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I beni culturali e il paesaggio dopo le ultime riforme / Il restauro

La formazione nel restauro

di Elisa Del Mastro

Sommario: 1. La disciplina del restauro dopo la riforma costituzionale: gli orientamenti della Corte costituzionale e quelli del legislatore. - 2. Le modifiche apportate al Codice dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156. - 3. Alcune considerazioni.

1. La disciplina del restauro dopo la riforma costituzionale: gli orientamenti della Corte costituzionale e quelli del legislatore

La disciplina connessa alla formazione ed alla qualifica degli operatori del restauro si caratterizza per una sorta di unicità, che la differenzia sia dalla ordinaria disciplina in tema di istruzione e formazione professionale, sia da quella applicabile ai soggetti esecutori di appalti di lavori pubblici o privati [1]. La ragione è facilmente intuibile: l'importanza del patrimonio artistico e culturale della Repubblica è tale da ingenerare la convinzione diffusa della necessità di una normativa specifica e per alcuni aspetti derogatoria quanto a ripartizione delle competenze, percorsi formativi e procedure di qualificazione [2].

Tale esigenza di specificità si è tradotta, di fatto, nell'attrazione della disciplina della formazione professionale dei restauratori, anziché nell'alveo della competenza legislativa esclusiva delle regioni (ex art. 117, comma 4)) in quella statale, in materia di tutela dei beni culturali.

A tale esito ha contribuito in maniera determinante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 9 del 13 gennaio 2004 [3].

Nel caso in questione, la regione Toscana aveva contestato la legittimità della disciplina regolamentare contenuta nell'art. 3 del decreto ministeriale 24 ottobre 2001, n. 420, relativo ai requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori di restauro e manutenzione di beni immobili e superfici decorate di beni architettonici, ritenendola lesiva della propria competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale [4].

La Corte ha respinto la questione di legittimità accogliendo una nozione lata di tutela e considerando il restauro una delle attività fondamentali in cui essa si esplica [5]. Con tale operazione ermeneutica, la Corte ha legittimato il legislatore statale a fissare un unico percorso di qualificazione per i soggetti destinati ad eseguire lavori di restauro per conto dello Stato, togliendo efficacia ai titoli rilasciati dalle regioni [6], se l'attività cui la qualificazione afferisce rientra nell'ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato quale, appunto, la tutela dei beni culturali [7].

Tale impostazione sostanzialmente centralistica è stata accolta dal Codice dei beni culturali (art. 29) [8]. Il Codice infatti, ha stabilito, in primis, che gli interventi di manutenzione e restauro su beni mobili e superfici decorate di beni architettonici possono essere eseguiti soltanto dalle figure professionali dei restauratori. Gli istituti che possono impartire l'insegnamento del restauro, d'altro canto, possono essere ricondotti a due categorie: le scuole di alta formazione e di studio [9], fra cui l'Istituto centrale per il restauro con sede a Roma e l'Opificio delle pietre dure di Firenze, e gli enti pubblici (ad es. le regioni) o privati accreditati con le modalità previste da un regolamento ministeriale (art. 29, comma 9), sentito il parere della conferenza Stato - regioni, previsione ora eliminata [10] a seguito delle modifiche di cui si parlerà più diffusamente nel successivo paragrafo.

Parimenti, anche "i criteri ed i livelli di qualità cui si adegua l'insegnamento del restauro" di cui all'art. 29, comma 8, vanno definiti con regolamento ministeriale, nella prima stesura del Codice sempre previo parere della conferenza Stato-regioni.

Esaminando più nel dettaglio la disciplina dettata dall'art. 29, si evince un ruolo sostanzialmente marginale delle regioni nell'ambito della formazione dei restauratori, ad eccezione di due aspetti contenuti nei commi 10 ed 11 dell'art. 29.

In primo luogo, la formazione delle figure professionali che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione è soggetta alla disciplina regionale, nel concorso fra soggetti pubblici e privati. Inoltre, i profili di competenza dei restauratori, da un lato, i criteri ed i livelli di qualità, dall'altro, di tali figure professionali sono definiti rispettivamente d'intesa e tramite accordo con la conferenza Stato-regioni. Emerge dunque una disparità notevole, forse eccessiva, nella disciplina delle figure di restauratore tout-court e di quella di assistente-restauratore, le cui ragioni non sono facilmente comprensibili.

