Sommario: 1. Premessa. - 2. Il riconoscimento normativo dei sistemi locali di sviluppo. - 3. Logiche di rete e iniziative culturali. - 4. Osservazioni finali.
Nelle analisi scientifiche e nel dibattito politico-amministrativo degli ultimi anni trovano ampio spazio i "sistemi locali", ossia le realtà caratterizzate dalla collaborazione tra gli attori pubblici e privati del territorio, da un lato, e dall'elaborazione di autonomi progetti di sviluppo, dall'altro.
Questi fenomeni di solito vengono esaminati in una duplice ottica: ricostruttiva, per cogliere le ragioni del successo di talune aree del nostro Paese, in origine soprattutto del centro-nord; promozionale, per esportare il modello, e favorire l'avvio di ulteriori esperienze di crescita.
Per un certo periodo l'argomento è stato trattato soprattutto nella prospettiva economico-imprenditoriale, valorizzandosi essenzialmente i dati inerenti ai livelli di produzione e di occupazione, spesso con specifico riguardo alle iniziative di tipo manufatturiero (a partire dalla enucleazione della figura dei "distretti industriali"). Oggi il focus viene posto anche sulla dimensione sociale e civile del tema, sulla capacità di avviare processi di maturazione della comunità, ad esempio per quanto riguarda la creazione di relazioni improntate sulla fiducia e sulla cooperazione (aspetti per lo più designati con l'espressione "capitale sociale").
In tale contesto, è sempre più frequente che studiosi e operatori si interroghino sul ruolo delle iniziative culturali in relazione ai progetti di sviluppo locale, sulla loro attitudine ad esservi integrate o a fungerne da elemento centrale e caratterizzante. Al contempo, cominciano a registrarsi alcune realizzazioni pratiche, per le quali è stata coniata la locuzione "distretti culturali", invero piuttosto evocativa.
In queste note si cercherà di verificare tali tendenze, cogliendone i presupposti e gli strumenti, ancorché in modo del tutto essenziale e schematico. Ciò collocandosi in una prospettiva istituzionale e giuridica, seppur cercando di non perdere di vista la consistenza socio-economica della questione.
2. Il riconoscimento normativo dei sistemi locali di sviluppo
L'attenzione per i sistemi locali di sviluppo si deve anzitutto alla letteratura di matrice economica e sociologica, a partire dall'esame di una serie di realtà dell'Italia centrosettentrionale, ossia di aree caratterizzate da un notevole grado di concentrazione (su uno stesso prodotto o una stessa filiera) e integrazione (circa la vocazione del territorio e/o la dotazione di infrastrutture e servizi) tra i soggetti imprenditoriali, normalmente di dimensioni piccole o medie [1].
Come si è accennato, la latitudine delle esperienze pratiche e delle relative analisi teoriche si è progressivamente estesa, assistendosi alla valorizzazione non solo delle attività manifatturiere ma anche di ulteriori attività economiche, quali il turismo o i servizi, oltre che di aspetti non strettamente economici, tra cui il "capitale sociale".
In seguito il diritto positivo ha voluto recepire e potenziare tali spunti, tanto più che nello stesso periodo la politica economica nazionale e comunitaria ha preso a rimarcare il ruolo delle piccole e medie imprese. Dopo una serie di sporadici interventi da parte della legislazione statale sull'intervento straordinario nel Mezzogiorno - si pensi ai consorzi di sviluppo industriale - nonché da parte di alcune leggi regionali, è soltanto con i primi anni '90 che vede la luce una disciplina relativamente organica.
In tal senso occorre ricordare l'art. 36 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, che ha istituzionalizzato i distretti industriali, affidando alle regioni il compito di individuare le aree locali "caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese", in base "al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente" nonché "alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese"; e ciò con il fine dichiarato dell'attivazione di finanziamenti pubblici a favore di "progetti innovativi concernenti più imprese", oltre che con l'obiettivo implicito di favorire la collaborazione tra gli stessi operatori privati, sotto forma dell'integrazione delle risorse materiali e immateriali, dell'innovazione tecnologica, del coordinamento dei processi produttivi [2].
