Parte terza
Aggregazione degli enti locali
1. L'aggregazione degli enti locali: percorsi e contenuti consigliabili della legislazione regionale, di Claudia Tubertini
Già a partire dalla legge 18 giugno 1990, n. 142 e successivamente, in forma ancora più accentuata, con le modifiche operate dalla l. 265/1999, il nostro ordinamento ha privilegiato la strada dell'aggregazione volontaria come risposta alla polverizzazione dei comuni: la creazione di forme associative sovracomunali (soprattutto stabili e a fini tendenzialmente generali, come le Unioni di comuni, ora disciplinate dall'art. 32 del Testo unico degli enti locali, d.lg. 267/2000) è stata incentivata finanziariamente sia da parte dello Stato che da parte delle regioni (anche se con risultati assai disomogenei nelle diverse realtà regionali).
Al contrario, la definizione di c.d. ambiti ottimali per la gestione di funzioni e servizi (intesi come ambiti territoriali entro i quali esercitare obbligatoriamente in forma associata le funzioni conferite), pure prevista dall'art. 3 del d.lg. 112/1998 [1] in attuazione della l. 59/1997, ha riscontrato oggettive difficoltà. La prassi ha dimostrato come l'operazione sia possibile solo per singole materie (es. servizi sociali, acque), e anche in questi casi le affermazioni di autonomia degli enti locali sono state frequentissime. Per questo alcune regioni hanno preferito temperare la rigidità della previsione dettata dal d.lg. 112/1998 lasciando agli enti locali la scelta circa l'ambito ottimale di aggregazione, fissando eventualmente solo la soglia dimensionale al di sotto della quale l'aggregazione fosse necessaria, o hanno valorizzato livelli di aggregazione già esistenti (es. comunità montane).
Anche nella gestione dei servizi culturali locali la cooperazione risulta essere un passaggio necessario al raggiungimento degli obiettivi di qualità, specie per i comuni di piccole dimensioni. In questa direzione, molte regioni hanno già svolto una politica di incentivazione alla gestione associata, che tuttavia ha dimostrato la difficoltà di imporre assetti organizzativi predeterminati.
Sotto questo profilo, il modello della rete o sistema museale, inteso come forma associativa a base consensuale per l'esercizio coordinato delle competenze tra istituzioni museali, rappresenta senz'altro un'esperienza fondamentale, da sostenere ed estendere anche ad altre tipologie di servizi. L'aspetto più interessante del sistema museale è che esso di norma non ha una estensione rigida e predeterminata, bensì costituisce un sistema di coordinamento delle iniziative che si sovrappone, senza sostituirlo, alle istituzioni (che possono essere anche di natura associativa: es. fondazioni di partecipazione) che gestiscono i servizi. Parlare di un "modello"di sistema museale è, per la verità, azzardato, in quanto è noto come nell'esperienza i sistemi museali sono stati disciplinati ed attuati in forme molto diverse; tuttavia, il carattere della consensualità e la mancanza di un limite dimensionale dato sembrano costituirne due aspetti sempre presenti [2].
Nel promuovere e disciplinare le reti museali, peraltro, le regioni non possono che muovere dalle esperienze già realizzate, analizzando le caratteristiche del proprio sistema locale di offerta dei beni culturali. Sotto questo profilo, solo attraverso una collaborazione tra le regioni, che abbia come base operativa la Commissione competente nell'ambito della Conferenza dei Presidenti delle regioni, sarà possibile la circolazione dei modelli già applicati con successo nelle realtà che già da tempo hanno sperimento i sistemi museali [3].
Come in tutti i settori, probabilmente, anche nella creazione delle reti museali è preferibile operare secondo un metodo incrementale, che parta dalla costituzione di reti informali; solo la concreta esperienza, infatti, può consentire di verificare, ad esempio, se sussistono le condizioni o la opportunità di fare ricorso a modello più stabili di rete (come l'associazione o la fondazione di partecipazione).
