Sommario: 1. Premessa. La progressiva trasformazione degli enti teatrali in fondazioni. - 2. Mercato ed interesse pubblico: verso un ripensamento della funzione del teatro sovvenzionato? - 3. L'attività teatrale ed i "costi" della cultura. - 4. Attività teatrali e diritto tributario: la soggettività fiscale delle fondazioni teatrali. - 5. Il trattamento fiscale delle erogazioni liberali da parte dei privati. - 6. Sull'esclusione della ritenuta d'acconto delle sovvenzioni pubbliche corrisposte a fondazioni teatrali. - 7. Cenni sulla futura legge sullo spettacolo da vivo: l'attività teatrale come "bene culturale".
Negli ultimi anni si è verificato un processo di - massiccia - trasformazione degli enti teatrali in fondazioni. E' un processo occasionato non da coazione normativa, quanto piuttosto da una sommatoria di ragioni: in parte si è trattato di ragioni di "assonanza", o assimilazione, con la disciplina prevista espressamente per gli enti lirici; in parte, si è trattato di una esigenza determinata dai mutamenti che hanno interessato gli enti locali, in specie i comuni (molti dei quali gestivano - e gestiscono tuttora - "in economia" i teatri del nostro territorio).
Last but not least, soprattutto per i teatri stabili, su cui incentriamo l'attenzione nel presente lavoro, è parso che il genus fondazione corrispondesse ad un'altra serie di esigenze. Infatti, adottando questo strumento giuridico sono più facilmente perseguibili i seguenti obiettivi: a) snellimento dell'organizzazione degli enti; b) coinvolgimento di capitali privati e, contestualmente, c) diminuzione delle contribuzioni a carico dell'erario; d) incentivazione all'autofinanziamento mediante il riconoscimento della possibilità di esercitare attività imprenditoriali strumentali; e) mantenimento, tuttavia, di un finanziamento pubblico, in modo da consentirne l'autonomia nella selezione dei programmi culturali [1].
In sostanza, si raggiunge più facilmente l'obiettivo di precostituire un soggetto giuridico dotato di un quadro di riferimento normativo chiaro (soprattutto per le valutazioni e le informazioni inerenti al patrimonio dell'ente), e capace di esercitare una notevole forza di attrazione per i soggetti privati che intendano parteciparvi. Tra gli strumenti messi a disposizione dal diritto comune, la fondazione pare, al momento, essere quella che, per duttilità di struttura, per il divieto di distribuzione degli utili (coessenziale al carattere non profit dell'ente), dovrebbe consentire di esercitare un'attività di pubblico interesse (finanziata in gran parte da enti pubblici) coinvolgendo sempre più anche soggetti (e capitali) privati.
E' una tendenza, frutto di una scelta [2]. Forse il modulo societario avrebbe consentito di attrarre maggiori risorse dai privati [3]. Ma, attualmente, il settore non sembra in grado di affrancarsi del tutto dai finanziamenti statali e degli enti locali, considerando, tra l'altro, la ritrosia dei privati a finanziare le attività dello spettacolo con interventi organici, e non sporadici, come la sponsorizzazione.
Se il modello fondazione [4] è quello che oggi, rispetto alla situazione contingente, meglio si attaglia ad una serie di esigenze, non si tratta, però, di una soluzione definitiva, e, soprattutto, non si tratta di una soluzione a cui non si possano apportare delle critiche. Il proliferare delle fondazioni, soprattutto di quelle che operano nel settore culturale, ha sollevato infatti delicati interrogativi. In specie, non è mancato chi ha sottolineato l'inadeguatezza di questo modello, quanto meno nella sua configurazione attuale, in quanto in esso l'elemento qualificante è dato dall'esistenza di un patrimonio, destinato a realizzare gli scopi dell'ente: in molti casi (ad esempio, nell'ambito museale, ma anche in quello dello spettacolo) non si tratta di gestire un patrimonio, quanto di fornire servizi. E, comunque, per taluni sembra preferibile privilegiare sempre un modello a partecipazione mista, in cui convergano apporti di pubblico e privato [5].
Nel milieu nordamericano, la crescita delle fondazioni operanti nel settore culturale, e, dunque, anche nel settore dello spettacolo dal vivo, è dovuta alla combinazione "felice" di tre fattori specifici: nell'ordine, il fattore tributario, economico e religioso. In particolare, la disciplina tributaria è nota per essere la più generosa verso le fondazioni; altrettanto nota è la forza della struttura economica capitalistica americana, ed infine, per quanto concerne l'aspetto religioso, occorre sempre tener conto dell'influenza esercitata dall'etica protestante, che considera un dovere nei confronti della comunità la "restituzione" ad un settore non business oriented di ciò che è stato, invece, accumulato in un settore business oriented.
Questi tre fattori non possono essere ovviamente applicati pedissequamente al sistema italiano, e comunque non giustificano l'incremento in Italia delle fondazioni nel settore che stiamo esaminando.
2. Mercato ed interesse pubblico: verso un ripensamento della funzione del teatro sovvenzionato?
E' stato posto l'accento sul rapporto tra mercato (inteso come ingresso dei privati) e interesse pubblico (di cui sono portatori, in specie, gli enti locali, che sono attualmente i soci fondatori dei teatri sovvenzionati) [6].
L'ingresso del(le regole del) mercato nel settore dello spettacolo dal vivo è anch'esso sintomatico dell'attuale momento storico, che pare contrassegnato dalla tendenza verso la privatizzazione, o depubblicizzazione (quasi un ritrarsi dello Stato), di settori nevralgici, che va di pari passo con la crisi del welfare state.
Senza richiamare echi di vichiana memoria, sembra di intravvedere una certa ciclicità in questo andamento. Ne è riprova, ad esempio, la storia degli enti lirici, istituiti e regolati, come è noto, nel 1936 [7]. Prima di tale data, essi erano gestiti da amministrazioni pubbliche (ad esempio, da comuni), o, in larga parte, da imprenditori privati; questi ultimi, tuttavia, in seguito alla lenta, ma inesorabile flessione degli incassi, iniziarono a non poter più sostenere le elevate spese di gestione, rendendo, quindi, necessario l'intervento statale e la conseguente "pubblicizzazione" delle strutture [8]. Per quanto concerne in particolare il finanziamento, oltre alle sovvenzioni da parte dei "sostenitori" privati, era previsto che i fondi per l'esercizio dell'attività di questi enti fossero costituiti dai proventi delle stagioni, dai contributi dei comuni e delle province, nonché da ogni entrata che ad essi pervenisse in relazione alla loro attività o per disposizioni legislative o per private donazioni, oblazioni e legati. Di fatto, pur non essendo previsto alcun contributo continuativo a carico dello Stato, l'intervento di quest'ultimo finì per essere necessitato, per ripianare la precaria situazione finanziaria di questi enti. Gli enti lirici hanno ora fatto da "apripista" - ma si tratta di una riforma più annunciata che effettuata in concreto, e comunque tutt'altro che scevra da critiche negative - alla conversione in fondazioni [9].