Detta disposizione è stata riscritta in tempi piuttosto recenti, per opera dell'art. 6 della legge 11 maggio 1999, n. 140, che ha previsto formalmente la figura del "sistema produttivo locale", definendolo come "contesto produttivo omogeneo", da identificarsi sulla base della "elevata concentrazione di imprese prevalentemente di piccole e medie dimensioni" e della "peculiare organizzazione interna"; ciò con la precisazione che trattasi di fattispecie comprensiva, e non sostitutiva, di quella rappresentata dal distretto industriale, nonché con la conferma delle competenze regionali in tema di perimetrazione e finanziamento delle concrete esperienze applicative. Senza soffermarsi sul dettaglio di quest'ultima disciplina, si notino però i suoi principali effetti: in primo luogo, le forme organizzative di sostegno allo sviluppo locale possono costituirsi pure in presenza di iniziative non industriali, bensì - ad esempio - commerciali, turistiche, agricole; in secondo luogo, è possibile il coinvolgimento non solo delle piccole imprese, ma anche delle medie imprese e persino - purché non "prevalentemente" - delle grandi imprese [3].
Nel solco scavato da tali norme si colloca, da ultimo, una fattispecie contenuta nella legge quadro sul turismo. Ci si riferisce all'art. 5 della legge 29 marzo 2001, n. 135, laddove contempla il "sistema turistico locale", che correntemente viene anche definito "sistema locale di offerta turistica" (Slot) [4]. Esso secondo il legislatore si identifica con i "contesti turistici omogenei o integrati, comprendenti ambiti territoriali appartenenti anche a regioni diverse, caratterizzati dall'offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche, compresi i prodotti tipici dell'agricoltura e dell'artigianato locale, o dalla presenza diffusa di imprese turistiche singole o associate". Ancora una volta alle regioni vengono affidati compiti di riconoscimento e finanziamento delle entità in questione (facendo salva la possibilità di cofinanziamenti statali, in presenza di determinate condizioni). Più innovativa risulta invece la previsione secondo cui la creazione degli Slot avviene su iniziativa delle amministrazioni locali o di figure private, e per il tramite di forme di concertazione tanto con gli "enti funzionali" (tra cui in primis, deve ritenersi, camere di commercio, università, istituti scolastici) quanto con gli enti pubblici e i soggetti privati che comunque abbiano un interesse al riguardo (ivi incluse "le associazioni di categoria che concorrono alla formazione dell'offerta turistica").
Quest'ultima caratteristica, ossia la centralità degli attori presenti in loco e della loro cooperazione reciproca, a ben vedere mostra chiaramente che la configurazione degli Slot trova il proprio precedente non solo nei distretti industriali e nei sistemi produttivi locali, ma anche negli strumenti di concertazione territoriale, a partire dalla programmazione negoziata [5].
Naturalmente, la "commistione" tra i due filoni non sorprende, e anzi risulta quasi scontata, visto che entrambi concernono lo stesso oggetto, le iniziative per lo sviluppo locale. Semmai, si può notare che il sovrapporsi di tali e tante fattispecie giuridico-istituzionali contribuisce a rendere il quadro piuttosto complesso e frammentario; e che la precarietà della situazione risulta accentuata dalla circostanza che debba ancora trovare piena attuazione la riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, a seguito della quale le competenze normative in materia di sviluppo locale sono da intendersi transitate per la gran parte dallo Stato alle regioni [6].
3. Logiche di rete e iniziative culturali
Tanto la prassi quanto la legislazione, dunque, danno ampio spazio al "fare sistema" o "mettersi in rete" degli operatori presenti sul territorio, allorché si tratti di elaborare e realizzare le linee dello sviluppo socio-economico locale [7].
Il punto è di verificare se tali logiche risultino applicabili al settore - le cui peculiarità non devono qui essere sottolineate - degli investimenti in cultura (considerati nel loro complesso, comprendendo quelli pubblici così come quelli privati, con una semplificazione inevitabile in questa sede).