Quanto al secondo aspetto, il comma 11 recepisce gli emendamenti presentati dalle regioni e dagli enti locali al primo schema di Codice, prevedendo la possibilità, su libera iniziativa delle parti (ministero e regioni) sancita da accordi ed intese, di istituire appositi centri a carattere interregionale dotati di personalità giuridica, anche con il concorso di università e di altri soggetti pubblici e privati [11]. Presso tali centri possono essere istituite, altresì, scuole di alta formazione per l'insegnamento del restauro.

Attualmente tale previsione è stata scarsamente utilizzata; l'esempio più significativo è probabilmente costituito dall'avvio sperimentale di un corso di laurea in restauro presso la prestigiosa sede di Venaria Reale (Torino), di cui più diffusamente nel successivo paragrafo.

2. Le modifiche apportate al Codice dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156

Osservando il nuovo testo dell'art. 29 del Codice  [12], si nota immediatamente che le variazioni non hanno stravolto la disciplina del restauro, limitandosi ad apportare alcune modifiche nei commi 8-11 (i primi 7 commi restano, infatti, invariati).

Le novità più significative riguardano senza dubbio l'attribuzione all'esame conclusivo dei corsi di restauro, svolti presso le "scuole di alta formazione e di studio" di cui al comma 9, il valore di esame di stato; inoltre, il titolo rilasciato a seguito del superamento di detto esame viene equiparato al diploma di laurea di secondo livello (specialistica o magistrale), anziché a semplice titolo abilitativo per la professione.

Tale previsione, peraltro, va coordinata con quella contenuta nel comma 1-quater dell'art. 182, modificato dal decreto 156/2006, dove si prevede che la qualifica di restauratore venga in realtà attribuita con provvedimento del ministero dei Beni e delle Attività culturali (Mbac), che verifica il superamento dell'esame di idoneità o il possesso dei requisiti. Ulteriore novità è rappresentata dall'inserimento dei soggetti qualificati in unico albo nazionale gestito dal ministero; anche se tali disposizioni si riferiscono ai soggetti che acquisiscono l'abilitazione nella fase transitoria, è evidente che l'elenco conserverà efficacia anche per il periodo successivo, nel senso che ne rimarranno esclusi soltanto coloro che acquisiranno la qualifica di restauratore in base alle nuove normative e sempreché l'idea dell'albo nazionale non si estenda anche quando la nuova normativa entrerà a regime.

Al contempo, viene eliminata la necessità del parere della conferenza Stato - regioni, prevista dai commi 7 e 8, per l'adozione dei regolamenti ministeriali concernenti sostanzialmente la definizione dei criteri e degli standard formativi per l'insegnamento del restauro, nonché le modalità di accreditamento degli enti di formazione [13].

Peraltro, sembra interessante notare che, nel parere favorevole reso dalla conferenza Stato-regioni sullo schema di decreto legislativo in oggetto (atti del 26 gennaio) [14], dal testo preso in esame non erano ancora stati espunti i riferimenti alla necessità di consultare la conferenza prima dell'adozione dei regolamenti, nelle ipotesi di cui ai commi 7 e 8 citati.

Resta invariata, invece, la disciplina relativa alla formazione delle figure professionali di collaboratore restauratore, facendo risaltare maggiormente la differenza di disciplina di cui si è detto, a seguito dell'eliminazione delle pur deboli forme di coinvolgimento delle regioni nelle decisioni fondamentali in tema di percorsi formativi e sistemi di accreditamento dei restauratori.

Il comma 9-bis, aggiunto dalla riforma, ribadisce ulteriormente che, a regime (ossia dalla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti dai commi 7,8 e 9 dell'art. 29 del Codice), la possibilità di eseguire interventi di manutenzione e di restauro ai sensi del comma 6, riguarda soltanto coloro che abbiano conseguito la qualifica di restauratori nel modo suddetto.

Fino a tale momento, vige un'articolata disciplina transitoria prevista dall'art. 182 del Codice. In particolare, sono considerati restauratori i diplomati statali alla data di entrata in vigore del d.m. 420/2001 e coloro che abbiano un'esperienza professionale di almeno otto anni [15]. Per altre categorie di soggetti (ad esempio: restauratori con esperienza quadriennale o diplomati alla scuole regionali) è previsto il superamento di un esame di idoneità con criteri da definirsi in un successivo decreto (da emanarsi entro il 30 ottobre 2006) del Mbac di concerto con il ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (Miur). Apposita disciplina transitoria riguarda, inoltre, la categoria dei collaboratori all'attività di restauro.

