Sul nuovo ordinamento didattico delle istituzioni di Alta formazione artistica e musicale
di Guido Franchi ScarselliSommario: 1. Premessa. - 2. Una autonomia di facciata. - 3. I nodi irrisolti. - 4. I caratteri e le difficoltà del nuovo ordinamento. - 5. Conclusione: un'occasione sciupata.
Mediante il d.p.r. 8 luglio 2005, n. 212 viene emanata la disciplina che autorizza i soggetti del "sistema dell'Alta formazione e specializzazione artistica e musicale" abbozzato dalla legge quadro 21 dicembre 1999, n. 508, di darsi, tramite propri regolamenti interni di recepimento, un rinnovato e stabile ordinamento didattico; che cioè consente alle Accademie di Belle arti, ai Conservatori ed alle restanti Accademie e Isia [1] di uscire definitivamente da quella risalente sistemazione fra Scuola secondaria e Università che, salve ripetute e comunque instabili "sperimentazioni", ne impediva un aggiornato inquadramento istituzionale nel più complessivo sistema nazionale dell'istruzione superiore.
Se questo obiettivo è stato raggiunto - come vedremo più che parificandoli nella forma piuttosto assimilandoli nella sostanza alle Università - va subito detto che lo sfondo su cui poggia rimane oscuro in non pochi versanti: la frammentariatà e l'incertezza caratterizzanti la posa delle tessere costitutive l'ordinamento di queste istituzioni non potevano del resto mancare di evidenziare i limiti dell'assenza di un originario progetto per ammettere di vederlo tracciato organicamente dal corposo elenco dei regolamenti di delegificazione (del t.u. della scuola, decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297) cui tale legge quadro rinvia. A maggior ragione se vedono la luce al ritmo di uno ogni triennio, secondo un ordine imperscrutabile, soddisfacendo per forza di cose le logiche particolari correnti il loro proprio tempo.
Dei nove regolamenti attesi dal 1999, questo è solo il secondo a veder luce e già può dirsi che il primo, reso dal d.p.r. 28 febbraio 2003, n. 132 recante i criteri della autonomia statutaria, abbia perso quella carica innovativa che, pure debolmente, lasciava intravedere [2] [3]. Né può qui addursi la giustificazione del sovvenuto assetto federalista, muovendosi in una scena che assegna alle regioni uno spazio che rimane più ristretto di quello loro riservato nel parallelo fronte dell'autonomia universitaria, non risultandoci ancora rivendicata l'assimilazione della ricerca artistica a quella scientifica [4].
Accantonata la prospettiva di offrire un ordinamento generale organico e negando a quelle istituzioni la capacità di poterselo autonomamente dare in via statutaria, suo tramite viene pertanto compiuto un passo avanti, ma in una direzione che - a nostro avviso - conferma non tanto le consuete difficoltà di riformare assetti consolidati, quanto piuttosto il farlo in una direzione lontana dall'idea primigenia sostenuta dalla l. 508/1999 cit., per l'appunto quella dell'autonomia delle singole istituzioni componenti questo dedicato sistema.
La circostanza di non averla definita, e a dire il vero nemmeno vista decisamente rivendicata, complica l'obiettivo di misurare la qualità di quel passo: ove si guardi alle intenzioni del Legislatore del 1999, lo diremmo non solo lento, ma anche di breve corsa; ove invece si accetti l'idea di "doverlo" muovere entro circuiti tesi da un lato non ad abbandonare bensì a mantenere relazioni verticali, con lo Stato, di natura paternalistica e dall'altro a ricercare conciliazione in quelle orizzontali, con le Università, lo potremmo allora dire coerente.
In ogni caso, l'assenza di una precisa strategia istituzionale era e secondo noi rimane tuttora il punto centrale che avvolge indeciso la vita di un ambiente senz'altro riposto nel fronte dell'istruzione nazionale, eppure glorioso ed oggi soprattutto, più di ieri, meta formativa di non irrilevanti frange della complessiva popolazione studentesca del Paese. Mutilato dal sorgere delle facoltà di Architettura prima e contrastato da quello dei Dams dopo, nonché a lungo consegnato all'idea connessa all'episodio del singolo talento che confermerebbe, con sintesi fulminante, l'affermazione per cui "l'arte non può essere insegnata", questo ambiente matura una progressiva consapevolezza della propria significazione e funzione istituzionale a misura del crescente, sia pure ondivago, coinvolgimento culturale del Paese al ruolo della produzione artistica [5]. Ma lo affronta, arricchendo dalla metà degli anni '70 la propria offerta formativa a nuove materie sia teoriche che di laboratorio con metodo puramente additivo [6], senza risolvere le contraddizioni dell'impianto gentiliano da cui muove. Non riuscendo ad individuare entro perimetri condivisi, già al proprio interno, la direzione da riservare alla ricerca e all'istruzione artistica - al ruolo pubblico dell'artista nei termini estesi, intellettuali e professionali, riconosciuti da altri Paesi europei - questo ambiente rimane allora inevitabilmente esposto alle forze conservatrici delle sue componenti interne più assuefatte ed a quelle esterne, a questo punto antagoniste, delle Università con le quali ha iniziato a confrontarsi competitivamente via via che estendeva l'ambito della propria azione a settori prettamente teoretici (il banco, come noto, è reso da ciò esse non hanno, ovvero e in breve dai laboratori). Da qui, diremmo inevitabilmente, non è difficile vedere a sua volta l'amministrazione statale mancare di decidere con l'intransigenza consentita dal Legislatore (che avrebbe fra l'altro implicato sfollare dal sistema le istituzioni più deboli), attuando lentamente e senza innovazioni una riforma che chiede(va) invece di venire presa dalle corna.