Del resto, il carattere informale che nella maggior parte dei casi ha caratterizzato, sinora, il vincolo associativo posto alla base dei sistemi museali, anche se può essere considerato in parte un limite [4], ha anche rappresentato con tutta probabilità una delle condizioni principali che ne ha reso possibile (politicamente, prima ancora che organizzativamente) l'avvio. Pertanto, il modello dell'adesione volontaria, a cui connettere vantaggi di natura economica (incentivi regionali), di immagine (marchi, etc.) ed organizzativi (possibilità di avvalersi del supporto regionale), sembra essere tuttora il modello preferibile.
Nei sistemi policentrici come il nostro, l'innovazione deve poggiare sulla realtà dei fatti, non sulla rivoluzione dall'alto: è sconsigliabile una normazione regionale che definisca a priori dimensioni intercomunali di aggregazione per lo svolgimento delle attività di valorizzazione anche se, come si è visto, essa sarebbe probabilmente legittima alla luce del quadro costituzionale.
La dimensione dell'aggregazione da realizzare dovrà, quindi, costituire l'esito di una valutazione fondata sui risultati da raggiungere (e strettamente ancorata a questi): quanto più gli standards di qualità del servizio saranno definiti e precisati, quando più sarà fondata su parametri oggettivi anche la scelta della dimensione associativa necessaria per garantire la loro copertura.
Anche sotto questo profilo, l'esperienza già maturata dalle regioni che hanno già dato vita a sistemi museali potrà consentire di creare una base conoscitiva comune dei principali modelli organizzativi adottati, che possa costituire un valido supporto per quelle regioni ancora non hanno una compiuta disciplina delle forme di cooperazione nel campo dei servizi culturali locali.
Su questo punto, del resto, anche il Codice sembra lasciare grande libertà alla regione, riconoscendo alla stessa una generale potestà di disciplina della valorizzazione dei beni presenti negli istituti e luoghi di cultura non appartenenti allo Stato, ed indicando quali principi:
a) l'esigenza di assicurare una integrazione tra l'offerta dei servizi culturali appartenenti a diversi enti territoriali e/o privati (cfr. il riferimento contenuto nell'art. 112, comma 4, del Codice alla definizione di strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione);
b) l'esigenza di una programmazione coordinata delle iniziative attuata secondo il metodo della concertazione (cfr. i riferimenti ai piani strategici di sviluppo culturale ed ai relativi programmi attuativi di cui al medesimo art. 112, comma 4 [5]);
c) il favor per la gestione associata di tutte le funzioni attinenti alla valorizzazione, a partire dalla programmazione sino alla esecuzione dei programmi, alla gestione del servizio ed alle attività strumentali allo stesso (art. 112 commi 4, 5 e 9; art. 115, comma 2);
d) il favor per il coinvolgimento dei privati (art. 6, comma 3; 112, commi 8 e 9).
La disciplina dei modelli di cooperazione sovracomunale dei servizi culturali dovrà quindi ispirarsi sempre a tali esigenze, incentivando quindi non solo la cooperazione orizzontale (ovvero tra enti dello stesso livello), ma anche quella verticale, ed inoltre quella pubblico-privata [6].
L'intervento della regione, pertanto, non può che essere, ancora un volta, di tipo promozionale più che di natura conformativa. Interventi di tipo sostitutivo, o di sottrazione di competenze ad enti locali o su singole istituzioni culturali che non si associno, possono intervenire, come già rilevato, e sono teoricamente ammessi dal nuovo quadro costituzionale, ma solo una volta esperiti tutti i tentativi per consentire agli enti locali (e alle stesse singole istituzioni culturali la cui autonomia va il linea di principio preservata) di svolgere le loro competenze.
