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La pianificazione paesaggistica:
il coordinamento con gli altri strumenti di pianificazione

di Stefano Civitarese Matteucci


Sommario: 1. Il piano paesaggistico è atto di coordinamento generale o settoriale? - 2. Piano paesaggistico e coordinamento consensuale. - 3. Piano paesaggistico come atto di eterocoordinamento. - 4. Piano paesaggistico e Piano di coordinamento territoriale provinciale. - Bibliografia essenziale.



1. Il piano paesaggistico è atto di coordinamento generale o settoriale?

Il problema del coordinamento tra la pianificazione paesaggistica e gli altri strumenti di pianificazione è fatto oggetto dell'art. 145 del Codice dei beni culturali approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

Per la verità sotto l'etichetta del coordinamento vengono incluse previsioni eterogenee, alcune delle quali riconducibili soltanto in senso lato al concetto di coordinamento. Molta materia di questo articolo è infatti dedicata all'efficacia della pianificazione paesaggistica ed al rapporto, da sempre di difficile coabitazione, con l'urbanistica.

Nella materia della pianificazione del territorio la nozione di coordinamento richiama alla mente soprattutto una certa tipologia di piani, quelli definiti di coordinamento, appunto, che determinano gli indirizzi generali di assetto del territorio - art. 19 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Tuel) - e orientano e coordinano l'attività urbanistica stabilendo le direttive da seguire nel territorio considerato (art. 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150).

Nel caso dei piani territoriali a vocazione generale il coordinamento sembra assumere una dimensione al tempo stesso organizzatoria (è questa la dimensione classica del coordinamento) e funzionale. E' risaputo che proprio il rapporto tra il piano territoriale di coordinamento statale ed i piani comunali è stato posto a base di una ricostruzione del sistema urbanistico connotato dal principio di gerarchia (i "piani a cascata"): gerarchia tra piani in corrispondenza di una gerarchia tra soggetti pubblici, in particolare Stato e comuni. In realtà, non so quanto l'enfasi su questo elemento fosse realmente giustificata: infatti fin dall'inizio si sarebbe potuto vedere il rapporto tra piani di coordinamento e piani comunali in termini funzionali e quindi di coordinamento tra interessi.

Il primo pone direttive (il nesso tra coordinamento e direzione è stato spesso analizzato in dottrina) perché "vede di più", ha uno sguardo più comprensivo, vede cose che i piani di scala inferiore non sono in grado di considerare. Ed infatti l'esigenza del coordinamento - inteso come schema riassuntivo del modo di essere dinamico del pluralismo giuridico - amministrativo (Comporti) - rimane, ed anzi si rafforza, anche in uno stato policentrico in cui i poteri pubblici sono in linea di principio tra loro equiordinati (art. 114 Cost.).

Quando il rapporto non intercorre tra atti di pianificazione entrambi a contenuto indifferenziato, perché l'interesse che funge da "coordinatore" è specifico, il carattere funzionale e non organizzativo del coordinamento è ancora più evidente. In questi casi, infatti, l'interesse di settore è per così dire trasversale (il paesaggio è valore della Repubblica) ed il suo porsi come misura di coordinamento nei confronti di altri interessi prescinde da rapporti di gerarchia tra atti o tra soggetti.

Insomma - come si dice nell'art. 132 del Codice - tutte le amministrazioni pubbliche devono cooperare nell'attività di tutela, pianificazione, recupero, ecc. del paesaggio.

Ora, uno degli interrogativi che emerge da una lettura per così dire comprensiva delle disposizioni del Codice Urbani sul paesaggio è proprio quello relativo alla natura del piano paesaggistico come piano di settore o piano generale. Diversi sembrano gli elementi a favore di quest'ultima qualificazione.

Ne metterei in luce soprattutto uno derivante proprio dalla definizione di paesaggio che troviamo nell'art. 131, che ho in altra sede definito storicistico-obbiettiva, secondo cui è paesaggio (in linea con la Convenzione europea) ogni luogo percepito dalla popolazione come contenente qualche tratto identitario della storia e della cultura di quella popolazione. Questo paesaggio non va soltanto salvaguardato, ma anche valorizzato e quanto ampia sia l'estensione del fatto istituzionale, che deriva dall'incrocio tra la nozione di paesaggio così ampliata ed i vari modi di declinare salvaguardia e valorizzazione, lo si vede nella disciplina del piano paesaggistico (art. 143), che si spinge alla previsione di linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore riconosciuti. E' come dire che paesaggio è ormai (quasi?) tutto, come dimostra, non soltanto la definizione del concetto, ma anche il fatto che la pianificazione paesaggistica si estende sull'intero territorio regionale (art. 132), da suddividere in ambiti che vanno da quelli di maggior pregio a quelli significativamente compromessi o degradati.