Ciò per accennare, ancora una volta, che la svolta operata dalla legge quadro del 1999 aveva fondamento, non offrendo già essa risposta a quelle domande, nell'idea di liberarlo dall'incapacità di potere scegliere, sia pure nel rispetto degli standard comunitari e di un impianto organizzativo comune, il proprio singolare od autonomo approccio culturale fra i diversi lidi che quel ruolo pubblico ammette e, può dirsi, anche il mercato dimostra di sapere apprezzare [7]. Di decidere cioè, istituzione per istituzione, se e come spingersi avanti fra i poli del sapere pratico e teorico individuando proprie, esibite caratterizzazioni e semmai mediazioni con il mondo universitario.
Ma così non è stato, potendosi sostenere con sicurezza che quell'idea sia stata accantonata; che questo ambiente si sia cioè rivelato incapace di gestire autonomamente la propria riforma, con il risultato di finire ben presto imbrigliato nella rete di un faticoso sia pure di norma conciliante fare ministeriale. Ma anche di capire sino in fondo che questi passaggi rimangono strettamente correlati: che l'autonomia andava cioè guadagnata individuando una precisa e sostenibile dimensione funzionale nella quale poterla esercitare offrendo le garanzie di produttività che l'ordinamento generale chiede ad ogni pubblico sistema.
Ma così, come si diceva, non è avvenuto, avventurandosi piuttosto entro schemi tesi a scambiare l'autonomia nel proprio consolidamento a crescenti spese dello Stato e della popolazione studentesca; nel rivendicare l'assimilazione dello stato giuridico dei propri docenti a quello dei professori universitari senza però accettare di apprenderne gli impegni tabellari e correlati strumenti di verifica, che pure a fatica quel mondo sta imponendo, nella pretesa di una immisurabile qualità artistica (ad incominciare dalla distinzione fra regime a tempo pieno e definito, diffusamente ritenuto inaccettabile dal docente-artista e in effetti qui espressamente derogato dall'art. 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165); nel rinunciare cioè alle prerogative di un rapporto di lavoro tuttora saldamente ancorato ai medesimi carichi richiesti al docente della Scuola superiore.
Non deve dunque sorprendere che l'amministrazione statale si sia infine accomodata nel seguire il percorso a lei più agevole, in quanto già lo possiede, di stabilire un ordinamento didattico analogo a quello universitario, del c.d. tre più due ecc., che viene in effetti qui recepito tanto passivamente quanto paradossalmente. Passivamente, nel senso che prescinde dalla subentrante discussione sulla sua effettiva efficacia in atto nel mondo universitario; paradossalmente, in quanto il valore legale dei titoli che rilascia rimane connesso alla verifica del possesso di un elemento di fondo - il sapere artistico - che solo lontanamente e parzialmente [8] assolve la medesima funzione sociale offerta da quelli universitari.
Si è cioè sostenuta, con l'alibi della pressione comunitaria, un'omologazione di generi tra loro in buona parte diversi.
Sono dunque occorsi quasi sei anni [9] per riempire l'ampio spazio lasciato in bianco dalla legge quadro di contenuti privi di originalità e, può aggiungersi, indipendenti da una riflessione sulla loro qualità, come consentivano gli accennati dubbi sulle prime risultanze dell'ormai avviato sistema universitario che si ricalca.
Ora, più che per rispettare un preciso disegno politico centrale - diremmo totalmente assente o comunque mai esibito dalla componente politica del Miur attualmente in carica - questo risultato ci sembra costituire l'esito della combinazione di tre elementi di fondo: il diffuso senso di complesso del personale docente di queste istituzioni verso quello universitario (che pure trova, senza peraltro esaurirla [10], fonte in marcate differenze retributive); la forte, assai più che nelle Università (quale deriva della storica origine di marca liceale), delega decisoria alle rappresentanze sindacali e dunque, per forza di cose, corrispondente inibizione a soluzioni differenziali, premiali le distinte capacità delle singole istituzioni e rispettivi docenti; la loro debolezza organizzativa interna, anch'essa derivata da quella medesima origine liceale, ovverosia la scarsa affidabilità nel garantire un autogoverno coerente ai diversi vincoli che un ente pubblico autonomo (e così vale in certa parte anche per quelli pareggiati) deve comunque dimostrare di sapere rispettare autolimitando la sua tendenza a privilegiare un fare eminentemente pratico o, si potrebbe qui forse dire, creativo.
