già altre volte la Rivista si è occupata di questo argomento, ma ora lo si riprende con un'apertura, al dibattito e alle esperienze, inedita.
Le ragioni sono due. La prima, pratica, è riferibile alla disponibilità del materiale prodotto da due importanti iniziative, quasi contestuali, dedicate all'argomento. L'altra, ancora più rilevante, perché i musei si confermano come una emblematica sintesi delle più delicate dinamiche che riguardano il sistema dei Beni Culturali. Riassumendone, per così dire, l'evoluzione e i nodi critici.
Conservazione e valorizzazione; pubblico necessario e pubblico esternalizzabile; sedi centrali e organi periferici del ministero; ruolo delle regioni e degli enti territoriali; spesa storica e risorse ulteriori; vecchie funzioni e nuove iniziative; progetti di lungo periodo e la dura necessità del giorno per giorno; grandi musei e micro-strutture.
Si potrebbe continuare (quasi) all'infinito, a riprova della significatività delle questioni che si pongono e del singolare destino dei musei di intercettarne la maggior parte. Ma al di là di quello che c'è, vorremmo sottolineare quello che manca: il rapporto pubblico-privato. Che non compare nell'elenco solo perché è il filo conduttore degli altri temi e degli interventi che il lettore troverà in questo numero, e merita dunque un riferimento a parte.
L'occasione specifica è data dai servizi di accoglienza al pubblico (ex servizi aggiuntivi) e dal lavoro svolto all'interno di una delle sottocommissioni in cui si è articolata la commissione ministeriale presieduta da Massimo Montella. Lavoro da cui, come si sa, sono stati tratti alcuni degli elementi base del decreto ministeriale 29 gennaio 2008 con cui si è provveduto ad innovare la materia relativamente ai musei statali.
Non è d'uso che chi o coloro che hanno concorso sul piano tecnico-giuridico ad un lavoro (la sottocommisione) o ad un provvedimento (il decreto ministeriale), si occupino anche del relativo commento, per l'evidente commistione di ruoli che ne deriva. Il che vale anche in questo caso, con la precisazione che il saggio di Giuseppe Piperata è una puntuale ricognizione dei problemi (e delle diverse posizioni) emerse nella preparazione del provvedimento, e che queste brevi considerazioni scritte da chi ha presieduto la sottocommissione non intendono affatto aprire, o anche semplicemente sfiorare, gli argomenti che lì si sono affrontati.
Ciò che si vuole sottolineare è, infatti, molto più generale e rilevante. In materia di servizi di accoglienza al pubblico, come in molti altri casi ma con particolare visibilità e intensità, si ripropongono i motivi di quello che è uno dei punti chiave della crisi del sistema amministrativo italiano. Crisi ancora più grave per riguardare, come avviene in questo caso, interessi pubblici di primaria importanza.
Limitiamoci a tracciare la sequenza del problema:
Dunque, non mancano buone ragioni da una parte e dall'altra, ma il fatto è che ne viene fuori un rovinoso tiro alla fune dove, quando la gara non va deserta, a rimetterci sono entrambi.
Come si vede, non si tratta di buoni e cattivi, conservatori e progressisti, statalisti e autonomisti o altro. Si tratta semplicemente del fatto che la cooperazione tra pubblico e privato, in generale e sopratutto nel settore dei beni culturali, richiede un pubblico diverso capace di conoscere i bisogni del settore, di sapere quello che vuole, di distinguere quello che deve essere fatto dalla P.a. e quello che può essere fatto da altri, di fare programmi di medio lungo periodo, di sapere regolare e controllare l'attività altrui. E richiede una impresa diversa, rispettosa del ruolo pubblico almeno tanto quanto gelosa della propria autonomia, osservante degli impegni assunti, disponibile alla flessibilità e a regimi (anche di gara) differenziati quanto differenziate sono le attività da svolgere e il relativo contesto, territoriale e temporale.
Il pubblico dunque deve imparare a cambiare, ma dal canto suo l'impresa deve convincersi che il referente non può essere solo il legislatore. Perché la soluzione non è "saltare" l'amministrazione, rincorrendo normative rigidamente dettagliate (e inevitabilmente uniformi) a garanzia di automatismi applicativi ma, appunto, un'amministrazione che sa consapevolmente distinguere e responsabilmente risponderne.
Certo, ci vuole del tempo per realizzare queste condizioni. Ma il punto è questo e l'alternativa, per l'uno e per l'altro, è di continuare su strade sbagliate. A conferma che due cose sbagliate non fanno una cosa giusta.