Oggi, nell'intento di modernizzare il settore, si assiste ad un progressivo ritrarsi dell'impegno pubblico a favore del coinvolgimento dei privati; si verifica con ciò una spinta alla "imprenditorializzazione" [10] della funzione educativa della collettività che, se applicata alla lettera, finirebbe per rappresentare una contraddizione in termini, oltre che una dismissione di fondamentali ed inderogabili obblighi dello Stato, così come indicati dagli articoli 3 [11] e 9 [12] della Costituzione.
Questo rapporto pubblico-privato nel settore dello spettacolo dal vivo deve essere ripensato in maniera sgombra da equivoci [13]: l'irrompere del mercato nel settore dello spettacolo comporta infatti un "rischio". Il privato, che investe capitali in questo settore, finisce per sconvolgere o modificare logiche tralatizie e date per assodate: fino a che punto può o potrà incidere sulle scelte operative e produttive dell'ente che sovvenziona? E ancora, anche il mecenate più disinteressato, non sarà forse tentato dall'intervenire, favorendo le scelte più popolari o più sicure, in termini di ritorno economico e/o di immagine? Sono quesiti su cui riflettere, perché rappresentano l'altra faccia, quella più in ombra, dell'attuale ricerca quasi spasmodica dei (capitali dei) privati: fino a che punto le logiche aziendali dei sovventori privati si intrometteranno in questo settore, creando di fatto il teatro-azienda? Potrebbero, ad esempio, sorgere problemi di flessione nella qualità, poiché per loro natura le organizzazioni private tendono a massimizzare i profitti, e, quindi, inevitabilmente, ad allestire rappresentazioni di più agevole fruibilità, a discapito delle opere o dei prodotti più "difficili".
A mio avviso il mercato, così come il processo di relativa privatizzazione del settore, dovrebbe essere qui inteso essenzialmente nei suoi aspetti benefici, come recupero e mantenimento delle regole di corretta gestione dell'ente. Quindi, la privatizzazione deve essere intesa con riferimento alle strutture e modalità operative, mentre l'aspetto "pubblico", immancabile, deve essere collegato alla responsabilizzazione degli enti locali, tramite il principio di sussidiarietà.
La progressiva "privatizzazione" degli enti teatrali è perciò strettamente correlata all'intento di attribuire ai teatri una forma (giuridica) che conferisca agli stessi una maggiore razionalità di gestione. Anzi, si conferma vieppiù l'impressione che lo strumento della fondazione stia assumendo il carattere di schema generale per coinvolgere nello svolgimento di attività non lucrative - come quelle di natura culturale - di interesse pubblico, e, contestualmente, per attribuire a dette attività una forma organizzativa maggiormente efficiente. Il ricorso allo strumento della fondazione risulta, cioè, opportuno, se non necessario, soprattutto nei settori, come quello dei teatri stabili, in cui appare difficile perseguire utili di gestione, e laddove sia inevitabile la presenza di sostegni e finanziamenti pubblici, pur da coordinare con gli (eventuali) apporti di soggetti privati.
Anche se, nei fatti, la preponderante presenza pubblica (strutturale) rischia, a volte, di disincentivare l'ingresso nelle fondazioni dei privati, i quali, inoltre, per effetto del divieto di distribuzione degli utili, potrebbero essere indotti ad intervenire soltanto per instaurare solo rapporti di sponsorizzazione.
3. L'attività teatrale ed i "costi" della cultura
Da quanto detto sopra, emerge in controluce, per lo spettacolo dal vivo, un dato di fatto: nella maggior parte dei casi, il teatro non si "mantiene da solo". Persino negli spettacoli di maggior richiamo per il pubblico, i biglietti venduti agli spettatori, così come le varie forme di abbonamento, contribuiscono a raggiungere il pareggio rispetto ai costi della produzione, ma non giungono a coprire i costi complessivi di gestione di un teatro. Senza contare che in una stagione non tutti gli spettacoli hanno il medesimo richiamo, vuoi per la difficile intelligibilità o la scarsa "fama" di un'opera, vuoi per la mancata presenza dell'attore, o degli attori di cartello, o del regista di vaglia.
Con le sovvenzioni dello Stato e con i proventi del botteghino si arriva sovente a coprire "solo" le spese fisse ed i costi di produzione. Gli investitori privati hanno una giustificabile ritrosia nel perseguire finalità non lucrative e remunerative, stante gli elevati costi di gestione delle relative strutture e del personale artistico.
Vale anche per il teatro quanto si dice per le iniziative culturali in genere: la cultura ha un costo. Anzi, esasperando il concetto, potremmo dire che la cultura è un costo. Se si ritiene che il bene-cultura abbia un valore, per la collettività, comunque superiore al suo costo, sarà giocoforza ricercare ed adottare quegli strumenti (giuridici) che ne favoriscono la diffusione, non solo tra i tradizionali fruitori, ma anche fra coloro che non hanno l'abitudine di recarsi a teatro, perché ancora (soprattutto in Italia) considerano lo spettacolo teatrale come un bene da élite.
In sostanza, le organizzazioni che svolgono attività culturali, e, in particolare, spettacoli dal vivo, sono destinate a produrre a costi crescenti, essendo soggette alla cosiddetta "legge della crescita sbilanciata" (basti por mente al crescente indebitamento degli enti lirici), secondo la quale se si vuole mantenere costante, rispetto all'intera economia, la quota del settore culturale, evitando la sua estinzione, occorre provvedere a fornirgli sussidi in maniera crescente. E' stato detto che tale situazione non può che comportare un vero e proprio "fallimento del mercato" [14] nel settore dell'arte e della cultura, rendendo necessario, e giustificando, non solo il finanziamento pubblico, ma anche l'assunzione della forma di organizzazione non profit.
Posto, dunque, che i teatri stabili hanno tuttora bisogno della "stampella" pubblica, ma stanno orientandosi con sempre maggiore decisione all'attrazione di capitali privati, occorre ora vedere come, in concreto, opera la leva fiscale in relazione a tutto ciò.