L'insieme di questi elementi per così dire generali - uniti a quelli più specifici legati alla questione dei Conservatori, alle tensioni con il mondo universitario, alla diffusa litigiosità "interna" e altri ancora di cui si farà accenno in seguito - hanno dunque senz'altro favorito una decisa riduzione dell'autonomia prospettata dalla l. 508/1999 cit. e la parallela espansione del potere governativo centrale. Che in effetti si conferma, accanto a quanto già ci parve possibile segnalare a commento del d.p.r. 132/2003 cit. sulla asserita capacità statutaria, anche qui padrone assoluto: basti vedere, oltre all'uniformante impronta regolativa espressa, il persistente rinvio a successivi decreti ministeriali che, non di meno, esso cura di prevedere e che, in evidenza, autoriproducono la sua prerogativa di governo del sistema nel tempo.
Senza avere gli elementi per poterlo dimostrare frutto di una precisa tattica, rimane il fatto che avere intrapreso la strada di montare questo processo riformatore tanto per singoli pezzi quanto prescindendo, anzi impedendo di tararlo sulla scorta di una previa analisi degli elementi organizzativi necessari a gestirlo con l'occorrente efficienza abbia fatalmente condotto a questo risultato.
Con altre parole, ci pare francamente stonato pretendere di avviare nuovi e più impegnativi percorsi didattici avendo nel frattempo, per sei anni, radicalmente impedito a queste istituzioni di dotarsi di corpi e assetti organizzativi disposti ad accoglierli, e quindi ragionevolmente mostrare la garanzia di saperli o meno gestire: non solo è stata vietata, malgrado l'autonomia statutaria, ogni soluzione organizzativa interna diversa da quella minimale tracciata dal d.p.r. 132/2003 cit., ma gli è stata altresì denegata la facoltà di ampliare e meglio articolare la dotazione del personale non docente; di attrezzarle cioè a divenire un soggetto diverso da quella sorta di licei che erano: in questo lato il loro apparato tecnico-amministrativo è rimasto quello di una volta, un pugno di persone con a capo un Direttore amministrativo cui non è stato nemmeno riconosciuto il ruolo di dirigente per gestire, in diversi casi, migliaia di studenti impegnati in un fitto reticolo di corsi di primo e secondo livello, di specializzazione, di perfezionamento o master, nei dottorati di ricerca, nella Cobaslid ecc. (v. artt. 3 e 5, comma 5) oltre, ovviamente, alle ordinarie, ma non per questo agevoli incombenze di tenuta delle sedi destinate a riceverli!
Ma non solo, in quanto non è nemmeno stato risolto lo specifico "problema" dei Conservatori i quali, come noto, intersecano storicamente al proprio interno percorsi formativi aventi non tanto lunghezza variabile (e dunque di più ardua conciliazione al modello del c.d. tre più due) quanto radici piantate nell'ordinamento della Scuola secondaria. Il non essere riusciti a dipanare tale incrocio fra mondi sì diversi, ma che pure devono garantire allo studente un'adeguata prospettiva di continuità educativa nel campo dove abbia scelto di confrontare le proprie aspirazioni culturali e professionali rappresenta forse l'ostacolo più grave alla riforma dell'intero sistema. E dal momento che i Conservatori sono più numerosi di quasi il doppio delle Accademie e dunque esprimono una parallela, maggiore forza di pressione, la mancata soluzione di quei loro specifici nodi ha costituito l'alibi fondante la presente, incerta situazione. Non avere preso atto della loro differente struttura, separandone con decisione i percorsi di sviluppo formativo secondo un divenire orientato, ha peraltro finito di penalizzare le Accademie e gli Isia malgrado il loro inquadramento disciplinare e culturale non detenesse quelle medesime difficoltà (prettamente organizzative e qui sì intersecanti il rinnovato assetto federalista) che avvolgono il mondo dei Conservatori. In breve, la volontà di abbracciare in unum la riforma dell'intero sistema ha favorito il mantenimento di assetti ibridi in entrambe quelle due macro-componenti che lo costituiscono.
4. I caratteri e le difficoltà del nuovo ordinamento
Passando velocemente ad illustrare le principali caratteristiche del presente regolamento, va subito osservato che dispone un'articolazione dell'offerta formativa piuttosto rigida e comunque provvisoria. Prevede cioè da un lato che debba conformarsi alle tipologie di "scuola" individuate nell'allegata Tabella ma dall'altro che, mediante successivo regolamento ministeriale, tale assetto possa venire variato in relazione alle innovazioni didattiche connesse a nuovi corsi di studio individuati in sede di programmazione e sviluppo del sistema. Qui, in sostanza, si pone comprensibilmente un freno alla sua alimentazione mediante l'introduzione di nuovi corsi di studio; ma, così facendo, meno comprensibilmente lo si opacizza uniformandone i caratteri formativi sull'intero territorio nazionale.