A ben vedere, anche in materia culturale sembra non eludibile una regola di ordine generale, secondo cui le decisioni di interesse collettivo richiedono la contemporanea disponibilità di almeno tre risorse, e quindi la stretta collaborazione tra i soggetti che ne sono portatori [8]:
- la prima risorsa è costituita dalle competenze istituzionali: qualsiasi iniziativa di una qualche complessità richiede un notevole numero di interventi amministrativi, normalmente di pertinenza di una pluralità di organismi pubblici; ciò vale particolarmente nell'ambito culturale, non foss'altro che per la distinzione tra funzioni di tutela, imputate in prevalenza allo Stato, e compiti di valorizzazione e promozione, tendenzialmente spettanti al sistema delle autonomie (già in base al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e soprattutto alla luce del nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione);
- la seconda risorsa concerne le dotazioni finanziarie: la ridotta disponibilità di stanziamenti pubblici, che costituisce una costante dell'ultimo decennio e che nel più recente periodo risulta aggravata dagli andamenti negativi del ciclo economico, rende pressoché inevitabile il ricorso a metodi di cofinanziamento, sia per quanto riguarda le varie pubbliche amministrazioni operanti in uno stesso settore, sia sotto il profilo del coinvolgimento di fondi di provenienza privata o semi-privata (quest'ultimo è il caso delle erogazioni delle fondazioni ex bancarie); e non vi è dubbio che a questa situazione non sfugga il settore culturale;
- la terza risorsa è rappresentata dalle conoscenze tecniche: è consueto che i saperi specialistici coinvolti da iniziative di ampio respiro siano distribuiti presso una pluralità di soggetti, pubblici e privati; è vero che nel sub-settore dei beni culturali le soprintendenze costituiscono ancora oggi un "corpo tecnico" di grande tradizione e spessore, ma è indubitabile che anche in tal caso non vi sia - né potrebbe essere diversamente - un monopolio delle conoscenze richieste dall'impostazione e attuazione di progetti complessi, soprattutto nelle sempre più frequenti ipotesi in cui si punta ad andare al di là della prospettiva della conservazione e a porre il focus sulla fruizione (con ciò che ne discende, ad esempio, in termini di cognizioni organizzative e aziendali).
Si aggiunga l'ulteriore considerazione [9] secondo cui la realtà del nostro Paese si caratterizza per la presenza di una molteplicità di figure medio-piccole - quindi particolarmente legate al territorio e altrettanto toccate dal tema della cooperazione su scala locale - non solo per quanto riguarda il mondo dell'impresa ma anche in relazione al settore della cultura: giacché alle poche istituzioni di grandi dimensioni si affiancano le numerosissime realtà "minori", sebbene il dibattito corrente e la distribuzione degli incentivi tendano a premiare le prime a discapito delle seconde.
La cultura dunque, nonostante le sue peculiarità ontologiche e giuridiche, non sembra (più) suscettibile di una visione del tutto separata ed estranea rispetto alle logiche più generali che governano i fenomeni di sviluppo locale, almeno qualora venga concepita (anche) come fattore attivo per la crescita socio-economica.
Si tratta probabilmente di tirare le fila del più ampio processo concernente l'inclusione nella politica culturale di obiettivi non solo di tutela ma anche di valorizzazione e promozione. Nelle fasi iniziali del processo, l'attenzione del legislatore e degli operatori si è incentrata prevalentemente sulle misure di tipo puntuale, ossia inerenti ai singoli attori della cultura, sotto il profilo ora dell'attività (come per il coinvolgimento dei privati nello svolgimento dei "servizi aggiuntivi" presso gli organismi pubblici), ora dell'organizzazione (come per la trasformazione degli enti di diritto pubblico in soggetti di diritto privato), ora del finanziamento (come per gli incentivi fiscali al mecenatismo). Nelle fasi successive del processo, l'attenzione dei decisori pubblici e privati viene spostandosi verso le misure di tipo collettivo, che cioè si riferiscono al complesso degli attori culturali, al loro ambiente relazionale, al tessuto dei reciproci contatti.
Del resto, la costruzione e il funzionamento di un sistema presuppongono che le singole componenti presentino un minimo di chiarezza e funzionalità: ad esempio, sarebbe quasi impossibile, o perlomeno assai arduo, pensare ad una rete locale di istituzioni culturali pubbliche e private, in mancanza di una disciplina (relativamente) adeguata sulla stipula di accordi amministrativi o sulla costituzione di organismi "misti". Dunque, dal momento che negli ultimi anni sono andati perfezionandosi gli strumenti utilizzabili [10], è lecito attendersi un aumento dei progetti culturali articolati su scala locale.
