Beni culturali: conservazione e valorizzazione
Le Fondazioni di origine bancaria e il restauro di beni culturali [*]
di Marco CammelliGli interventi di Marisa Bonfatti Paini, architetto già presidente del Comitato tecnico-scientifico dei beni architettonici e ambientali del Consiglio nazionale per i beni culturali, di Roberto Cecchi, direttore generale per i beni architettonici e paesaggistici del Mbac, e di Girolamo Sciullo, ordinario di diritto amministrativo della Università di Bologna, offrono una significativa riflessione sulle esperienze delle Fondazioni di origine bancaria (da ora, Fondazioni) in materia di restauro.
Esperienze importanti se si considera che al settore della conservazione e valorizzazione dei beni architettonici e archeologici, di cui il restauro rappresenta la parte di gran lunga prevalente, nel 2005 il complesso delle Fondazioni italiane ha destinato 155,5 milioni di euro (cfr. Acri, XI Rapporto sulle Fondazioni di origine bancaria, Roma, 2007, p. 81).
L'occasione è stata offerta da un seminario dell'Acri del gennaio scorso dedicato all'argomento e volto ad approfondire, sia sul lato di quanto posto in essere in concreto dalla Fondazioni che sul piano della lettura critica operata da esperti del restauro (Bonfatti), da responsabili del ministero (Cecchi) e da giuristi (Sciullo), i profili principali della materia.
Il fuoco dell'incontro riguardava infatti la ricostruzione delle pratiche e l'approfondimento professionale e teorico dei seguenti temi:
- l'identificazione e selezione del progetto di restauro, e in particolare i criteri seguiti per l'individuazione del progetto di restauro ammesso al finanziamento e per la valutazione della validità tecnica del progetto medesimo;
- i più rilevanti elementi specifici, vale a dire la gara per l'affidamento del restauro o, in caso di gestione diretta, i criteri seguiti dalle Fondazioni per la scelta degli esecutori dell'intervento, nonché le forme di monitoraggio di quest'ultima in fase di esecuzione;
- le principali variabili di contesto e in particolare le problematiche emerse nei rapporti con la soprintendenza e con l'ente locale, le forme di concertazione con altre Fondazioni nell'individuazione del progetto di restauro, il riscontro da parte delle Fondazioni dei programmi e/o dei finanziamenti destinati alla cultura da parte dell'Unione europea e delle autorità nazionali.
L'incrocio tra esperienze su campo, la cui rappresentazione e circolazione rappresentano di per sé già un valore importante, e la loro lettura da parte di esperti particolarmente qualificati il cui intervento è stato voluto non prima ma dopo l'illustrazione degli interventi in modo da muovere da questi ultimi traendone gli elementi più significativi, rende i testi qui pubblicati ancora più significativi. E ancor più sentita la doverosa gratitudine all'Acri per averne permesso l'anticipata divulgazione.
Le indicazioni di metodo e di merito sono numerose e importanti.
Marisa Bonfatti Paini, in ordine alla scelta del progetto, sottolinea con forza la necessità di concepire il restauro prestando attenzione, insieme, alla contestualizzazione del bene, e dunque al sistema di relazioni che legano quest'ultimo all'ambiente e ad altri beni, e al profilo funzionale, cioè alla destinazione d'uso e più in generale al ruolo cui è destinato. Profili la cui omessa considerazione incide pesantemente sulla adeguatezza delle modalità di intervento e rischia di metterne in discussione la stessa utilità. Il richiamo dei criteri di validazione tecnica e economico-contrattuale, per quanto riguarda il merito specifico dei progetti, e la verifica dei trascorsi operativi (ivi compresa l'assenza di contenzioso) nella selezione delle imprese offrono poi indicazioni preziose su cui meditare.
Con Roberto Cecchi il fuoco si concentra opportunamente sulle fasi ancora precedenti, vale a dire sulla "domanda" di restauro e su quanto la pubblica amministrazione, e in particolare il Mbac, possono fare al riguardo. Se le Fondazioni non vogliono dipendere nelle proprie scelte dall'inevitabile estemporaneità delle richieste pervenute o delle proposte presentate, è innegabile l'utilità di poter disporre di un quadro organico delle necessità (urgenza e rilevanza) di restauro per i beni culturali del territorio di riferimento. E questo è esattamente il ruolo affidato, sulla base delle istruttorie dei sovrintendenti di settore, al direttore regionale del ministero (d.p.r. 173/2004) che, per i beni della Chiesa, agisce d'intesa con il vescovo diocesano (d.p.r. 78/2005). Un quadro organico, s'intende, che non può limitarsi alla fotografia della situazione ad una data, ma che implica una dimensione dinamica nella quale, centrali, sono le funzioni di controllo e di manutenzione.