4. Attività teatrali e diritto tributario: la soggettività fiscale delle fondazioni teatrali
Se si ritiene che all'attività teatrale occorra fornire tutela e promozione, in concreto la leva fiscale può veramente contribuire non poco alla crescita del settore, a condizione che si sgombri il campo da incongruenze spesso dovute a scarso coordinamento (è assurdo ed antieconomico ad esempio che, da un lato, lo Stato conceda sovvenzioni e contributi, e dall'altro "tolga" mediante la leva fiscale).
La prospettiva è duplice in questo ambito: da un lato, occorre dar conto della disciplina "interna" degli enti teatrali, e, in specie, delle fondazioni teatrali, che teniamo come specimen; dall'altro, occorre dar conto del quadro attuale di incentivi fiscali che lo Stato italiano riconosce ai soggetti (persone fisiche o imprese) che erogano fondi ai teatri.
Abbiamo testé affermato che l'opzione per la forma fondazione trova una sua giustificazione non secondaria anche sul versante delle fonti di finanziamento. Vi è, insomma, una correlazione diretta tra forma giuridica (fondazione) e: a) fonti di sovvenzionamento, da un lato (soprattutto dopo il c.d. "decreto Melandri"), e b) agevolazioni di tipo fiscale, dall'altro.
Alle fondazioni teatrali, così come alle associazioni, non è riservato un trattamento peculiare nel diritto tributario. Esse dunque sono soggette per intero al regime fiscale generale delle fondazioni ed associazioni, che ai fini fiscali vengono generalmente considerate come enti afferenti al settore del non profit.
Ai fini fiscali lo scopo non lucrativo dell'ente teatrale è però una condizione, ma non la più rilevante; la condizione primaria è verificare se l'attività esercitata abbia o meno natura commerciale, ai sensi dell'art. 51 del testo unico delle imposte sui redditi (d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917). A seconda del tipo di attività svolta, dunque, la fondazione teatrale potrà essere alternativamente inquadrata in una delle categorie di soggetti passivi delineate dall'art. 87 del medesimo testo unico, e cioè tra gli enti commerciali o tra i c.d. enti non commerciali [15].
Le due categorie si differenziano nettamente, poiché gli enti commerciali svolgono in via esclusiva o principale un'attività commerciale, la quale può essere svolta anche dai secondi, ma soltanto in modo eventuale, accessorio e secondario rispetto ai fini istituzionali perseguiti.
E' stato opportunamente rilevato che, perché l'attività possa essere qualificata come commerciale, deve avere sempre e comunque una valenza economica, ossia deve trattarsi di un'attività rivolta verso i terzi e verso il mercato, e strutturata in modo che i costi di gestione siano tendenzialmente coperti con i ricavi dell'attività, e non già con criteri contributivi e sovvenzionatori [16].
Ora, se l'ente teatrale opera attraverso la forma giuridica della società, il problema non si pone neppure, in quanto l'attività (la produzione di spettacoli, la promozione di attività collegate alla recitazione dal vivo) sarà da considerare commerciale. Con la conseguenza che ad esso saranno interamente riferibili le regole fiscali che valgono per l'attività d'impresa in generale, per come sono disciplinate dal titolo V del testo unico. Il problema si pone invece con riferimento a quegli enti che hanno proprio una forma giuridica diversa da quella societaria. Per essi, occorrerà ricercare in concreto se, in relazione all'attività effettivamente svolta, si debba o meno parlare di commercialità [17].
La distinzione tra enti commerciali ed enti non commerciali comporta una differenza di grande portata ai fini dell'imposizione diretta, e non solo [18]. Il reddito di un ente commerciale è tutto reddito d'impresa, per la forza d'attrazione che questa categoria reddituale esercita: ogni provento (anche gli eventuali contributi e liberalità) costituisce una voce del reddito d'impresa tout court. Invece, gli enti non commerciali si avvicinano per molti aspetti alla tassazione delle persone fisiche (ad esempio possono dedurre dal proprio reddito gli oneri deducibili di cui all'art. 110): come tutti gli operatori del non profit in genere, anch'essi sono caratterizzati dal fatto che una parte sostanziale della loro attività non assume rilievo fiscale ed è finalizzata al perseguimento dello scopo sociale: questa attività "istituzionale" è alimentata da quote associative, contributi, liberalità e, più in generale, da tutte le entrate non riconducibili ad alcuna categoria reddituale. Inoltre, per essi le singole categorie reddituali rilevano partitamente, e sono pertanto rilevanti gli specifici redditi fondiari, di capitale, diversi e d'impresa eventualmente posseduti; ciascun reddito è determinato secondo le regole proprie della categoria di appartenenza [19].
La materia degli enti non commerciali è stata ridisegnata di recente dal d.lg. 4 dicembre 1997, n. 460. Posto che gli enti non commerciali vengono definiti a contrario rispetto agli enti commerciali, nel senso che sono tali gli enti pubblici e privati che non hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale, il legislatore ha specificato (art. 87, commi 4 e 4-bis del testo unico delle imposte sui redditi) che l'oggetto esclusivo o principale dell'ente è determinato: in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti nella forma dell'atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata (intendendosi per "oggetto principale" l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto). In mancanza dell'atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l'oggetto principale dell'ente è determinato in base all'attività effettivamente esercitata: quindi, al requisito formale, si affianca il requisito sostanziale, dell'attività esercitata in concreto, mirante ad evitare l'utilizzo distorto, a fini elusivi, di una forma giuridica solo apparentemente indirizzata a finalità non lucrative.
Ai fini delle imposte sui redditi, la disciplina specifica degli enti non commerciali è racchiusa negli articoli 108-111 del d.p.r. n. 917 del 1986. In particolare, secondo l'art. 108, comma 1: "Non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell'art. 2195 c.c. rese in conformità alle finalità istituzionali dell'ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione".
Un conto, dunque, è l'attività istituzionale dell'ente, un conto è l'attività non istituzionale. La fondazione teatrale può esercitare (in via non esclusiva o principale) attività commerciale, ma dovrà allora istituire una contabilità separata, ai sensi dell'art. 20 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, al fine di distinguere gli elementi relativi all'attività istituzionale (non tassabile) da quelli relativi all'attività commerciale (tassabile); e ciò, oltre che ai fini delle imposte dirette, è di estrema rilevanza anche per l'Iva [20].
All'art. 108, è stato introdotto un comma 2-bis, in base al quale non concorrono in ogni caso alla formazione del reddito degli enti non commerciali: a) le raccolte pubbliche di fondi effettuate occasionalmente, anche mediante offerte di beni ai sovventori, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione; b) i contributi corrisposti da amministrazioni pubbliche, per lo svolgimento di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai propri fini istituzionali.