Peraltro già oggi si registrano una serie di istituti giuridici ed esperienze operative che vanno - o sembrano andare - in tale direzione, contribuendo a definire un quadro non sempre netto e lineare ma ricco di stimoli e potenzialità.
Molte iniziative sono incentrate sul nesso tra cultura e turismo, ossia mirano a rafforzare il collegamento tra la presenza di risorse culturali e la vocazione turistica di determinate aree, a maggior ragione ove si tratti di luoghi dotati di caratteristiche qualificanti anche sotto il profilo dei beni ambientali.
Dal punto di vista normativo, questa impostazione si rinviene con chiarezza nella disciplina sugli Slot, ricordata in precedenza, che assume per l'appunto come suo oggetto la "offerta integrata di beni culturali, ambientali e di attrazioni turistiche".
Dal punto di vista pratico, lo stesso tentativo di coniugare cultura e turismo si ritrova in numerosi interventi, su cui è arduo disporre di dati del tutto precisi e completi, ma che sembrano concentrarsi particolarmente - seppur non esclusivamente - nelle regioni centro-meridionali del nostro Paese, forse a conferma della tesi che sottolineano l'importanza delle risorse artistiche e naturalistiche - anche alla luce delle scarse fortune di alcuni grandi poli industriali - ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno [11].
Tra le varie realtà, si segnala un certo numero di iniziative denominate con la suggestiva espressione "distretto culturale", come accennato in apertura. In questi casi risulta evidente la volontà di trasporre il modello del distretto, e con esso le logiche dell'integrazione e del coordinamento, dal settore della produzione industriale al settore dell'offerta culturale, il tutto con il fine dichiarato di favorire anche l'impresa turistica [12].
Va segnalato che ad oggi non esiste un'autonoma fattispecie giuridico-amministrativa in tema di "distretti culturali". Le esperienze in proposito vengono quindi realizzate attingendo al normale strumentario, ormai piuttosto ampio, delle cooperazione pubblico-pubblico e pubblico-privato. Peraltro, appare frequente il ricorso a strumenti non pienamente normati, come i protocolli d'intesa, a fianco di strumenti più formali, non strutturati (accordi, convenzioni) o strutturati (società, fondazioni).
Un ulteriore e significativo esempio dell'applicazione di principi "sistemici" al settore culturale si rinviene anche quando le iniziative sono promosse facendo ricorso ai vari moduli della programmazione negoziata. La casistica vede fin qui una prevalenza dell'accordo di programma quadro (Apq), tramite cui lo Stato e ciascuna regione, con l'eventuale concorso degli enti locali e dei privati, individuano una lista di progetti, e vi concentrano i mezzi finanziari disponibili [13]. Peraltro, non si può tacere che gli Apq assolvono un compito di integrazione delle politiche e dei fondi statali e regionali, più che di attivazione del tessuto socio-economico locale. In quest'ultima prospettiva, invece, parrebbero di maggiore utilità alcune delle ulteriori figure della programmazione negoziata, tra cui i patti territoriali, dotati di una più chiara vocazione ad esprimere le scelte del territorio, degli attori pubblici e privati di dimensione locale.
Le opportunità e i rischi determinati dall'applicazione nel settore culturale delle politiche per lo sviluppo locale, e particolarmente di quelle incentrate sulla messa in "rete" o "sistema" degli attori del territorio, eccedono ampiamente i limiti di queste note, per cui è giocoforza concludere con osservazioni del tutto sommarie.
In realtà, non pare dubbio che la valorizzazione del livello locale, delle capacità di integrazione del pubblico e del privato, delle logiche economiche (intese con riferimento ai concetti di efficienza ed efficacia, prim'ancora che ai profili squisitamente imprenditoriali) dischiudano orizzonti di grande interesse, anche in materia culturale. Nondimeno, vi sono diversi punti di criticità, che devono attirare l'attenzione degli osservatori, specialmente alla luce delle esperienze già maturate in contesti non dissimili [14].
