Sommario: 1. Introduzione: i mercati dello spettacolo dal vivo. - 2. Struttura, tecnologia, processi produttivi e distributivi. - 3. Ruolo e limiti dell'intervento pubblico. - 4. In attesa del sostegno finanziario privato. - 5. Le prospettive istituzionali.
1. Introduzione: i mercati dello spettacolo dal vivo
Chi volesse analizzare, per la prima volta e senza pregiudizi, il settore dello spettacolo dal vivo in Italia ricaverebbe, con tutta probabilità, l'impressione di un comparto produttivo caratterizzato da molte stranezze; fertile e innovativo, spesso di elevata qualità tecnica e artistica, apprezzato e talvolta imitato all'estero, lo spettacolo dal vivo rimane, nell'esperienza italiana, segnato da contraddizioni, scarsa razionalità, miopia progettuale, e anche da una sorta di ossessione simbolica.
Un'affermazione frequente, riferita alle risorse finanziarie pubbliche destinate allo spettacolo dal vivo, riguarda il loro asserito basso e insufficiente livello rispetto al fabbisogno dei produttori (compagnie teatrali, orchestre sinfoniche, compagnie di danza, etc.); la percezione che se ne ricava è quella di un ecosistema ostile nel quale lo sforzo appassionato e quasi irragionevole degli operatori riesce a produrre nonostante l'incomprensione delle istituzioni e la povertà delle loro risorse finanziarie.
Va detto che anche un esame superficiale dei meccanismi istituzionali dello spettacolo dal vivo coglie una serie di rigidità non sempre giustificate nel disegno organizzativo del settore, così come una serie di complicazioni qualche volta bizantine nelle procedure del finanziamento pubblico. Prima di verificare se le risorse siano o meno sufficienti sarebbe dunque necessario valutarne i criteri e i meccanismi di stanziamento e, soprattutto, di erogazione, per poter identificare i possibili passi atti ad accrescerne l'efficacia.
Il settore dello spettacolo dal vivo appare irrigidito anche per responsabilità che vanno ascritte agli stessi produttori, i quali mostrano nella generalità dei casi di preferire la garanzia alla flessibilità, e di adottare le proprie strategie in merito al finanziamento pubblico non già con l'obiettivo di massimizzare il flusso dei fondi annualmente ricevuti, ma con quello di minimizzarne la possibile riduzione rispetto a quanto ricevuto negli anni precedenti, anche in confronto agli altri produttori.
In questo senso, si capisce con chiarezza che la competizione per il conseguimento dei finanziamenti pubblici (competizione che crea e mantiene in vita il più vivace tra i mercati dello spettacolo dal vivo) acquista, nella percezione degli stessi destinatari di tali finanziamenti, una valenza simbolica: minimizzare la riduzione del finanziamento significa collegarne l'ammontare - rectius: la costanza - a una sorta di approvazione etica da parte del settore pubblico, senza che ci sia alcun collegamento specifico tra oneri finanziari finalizzati alla produzione e sostegno pubblico destinato a contenerne l'ammontare.
Il fatto che il mercato sul quale i produttori di spettacolo dal vivo inscenano la propria competizione, autocertificando la qualità artistica e culturale dei propri prodotti, sia quello dei finanziamenti pubblici (ai diversi livelli di governo) implica una conseguente trascuratezza dell'altro mercato, quello che dovrebbe invece rappresentare lo sbocco naturale e imprescindibile della "merce" prodotta: è il mercato nel quale l'altro contraente è il pubblico degli spettatori.
Può sembrare paradossale, ma per quanto i produttori si sforzino di dimostrare che il loro obiettivo primario è la formazione del pubblico (con tutte le varianti più o meno paternalistiche del caso) le loro strategie produttive e distributive mostrano una deliberata disattenzione nei confronti degli spettatori, anche in questo caso a causa di una decisa preferenza verso la garanzia rispetto alla flessibilità. Il pubblico dello spettacolo dal vivo è affrontato di norma come un blocco omogeneo di individui, accomunati da simili caratteristiche socio-demografiche, da gusti e preferenze compatti, da sufficiente erudizione culturale.
Questa percezione, che appare quanto meno riduttiva, ignora l'eterogeneità crescente del pubblico dello spettacolo dal vivo, si preoccupa molto poco della sua possibile espansione quantitativa mantenendo meccanismi di scambio spesso obsoleti, non persegue la sua diversificazione interna adottando tuttora un linguaggio commerciale per iniziati, snobba le opportunità di un suo allargamento verso quella maggioranza schiacciante, che nel corso di un anno non assiste neanche una volta a uno spettacolo.