E allora dove passa la differenza tra piano territoriale (urbanistico) e piano paesaggistico? Mi pare che non basti più dire - con la giurisprudenza - che attraverso il piano urbanistico può ben tutelarsi il paesaggio (questo è banalmente quello che hanno recitato le norme dal 1985 in poi), poiché ora sembra essere vero anche l'inverso: valorizzando il paesaggio ben può programmarsi lo sviluppo del territorio.

Ed allora, ecco forse una prima piccola conclusione: il coordinamento tra piani del paesaggio e piani del territorio diviene in senso ancor più pregnante un coordinamento tra interessi, che prescinde dagli strumenti e diviene parte di un continuum paesaggio-governo del territorio che informa l'intera disciplina urbanistica. Questa impostazione mi pare si ritrovi ad esempio nella recente legge regionale Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, il cui art. 31 - Tutela e valorizzazione dei paesaggi e dei beni culturali - stabilisce che gli strumenti della pianificazione territoriale concorrono tutti, ciascuno per quanto di propria competenza, a definire le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, e partecipano, inoltre, agli interventi di valorizzazione del paesaggio in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile.

Da un punto di vista dei rapporti tra i poteri pubblici territoriali (ma soprattutto Stato - regioni) che hanno, come tutti sanno, segnato in profondità la storia di questa materia, questa impostazione si presta - ancora una volta - ad una lettura duale. Per un verso, infatti, attraverso l'urbanistica pare che le regioni rimettano tutti e due i piedi nel piatto; per altro verso, tuttavia, potrebbe anche dirsi il contrario e cioè che sia lo Stato a rimettere le mani sull'urbanistica attraverso il paesaggio, visto che la pianificazione paesaggistica (per quanto conferita alle regioni) deve assoggettarsi alle direttive del ministero mediante quella funzione di dettare le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale già prevista nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ma finora abbastanza negletta.

Naturalmente quella fin qui proposta è una possibile chiave di lettura, ma ad onor del vero occorre anche rilevare che vi sono altre parti del Codice (l'art. 145 è tra queste) in cui si profila con più decisione il consueto distacco pianificazione del paesaggio - pianificazione urbanistica e quindi il piano paesaggistico è visto più tradizionalmente come un piano di settore.

 

2. Piano paesaggistico e coordinamento consensuale

Nel caso da ultimo esaminato, quello delle direttive statali, l'eterocoordinamento ha ad oggetto il piano paesaggistico, mentre nei casi di cui successivamente dirò è il piano paesaggistico che coordina altri "oggetti" o si coordina con altri oggetti. Il secondo comma dell'art. 145 è riferito a quest'ultima modalità e sembra demandare allo stesso piano paesaggistico di coordinarsi con altri piani settoriali, rispetto ai quali - evidentemente - in base al principio di competenza non ha alcuna efficacia giuridica. Qui se il coordinamento, oltre a tale accezione del tutto generica, dovesse avere un significato più concreto, potrebbe soltanto tradursi nell'esigenza del coordinamento consensuale tra le amministrazioni interessate (art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 come recentemente modificata).

A questo proposito vi è, però, un'eccezione - invero abbastanza singolare - che riguarda il piano delle aree naturali protette, che il comma 4 dell'art. 145 assimila ai piani degli enti territoriali per quanto concerne l'obbligo di conformarli ed adeguarli al piano paesaggistico. Si tratta di una previsione molto criticata dalla associazioni ambientalistiche che ne hanno chiesto a gran voce l'eliminazione. In questo modo si ricondurrebbe la disciplina degli usi del territorio - altamente differenziato - dei parchi alla disciplina della programmazione del territorio paesaggistico, secondo una logica che non mi pare granché condivisibile.

Su questo problema è, peraltro, intervenuta una successive disposizione, contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308, Delega al governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione. L'art. 1, comma 9, lett. d), di questa legge prevede tra i principi e criteri per l'esercizio della delega che, nei territori compresi nei parchi nazionali e nei parchi naturali regionali, i vincoli disposti dalla pianificazione paesistica decadano con l'approvazione del piano del parco o delle misure di salvaguardia ovvero delle misure di salvaguardia disposte in attuazione di leggi regionali. Sembra, pertanto, che la parte dell'art. 145, comma 4, del Codice dei beni culturali che dispone un obbligo di conformazione dei piani dei parchi ai piani paesaggistici sia destinato ad essere abrogato per incompatibilità dal decreto legislativo di riordino ambientale (se vi sarà).