Un primo aspetto, già accennato, concerne la distinzione tra i progetti calati dall'alto, sotto forma di programmazione statale/regionale, e quelli attivati dal basso, su impulso delle forze istituzionali e socio-economiche presenti in sede locale. Non si tratta di privilegiare in blocco le une o le altre, bensì di distinguere tra oggetti diversi, che rispondono a logiche e principi non sempre facilmente armonizzabili. Il che richiama, in particolare, all'esigenza di mettere ordine nei rapporti tra i piani statali/regionali e quelli locali, senza piegare le iniziative dei vari livelli a geometrie astratte, ma senza nemmeno consentire gli "incroci" più estemporanei e problematici [15]. E richiama, inoltre, alla necessità di potenziare gli strumenti di programmazione a carattere orizzontale, di evitare che vi sia una incontrollata proliferazione di fattispecie settoriali: facendo sì che uno stesso comune non possa indifferentemente rientrare quanto alle politiche sulla cultura in un distretto culturale, quanto alle politiche sull'urbanistica in un Prusst [16], quanto alle politiche sull'artigianato in un distretto industriale, e magari anche in un patto territoriale [17]; e cercando di contenere la complicazione e frammentazione normativa entro soglie per lo meno accettabili.
Un secondo aspetto riguarda la scelta tra gli obiettivi di breve termine e quelli di medio-lungo termine. Non vi è dubbio che molti operatori, siano essi amministrazioni o aziende, risultino attratti dagli uni assai più che dagli altri. In particolare, le affermazioni degli interessati circa la proficuità della concertazione talora rivestono con eleganza l'intento di accedere sic et simpliciter a qualche forma di contribuzione economica straordinaria. In simili ipotesi, è assai probabile che si finisca con l'agire al di fuori di un quadro di progetti univoci e condivisi, e con l'apportare alla collettività benefici provvisori ed effimeri, avvantaggiando soprattutto i corpi burocratici e imprenditoriali direttamente coinvolti. Il che dovrebbe far propendere per la creazione di "sistemi" o "distretti" non finanziati, o comunque finanziati ex post anziché ex ante, in base ai risultati effettivamente raggiunti, e fatto salvo semmai un contributo ai costi di progettazione.
Un terzo aspetto, su cui concludere, rimanda alla definizione del ruolo dei partecipanti pubblici e privati, all'opportunità che i rispettivi compiti siano integrati ma non confusi, e in particolare che gli organismi istituzionali sappiano concretamente garantire il governo e il monitoraggio delle iniziative in cui sono coinvolti, anche quando - come accade di frequente - la gestione tecnico-operativa risulti esternalizzata a favore di qualche più o meno solida "agenzia di sviluppo" (di solito, una società consortile a composizione mista).
[1] In argomento si vedano per tutti: G. Becattini, Distretti industriali e made in Italy. Le basi socioculturali del nostro sviluppo economico, Torino, 1998; C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, III ed., Bologna, 1994.[2] Nella formulazione originaria, ossia anteriormente alle modifiche di cui si dirà di seguito nel testo, la norma prevedeva che l'allora ministro dell'Industria fornisse alle regioni gli indirizzi e i parametri da seguire. Sulla base di questa previsione è stato emanato il d.m. 21 aprile 1993.
[3] L'art. 1 della legge 17 maggio 1999, n. 144 ha attribuito la definizione dei criteri per la delimitazione dei sistemi produttivi locali al Cipe, che li ha dettati con delibera 3 maggio 2001, n. 65/2001.
[4] In proposito si vedano: AA.VV., Legge di riforma del turismo, in Rivista del turismo, n. 5-6/2001, 5 ss., spec. 23 ss.; AA.VV., Sistemi turistici locali: un'idea vincente?, in Rivista del turismo, n. 1/2002, 6 ss.; F. Morandi, Il sistema turistico locale: forme di gestione fra pubblico e privato, aspetti giuridici e praticabilità, Relazione al Seminario Gestione di un sistema: fra turismo e cultura (Milano, Touring Club Italiano, 17 luglio 2003), dattiloscritto.