I mercati dello spettacolo dal vivo, quello dei finanziamenti pubblici da una parte e quello degli spettatori dall'altra (altri eventuali mercati non appaiono a tutt'oggi caratterizzati da un sufficiente grado di compiutezza), sono dunque disegnati secondo criteri e meccanismi che forse potevano essere giustificati molti decenni fa, e che oggi spesso non hanno più alcuna ragion d'essere. E' necessario intraprendere nuove letture del settore, in modo da identificarne l'ossatura e le dinamiche e da concepire, di conseguenza, adeguati strumenti d'intervento.
2. Struttura, tecnologia, processi produttivi e distributivi
La struttura del settore dello spettacolo dal vivo ricalca, con variazioni piuttosto contenute, lo schema produttivo e distributivo tipico della società ottocentesca. Le esagerazioni dovute all'espansione dello star system, alla funzione di snodo commerciale delle agenzie, alla moltiplicazione dei centri produttivi e alla burocratizzazione dei rapporti di lavoro non sono che effetti di lungo periodo di un sistema mantenuto troppo a lungo in una gabbia organizzativa autoreferenziale.
Naturalmente, il fatto che il concerto di musica classica, così come lo spettacolo teatrale o di danza sia tuttora concepito come un servizio ad elevata valenza rituale e celebrativa ha prodotto il manifestarsi di alcuni fenomeni importanti, che vanno per molti versi considerati la reazione di un mercato in sé potenzialmente vivace e mobile a un paradigma istituzionale sempre più inadeguato alle sue molteplici esigenze.
Per questo motivo sono cresciuti, nel corso dei decenni, alcuni mercati paralleli capaci di catturare l'interesse e l'apprezzamento di spettatori non accettati dal mercato principale. Ne sono un esempio le svariate contaminazioni con cui la musica classica appare presente in una varietà di supporti, la frammentazione della prosa in brandelli slegati ma incisivi, l'assorbimento dei testi dello spettacolo in mezzi di comunicazione come la televisione (e il suo braccio armato rappresentato dalla pubblicità) o in altre forme di spettacolo come il cinema.
Ciò ha spinto il mercato dello spettacolo a moltiplicarsi scompostamente in una serie di altri mercati caratterizzati da un grado piuttosto eterogeneo di tecnologia, in parte snaturandone l'ossatura e gli intenti originari, in parte mostrandosi capace di adeguarne l'impianto di fondo a una società radicalmente trasformata rispetto al secolo borghese. L'intersezione e il concatenamento di questa varietà di mercati si riflette in misura rilevante sulla struttura proprietaria e gestionale del settore, in cui pubblico e privato coesistono e si contaminano reciprocamente, pur fingendo di competere in difesa di posizioni piuttosto riduttive, l'accesso in un caso, l'efficienza dall'altro.
Basta osservare i mercati dello spettacolo dal vivo per accorgersi che entrambe le finalità asserite come tipiche di ciascuno dei settori in questione: la presenza di un massiccio finanziamento statale e di tutte le regole che ne disciplinano i meccanismi non garantisce assolutamente né la generalità né l'ecumenismo di accesso, dal momento che le porte del teatro rimangono chiuse - per una varietà di motivi - alla maggioranza dei residenti.
Sul versante opposto, la presenza di forme gestionali privatistiche - ultime le fondazioni musicali, fashionable quanto si vuole ma contraddittorie sul piano formale e inefficaci su quello operativo - non assicura al settore alcun incremento di efficienza, concetto che appare piuttosto un feticcio se preso a parametro in un settore per sua natura multidimensionale e non misurabile come questo dello spettacolo dal vivo.
Al contrario, il disagio finanziario del settore, accentuato dalla sua staticità istituzionale, ha spinto molti operatori - e sta per convincere il legislatore - a cadere in una serie di tentazioni commerciali il cui sviluppo non sembra condurre ad alcun risultato apprezzabile in termini di solidità dei bilanci mentre con ogni probabilità contribuirà a snaturare ulteriormente il prodotto culturale, accentuandone la spettacolarizzazione da una parte, e contraendone l'eterogeneità e la varietà dall'altra.