Uno dei principali problemi relativi alla tassazione delle fondazioni in genere (e, dunque, anche delle fondazioni teatrali) è costituito dalla mancata considerazione della loro tendenziale finalità non lucrativa [21]. Questo problema è particolarmente delicato a proposito dell'Irpeg, che per le attività commerciali svolte dall'ente è dovuta secondo l'aliquota "ordinaria", del 36%. Vi è una norma che sembrerebbe mitigare tale rigore, ed è l'art. 6 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 601, che concede la riduzione al 50 % dell'Irpeg, tra l'altro, anche a "fondazioni storiche, letterarie, scientifiche, di ricerca aventi scopi esclusivamente culturali ed altri enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza ed istruzione".
Questo trattamento agevolato, che sembrerebbe di poter applicare senza remora alcuna alle fondazioni teatrali, è invece generalmente negato, o, comunque, applicato in modo restrittivo. Secondo la Cassazione, questa agevolazione è condizionata infatti al previo accertamento del carattere non commerciale dell'attività o, se commerciale, alla circostanza che non sia esclusiva né principale rispetto all'attività istituzionale ed alla dimostrazione del nesso di strumentalità diretta dell'attività commerciale non esclusiva né principale con il fine non lucrativo dell'ente [22]. E l'amministrazione finanziaria pare orientata a seguire (con forse eccessiva pervicacia) questo orientamento.
Il trattamento fiscale degli enti non commerciali, pur caratterizzato da notevoli agevolazioni (praticamente tutta l'attività istituzionale e connessa od accessoria a quella istituzionale è esclusa da imposizione), nasconde insidie notevoli [23]. Per certi versi, sembra un vestito che deve adattarsi ad una categoria troppo eterogenea di enti, e finisce per stare stretto a taluni di essi. Non a caso, in dottrina [24] si era auspicata la possibilità dell'inquadramento delle fondazioni (culturali) sotto il più benevolo regime delle Onlus, organizzazioni non lucrative di utilità sociale, disciplinate dagli artt. 10 e seguenti del d.lg. n. 460 del 1997.
Ma, allo stato attuale, le fondazioni teatrali non possono avvalersi di tale regime, o, meglio, non possono essere Onlus.
L'art. 10 del d.lg. 460 del 1997, che prevede tutta una serie di requisiti (per esempio, il divieto di distribuzione degli utili o di avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitale e l'obbligo di impiegare tali utili o avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse), per ottenere lo status di Onlus, stabilisce che sono tali le associazioni, fondazioni ed altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica, i cui statuti o atti costitutivi, redatti nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata prevedono espressamente lo svolgimento di attività in vari settori, tra cui (n. 9) "la promozione della cultura e dell'arte".
La lettura del primo comma dell'art. 10 potrebbe creare qualche malinteso, e lasciar credere che la disciplina di estremo favore fiscale (pur nella sussistenza di una serie di adempimenti, atti ad evitare l'abuso di tale forma giuridica) fosse applicabile anche alle fondazioni teatrali. Invece, esse non possono, allo stato attuale, essere Onlus, in primo luogo, perché tra i soci fondatori vi sono, in misura preponderante, gli enti locali od enti pubblici. Inoltre, perché per accedere allo status di Onlus, occorre l'ulteriore requisito dell' "esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale", nel senso che le prestazioni di servizi devono essere volte ad arrecare benefici a: a) "persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche economiche sociali o familiari"; b) componenti di collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari.
Stabilire come requisito essenziale il "fine di solidarietà sociale" come sopra inteso vale dunque ad escludere dal regime Onlus tutte quelle fondazioni, in specie, le fondazioni teatrali, che svolgono la propria opera nei confronti di tutta la collettività e non solo nei confronti delle persone più svantaggiate.
5. Il trattamento fiscale delle erogazioni liberali da parte dei privati
Occorre ora soffermarsi sulla disciplina delle elargizioni effettuate a vario titolo da terzi a favore di tali enti, posto che proprio da esse le fondazioni traggono per definizione i mezzi necessari alla propria attività (mentre, infatti, per le associazioni tende ad assumere principale rilievo l'attività degli associati, caratteristica dell'istituto della fondazione è la destinazione di un patrimonio ad uno scopo; e ciò sia per quanto concerne la dotazione iniziale, sia per eventuali apporti successivi).
I profili fiscali attinenti a questo aspetto sono duplici. Si tratta, infatti, di stabilire quale sia la rilevanza fiscale di tali erogazioni, da un lato con riferimento all'ente, dall'altro con riferimento al soggetto erogante.
Per quanto riguarda l'ente percipiente, non sussistono particolari problemi: le elargizioni risulteranno tassabili solo ove lo stesso abbia natura di ente commerciale, ed in tal caso le elargizioni medesime saranno sopravvenienze attive, ai sensi dell'art. 55 testo unico delle imposte sui redditi. Per l'ente non commerciale, invece, vige una esclusione espressa, di cui ho già dato conto.
Riveste maggiore interesse il trattamento fiscale che queste erogazioni liberali hanno non già con riferimento al percipiente, bensì con riferimento al soggetto erogante. Per quest'ultimo, l'incentivazione fiscale a favore dell'ente non profit che opera nel settore delle cultura e dello spettacolo rappresenta sicuramente (se non la prima) una delle principali sollecitazioni ad effettuare la prestazione liberale.
Il legislatore fiscale, per dimostrare il proprio favore verso le donazioni ad enti che operano in questo settore, segue un percorso tipico, che è quello del riconoscimento dell'elargizione liberale come costo fiscalmente deducibile dal reddito [25].
Più precisamente, il legislatore fiscale ha riconosciuto la possibilità di effettuare una detrazione dall'imposta lorda, a prescindere dalla qualifica soggettiva dell'erogante, ossia, tanto per il soggetto imprenditore quanto per quello non imprenditore [26]. In particolare, la lett. i) dell'art. 13-bis, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi prevede la possibilità di detrarre "le erogazioni liberali in denaro, per importo non superiore al 2 per cento del reddito complessivo dichiarato, a favore di enti o istituzioni pubbliche, fondazioni e associazioni legalmente riconosciute che senza scopo di lucro svolgono esclusivamente attività nello spettacolo, effettuate per la realizzazione di nuove strutture, per il restauro ed il potenziamento delle strutture esistenti, nonché per la produzione nei vari settori dello spettacolo". C'è una chiusura "capestro" a questa disposizione: le erogazioni non utilizzate per tali finalità dal percipiente entro il termine di due anni dalla data del ricevimento affluiscono, nella loro totalità, alle entrate dello Stato.
Analoga possibilità, di avvalersi della detrazione pari al 19% di cui all'art. 13-bis, è riconosciuta anche agli enti non commerciali, in virtù dell'art. 110-bis dello stesso testo unico.