Nel lato organizzativo - sempre all'interno dell'art. 5 - si prevede con soluzione difforme da quella universitaria che i Dipartimenti (peraltro da costituire secondo tre aggregazioni di scuole predefinite secondo scelte imposte da quella medesima Tabella) si occupino anche della didattica.
Al loro proposito può segnalarsi che, non essendo previsti dal d.p.r. 132/2003 e quindi essere cassati in sede di controllo anche laddove lo Statuto li avesse prefigurati, viene a mancare ogni riferimento sui processi diretti a concepirne le figure direzionali e le possibili relazioni con gli organi di governo dell'istituzione (che, come noto, non conosce gli automatismi tipici al modello del Senato universitario).
Sia pure riprendendo considerazioni sulle quali abbiamo già molto insistito [11], è forse utile osservare come la distonia fra queste prime due manifestazioni del potere regolamentare centrale produca sulla periferia una di queste due conseguenze: o le istituzioni riformano dapprima lo Statuto tenendo conto del presente regolamento didattico, come vorrebbe il seguente art. 10, comma 4, accettando di rinviarne il recepimento per circa un anno (dato il gravoso procedimento di controllo previsto dal d.p.r. 132/2003 cit.); o invece vi prescindono incanalandosi entro percorsi non solo facilmente instabili nella tenuta di quelle decisive relazioni - nel Consiglio accademico, che è l'organo di governo della didattica, potranno infatti sedere docenti rappresentanti interessi diversi da quelli ora affidati ai Dipartimenti, generando situazioni di incerta legittimazione e potere - ma altresì rivestiti di una difforme investitura "democratica"; ciò posto che lo Statuto viene deliberato dal Consiglio di amministrazione, previo parere del Consiglio accademico e del Collegio dei docenti (ovverosia dall'insieme dei docenti dell'istituzione, malgrado non sia ancora chiaro se comprendendovi o meno solo quelli di ruolo), mentre questo specifico regolamento (le procedure variano a seconda del loro oggetto) va viceversa deliberato da detto Collegio previo parere obbligatorio del Consiglio di amministrazione. Per poi essere comunque entrambi "approvati" dal Miur.
La situazione appare dunque particolarmente intricata e vede messa in radicale discussione l'eventuale buona volontà di porre un elementare ordine (di consequenzialità causale) al sistema della gerarchia delle fonti interne. E questo esempio, si consenta, è destinato a prefigurare solo la prima di tutta una serie di analoghe difficoltà che queste istituzioni si troveranno inevitabilmente e ingiustamente a dovere superare o, più facilmente, ad aggirare con il sopravvento dei prossimi regolamenti e la già annunciata revisione di questo stesso; così continuamente esponendosi ai facili rischi che ciò comporta in un ambiente già di suo aduso ad agitare la frusta giurisdizionale. Un altro rischio che ci sembra possibile ipotizzare rimane quello della disaffezione; della possibile scelta da parte di molti di abbandonare la propria disponibilità nel concorrere a sviluppare il sistema secondo linee sufficientemente ordinate perché giuridicamente incomprensibili o comunque ingenerosamente defatiganti.
Riprendendo la disamina del testo, lo si vede quindi disporre agli artt. 6 e 9 il sistema dei crediti formativi, prevedendone una quantità media annuale di 60, pari a 25 ore ciascuno, ma secondo criteri di assegnazione variabili in percentuali decrescenti a seconda che siano maturati tramite lezioni teoriche, teorico-pratiche e di laboratorio (l'idea è che per l'esame teorico occorra studiare a casa come invece non è possibile in quello pratico).
Questione, anch'essa, densa di complicazioni perché ridondante effetti concreti in due profili di grande significazione, che vanno oltre l'inevitabile conflitto interno sul "peso" o prestigio delle diverse materie di insegnamento: il primo reso dall'espansione di tali materie, connesso al fatto che per maturare 60 crediti nei limiti dell'impegno orario concesso dall'attuale contratto collettivo ai docenti di questo comparto esse vengono più o meno inevitabilmente affiancate da numerose altre; le quali, pure ex se utili, tendono ad allontanare lo studente dal probabile centro degli interessi che ivi ricerca, moltiplicando gli esami da sostenere e non di meno restringendo il confine che separa l'approccio accademico da quello universitario. Queste istituzioni, di norma, non dispongono poi dei docenti abilitati a questi nuovi insegnamenti "di contorno" [12], con la conseguenza di doverli individuare all'esterno e sopportare il loro costo in una condizione di generale contrazione delle risorse finanziarie disponibili.