Infine, un'ulteriore modifica riguarda il comma 11: resta, infatti, la possibilità di creare centri per il restauro a seguito di accordi tra ministero e regioni (ma vengono eliminate le intese [16]), e si prevede l'obbligo di accreditamento per le scuole di alta formazione istituite presso tali centri; peraltro, non vene previsto alcuno stanziamento per l'attuazione di tali accordi.

Sul punto, merita di essere segnalata la fondazione "Centro per la conservazione ed il restauro dei beni culturali La Venaria Reale", che ha, fra gli obiettivi statutari, l'organizzazione e la gestione di una scuola di insegnamento del restauro, istituita ed organizzata come articolazione funzionale del centro, con la collaborazione di alcuni istituti di ricerca ed alta formazione del Mbac. Il d.lg. 156/2006 (art. 186, comma 2) ha previsto la possibilità per la fondazione di istituire ed attivare, in deroga alla disciplina ordinaria, in via sperimentale, per un ciclo formativo, un corso di laurea magistrale per il rilascio del titolo di restauratore di beni culturali, in convenzione (stipulata il 31 gennaio 2006) con l'università ed il Politecnico di Torino [17]. L'ordinamento didattico dei corsi viene definito con decreto del Miur sulla base dello specifico progetto approvato sia dalla fondazione che dagli organi interfacoltà.

Tale previsione, oltre ad essere in fase di avanzata elaborazione e, quindi, di concreta attuazione nel panorama italiano, risulta interessante perché si inserisce nell'obiettivo di realizzazione di un "distretto culturale", ossia di un'area territoriale in cui si integrano sistemi museali, infrastrutture e realtà economiche e produttive, con l'obiettivo di sviluppo culturale e sociale della medesima [18].

3. Alcune considerazioni

Una prima valutazione delle modifiche in esame apportate al Codice sembra confermare l'impostazione centralistica già accolta dal legislatore nella prima versione del testo normativo. Ciò sostanzialmente per due ragioni: da un lato, infatti, viene valorizzato il titolo universitario conseguito all'esito del superamento di una prova con valore di esame di stato [19], dall'altro, viene ulteriormente indebolito il già tenue concorso delle regioni all'individuazione di percorsi formativi unitari. In particolare, trattandosi di riforme che incidono sull'ordinamento universitario, la competenza delle regioni può essere esclusivamente di tipo ausiliario e concernente aspetti di tipo pratico (ad es.: forme di orientamento, convenzione per l'esecuzione di tirocini, disciplina delle figure di supporto).

Tuttavia, se è indubbia la necessità - anche in relazione alla normativa comunitaria sulla tutela della concorrenza e sulla spendibilità dei titoli professionali nello spazio europeo - di prevedere percorsi formativi omogenei di base e qualifiche riconosciute a livello nazionale [20], è altrettanto evidente che la formazione dei restauratori presenta ulteriori aspetti problematici, non contemplati dalle modifiche legislative, che sembra opportuno evidenziare.

Si può partire da alcuni dati statistici contenuti nel rapporto Civita dedicato al tema della formazione e dell'occupazione nel settore dei beni culturali [21]. Per quanto riguarda, in modo specifico, la figura del restauratore, il rapporto evidenzia nel triennio 2000-2003 un trend positivo di iscritti a corsi di laurea ad hoc (raddoppiano gli studenti iscritti ai corsi di laurea in Conservazione dei beni culturali e, addirittura, triplicano quelli in Tecnologie per il restauro e conservazione dei beni culturali). A fronte di tali dati, si evidenzia però, nel panorama dei corsi di laurea tra il 2003 ed il 2004 in settori di interesse per i beni culturali, che un numero estremamente esiguo è stato attivato con riferimento specifico alla conservazione ed al restauro e, addirittura nessun corso è stato attivato in Tecnologie dei beni culturali e del restauro. Al contrario, è aumentata l'attivazione di master di primo e di secondo livello, soprattutto al nord (37,42%).

Per quanto riguarda poi l'offerta formativa nel quadriennio 2000-2004, in Italia si è formato un numero di restauratori compreso fra le 152-168 unità ed un numero di assistenti collaboratori/restauratori compreso fra 361-457 unità. Complessivamente, secondo il rapporto, in Italia operano circa 6.000 figure professionali di restauratori fra settore pubblico e privato, compresi, ovviamente coloro che svolgono attività presso un'impresa di restauro (a tal proposito si stimano circa 3.559 imprese iscritte presso la Camera di Commercio).