Naturalmente gli interventi di tipo promozionale possono essere realizzati diversificando ed articolando le modalità di incentivazione dell'aggregazione su base locale mediante:
a) la valorizzazione delle forme associative sovracomunali già presenti sul territorio regionale, se considerate idonee, per natura e dimensione, allo svolgimento in forma associata e/o coordinata di attività di valorizzazione [7]; questo obiettivo può essere realizzato prevedendo, ad esempio, criteri preferenziali per l'accesso ai contributi previsti dai programmi di settore alle forme associative già istituite [8];
b) il coordinamento dei finanziamenti erogati alle forme associative locali nei diversi settori di competenza regionale, al fine di armonizzarne gli obiettivi e di realizzare economie di scala. In questa sede, una particolare attenzione va posta al coordinamento dei finanziamenti in materia di servizi culturali con quelli erogati dalle regioni ai sistemi turistici locali, previsti e riconosciuti, anche se con formule differenti [9], in quasi tutte le leggi regionali in materia di turismo, ed ai quali è destinata una cospicua misura di cofinanziamento statale. I sistemi turistici locali, infatti, sono per definizione reti cooperative pubblico/private costituite in territori caratterizzati, tra l'altro, anche dalla presenza diffusa di beni culturali [10]. Specie in alcune regioni (come ad esempio Umbria, Marche, Lombardia) i sistemi turistici sono stati disciplinati dal legislatore regionale secondo un modello informale e su base consensuale. Essi presentano quindi il carattere di "rete" aperta alla partecipazione di tutti i soggetti che condividano un progetto di sviluppo del territorio (salvo restando, ovviamente, il ruolo centrale e propulsore degli enti locali): in questo senso, essi si prestano molto bene anche alla realizzazione di progetti di valorizzazione dei beni culturali, essendo evidente lo stretto legame che intercorre tra beni culturali e turismo [11];
c) altrettanta attenzione va posta al coordinamento dei finanziamenti del settore con quelli destinati alle comunità montane (sempre che esse presentino, come avviene in alcune regioni, una dimensione adeguata ed una funzionalità ed attitudine all'esercizio associato di funzioni per conto dei comuni). Molte leggi regionali recenti hanno infatti identificato nelle comunità montane le sedi istituzionali deputate alla promozione di progetti di sviluppo del territorio, che non possono non coinvolgere anche la valorizzazione delle risorse culturali del luogo;
d) il potenziamento dei finanziamenti dedicati alla gestione in forma associata a livello sovracomunale delle attività strumentali [12] e connesse alla gestione dei servizi culturali (es. ufficio unico appalti e contratti; gestione associata del servizio personale; realizzazione in forma associata di iniziative di formazione degli addetti, e così via);
e) la creazione di uffici regionali per il supporto e consulenza giuridico-organizzativa agli enti locali, o per l'esercizio di attività strumentali che richiedono particolare qualificazione tecnica, come l'accesso a finanziamenti comunitari, il fund raising, etc. Ciò servirebbe, in particolare, ad evitare di riproporre la configurazione dell''ente regionale come mero erogatore di finanziamenti piuttosto che di servizi;
f) il finanziamento di studi di fattibilità.
Un dato da sottolineare, in ultima analisi, è che la opportunità di sostenere l'aggregazione locale non deve essere vista solo in relazione al momento gestionale, o per lo svolgimento delle attività connesse o strumentali alla gestione del servizio culturale in senso stretto. Quello che potrebbe essere utile a livello locale è infatti, prima ancora, pensare ad un livello di aggregazione degli enti locali che si collochi a monte delle scelte gestionali, ai fini della programmazione dell'offerta culturale; della individuazione dei bisogni; della selezione dei progetti da realizzare; della loro presentazione ai potenziali finanziatori. Sotto questo profilo, è opportuno che nella legislazione regionale siano previsti e disciplinati "luoghi" (piuttosto che "enti") di aggregazione e coordinamento, su base provinciale o sub-provinciale. E' noto che in alcune esperienze regionali questa esigenza di una "regia" di livello sovracomunale è stata attribuita direttamente all'ente provinciale, in linea con la già richiamata valorizzazione del ruolo delle province in materia di beni culturali: anche questa è una opzione senz'altro legittima alla luce del nuovo quadro costituzionale, che non esclude, tuttavia, l'opportunità di una sede di concertazione "di ambito provinciale" che veda, tuttavia, diretti protagonisti gli enti locali e le loro forme associative (conferenza dei sindaci e simili) [13].