In breve, queste nuove docenze (a prescindere dalla loro utilità culturale) erodono i fondi occorrenti a realizzare migliori servizi, che di norma stanno invece ai primi posti della domanda studentesca.
Salvo per i Conservatori, ai cui corsi di primo livello si consente l'accesso anche agli studenti privi del diploma di istruzione secondaria (così, al comma 3, da leggere in connessione al seguente art. 12, comma 4, affrontando precariamente uno dei nodi legati alla loro mancata riforma), la restante parte dell'art. 7 prevede meccanismi di accesso alle diverse tipologie di corso analoghe a quelle universitarie. Dunque, il possesso di quel diploma per accedere a quelli primo livello; la laurea (universitaria) o il diploma (accademico) di primo livello per accedere a quelli di secondo e così via, riservando ai regolamenti di ogni istituzione il compito di stabilire i criteri per saggiare un'adeguata preparazione iniziale (un test d'accesso) e, in relazione al rapporto tra studenti e docenti rinviato alla programmazione ministeriale, un tetto massimo alle iscrizioni.
Si giunge infine all'art 10, ove per un verso si elenca una corposa serie di oggetti la cui definizione viene rimessa ai regolamenti didattici interni e per l'altro si cura però di disporre che ciò avvenga "nel rispetto, per ogni corso, ... dei conseguenti decreti del ministro" (comma 1) nonché, come si diceva poc'anzi, degli Statuti (comma 4).
Così prevedendosi - evitando di scendere in maggiori dettagli, ma memori del fare ministeriale in sede di controllo statutario [13] - non può non domandarsi se a questo punto non valga la pena sollecitare il Miur di provvedervi lui direttamente, diramando - come già fece in occasione del testo-tipo del regolamento di contabilità [14] - un testo analogamente tipo del presente regolamento didattico. Appare del resto difficile immaginare che queste istituzioni possano non tanto autonomamente disciplinare quella corposa serie di oggetti, quanto piuttosto rendersi disponibili a farlo rimanendo esposte ai tempi e alla intrinseca volatilità dei decreti che il ministro si riserva di adottare con simile spazio di manovra.
Se queste sono le condizioni dettate dal centro per acquisire pari livello e dignità con le Università, potrebbe del resto chiedersi, senza troppo temere di apparire neofobici, se valeva poi veramente la pena coltivarlo.
5. Conclusione: un'occasione sciupata
Lasciando ad altri migliori risposte, magari in contraddittorio con gli studenti, può allora ribadirsi che il presente sistema si caratterizza allo stato nell'inseguire un approccio simile a quello universitario, da cui finisce per discostarsi soprattutto nel modello organizzativo di governo (tracciato dal d.p.r. 132/2003) e, in genere, dalla minore autonomia dall'amministrazione centrale benché rilasci titoli aventi un impatto sociale formale complessivamente meno professionalizzante.
Malgrado non sia questa la sede per dirlo meglio, può ricordarsi che questo curioso risultato - reso nei relativamente pochi articoli che compongono il presente decreto - ha comunque avuto vita dura, costituendo l'esito del terzo tentativo di superamento dell'esame di fronte al Consiglio di Stato. Che soprattutto in occasione del secondo [15] non mancò di sferzare l'amministrazione con considerazioni tanto analitiche che imbarazzanti: articolato in ben 113 punti, quel parere fece in effetti "a pezzi" un testo deliberato dal governo nel marzo del 2004 che, invero, non si discosta poi molto da quello ora promosso né soprattutto evita, come si diceva, di fare largo uso alla tecnica del rinvio a successivi decreti ministeriali che quel Giudice pure (giustamente) lamentava con insistenza tanto contrastare il sistema normativo delineato dalla l. 508/1999 cit. quanto ledere l'autonomia delle presenti istituzioni.
Ciò nonostante, questa comoda tecnica finisce per avere il sopravvento: non ci sembra del resto che rimanessero ormai aperte altre strade dal momento che per un verso aveva preso corpo una pericolosa escalation giudiziaria sfavorevole all'amministrazione centrale (di cui subito più sotto); e per l'altro, come si diceva, né questa ultima né l'ormai ampiamente delegittimato organismo di rappresentanza delle presenti istituzioni - il Cnam [16] - sapevano mostrare di offrire il progetto di un ordinamento alternativo sufficientemente compiuto. Viene dunque data via libera a questo debole modello, che se da un lato allinea formalmente il sistema dell'Alta formazione artistica e musicale a quello universitario, perde dall'altro l'occasione di distinguersi secondo percorsi innervati vuoi nell'idea di una data innovazione vuoi, causa la sua assenza, in una pure delimitata autonomia nel poterla ricercare in relazione alle variabili circostanze, esperienze, localizzazioni e tensioni culturali proprie di ogni suo soggetto.