 

3. Piano paesaggistico come atto di eterocoordinamento

La parte più corposa delle disposizioni di cui all'art. 145 è, comunque, quella relativa al piano paesaggistico come atto che coordina altri atti pianificatori.

Nell'art. 150 del precedente T.U. del 1999 (decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) - dedicato espressamente al coordinamento della disciplina urbanistica - vi era un richiamo esplicito all'art. 5 della l. 1150/1942, e dunque al piano territoriale di coordinamento, per indicare l'obbligo di conformazione gravante su piani regolatori ed altri strumenti urbanistici. In questo modo la discussa distinzione tra piano paesaggistico e piano urbanistico-territoriale con valenza paesaggistica veniva quasi a ricomporsi nella figura originaria del piano di direttive. Tuttavia la riconduzione del piano paesaggistico ad un piano territoriale di coordinamento poteva dare luogo a perplessità, stante il fatto che esso deve in primo luogo dettare una specifica normativa d'uso e valorizzazione dei beni.

Tutti i piani di settore in materia ambientale sono in realtà piani c.d. misti, cioè in parte volti a conformare suoli in parte volti a coordinare l'attività conformativa di suoli posta in essere da altri soggetti. Si pensi all'art. 12 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, secondo cui il piano del parco è immediatamente vincolante nei confronti delle amministrazioni e dei privati, e all'art. 17, comma 5, della legge 18 maggio 1989, n. 183, secondo cui le prescrizioni del piano di bacino "hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici, nonché per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso piano di bacino".

E' forse anche per questo che nel Codice il riferimento all'art. 5 della l. 1150/1942 è scomparso e si è utilizzata una formula abbastanza ambigua secondo cui le previsioni dei piani paesaggistici sono "cogenti" per gli strumenti urbanistici di comuni, province e città metropolitane. Tale cogenza viene poi "definita" attraverso tre tipologie di effetti: immediata prevalenza su disposizioni difformi degli strumenti urbanistici; previsione di norme di salvaguardia; vincolatività per gli interventi settoriali.

In senso generico in giurisprudenza non vi sono mai stati dubbi sul punto che i contenuti dei piani paesaggistici prevalgono sulla pianificazione urbanistica comunale, che è tenuta ad adeguarsi ai primi (Tar Liguria, I, 27 ottobre 1992, n. 389), secondo un principio di sostanziale sovraordinazione degli strumenti di pianificazione e di controllo preordinati alla tutela degli interessi di conservazione dell'ambiente e del paesaggio rispetto alla tutela riservata agli altri interessi collegati alle esigenze di sviluppo (Tar Lazio, I, 20 novembre 1989, n. 1270). Da ciò - al di là del problema della forza innovativa del piano paesaggistico di cui soltanto sembra occuparsi l'art. 145 su cui subito oltre - deriva anche (come forza passiva) l'illegittimità di nuove previsioni urbanistiche che vengano a porsi in contrasto con quelle contenute negli atti di pianificazione paesaggistica (Tar Lazio, I, 29 novembre 1994, n. 1852).

Secondo la giurisprudenza, l'assoluta equivalenza tra i piani paesaggistici ed i piani territoriali urbanistici, ed una riconosciuta reciproca integrazione di strumenti pianificatori può dar luogo, in determinate situazioni, ad imposizioni di condizionamenti alla sottostante programmazione urbanistica comunale in grado di risolversi, per il loro contenuto totalmente vincolante, in veri e propri vincoli di inedificabilità con effetti giuridici indirettamente proiettati sulle posizioni dei privati. Secondo la sentenza per ultimo citata:

"Consegue dalla impostazione su riportata che il piano paesistico territoriale ben può individuare i beni che siano ritenuti meritevoli di tutela, né si può ritenere che nel dettare la disciplina di tutela primaria, posto che si muove su un livello sovraordinato alla programmazione urbanistica, debba tener conto delle modifiche che questa ultima deve necessariamente subire per assicurare al paesaggio una tutela tale da non essere incisa nel tempo da singole scelte di gestione del territorio, che comunque trovano nella pianificazione di rango superiore un limite e un indirizzo".

Ma anche dopo l'emanazione del Codice rimane una certa indeterminatezza sulla questione se il piano paesaggistico è immediatamente conformativo della proprietà o "agisce" soltanto indirettamente sui suoli, ossia in cosa consista precisamente la suddetta "prevalenza".

L'art. 145, comma 3, dice che le previsioni dei piani paesaggistici sono "cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province", ma altresì che sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici. Tuttavia, stando alla lettera delle disposizioni, ancora una volta non risulta ben chiaro il rapporto, in termini strettamente giuridici, tra le norme del piano paesaggistico e quelle dei piani locali.