Anche in questo caso, non mancano esperienze e segnali nella più recente legislazione regionale [14]; si tratta, quindi, di estendere queste esperienze e di dettare una disciplina più organica del loro funzionamento. In particolare, occorre evitare che, all'interno di queste sedi, i poteri deliberativi siano articolati in modo tale le esigenze dei comuni di piccole dimensioni vengano compresse o confuse rispetto a quelle dei comuni di grandi dimensioni, che presentano, oggettivamente, problemi completamente diversi.
Note
[1] L'art. 3 comma 2 prevedeva che le regioni, al fine di favorire l'esercizio associato delle funzioni dei comuni di minore dimensione demografica, individuassero livelli ottimali di esercizio delle stesse, concordandoli nelle sedi concertative con gli enti locali. Nell'ambito della previsione regionale, i comuni esercitavano poi le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla legislazione regionale. Decorso inutilmente il termine, la regione poteva esercitare poteri sostitutivi. Tale previsione è stata inserita anche nel Tuel, all'art. 33 comma 2, che, come già ricordato, si prevede ora di abrogare.
[2] Vi sono, infatti, sistemi territoriali (che raggruppano istituzioni collocate all'interno di un medesimo territorio) e sistemi tematici (fondati sull'identità di contenuti ed obiettivi); in alcuni casi, il sistema è fondato su accordi, in altri, invece, si caratterizza per l'istituzione di una associazione di diritto privato tra i soggetti aderenti (rete c.d. formale); all'interno della rete, poi, vi può essere un soggetto che assume un ruolo di centro propulsore e di coordinamento (si parla, in tal caso, di rete "guidata").
[3] La Toscana definisce i sistemi museali come "forme associative di gestione coordinata ed integrata di servizi museali e/o attività, attraverso la condivisione di risorse umane, tecniche, economiche ed organizzative" (Piano di indirizzo per la cultura 1999-2000). Nel Piano di indirizzo 2001-2003, e nei Piani successivi, si è puntato ancora alla creazione di sistemi museali senza però indicare un modello rigido di riferimento. Il piano 2004-2006 stabilisce infatti tra i requisiti dei sistemi museali "la presenza di accordi tra i soggetti aderenti alla rete, che individuino, oltre alle finalità culturali degli stessi, le attività ed i servizi da realizzare attraverso la cooperazione, gli istituti ai quali è affidato il coordinamento tecnico di tali attività e servizi, nonché gli impegni finanziari dei singoli soggetti".
[4] Una difficoltà tipica che si trovano ad affrontare tutte le forme associative di tipo funzionale è che, non potendo incardinare le attività svolte in forma associata ed a vantaggio di tutti i partecipanti in un "ente" sovracomunale vero e proprio, è inevitabile che molti costi vengano ad essere "caricati" sul bilancio di un ente o di una istituzione capofila (salvo poi prevedere trasferimenti finanziari tra le istituzioni aderenti). E' evidente che questo possa comportare difficoltà, specie tenendo conto dell'attuale sistema finanziario e contabile degli enti locali, soggetto a limiti di spesa.
[5] La modifica apportata dal d.lg. 156/2006, che ha espressamente previsto la possibilità che tali accordi riguardino un ambito territoriale definito (quindi anche sub-regionale), rende questo strumento particolarmente adattabile alle specificità delle singole parti del territorio regionale.
[6] Si veda, ad esempio, la l.r. Abruzzo n. 22/2005 concernente l'istituzione dei "distretti culturali", la cui disciplina, peraltro, presenta profili di similitudine rispetto a quella dei sistemi turistici locali (su cui vedi infra).