Nel frattempo, dietro domanda delle singole istituzioni, il ministero aveva del resto autorizzato in via sperimentale l'avvio di numerosi corsi di primo e secondo livello che, con il passare del tempo e dunque la perdurante assenza di un quadro disciplinare capace di affidarne la sistemazione secondo parametri certi ed equi (onde evitare di generare confuse sovrapposizione nella maturazione dei crediti, degli impegni didattici, del valore dei titoli ecc. fra nuovo e vecchio ordinamento), avevano innescato taluni ricorsi innanzi al Giudice amministrativo regolarmente accolti nella censura, per mera violazione di legge, di un facere ministeriale inevitabilmente illegittimo laddove insisteva a governare il sistema per atto amministrativo (accogliendo, come si diceva con approccio paternalistico, le diverse fughe in avanti di questa e quella istituzione) e non, come pretende la l. 508/1999 cit., in esito a fonti di rango regolamentare [17].
Che la situazione fosse ormai sfuggita di mano al ministero lo attestava un ulteriore fatto, tanto significativo quanto emblematico il procedere avanti in ordine confuso: nel febbraio 2005 viene infatti siglato il primo contratto collettivo nazionale di lavoro del presente, suo tramite nascente nuovo comparto. Il quale, meta evidentemente inseguita dalle oo.ss., non manca certo di coinvolgerle nei lidi decisori un processo costruttivo il sistema come si è detto già significativamente stentato. Ora, senza scendere nel dettaglio dei procedimenti che prescrive, si consenta egualmente temere che una sua fedele applicazione non potrà che ulteriormente allontanare la residua prospettiva di riuscire ancora a cogliere quella autonomia che pure, insistiamo, la legge quadro espressamente prevede. Non ci pare del resto azzardato considerare grossolanamente erroneo avere inserito "nel mentre" di un processo normativo garantito dagli ordinari canali istituzionali dell'ordinamento generale (qui resi dall'emanazione di una serie di regolamenti di delegificazione) un reticolo di previsioni contrattuali che ne anticipano od orientano in larga parte la configurazione organizzativa finale, evidentemente dipendente dalle politiche sul personale docente e non docente. E che comunque imporranno, non è chiaro a quale livello formale e con quale coinvolgimento del Cnam (di cui infra), una dedicata contrattazione centrale.
In breve, non ci sembra si sia lontani dall'avere fornito un rigido ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la lepre. Come dimostra il fatto che una delle sue più ricercate disposizioni - l'avere promosso al rango di "professore di seconda fascia" tutti gli assistenti in servizio - è stata subito espressamente sconfessata dal Miur quale soluzione né condivisa né autorizzata all'Aran ! Ciò nonostante, tale previsione non poteva mancare di sortire effetti giuridici: che sono infatti puntualmente emersi in una recente pronuncia del Consiglio di Stato ove si dichiarano nulle le nomine dei Consigli di amministrazione e dei Direttori delle istituzioni in quanto promananti da corpi elettorali costituiti dai soli "docenti" in quanto professori di prima (e non anche seconda) fascia [18], infilandosi in uno dei numerosi "buchi" lasciati aperti da quell'altrettanto incerto testo che reca il d.p.r. 132/2003 cit.
Il Miur si è affrettato a segnalare che, "per principio generale, costantemente affermato e ribadito dallo stesso Consiglio di Stato", detto annullamento di atti normativi "non è suscettibile di incidere sulle situazioni esaurite, cioè già perfezionatesi in forza di provvedimenti ormai consolidati..." [19], ma non ne saremmo così sicuri laddove si guardi alla sua giurisprudenza nella specifica materia elettorale. Si apre in ogni caso un futuro incerto rispetto alle prossime elezioni (da tenersi nel 2007), dal momento che riformare il d.p.r. 132/2003 implica seguire, come detto, il non agevole percorso previsto dall'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
Per completare il quadro - dal momento che l. 508/1999 da un lato ancora nel Cnam l'organo (necessario) preposto a rilasciare pareri sugli schemi dei regolamenti ministeriali e dall'altro ne affida le modalità costitutive ed elettorali a un decreto ministeriale da adottare "entro un anno dalla data della (sua) entrata in vigore", e cioè entro il dicembre 2000 - può infine ricordarsi che il ministero vi provvede con quasi cinque anni di ritardo (mediante il d.m. 16 settembre 2005, n. 236); così programmando di sollevare ben al di là dei quarantacinque giorni della prorogatio legale quella sua espressione provvisoria ormai sfrangiata da dimissioni e incompatibilità sopravvenute e del resto, come accennato, diffusamente delegittimata che sempre la l. 508/1999 ammetteva transitoriamente.
Ora, malgrado si licenzino queste note prima di conoscerne l'esito, va comunque segnalato che quel decreto è stato prontamente impugnato dal sindacato che ne aveva espresso l'attuale presidenza per motivi che sembrano, per quanto ci è noto, probabilmente fondati. Ove così fosse confermato, si inserirebbe allora un ulteriore ostacolo alla definizione di un percorso che conosce già numerosi ostacoli. E che soprattutto pare muovere in una direzione sempre più lontana dalla ricerca di una aggiornata tutela degli interessi del bene che primum omnium dovrebbe proteggere, gli studenti.