Una disciplina peculiare è poi prevista, accanto alla disciplina generale, per le elargizioni liberali effettuate dal soggetto imprenditore. Deve trattarsi, ovviamente, di vere erogazioni liberali; altrimenti, nell'ipotesi in cui la causa giuridica dell'elargizione sia diversa, ossia quando dalla stessa l'impresa ritenga di ottenere un ritorno economico anche indiretto (soprattutto in termini di immagine), si rientra nel campo delle "sponsorizzazioni", che hanno un regime fiscale ben diverso e distinto da quello in esame, in quanto sono soggette alla disciplina prevista dall'art. 74 del testo unico delle imposte sui redditi per le spese di pubblicità e rappresentanza.
Secondo l'art. 65, comma 2, lett. c-nonies) del d.p.r. n. 917 del 1986, che è stato introdotto dall'art. 38 della legge 21 novembre 2000, n. 342 [27], sono integralmente deducibili, dal reddito d'impresa, le erogazioni liberali in denaro a favore (tra l'altro) di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute, per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nei settori dei beni culturali e dello spettacolo.
L'erario, nel consentire la deducibilità, come costi ricompresi tra gli "oneri di utilità sociale", delle donazioni effettuate dalle imprese, ha cercato, nel contempo, di cautelarsi da possibili abusi in chiave elusiva di questa disposizione. E' stato dunque previsto che le erogazioni devono essere effettuate solo nei confronti degli enti individuati dal ministero per i Beni e le Attività culturali, secondo quanto disposto dal d.m. 11 aprile 2001 [28].
Le critiche dei primi commentatori si sono appuntate, a giusta ragione, oltre che su una certa farraginosità nel meccanismo di vigilanza sull'impiego delle somme erogate, anche su di un aspetto particolare di questa fattispecie: mentre le imprese eroganti hanno la facoltà di dedurre integralmente come costo le somme versate all'ente beneficiario, esulando addirittura dal criterio dell'inerenza che è un cardine della disciplina generale di determinazione del reddito d'impresa, è a carico dei beneficiari, qualora l'importo complessivo delle donazioni agevolate superi il limite massimo prefissato dalla legge, l'obbligo di versare alle entrate dello Stato un importo pari al 37% della differenza tra le somme ricevute e la quota di agevolazione spettante.
In altri termini, le fondazioni teatrali beneficiarie dell'elargizione da parte delle imprese si troveranno a dover versare un'imposta (superiore addirittura di un punto percentuale rispetto all'aliquota Irpeg) per la somma ricevuta in eccedenza rispetto alla quota di agevolazione di propria pertinenza.
6. Sull'esclusione dalla ritenuta d'acconto delle sovvenzioni pubbliche corrisposte a fondazioni teatrali
Più sopra, ho parlato genericamente di erogazioni od elargizioni, soffermandomi su quelle provenienti dai privati. Che ne è dei contributi provenienti dagli enti pubblici territoriali a titolo di sovvenzione per lo svolgimento delle varie attività di spettacolo?
Ho detto a più riprese che i costi sopportati dall'ente per la messa in scena delle varie rappresentazioni vengono coperti attraverso un sistema misto di entrate, perché ai contributi pubblici, che costituiscono la voce più cospicua e significativa delle fonti di finanziamento, si affiancano altresì gli introiti derivanti dal prezzo dei biglietti che comunque gli spettatori sono tenuti a corrispondere al teatro per assistere alle singole rappresentazioni.
Occorre ora soffermarsi brevemente su di una questione, che ha una soluzione (quasi) consequenziale alla qualificazione della fondazione teatrale come ente non commerciale tout court.
Vi è ora una norma espressa, l'art. 108, comma 2-bis, che esclude dalla formazione del reddito degli enti non commerciali "in ogni caso" i contributi corrisposti da amministrazioni pubbliche per lo svolgimento di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali degli enti stessi.
Il dato, però, merita qualche riflessione ulteriore. Vi è, infatti, una norma, racchiusa nell'art. 28, comma 2, del testo unico sull'accertamento (d.p.r. n. 600 del 1973), la quale ha dato adito a dubbi in ordine alla sua applicazione al settore in esame.
Secondo tale disposizione "le regioni, le province, i comuni, gli altri enti pubblici e privati devono operare una ritenuta del quattro per cento a titolo di acconto" dell'Irpef o dell'Irpeg dovuta dal percipiente "con obbligo di rivalsa sull'ammontare dei contributi corrisposti ad imprese, esclusi quelli per l'acquisto di beni strumentali".
Ora, nella disciplina delle fondazioni liriche, l'art. 25 esclude espressamente l'applicazione della ritenuta d'acconto di cui all'art. 28 d.p.r. n. 600 del 1973 [29]. Ciò però non significa che la disposizione si applichi alle fondazioni teatrali, in mancanza di una analoga norma espressa di esclusione.
Dalla lettera della norma, infatti, si desume che i contributi pubblici assumono rilievo reddituale solo se ed in quanto la loro percezione si collochi nel quadro di un'attività produttiva di reddito d'impresa [30]. Dunque, i contributi pubblici sono tassabili solo se l'attività della fondazione teatrale sia configurabile come attività commerciale.
Ma per l'ente teatrale l'attività istituzionale si identifica con l'attività di spettacolo. E, posto che i contributi pubblici sono erogati ai fini di finanziamento dell'attività di spettacolo svolta dagli enti, e che questa è da considerare l'attività istituzionale dell'ente, la qualificazione tributaria della medesima come non commerciale vale anche ad escludere la tassabilità dei contributi e delle sovvenzioni corrisposte dagli enti pubblici territoriali.
Del resto, ciò appare coerente anche con la non imponibilità ai fini reddituali dei corrispettivi dei biglietti degli spettacoli; sarebbe, infatti, del tutto incongruo trattare secondo parametri impositivi diversi le sovvenzioni ed i corrispettivi dei biglietti, che rappresentano entrate direttamente riconducibili all'attività istituzionale dell'ente.
7. Cenni sulla futura legge sullo spettacolo da vivo: l'attività teatrale come "bene culturale"
Qualche cenno, infine, è d'obbligo sul futuribile. Le attività teatrali, così come quelle dello spettacolo dal vivo in genere, sono al centro di una evoluzione normativa di vasta portata. Mentre per anni si è preferito far uso dello strumento più "duttile" del decreto ministeriale per regolamentare il settore, pare oggi ineludibile una disciplina più organica, come lascia intravvedere la l. 6 luglio 2002, n. 137, la quale ha delegato il Governo ad adottare, entro diciotto mesi dalla data della sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi in materia anche di "teatro, musica, danza e altre forme di spettacolo dal vivo"
Con la previsione dell'art. 10 della legge n. 137, sembra superata la fase, appena precedente, che prospettava una riforma del settore, ancorata ad una legge-quadro.