[7] A questo proposito è importante ricordare che la Conferenza unificata aveva stipulato, già nel mese di luglio 2005, una Intesa preliminare per trasferire alle regioni le risorse che attualmente lo Stato destina ogni anno nelle leggi finanziarie al finanziamento delle gestioni associate svolte dalle Unioni (attualmente più di 250 in tutt'Italia) e dalle comunità montane. Una condizione per il trasferimento delle risorse previsto da tale intesa è che ciascuna regione abbia una compiuta disciplina legislativa di incentivazione alle gestioni associate sovracomunali ed eroghi anche propri contributi. Tuttavia, dopo mesi di intensa attività istruttoria e numerosi tentativi di mediazione, la trattativa per concludere l'intesa integrativa necessaria a procedere al materiale trasferimento dei fondi alle regioni già per l'esercizio finanziario 2006 è stata interrotta dal governo, che ha ritirato il relativo schema posto all'odg dell'ultima Conferenza unificata del 2005, rinviando di fatto la questione alla successiva legislatura. Al momento dell'insediamento del nuovo governo, le regioni hanno posto tra i primi punti da completare proprio quello del trasferimento di queste risorse al sistema regionale, fatto che potrebbe consentire alle regioni di recuperare risorse per il finanziamento della gestione associata dei servizi culturali o di convogliare a questo obiettivo parte delle risorse regionali attualmente destinate genericamente alle gestioni associate dei comuni.
[8] Si veda ad es. la l.r. 24 marzo 2004, n 6 della regione Emilia-Romagna il cui art. 14 dispone che la regione, nella adozione del programma poliennale degli interventi di cui all'articolo 7, comma 2, della legge regionale 24 marzo 2000, n. 18 (Norme in materia di biblioteche, archivi storici, musei e beni culturali) e relativi provvedimenti attuativi, debba prevedere criteri preferenziali, relativamente alla erogazione di contributi ai comuni, per gli interventi posti in essere dalle unioni di comuni, dalle comunità montane e dalle Associazioni intercomunali. Analoghe previsioni sono contenute nei bandi della regione Lombardia.
[9] Anche le denominazioni sono differenti: in Emilia-Romagna, ad esempio, sono state assimilate ai sistemi turistici locali le unioni di prodotto; ed altrettanto è avvenuto in Toscana rispetto ai progetti presentati in forma associata ai sensi del piano di sviluppo economico della regione.
[10] Secondo la definizione introdotta dall'art. 5 della l. 29 marzo 2001, n. 135 ("Riforma della legislazione nazionale del turismo"), poi ripresa e sviluppata nella più recente legislazione regionale.
[11] La assoluta autonomia delle regioni nell'individuazione delle priorità che devono perseguire i sistemi turistici locali e nella distribuzione dei finanziamenti rende possibile l'introduzione di criteri di preferenza per gli stl che promuovano progetti di promozione basati sulla valorizzazione dei beni culturali presenti sul territorio.
[12] In modo particolare di quelle realizzate in attuazione dell'art. 112 comma 9 del Codice, estendendo i contributi anche all'ipotesi in cui tra i soggetti partecipanti vi siano anche soggetti diversi dagli enti locali (come lo stesso ministero). Del resto, tale articolo prevede che alla sua attuazione si provveda senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ma la disposizione sembra più contenere un implicito divieto al ministero a stanziare nuovi fondi per queste gestioni associate che impedire l'erogazione di contributi da parte della regione.
[13] In questa direzione, cfr. ad es. la già citata l.r. Emilia-Romagna n. 6/2004, art. 10, la quale prevede la creazione di conferenze territoriali composte dai sindaci e dal presidente della provincia o nella diversa forma disciplinata dagli statuti provinciali, quale sede di concertazione della provincia con i comuni e le forme associative ricomprese nel proprio ambito territoriale.
[14] Anche se, di norma, il coordinamento tra enti locali viene operato all'interno di sedi regionali.