La prossima fine della corrente legislatura induce un giudizio finale: se il governo di quella precedente ebbe il grave torto di licenziare una riforma letteralmente "in bianco" (sospingendo la legge quadro), ci sembra che quello attuale non abbia dato dimostrazione di sapere fare molto meglio, mancando sia di risolvere il nodo dei Conservatori che di affrontare quegli altri decisivi aspetti da essa lasciati aperti. Tenendo conto della difficile congiuntura economica del Paese, riflessi nella previsione di una diminuzione dei trasferimenti erariali alle presenti istituzioni di circa il trentacinque per cento rispetto al loro ammontare nell'esercizio 2005, non sembra allora azzardato sostenere che si apre, per il prossimo governo e prima ancora per quelle istituzioni, uno scenario effettivamente complicato in quanto irto di vincoli formali, di scelte transitorie e di mancate scelte, nonché finanziariamente indebolito benché più caro.
Si è dunque sciupata l'occasione di lavorare in un contesto relativamente favorevole, mentre la questione rischia ora di spostarsi sulla loro capacità di resistenza alle più forti spalle di quella latente pressione universitaria che predica di assorbirle quali sue nuove facoltà.
Note
[1] Tali soggetti, per distinguerli dalle Università, denominati "enti di Alta formazione artistica e musicale", sono attualmente costituiti da venti Accademie di Belle arti, cinquantasette Conservatori, ventidue Istituti musicali pareggiati, le due Accademie nazionali, di danza e di arte drammatica, e quindi i quattro Istituti superiori per le industrie artistiche.
[2] Può aggiungersi che nel frattempo, nel mese di dicembre 2004, è stato diramato un testo recante il regolamento-tipo di contabilità che - si noti - non era peraltro stato adottato mediante un decreto ministeriale o comunque un atto formale che ne lasciasse riconoscere la paternità e conseguente responsabilità sulla sua impostazione (peraltro facilmente ascrivibili al ministero dell'Economia). Più semplicemente, e malgrado tanto la legge 508/1999 che il d.p.r. 132/2003 non manchino evidentemente di salvaguardare l'autonomia di queste istituzioni, indicando all'uopo dedicati e formali procedimenti elaborativi la dinamica costruttiva scelte affidate a regolamenti centrali "quadro" e regolamenti di recepimento interni coerenti alla fonte statutaria, lo si è imposto tramite una mera lettera di accompagnamento della Direzione generale Afam, invitandole a recepirlo (deliberandolo con atto dei propri Consigli di amministrazione) inserendo "negli appositi spazi" il loro proprio nome! Inutile dire che il messaggio, ben chiaro, è stato quello di non apportarvi alcuna modifica a pena della loro esecutività (comunque rimessa alle forme di un defatigante controllo successivo affidato, pare, a ben tre ministeri). Ove, sforzandosi, si riesca a giustificare simile metodo in nome dell'obiettiva urgenza di imporre chiarezza e certezza rendicontativa all'attività economico-finanziaria di enti rimasti fedeli, in questo lato, a procedure e modelli contabili certamente né attuali né idonee alla loro sovvenuta autonomia, rimane a nostro avviso censurabile la volontà di averla coltivata prescindendo da quella riforma dell'assetto organizzativo interno che, pure, non gli è ancora stato concesso di avviare. In breve, posto che quest'ultima rimaneva condizionata all'avvento di almeno due regolamenti ministeriali (quello di organizzazione, non ancora emanato e quello didattico, a commento di queste note, che sarebbe entrato in vigore l'anno successivo), il risultato finale è stato quello di fare approvare la disciplina contabile sulla base di assetti non solo uniformi (benché le Accademie e i Conservatori non siano certo fra loro tutte eguali) bensì in via di preteso superamento. L'aggiornamento della disciplina contabile, in quella autoritaria via, è stata cioè imposta prima e non dopo, come è evidente debba essere, la definizione dell'assetto organizzativo dei centri di spesa (uffici, servizi, articolazioni didattiche centrali e periferiche, musei, biblioteche ecc.) che ogni Istituzione sarà chiamata a darsi in ragione della propria dedicata struttura. D'altra parte, si vorrà capire, dal punto di vista della struttura amministrativa le Accademie di Brera o Bologna, con migliaia di studenti e diverse decine di Corsi, non possono certo venire completamente assimilate al piccolo e compatto Conservatorio di provincia.