Non sappiamo se il contenuto delle proposte di cui diamo conto qui di seguito è da ritenersi definitivamente superato, o se confluirà in qualche misura nei decreti legislativi che disciplineranno (dovrebbero disciplinare) il settore. Di certo, esse rappresentano una pietra miliare, che contribuisce a far chiarezza sulla materia.
La riforma della disciplina normativa dello spettacolo dal vivo, condensata nelle due proposte di legge Carlucci e Chiaromonte-Grignaffini [31], si diparte da una definizione dello spettacolo dal vivo come "bene culturale" tout court. E' un passo notevole, sotto il profilo concettuale, anche se non inatteso, che offre allo spettacolo dal vivo la considerazione e la tutela che afferiscono a questo status.
La riforma è occasionata da due precondizioni.
La prima è rappresentata dalla modifica del titolo V della Costituzione, che ha assegnato nuove e diversificate prerogative a Stato, regioni, province e comuni. L'art. 117, per materie come la valorizzazione dei beni culturali, prevede la competenza legislativa "concorrente" tra Stato e Regioni, riservando a queste ultime l'intero potere regolamentare [32]. In questa ottica, lo Stato abbandona una politica culturale retaggio di ideologie della storia passata, per una più moderna concezione di una "politica per la cultura", mirante a favorire, sostenere, incentivare lo sviluppo anche dei diversi settori dello spettacolo. Esso però deve nel contempo trasferire alle autorità territorialmente più vicine ai cittadini interessati la diretta responsabilità e l'onere principale del finanziamento e sostentamento degli enti, pur conservando incisivi poteri di controllo ed un coinvolgimento economico [33]. Si dovrebbe realizzare, cioè, un trasferimento sussidiario di responsabilità dallo Stato agli enti locali, con la conseguente necessità di rivedere il ruolo di questi ultimi anche nel campo dello spettacolo dal vivo.
La seconda precondizione è costituita dalla riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali, che ha unificato il settore, antecedentemente rimesso alle competenze del ministero del Turismo e dello Spettacolo. Ora le competenze in materia di beni culturali e quelle in materia di attività e di spettacolo sono state unificate [34]. La riforma del ministero e i regolamenti emanati per i diversi settori dello spettacolo dal vivo hanno già introdotto innovazioni di rilievo: basti pensare alla programmazione triennale delle attività, e al percorso di maggiore trasparenza nell'erogazione dei contributi pubblici. Appare dunque coerente con il mutamento avvenuto a livello ministeriale - che ha portato inoltre alla ripartizione in due direzioni generali, una per il cinema e l'audiovisivo, una per lo spettacolo dal vivo - una riforma specifica anche per lo spettacolo dal vivo, la cui filosofia di base può essere espressa nei seguenti termini: lo Stato, coprotagonista in ciò assieme agli enti locali, deve promuovere una politica di sostegno al settore, senza per questo sostituirsi al mercato, e, soprattutto, senza pensare di intervenire nel merito delle produzioni culturali.
Non è di mia pertinenza esaminare nel dettaglio le due proposte di legge. Esse presentano notevoli differenze, per esempio, oltre che nel disegnare il rapporto tra Stato ed enti locali, anche nella configurazione delle "residenze multidisciplinari" [35], nella istituzione dell'agenzia nazionale per lo Spettacolo dal vivo per gli agenti di spettacolo e di un Istituto di credito per la cultura (le cui modalità di partecipazione ed i relativi oneri economici dovrebbero essere determinati dal ministero dell'Economia e delle Finanze con apposito provvedimento).
Per quanto concerne il Fus, la proposta Chiaromonte prevede di rafforzarlo, sovvenzionandolo attraverso i proventi erariali del Bingo, dei giochi e delle lotterie, mentre la proposta Carlucci prevede di affiancarvi un Fondo perequativo.
Inoltre, sempre per la parte dedicata alle risorse, mentre la proposta Carlucci ha come obiettivo di "allargare le risorse alleggerendo gli oneri finanziari dello Stato", secondo la proposta Chiaromonte "l'ingresso dei privati non deve sostituire il Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo), cioè l'intervento dello Stato".
Le due proposte, notevolmente diverse per impianto sistematico e soluzioni prescelte, presentano però molti punti di comunanza sotto il profilo fiscale, in particolare per quanto riguarda l'accrescimento degli incentivi e degli sgravi fiscali, relativi alle varie forme di autofinanziamento degli enti teatrali, e ad erogazioni liberali corrisposte da privati, e la previsione, tra l'altro, di un'aliquota agevolata dell'Iva sugli spettacoli.
In entrambe gli interventi fiscali, collocati, rispettivamente, all'art. 8 della proposta Carlucci [36] ed all'art. 10 della proposta Chiaromonte [37], dovranno essere adottati nella forma del decreto legislativo, emanato dal governo entro sei mesi dall'approvazione della legge quadro. Si tratterà di vedere se queste misure - o misure analoghe contenute nei decreti legislativi previsti dalla legge delega n. 137 del 2002 - andranno a sostituire, o ad aggiungersi, a quelle attualmente in vigore.
[1] Cfr. A. Mozzati, La privatizzazione degli enti lirici, in Economia e diritto del terziario, 1999, 488 s.
[2] E' una tendenza confermata però anche dal legislatore, che utilizza questo strumento per "depubblicizzare" strutture che svolgono attività in ambito culturale. Si pensi, ad esempio, alla trasformazione in fondazione di diritto privato del Centro sperimentale di cinematografia, della Biennale di Venezia, dell'Istituto nazionale per il dramma antico, tanto per citarne alcuni.
[3] Già nella legge delega 15 marzo 1997, n. 59, sugli enti lirici, l'art. 14 prevedeva la trasformazione in società di diritto privato - e quindi non in fondazioni - degli enti (pubblici) ad alto indice di autonomia finanziaria.
[4] Non a caso adoperiamo il lemma modello: si tratta, in sostanza, di un idealtypus, che può essere inquadrato solo in parte nella species disciplinata nel codice civile. E' ben vero che il punto di riferimento, ineludibile, era ed è il codice civile, ma, come è stato testé chiarito da A. Mora, La trasformazione degli enti in fondazioni teatrali: profili civilistici, in questo numero di Aedon, si fa una certa fatica a ricomprendere queste fondazioni tra quelle di diritto privato, tout court. Sul punto cfr. G. Ponzanelli, Le fondazioni tra riforma del codice civile e legislazione speciale, in Rivista del notariato, 1998, 641 ss.