Girolamo Sciullo provvede a tratteggiare le linee essenziali del quadro normativo in cui tutto ciò va collocato, muovendo dalla disponibilità attuale di evolute forme di cooperazione tra Fondazioni, ministero ed enti locali offerta dalla versione aggiornata del Codice dei beni culturali e in particolare dalla virtuosa connessione tra i protocolli di intesa tra pubblica amministrazione e Fondazioni (art. 121) e la più intensa cooperazione volta a definire, per territori determinati, piani strategici di sviluppo e programmi di intervento (art. 112).
Quanto al punto della disciplina da seguire in ordine alla scelta di chi debba eseguire gli interventi conservatrici, Sciullo mette in luce il rilievo del modo con cui la Fondazione opera: se si limita a concedere un contributo, sarà il destinatario a decidere in conformità al proprio ordinamento, e dunque a seconda che sia un soggetto pubblico (secondo la normativa pubblicistica che lo regola) o privato (autonomia); se invece assume in proprio anche l'esecuzione dell'intervento, allora la libertà della Fondazione non è piena, andando da un minimo di limite (osservanza dei principi comunitari) se la propria azione è qualificabile come contratto di sponsorizzazione o assimilato (art. 26 Codice dei contratti), ad un massimo in cui a certe condizioni si potrebbe sostenere la equiparazione all'organismo di diritto pubblico così come configurato dal diritto comunitario.
Naturalmente si tratta solo di sintesi, e per il resto si rinvia direttamente ai testi. Non senza due brevi riflessioni finali.
La concezione del restauro che viene proposta richiede un ordine di analisi e di valutazioni decisamente più ampie di quelle relative all'intervento diretto sul bene. Il fuoco considerato, infatti, si allarga per così dire "in orizzontale" alla valutazione dello specifico contesto storico-artistico o ambientale, e prima ancora implica la considerazione delle altre esigenze di intervento individuate sul territorio e del relativo ordine di priorità. Ma l'estensione è anche in profondità, per la necessità che siano identificati con precisione la funzione affidata in futuro al bene oggetto dell'intervento e un piano di gestione economicamente sostenibile.
Tutto ciò richiede alle Fondazioni funzioni nuove o più sofisticate di quelle fin qui svolte, il che porta ancora una volta il discorso sull'importanza delle loro strutture interne, e relativa selezione e formazione, e ancor più solleva il tema cruciale di quanto, come e dove provvedersi all'esterno delle necessarie competenze tecniche, professionali e culturali. Un profilo, questo, in cui la cooperazione tra fondazioni potrebbe rendere possibile ciò che alla singola fondazione, specie se di dimensioni più contenute, rimarrebbe di fatto precluso.
Il resto, cioè la parte più rilevante e sistemica del problema, è per intero nelle mani della pubblica amministrazione, cominciando dal quadro generale delle esigenze e delle priorità affidato alle direzioni regionali del Mbac. Gli apparati amministrativi spesso lamentano la mancanza di norme e/o di risorse. In questo caso le prime sono già in vigore e le seconde, con il sostegno delle regioni e degli enti locali e la disponibilità delle stesse Fondazioni, sono a portata di mano. Sarebbe davvero un peccato mancare l'occasione.
Il secondo è più squisitamente giuridico e riguarda il regime delle attività delle Fondazioni quando, come per lo più avviene negli interventi di restauro, ha ad oggetto attività, beni e soggetti pubblici o a forte rilevanza pubblicistica. Sul punto si confrontano posizioni diverse. Molti ritengono che una volta assodata la natura privatistica del soggetto, automaticamente ne derivi per le Fondazioni l'esclusivo assoggettamento al quadro normativo proprio della autonomia negoziale privata, salvo i limiti specifici interni ed esterni dettati dalla propria disciplina di settore.
Ma, sia pure in forme più discrete, non manca chi ritiene (Sciullo ad esempio) che alcuni frammenti delle attività delle Fondazioni possano assimilarsi a quelle di natura amministrativa, che a certe condizioni e a tutela della concorrenza possa configurarsi la loro qualificazione in termini di organismo di diritto pubblico e che in ogni caso non siano poche le ipotesi nelle quali, come per i contratti di sponsorizzazione, possa comunque richiedersi il rispetto dei principi base di natura comunitaria.
Si tratta di aspetti delicati e di problematiche ancora in via di definizione, ed è bene dunque che se ne continui a discutere con attenzione. Nel frattempo, nulla impedisce che le Fondazioni adottino per libera scelta soluzioni dettate per contesti anche pubblici quando, come le validazioni tecniche richiamate dalla Bonfatti Paini, hanno dato buona prova di sé. Come si diceva tempo fa, non importa che il gatto sia bianco o nero...
[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri su Beni culturali: conservazione e valorizzazione, svoltosi a Roma il 24 gennaio 2007