Tale dati sembrerebbero contrastare con l'opinione diffusa di una carenza di restauratori nel nostro Paese nonostante l'immenso patrimonio artistico-culturale. In realtà, il rapporto Civita evidenzia una notevole difficoltà dei restauratori a trovare uno sbocco occupazionale adeguato [22] - ciò peraltro accomuna molte delle attività professionali legate ai beni culturali -, ragione per cui molti giovani laureati decidono di proseguire con lo studio: ciò spiegherebbe anche il dato per cui è in forte crescita l'attivazione di master di primo e secondo livello. Il problema, semmai, si pone in termini invertiti, per cui la domanda supera l'offerta.

Da ciò è possibile trarre ulteriori considerazioni. In primo luogo, la difficoltà occupazionale dei restauratori [23]è da rintracciare nella mancanza di fondi per il restauro, ad una contrazione del mercato, sostanzialmente, come affermano gli stessi operatori, causata anche dall'esiguità dell'impegno finanziario dello Stato evidenziata dalla Corte dei conti [24].

Una seconda ragione è da ricollegare alla stessa formazione professionale, unificata e nobilitata dal titolo universitario ma, come sostengono gli operatori del settore, forse inadeguata rispetto all'esigenza di una formazione specialistica che tenga conto delle peculiarità dei beni culturali nel multiforme territorio italiano (ad es. la tipologia dei materiali costruttivi usati).

Pertanto, non vi è una mancanza in assoluto di restauratori, bensì di figure specializzate in possesso di una formazione mirata sul territorio [25]. In tal senso, dunque, le regioni, che pure condividono la necessità di percorsi formativi comuni come elemento unificante di tutela, a garanzia della qualità e della professionalità dei restauratori [26], dovrebbero concorrere a realizzare una formazione differenziata (ulteriore, complementare) per conservare e valorizzare i propri beni culturali, anche in un'ottica promozionale del territorio.

A ciò si aggiunge la necessità di individuare un percorso formativo capace di coniugare aspetti teorici e scientifici con fondamentali insegnamenti di tipo pratico e metodologico, anche in relazione all'evoluzione delle tecnologie impiegate. Appare evidente, infatti, come il restauro sia uno dei settori in cui esiste una più stretta correlazione tra formazione e lavoro. Sul punto si attende l'emanazione dei decreti ministeriali sui criteri e sui livelli di qualità cui si adegua l'insegnamento del restauro.

Anche se il ruolo delle regioni sembra ridimensionato dall'attuale disciplina contenuta nel Codice, si può invece sostenere che sono proprio le regioni a poter contribuire a risolvere alcune criticità insite nella formazione professionale dei restauratori, anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, quali fondazioni e università. Si tratta di definire e strutturare percorsi formativi differenziati tali da recuperare le specificità del territorio, ciò soprattutto con riferimento ad attività propedeutiche (ad es. mediante l'attivazione di convenzioni con l'università per tirocini con imprese del settore, creazione di un sistema di incentivi per la frequenza di corsi formativi legati alla particolarità del contesto territoriale, anche al fine di rendere più competitiva un'impresa nell'ambito degli appalti pubblici).

Ancora, si evidenzia che resta la possibilità di istituire centri per l'istituzione di scuole di alta formazione per l'insegnamento del restauro ai sensi del comma 11 dell'art. 29, come è avvenuto per il centro La Venaria Reale, attraverso la lungimirante sinergia di una pluralità di soggetti impegnati, con differenti vocazioni, nella tutela e nella valorizzazione dei beni culturali [27].

 

Note

[1] Sulla necessità di una disciplina speciale ma anche sulla difficoltà di ricostruire e di applicare efficacemente un quadro normativo frammentato e contraddittorio (progettazione e affidamento degli appalti, qualificazione delle imprese, formazione dei restauratori... etc.), si veda l'intervento di M. Cammelli, Restauro dei beni culturali mobili e lavori pubblici: principi comuni e necessaria diversità, in Aedon, n. 2/2001.

[2] Relativamente ai profili di qualificazione degli esecutori dei lavori di restauro nell'ambito della disciplina degli appalti di lavori pubblici si veda C. Vitale, La realizzazione dei lavori di restauro dei beni culturali, in Giorn. dir. amm., 2/2005, p. 219 ss.