[5] Si veda, in specie, F. Lemme, Sinergie pubblico-privato: ruolo delle fondazioni nella politica dei beni culturali, in Rivista del notariato, 1998, 653, il quale richiama la posizione di P. Petraroia sul tema. Secondo questa visione critica, sarebbe invece preferibile il modello associativo, il quale, peraltro, meglio si presterebbe, pur a fianco delle fondazioni, come strumento operativo per attuare la cooperazione pubblico-privato. Viene spontanea la comparazione con la figura, meno distante di quanto si pensi in realtà, delle fondazioni bancarie, che riassume bene il rapporto tra disciplina speciale e codice, ed il ruolo assegnato agli enti locali.
[6] Si veda M. Trimarchi, Lo spettacolo dal vivo tra responsabilità istituzionali e opportunità economiche, in questo numero di Aedon. Dello stesso Autore cfr. anche "Vengan denari ...". Risorse, criteri e meccanismi per il finanziamento dello spettacolo dal vivo, ivi, n. 3/2000.
[7] Regio decreto-legge 3 febbraio 1936, n. 438, convertito in legge 4 giugno 1936, n. 1570.
[8] Cfr. A. Mozzati, La privatizzazione degli enti lirici, cit., 478 ss.; G. Iudica, La privatizzazione degli enti lirici, in Aa.Vv., Fondazioni ed enti lirici, Padova, 1998, XI. L'entificazione dei teatri lirici si inquadra, del resto, nel contesto delle tendenze politiche dell'epoca, in cui lo Stato esercitava un forte indirizzo dirigista nel settore della cultura (basti pensare ai poteri pervasivi di controllo assegnati al ministero per la Stampa e la Propaganda, al quale dovevano essere sottoposti per l'approvazione non solo le nomine dei membri del comitato dell'ente o dei relativi bilanci preventivi e consuntivi, ma anche i programmi delle singole stagioni).
[9] Su cui cfr., anche per il rapporto tra il d.lg. 29 giugno 1996, n. 367 e il d.lg. 23 aprile 1998, n. 134, A. Serra, La difficile privatizzazione delle fondazioni liriche: strumenti pubblici e presenza privata, in Aedon, n. 2/1998; A. Mora, La "privatizzazione" degli enti lirico-musicali, in Aa.Vv., Fondazioni ed enti lirici, cit., 12 s.; A. Di Majo, Le neofondazioni della lirica: un passo avanti e due indietro, in Corriere giuridico, 1997, 114 ss.; G. Marasà, Fondazioni, privatizzazioni e impresa: la trasformazione degli enti musicali in fondazioni di diritto privato, in Studium juris, 1996, 1095 ss.
[10] Così G. Albenzio, Le fondazioni teatrali come nuovo modello di fondazione impresa, in Rivista del notariato, 1998, 657 s. L'autore cita ad esempio di ciò l'art. 3 del d.lg. n. 367 del 1996, che consente agli enti lirici l'esercizio di attività commerciali ed accessorie, "in conformità degli scopi istituzionali", impone loro "criteri di imprenditorialità ed efficienza" ed il "rispetto del vincolo di bilancio"; l'art. 15, comma 2, che attribuisce il diritto esclusivo all'utilizzo del nome, della denominazione storica e dell'immagine; l'art. 16, che obbliga a tenere i libri e le altre scritture contabili prescritti nell'art. 2214 c.c. ed a redigere il bilancio di esercizio secondo le disposizioni dell'art. 2423 c.c. e seguenti del codice civile, anche in assenza di esercizio di attività commerciale.
[11] " E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini (...)".
[12] "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura (...)".
[13] Cfr. F. Lemme, Sinergie pubblico-privato, cit., 653 s.
[14] A. Mozzati, La privatizzazione degli enti lirici, cit., 494, nota 39, il quale riporta sul punto le tesi di W.J. Baumol e W.G. Bowen, Gli spettacoli dal vivo: anatomia dei loro problemi economici, in Stato e mercato nel settore culturale, a cura di G. Pennella e M. Trimarchi, Bologna, 1993.
[15] La letteratura sugli enti non commerciali è assai vasta in diritto tributario. Si richiamano, per tutti, L. Castaldi, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999; A.M. Proto, Onlus ed enti non commerciali, in Rassegna tributaria, 1997, 582; P. Pacitto, La nozione di ente non commerciale, in Aa.Vv., Imposta sul reddito delle persone giuridiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1996, 231; M. Interdonato, Il reddito complessivo degli enti non commerciali, ivi, 287.
[16] P. Russo, S. Ghinassi, Linee evolutive del trattamento fiscale delle fondazioni con particolare riferimento alle fondazioni culturali, in Rivista del notariato, 1998, 626.
[17] In tal senso cfr. Cass. civ., 7 gennaio 1999, n. 50.
[18] La differenza sarà ancora più evidente nel prossimo futuro, secondo l'art. 3 del disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale. Ad esempio, attualmente, gli enti non commerciali, al pari delle società di capitali, calcolano l'imposta (Irpeg) applicando all'imponibile l'aliquota del 36 % (o quella, ridotta alla metà, del 18 %, nei casi previsti dall'articolo 6 del d.p.r. n. 601 del 1973); dopo la riforma, ad essi si applicheranno i due scaglioni reddituali (del 23 e del 33 %) previsti, ai fini Irpef, per le persone fisiche.
[19] V. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2002, 137.
[20] Ad esempio, l'art. 19-ter del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 subordina la detraibilità dell'iva a monte proprio alla tenuta di una contabilità separata ai sensi dell'art. 20 del d.p.r. 600. Ma si veda Cass. civ., sez. V, 25 maggio 2001, n. 7145, la quale ha escluso l'obbligo di tenuta della contabilità separata per le attività commerciali svolte dall'ente teatro dell'Opera di Roma, che, al momento dei fatti, aveva ancora natura di ente pubblico.
[21] In tal senso cfr. P. Russo, S. Ghinassi, Linee evolutive del trattamento fiscale delle fondazioni, cit., 626.
[22] Cfr. Cass. civ., 15 febbraio 1995, n. 1633; Cass. civ., 8 marzo 1995, n. 2705. L'orientamento ha subito un recente revirement. Si veda, sia pure in tema di fondazioni bancarie, Cass. civ., sez. V, 9 maggio 2002, n. 6607.
[23] Si vedano, in proposito, le giuste osservazioni critiche in tema di assoggettabilità ad Irap di C. Spiazzi, Settore teatrale ed applicazione dell'Irap: esperienze concrete, in questo numero di Aedon.
[24] P. Russo, S. Ghinassi, Linee evolutive del trattamento fiscale delle fondazioni, cit., 628 ss.