Il punto, a mio avviso, sta nel fatto, non tanto che il piano si configuri come insieme di direttive e prescrizioni conformative del territorio (piano misto), quanto che siano le stesse disposizioni prese singolarmente a partecipare di tutte e due le tipologie. Da un lato, infatti, gli strumenti urbanistici devono adeguarsi (v. sia il terzo che il quarto comma) - e qui il piano paesaggistico ha natura di "norma interna" al rapporto di coordinamento - direzione tra soggetti titolari di poteri pianificatori (Sciullo) -, dall'altro lato le previsioni dei piani paesaggistici sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi contenute negli strumenti urbanistici: si tratta di due cose difficili da conciliare: vuol dire, comunque, che le prime abrogano le seconde? In quest'ultimo caso l'adeguamento - se se ne può parlare (certamente è fuori luogo parlare di recepimento) - avrebbe soltanto un significato notiziale, non avrebbe alcun contenuto di volontà. Ma, naturalmente, ho ben presente a quali difficoltà si vada incontro affidando di fatto ai funzionari la formulazione di un giudizio interpretativo sull'avvenuta abrogazione di una norma del piano regolatore da parte di una norma del piano paesaggistico.

La disposizione si riferisce, peraltro, anche a norme di salvaguardia da stabilirsi in attesa dell'adeguamento. Si vuole allora smentire l'immediata prevalenza di cui sopra? Se così fosse per fare intendere, quindi, che in effetti l'immediata prevalenza è legata non al diretto operare di previsioni conformative della proprietà, ma ad altre norme che paralizzano gli effetti dei piani urbanistici ma non conformano ancora il territorio? Anche questo sembra plausibile, anche perché, sul piano concreto, l'adeguamento è soprattutto un problema di "scala": al livello regionale è difficile destinare in termini finali (secondo la definizione di Stella Richter delle prescrizioni conformative della proprietà) le proprietà immobiliari.

A conferma di questo, può menzionarsi quanto prevede l'art. 145, comma 4, che si preoccupa di precisare che i limiti alla proprietà non sono oggetto di indennizzo a proposito delle previsioni dei propri piani territoriali ed urbanistici degli enti locali e degli enti gestori della aree naturali protette derivanti dall'attività di recepimento ed adeguamento.

A me pare, in definitiva, che quando pensiamo ad un piano misto non dobbiamo pensare ad un insieme di direttive da una parte e di prescrizioni puntuali dall'altra, che si riferiscono ad ambiti ed oggetti diversi. Sono le stesse previsioni del piano ad assumere un contenuto sincretico, non definitivo, ma allo stesso tempo non risolvibile in una direttiva, poiché conferiscono alcuni elementi di conformazione ai beni ma lasciano anche margini di adattamento ed integrazione ai livelli inferiori. Se dovessi proprio dire la mia non credo che il rapporto tra piano paesaggistico e piani urbanistici sia ricostruibile in termini di abrogazione, ma dia luogo appunto ad una fattispecie sui generis, propria del sottosistema delle prescrizioni di pianificazione territoriale (che hanno varie peculiarità, ad esempio quella di essere formulate in forma grafica oltre che letterale).

 

4. Piano paesaggistico e Piano di coordinamento territoriale provinciale

Mi sembra rilevante, infine, in questo contesto di discorso, il problema del rapporto tra il piano paesaggistico e la pianificazione provinciale (questione che è evidentemente connessa con il posto da assegnare al piano paesaggistico nel sistema dei piani territoriali e che può presentarsi nei termini che ora dirò soltanto accogliendo l'opzione interpretativa che considera il piano paesaggistico come piano di settore). Anche la pianificazione provinciale è menzionata nel comma 3 dell'art. 145 del Codice, differentemente dall'art. 150 del T.U. 1999, quando si fa riferimento alla cogenza del piano paesaggistico. Questa previsione sembra non tenere in nessuna considerazione l'art. 57 del d.lg. 112/1998 che si ispira ad una logica piuttosto diversa, prendendo sul serio il nomen del piano territoriale provinciale ed affidandogli un compito di coordinamento molto (eccessivamente) ambizioso.

In questa disposizione il livello di pianificazione di coordinamento provinciale è visto come il punto di convergenza di tutte le discipline territoriali di settore espresse in forma pianificatoria. In particolare, la regione è chiamata a prevedere, con legge, che il piano territoriale di coordinamento provinciale assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese tra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti. Se non viene raggiunta l'intesa, i piani settoriali conservano il valore e gli effetti loro propri in base alla rispettiva normativa nazionale e regionale.