[3] In Aedon, n. 2/2004, con commento di C. Tubertini, I limiti della potestà legislativa regionale in materia di formazione professionale nella tutela dei beni culturali. L'analisi di tale pronuncia, in particolare, offre un criterio interpretativo per delineare i confini tra competenza statale e regionale nel settore dei beni culturali, sulla base alla summa divisio fra "tutela" (di competenza esclusiva statale) e "valorizzazione" afferente alla potestà legislativa concorrente. Fra gli altri commenti alla sentenza citata si veda A. Servello, la qualifica di restauratore tra tutela e valorizzazione dei beni culturali, in Le nuovi leggi civili commentate, 1-2/2004, p. 41 ss.; N. Aicardi, Commento all'art. 5, in Le nuove leggi civili commentate, 5-6/2005, p. 1074 con riferimento al principio di sussidiarietà di cui all'art. 118, comma 3 Cost.

[4] Come è noto, infatti, successivamente alla riforma del titolo V parte II della Costituzione, risultano di competenza normativa esclusiva statale ex art. 117 comma 2 la disciplina delle "norme generali sull'istruzione" e dell' "ordinamento civile" (rispettivamente lett. n, lett. l) nonché materie trasversali quali "tutela della concorrenza" e "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (art. 117, comma 2 rispettivamente lett. e, m); risultano invece di potestà legislativa concorrente la materia dell'istruzione (salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e la formazione professionale, quest'ultima di competenza esclusiva regionale), "tutela e sicurezza del lavoro", "professioni" (art. 117 comma 3), restando però l'individuazione delle nuove professioni di competenza statale, come precisato dalla giurisprudenza costituzionale.

[5] Per una ricostruzione storico - culturale della nozione di restauro si veda G. Garzia, Commento all'art. 29, in Le nuove leggi civili commentate, 5-6/2005, p. 1213 ss.

[6] E' il "limite esterno" alla competenza regionale in materia di formazione professionale al quale si riferisce C. Tubertini nel commento alla sentenza citato. Sembra significativo riportare quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 1° ottobre 2003, n. 303 § 2.1 diritto: "(omissis) In questo quadro, limitare l'attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente, come postulano le ricorrenti, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze (omissis)".

[7] In realtà, anche se la Corte si è espressa con esclusivo riferimento alla disciplina relativa alla qualifica di restauratore, la pronuncia ha indubbiamente inciso anche sulla competenza in materia di formazione professionale.

[8] In dottrina è stato sottolineato l'approccio "cauto" del legislatore: il Codice, infatti, non afferma espressamente che la formazione professionale dei restauratori debba essere disciplinata dalla normativa statale, ma si limita ad indicare quali siano i soggetti abilitati a svolgere attività di manutenzione e restauro per conto dello Stato o di enti pubblici nazionali, si veda B. Lubrano, Commento all'art. 29, in Le nuove leggi civili commentate, 5-6/2005, p. 1220. Per un commento alla disposizione citata, si veda ancora M. Guccione, Commento all'art. 29, in M. Cammelli (a cura di), Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2004, p. 180 ss.

[9] Individuate dal decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368.

[10] Modifiche apportate dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156, Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione ai beni culturali, in G.U., 27 aprile 2006, n. 97.

[11] A tali centri, per espressa previsione normativa, possono essere affidate attività di ricerca, sperimentazione, studio, documentazione ed attuazione di conservazione e restauro su beni culturali, di particolare complessità.

[12] Modifiche apportate dal d.lg. 156/2006 citato.

[13] In tema di accreditamento, al comma 9 è stata aggiunta la previsione per cui "il procedimento di accreditamento si conclude con provvedimento adottato entro 90 giorni dalla presentazione della domanda corredata dalla prescritta documentazione".

[14] Parere sullo schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione ai beni culturali, rep. atti n. 901, disponibile al sito www.patrimoniosos.it.

[15] Con riferimento alla necessità di un'adeguata disciplina transitoria e sull'illegittimità delle disposizioni regolamentari che prevedono di ancorare alla data di entrata in vigore del d.m. 420/01 il possesso dei prescritti requisiti di restauratore e di collaboratore restauratore si veda l'interessante pronuncia del Tar Lazio, II, 1° marzo 2004, n. 1844 in Giustamm.it, 3/2005.

[16] Con riferimento alle forme di collaborazione fra Stato ed enti territoriali nel Codice dei beni culturali - ed in particolare sulla differenza tra accordi ed intese - si veda N. Aicardi, Commento all'art. 5, in Le nuove leggi civili commentate, op. cit, p. 1075 ss.