[5] Che qui verrà intesa in senso stretto, ossia con specifico riguardo alle fattispecie previste dall'art. 2, commi 203 ss., della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (e dalle disposizioni attuative dettate dal Cipe, anzitutto con la delibera del 21 marzo 1997): l'intesa istituzionale di programma, l'accordo di programma quadro, il patto territoriale, il contratto d'area, il contratto di programma. Ciò non toglie peraltro che esista una certa continuità, più o meno accentuata a seconda dei casi, tra le figure della programmazione negoziata e una serie di ulteriori istituti pattizi previsti dall'ordinamento, come l'accordo di programma "ordinario", o come gli accordi in materia urbanistica. Nell'ambito della sterminata produzione dottrinaria in argomento, si vedano almeno: L. Bobbio, Produzione di politiche a mezzo di contratti nella pubblica amministrazione italiana, in Stato e mercato, 2000, 111; R. Ferrara, La programmazione "negoziata" tra pubblico e privato, in Diritto amministrativo, 1999, 429.
[6] In merito alla revisione costituzionale si veda ex multis B. Caravita, La Costituzione dopo la riforma del titolo V. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Torino, 2002.
[7] Prescindendo dal rapporto tra le reti locali, qui specificamente considerate, e le reti sovranazionali e globali, che nel presente lavoro rimangono necessariamente sullo sfondo.
[8] In proposito si rinvia a L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio. Studio sui processi decisionali politico-amministrativi, Milano, 1996, 71 (il quale peraltro, oltre ai tre profili qui posti in evidenza, richiama un quarto aspetto, ossia il consenso).
[9] Che si riprende da M. Trimarchi, La produzione di cultura nell'economia immateriale, in Il finanziamento delle associazioni culturali ed educative, a cura di M. Trimarchi, Atti del Convegno (Bolzano, 3-4 dicembre 1999), Bologna, 2002, 139.
[10] Basti pensare alle forme di collaborazione previste, con specifico riguardo al ministero per i Beni e le Attività culturali, dal più volte modificato art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368.
[11] In argomento si veda F. Barca, La valorizzazione della cultura, risorsa per lo sviluppo del Mezzogiorno, in Economia della cultura, 2000, 195.
[12] In proposito vanno ricordate almeno due iniziative, entrambe ubicate in Sicilia, ed entrambe realizzate con il concorso dell'associazione Civita. La prima esperienza è quella del distretto culturale di Noto, promosso da una pluralità di soggetti pubblici e privati (comune, provincia, regione, ministero dei Beni e delle Attività culturali, associazione degli Industriali), e concretizzatosi nella stipula di un apposito protocollo d'intesa (in data 4 febbraio 2002), con l'obiettivo di effettuare il recupero e il riutilizzo di alcuni immobili di interesse storico e artistico nonché di organizzare con cadenza periodica degli eventi culturali di grande rilievo, anche al fine di sviluppare l'offerta turistica dell'area. La seconda esperienza è quella del distretto culturale di Palermo, anche qui con l'impulso di una compagine "mista" (comune, provincia, consorzio Asi, associazione Costruttori edili, associazione Industriali, fondazione Banco di Sicilia), e anche qui con la stipula di un protocollo d'intesa, con lo scopo di valorizzare siti monumentali e itinerari turistici, tra l'altro mediante l'impiego di tecnologia multimediale.
[13] Per una dettagliata analisi si veda P. Petraroia, Il governo, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2003, 153. Circa le prime esperienze applicative si vedano inoltre: M. Renna, Al via la concertazione in materia di beni culturali: l'accordo di programma quadro tra ministero e regione Lombardia, in Aedon, n. 2/1999; L. Zanetti, Gli accordi di programma quadro in materia di beni e attività culturali, in Aedon, n. 3/2000.
[14] Ad esempio, si dispone ormai di alcune importanti valutazioni per quanto riguarda i patti territoriali, su cui si veda soprattutto AA.VV., Patti territoriali: successi e fallimenti, in Stato e mercato, 2001, 363, e specialmente D. Cersosimo, G. Wolleb, Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui patti territoriali, ivi, 369.
[15] A titolo esemplificativo, si pensi che non è garantita una piena armonizzazione reciproca nemmeno per ciò che concerne i diversi strumenti della programmazione negoziata (in particolare, la vocazione "onnicomprensiva" propria dell'intesa istituzionale di programma è contraddetta dagli ampi spazi riconosciuti al patto territoriale).
[16] Programma di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio (si tratta di una delle figure della cosiddetta "urbanistica contrattata", a cui peraltro si affiancano diverse fattispecie consimili).
[17] Per non dire dell'ipotesi, raramente esclusa dal diritto positivo, della partecipazione a più figure dello stesso tipo.