E' evidente che la norma mira a ricondurre in un quadro unitario la pluralità degli strumenti di disciplina degli interessi differenziati - i piani di settore -, che costituiscono certamente elemento di frattura, spesso di sovrapposizione, di prescrizioni non ben coordinate sul territorio e di difficile lettura sistematica, se non addirittura di reperimento, tanto per i cittadini quanto per le amministrazioni.

Il meccanismo concertativo congegnato si presta, peraltro, a due possibili letture. Una prima, di minore "impatto" e probabilmente maggiormente in linea con quanto ora si legge nell'art. 145 del Codice, consiste in ciò che il piano di livello provinciale deve (così come, del resto, il Prg comunale) dettare le proprie previsioni recependo, con il consenso delle amministrazioni di settore, le previsioni dei piani territoriali da queste redatti, piani che comunque continuerebbero ad esistere nella loro individualità. Il Ptcp assumerebbe, però, (anche) i contenuti prescrittivi di questi ultimi e la novità si risolverebbe nel fatto che esso consenta di conoscere, attraverso la consultazione di un solo documento, tutte le direttive di pianificazione territoriale sovracomunale.

Secondo altra interpretazione, si potrebbe, invece, rinvenire nell'art. 57, un vero e proprio principio di fungibilità tra pianificazione provinciale di coordinamento e pianificazione di settore, nel senso che, attraverso i richiamati rapporti di collaborazione ed il conseguimento dell'intesa tra le amministrazioni interessate, il primo potrebbe rendere superflua - assorbendone funzioni e contenuti - l'emanazione dei secondi, che cesserebbero di esistere come provvedimenti a sé stanti, divenendo parti di un più ampio processo di pianificazione "globale" di livello provinciale.

Questa seconda opzione interpretativa sembra più in linea con la lettera della disposizione, laddove questa precisa che in mancanza dell'accordo i piani di tutela conservano il valore e gli effetti previsti dalla normativa di riferimento (art. 57, comma 2), implicitamente ammettendo che, in caso di accordo, viceversa, tali piani perdano "valore ed effetti" ordinari, i quali vengono, per così dire, trasferiti al piano provinciale. D'altronde, soltanto così anche la suddetta funzione di "conoscenza" avrebbe reale valenza giuridica, poiché se i piani di settore continuassero ad avere una propria autonoma vigenza, l'affidamento degli interessati sulle disposizioni del piano provinciale, siccome esaustive di ogni aspetto di tutela del territorio, non potrebbe mai essere pieno.

Tale ricostruzione della disposizione in esame, presenta, tuttavia, non secondari problemi pratici di attuazione, per esempio con riferimento alla non coincidenza tra gli ambiti territoriali dei diversi piani, tra loro, e rispetto al territorio provinciale, ovvero alle procedure di adeguamento delle disposizioni poste con il metodo dell'intesa (il potere, cioè, di variare il piano di settore rimane per intero dell'autorità di settore o viene, per così dire, trasferito "definitivamente" ad un'istanza consensuale?), fermo restando il limite genetico della necessità di accordo con ciascuna delle amministrazioni titolari dei piani di settore per conseguire il risultato dell'unico piano territoriale su scala provinciale.

Si tratta, peraltro, di nodi che spetterebbe alle regioni sciogliere, con le leggi cui l'art. 57 rinvia, a partire dal tipo di "lettura" - "forte" o "debole" - da dare al principio in esso contenuto. Tuttavia, per quanto mi risulta, le regioni hanno ignorato questa disposizione e quindi non ne hanno fornito alcuna "lettura", né debole né forte, probabilmente considerandola velleitaria. Se oggi, peraltro, qualcuno volesse sottrarre all'oblio l'art. 57 cit. e ne volesse dare una "lettura forte", dovrebbe porsi il problema della sua compatibilità, relativamente alla pianificazione paesaggistica, con l'art. 145 del Codice. Su ciò, tuttavia, mi pare che la circostanza che alla base del meccanismo di coordinamento congegnato dall'art. 57 vi sia il consenso di tutte le autorità coinvolte, e soltanto questo consenta l'inversione del normale rapporto di conformazione tra piano paesaggistico e piano provinciale costituisca argomento a favore della persistente vigenza della norma.

 

Bibliografia essenziale

G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale, tecniche e garanzie, Milano, 1996.

G. Sciullo, Pianificazione amministrativa e partecipazione, I, I procedimenti, Milano, 1984.

P. Stella Richter, Profili funzionali dell'urbanistica, Milano, 1984.



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