[25] Se però l'elargizione ha ad oggetto beni in natura, essa può rilevare fiscalmente per l'erogante non già come costo deducibile, ma addirittura come elemento tassabile, in quanto tale operazione può configurare l'ipotesi di destinazione del bene a finalità extraimprenditoriali da cui consegue la tassazione dell'eventuale ricavo o plusvalenza ai sensi degli artt. 53 e 54 del testo unico delle imposte sui redditi.
[26] In tal senso P. Russo, S. Ghinassi, Linee evolutive del trattamento fiscale delle fondazioni, cit., 633.
[27] Su cui si veda, diffusamente, L. Zanetti, Gli strumenti di sostegno alla cultura tra pubblico e privato: il nuovo assetto delle agevolazioni fiscali al mecenatismo culturale, in Aedon, n. 2/2001. Si veda anche M. Giua, Il punto su mecenatismo e sponsorizzazioni culturali, in Corriere tributario, 2001, 415.
[28] Si vedano, anche per gli adempimenti previsti in capo ai soggetti eroganti ed ai soggetti beneficiari delle erogazioni liberali, la nota del ministero per i Beni e le Attività culturali del 26 settembre 2001, e la circolare dell'agenzia delle Entrate 31 dicembre 2001, n. 107/E.
[29] Sul tema cfr. L. Castaldi, Brevi riflessioni in materia di trattamento tributario delle sovvenzioni pubbliche corrisposte agli enti lirici, in Rassegna tributaria, 1995, I, 820 ss.
[30] Cfr. L. Castaldi, Brevi riflessioni in materia di trattamento tributario, cit., 822 s., la quale osserva che, se collocati nell'ambito dell'attività d'impresa, si applicheranno gli artt. 53, comma 1, lett. f), e l'art. 55, comma 3, lett. b), del testo unico delle imposte sui redditi. La prima qualifica come ricavi, tra l'altro, i contributi in conto esercizio dello Stato e di altri enti pubblici spettanti a norma di legge; la seconda, invece, ricomprende tra le sopravvenienze attive cosiddette improprie i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, fatta eccezione per i contributi già ricompresi tra i ricavi ai sensi dell'art. 53.
[31] Camera dei deputati, XIV legislatura, rispettivamente A.C. 2109 ("Disciplina del settore dello spettacolo") e A.C. 2537 ("Disciplina generale dello spettacolo dal vivo").
[32] Secondo l'art. 117 Cost.: "Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a (...) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali"; inoltre "nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".
[33] E' stato osservato che con ciò il nostro Paese si avvicina ancor più al regime vigente in altri Paesi, quali la Germania, ove le numerose e qualificate organizzazioni di produzione e di gestione dello spettacolo (di natura pubblica o privata) fanno capo di norma ai Länder (cui è riservata la competenza in materia di arti e cultura) ed alle amministrazioni comunali e loro consorzi o associazioni, o l'Austria, ove opera un decentramento presso i vari Bundesländer, con finanziamento integrativo statale per le iniziative di rilievo nazionale già rette da contributi ordinari regionali e comunali (come avviene, per es. per il Festival di Salisburgo). In tal senso G. Albenzio, Le fondazioni teatrali come nuovo modello, cit., 660.
[34] Sul tema cfr. C. Barbati, Attori e modalità del sostegno pubblico alla creazione nello spettacolo, in Economia della cultura, 2000, 301.
[35] Vi si dà ampio spazio nella proposta Chiaromonte, mentre non ve ne è traccia nella proposta Carlucci. Le residenze multidisciplinari sono: i teatri storici, i teatri municipali, gli auditorium e tutte le strutture polivalenti, ovvero l'insieme di più strutture nell'ambito di un territorio definito, caratterizzati dalla presenza contestuale, nel corso dell'anno solare, di attività di produzione e distribuzione di spettacoli dal vivo.
[36] Recita l'art. 8 della proposta Carlucci, che ha per titolo "Incentivi finanziari": "Per tutte le attività dello spettacolo sono previsti i seguenti incentivi economici:
a) parziale fiscalizzazione degli oneri sociali, nei limiti fissati dalla normativa europea;
b) detassazione degli utili reinvestiti nell'attività, nella formazione e nella innovazione tecnologica;
c) detassazione delle sponsorizzazioni per attività istituzionali, per la realizzazione di progetti o in conto merce su singoli elementi della fase produttiva;
d) introduzione del tax shelter;
e) riduzione delle aliquote Iva gravanti sullo spettacolo e sulle attività editoriali e promozionali ad esso connesse;
f) riconoscimento di un credito d'imposta pari al 30 per cento dell'ammontare dell'Iva effettivamente versata e comunque nei limiti fissati dalla normativa europea;
g) detassazione dei costi pubblicitari e di affissione;
h) esenzione delle attività dello spettacolo dall'Irap;
i) agevolazioni fiscali relative alle utenze connesse all'espletamento delle attività delle sale di pubblico spettacolo".
Inoltre, per le attività teatrali è disposta la non assoggettabilità dell'intervento pubblico alla ritenuta di cui all'art. 28, secondo comma e di cui all'art. 29, comma 5 del d.p.r. n. 600. E' previsto infine che gli artisti e i tecnici professionisti possano dedurre dal proprio reddito complessivo, agli effetti dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, il 50 per cento delle spese sostenute per vitto e alloggio per lo svolgimento della loro attività, nell'ottica di una progressiva e completa detassazione delle stesse.[37] Secondo l'art. 10 della proposta Chiaromonte: "Il decreto legislativo dovrà contenere:
a) interventi di agevolazione fiscale a favore dei soggetti operanti nelle attività dello spettacolo dal vivo, nonché misure di incentivazione a favore dei medesimi soggetti all'investimento nelle strutture e nelle risorse umane;
b) misure per il sostegno, anche nella forma del prestito d'onore, e l'agevolazione fiscale destinate alle nuove iniziative imprenditoriali giovanili e femminili nelle attività dello spettacolo dal vivo, nonché misure per il sostegno e l'agevolazione fiscale delle attività artistiche dello spettacolo dal vivo;
c) norme per la defiscalizzazione delle erogazioni liberali compiute da persone fisiche e/o giuridiche a favore di soggetti pubblici o privati che operano nell'ambito delle attività dello spettacolo dal vivo per la realizzazione dei loro progetti e attività culturali e introduzione del tax shelter;
d) l'introduzione di un'aliquota Iva ridotta per i settori dello spettacolo dal vivo, con una soglia massima del 10%;
e) introduzione di un premio fiscale proporzionale alla quantità di biglietti venduti nel corso di un anno fiscale".