[3] Se non nella configurazione degli aspetti prettamente organizzatori la loro forma di governo, in quanto imperativi. Per una lettura critica di quel testo, che a questo punto vieppiù fatichiamo a cogliere teso riconoscere una reale autonomia statutaria, v. G. Franchi Scarselli, Prende avvio la riforma dell'istruzione artistica: le Accademie di belle arti e i conservatori diventano enti autonomi, in questa Rivista, 2003, n. 3. Tale perdita di consistenza risale all'espresso divieto ministeriale di disciplinare negli Statuti, sia pure con norme aventi carattere prettamente generale, gli argomenti riservati a una previa regolamentazione governativa: praticamente tutti, salvo quelli legati al modello della suddetta forma di governo dettati dal d.p.r. 132/2003 cit. La conseguenza, come si comprende agevolmente, diviene allora quella di vedere le presenti Istituzioni muovere nel rispetto di una scala gerarchica di ardua individuazione, rimanendo escluso che ognuno di questi atti normativi (lo Statuto e i regolamenti di recepimento interno dei regolamenti governativi) riesca a disciplinare i propri argomenti evitando di darsi reciproco rinvio o comunque invadendo fatalmente l'uno segmenti già tracciati dall'altro.
[4] Che pure, sia chiaro, anche le presenti istituzioni si riservano certamente di coltivare.
[5] Cfr., in una letteratura la cui esiguità manifesta il sintomo della posizione marginale riconosciuta allo sviluppo del presente sistema, la sintetica, ma accesa riflessione di S. Sproccati, La contraddizione accademica. Istruzione e formazione dell'artista nelle Accademie di Belle arti, in Figure del '900, a cura di A. Baccilieri, Bologna, 2001, 577 ss. Per altri riferimenti si rinvia al nostro Prende avvio la riforma ecc., op. cit., passim.
[6] Dapprima, a seguito della riforma del 1975, in via sperimentale e quindi, dal 1990, con parallelo riflesso nella dotazione organica, affiancando ai tradizionali diplomi nelle c.d. "belle arti" e cioè in pittura, scultura, decorazione e scenografia, cui si affiancavano taluni laboratori accessori (di incisione, anatomia artistica, tecnica scultorea ecc.) e l'insegnamento della storia dell'arte, un'offerta formativa estesa alle più "moderne" discipline sia teoriche (quali l'estetica, la pedagogia dell'arte, la psicologia della percezione ecc.) che laboratoriali (quali il design, la fotografia, il restauro e la metodologia della progettazione).
[7] Il numero degli studenti iscritti alle presenti Istituzioni è in costante aumento, passando dai 54.984 dell'a.a. 1999/2000 ai 68.840 dell'a.a. 2004/2005.
[8] Se questa affermazione, circa le Accademie, si applica ai titoli connessi alle scuole comprese nel Dipartimento delle Arti visive (costituite dai tradizionali corsi di pittura, scultura, grafica e decorazione) è peraltro vero che tende progressivamente a perdere significazione con riguardo a quelli rilasciati dalle scuole connesse nei restanti due, della Progettazione e arti applicate l'uno e della Comunicazione e didattica dell'arte l'altro, ove il momento professionale e l'intensità del sapere artistico vengono rispettivamente ad acquisire e perdere consistenza. Può infine notarsi che la scenografia viene déraciné dal primo, a lei tradizionale Dipartimento per venire consegnata al secondo e così ad acquisire una più decisa caratterizzazione professionale.
[9] Deliberato in luglio, il presente decreto è stato poi pubblicato il 20 ottobre.
[10] Covandosi sullo sfondo anche l'annosa querelle sull'equilibrio fra sapere pratico e sapere teorico, che vede grosso modo opposti gli artisti agli storici dell'arte.
[11] Può altresì vedersi il nostro Prende avvio la riforma ecc., op. cit., par. 3.1.
[12] Da una lettura a contrariis dell'art. 9, comma 1, si ricava che alle istituzioni è consentito individuare autonomamente il quaranta per cento dei crediti formativi necessari per ciascun corso (restando pertanto il residuo sessanta per cento riservato alle scelte ministeriali).
[13] Cfr. il nostro Prende avvio la riforma ecc., op. cit., par. 3.2.
[14] V. antea, alla nota n. 2
[15] Reso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi, n. 2708/2004, nell'Adunanza del 17 maggio 2004.
[16] Tacciato dal ministero di rendere pareri "più di carattere sindacale che tecnico". Ed in effetti a lungo proteso in arrembanti quanto perdenti rivendicazioni di segno peraltro prevalentemente formalistico (ovvero teso a ricalcare il modello universitario), di cui possono vedersi - oltre a quelle riferite ai primi progetti del testo che sarebbe poi divenuto il d.p.r. 132/2003 - tracce nei verbali recanti la discussione sullo schema del primo e del secondo progetto del presente regolamento. V. spec. l'atto Cnam prot. n. 1763 del 14 aprile 2003.
[17] Cfr. Tar Lazio, sez. III-bis, sent. 25 luglio 2005, n. 5874.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 21 settembre 2005, n. 4923, in Cons. St., 2005, n. 9, 1572 ss.
[19] Con nota della Direzione generale Afam del 6 ottobre 2005.