[17] La convenzione prevede, fra l'altro, l'interesse a sviluppare attività e programmi di ricerca in accordo con il centro, e, da un punto di vista materiale, la garanzia per gli allievi della normale attività di segreteria presso le strutture universitarie, mentre la sede istituzionale dei corsi è il centro La Venaria Reale, ristrutturata recentemente con fondi nazionali ed europei. Il progetto, già in avanzata fase di attuazione (il corso dovrebbe essere attivato già dall'autunno), ha avuto anche altri sponsor: regione Piemonte, provincia e comune di Torino e altre fondazioni per la promozione dell'arte. I corsi sono ad accesso programmato, la metodologia didattica è stata concepita dai promotori dell'iniziativa come integrazione di competenze teoriche e scientifiche provenienti dall'università con quelle metodologiche e pratiche rese disponibili dal centro.

[18] Per una ricostruzione aggiornata del fenomeno, si cfr. I distretti culturali nei paesi avanzati e nelle economie emergenti, in Economia della Cultura, 2/2005.

[19] Si auspica che tale riconoscimento non porti ad una sostanziale duplicazione e sovrapposizione con i percorsi universitari già esistenti; dalla formulazione della norma sembra più probabile che si tratti di una equiparazione ai titoli universitari. Naturalmente la problematica investe nell'immediato il periodo di disciplina transitoria, poiché non a tutti i percorsi di formazione verrà riconosciuto anche il valore di titolo universitario.

[20] Si può osservare come la disciplina della qualifica dei soggetti esecutori dei lavori di restauro, come si accennava all'inizio, sia peculiare ed, in un certo senso, in controtendenza rispetto a quella relativa agli esecutori di lavori pubblici in generale. Mentre, infatti, la disciplina dei restauratori individua un unico percorso di qualificazione ed addirittura l'istituzione di un albo unico dei restauratori, negli ordinari appalti di lavori pubblici il sistema dell'albo unico dei Costruttori è cessato dal 01/01/2000; al suo posto, come è noto, l'attestazione della qualifica degli operatori viene svolto da apposite società private (S.o.a.) che verificano il possesso dei requisiti obbligatori per legge, raggruppati per categorie sulla base della tipologia e dell'importo dei lavori da eseguire.

[21] Alcuni dati del rapporto, di prossima pubblicazione presso l'editore Giunti, sono contenuti ne il Giornale di Civita, supplemento a Il Giornale dell'Arte, n. 253, aprile 2006.

[22] In realtà, il rapporto Civita, pur non avendo dati specifici sugli sbocchi lavorativi, paragona il reddito medio pro capite considerato remunerativo per un restauratore alla spesa complessiva per il restauro in Italia, considerata invece piuttosto bassa, deducendone l'impossibilità dei restauratori ad essere assorbiti dal mercato pubblico e privato in condizioni occupazionali soddisfacenti.

[23] Bisogna comunque registrare che il miglior livello di occupazione riguarda i laureati in Conservazione dei beni culturali. Secondo un'indagine del consorzio interuniversitario Almalaurea, infatti, a tre anni dal conseguimento del titolo gli occupato risultano pari al 69% (laureati sessione estiva 2001).

[24] Si veda l'indagine svolta dalla Corte dei conti del 2004 relativa al quadriennio 2000-2003 sull' "Attività di restauro, recupero e conservazione delle soprintendenze e degli altri centri di spesa del ministero dei Beni e delle Attività Culturali" (delibera 22/2004/G).

[25] Sul rischio di un'eccessiva specializzazione delle imprese si veda tuttavia Tar Lazio, II, 1° marzo 2004, n. 1844, cit.

[26] In questo senso, si veda il documento approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome l'8 maggio 2003 Più tutela, più valorizzazione del patrimonio culturale: proposte delle regioni per allargare i soggetti che concorrono, con lo Stato, alla tutela dei beni culturali, ed il commento di G. Sciullo, Politiche per la valorizzazione e la tutela dei veni culturali e ruolo delle Regioni, in Aedon, n. 3/2003, ricordato da C. Tubertini nel commento alla sentenza citato.

[27] Sembra opportuno comunque ricordare, come già accennato, che l'attivazione dei corsi universitari presso il Centro torinese è disciplinata in modo del tutto speciale con una normativa sui generis rispetto non solo a quanto previsto dall'art. 29, ma anche dalla normativa generale sull'offerta didattica.

 

 



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