Servizi aggiuntivi, posti di ristoro, turismo cultural-mondano, enogastronomia sono alcuni dei filoni di fertilizzazione finanziaria che lo spettacolo (come del resto tutti gli altri settori del comparto culturale) tenta di percorrere, con la complicità di un legislatore sempre più distratto e di amministratori locali attenti al consenso spicciolo ma poco inclini ad avventure progettuali.
Eppure il settore dello spettacolo dal vivo possiede una serie di caratteristiche che ne potrebbero fare un settore pilota nel quadro dell'economia creativa. Si tratta, paradossalmente, di caratteristiche fondanti, e pertanto possedute dal settore anche in tempi non sospetti. Farne tesoro adesso, in un periodo di ristrettezze finanziarie e di confusione istituzionale, è indifferibile.
Se l'analista ipotizzato nel primo paragrafo volesse descrivere sinteticamente le caratteristiche del settore dello spettacolo dal vivo, osserverebbe certamente che si tratta di un settore a tecnologia variabile, capace di inanellare una sequenza di passaggi produttivi dall'artigianato creativo alla tecnologia digitale senza mai snaturare il prodotto, e reso flessibile e solido dalla possibilità di estendere la propria filiera in modo multiforme, coprendo una gamma di opportunità commerciali che vanno dalla grande distribuzione alla personalizzazione dello scambio.
Osserverebbe anche che il prodotto - e una varietà di imprescindibili sottoprodotti come riproduzioni discografiche, spartiti, testi teatrali, cataloghi, fotografie, etc. - è caratterizzato da un dominante contenuto informativo e da una notevole elasticità del supporto materiale, mostrandosi per questa via uno dei prodotti topici dell'economia immateriale. E non potrebbe fare a meno di notare che la forte componente creativa e la versatilità semantica del settore ne fanno una fonte importante ai fini dell'accrescimento e del mantenimento della qualità della vita individuale e sociale, e del benessere delle comunità radicate nel territorio.
3. Ruolo e limiti dell'intervento pubblico
In questo contesto caratterizzato da una sfasatura crescente tra l'evoluzione del settore e le sue gabbie organizzative, anche i meccanismi dell'intervento pubblico mostrano più di una falla, e soprattutto una generale inadeguatezza a quelle che appaiono le esigenze dello spettacolo dal vivo in una società complessa. Tale inadeguatezza si manifesta tanto nella cornice filosofico-teorica sottesa all'azione pubblica a sostegno dello spettacolo, quanto nel disegno operativo degli strumenti di tale azione, e nelle rigidità dialogiche nei confronti del settore privato (che è un probabile gestore e un possibile finanziatore).
Le giustificazioni teoriche dell'intervento pubblico a sostegno dello spettacolo dal vivo, richiamate dal dibattito e poste alla base di molte iniziative legislative e regolamentari, partono da un equivoco palese: dal momento che lo spettacolo non riesce, endemicamente, a sostenersi finanziariamente sulle proprie risorse, allora è indispensabile che il settore pubblico fornisca un puntello capace di coprire il divario tra ricavi e costi. L'argomento è grossolano. E potrebbe essere utilizzato da qualsiasi soggetto economico che pretende di sostenere costi più elevati dei propri ricavi.
Né le cose migliorano se si associa a questo ragionamento meramente aritmetico la asserita qualità di bene meritorio di ogni prodotto culturale. L'argomento dei beni e dei bisogni meritori, utile in un periodo nel quale occorreva estendere l'ambito dell'azione pubblica con la finalità di un accesso generale a una gamma variegata di servizi pubblici, mostra oggi tutta la sua debolezza teorica finendo per ridursi ad un maquillage filosofico di decisioni paternalistiche adottate dal legislatore a maggioranza.
Non soltanto ogni bisogno può essere percepito, legittimamente, come meritorio e pertanto ritenuto degno di sostegno pubblico, ma nel caso specifico dello spettacolo dal vivo l'esiguità del pubblico attuale fa dubitare che l'argomento influenzi concretamente gli indirizzi dell'azione pubblica, tuttora piuttosto indifferente rispetto alla consistenza ed all'eterogeneità del pubblico.
Se si guarda poi agli altri argomenti utilizzati come cardine teorico dell'azione pubblica, se ne percepisce ictu oculi la fragilità, o quanto meno l'estendibilità a praticamente tutti i settori produttivi. In effetti, argomenti come l'orgoglio e l'identità nazionale (per il quale il sostegno pubblico dovrebbe allora indirizzarsi verso la pasta, o la moda, o la tecnologia militare), come la tutela dell'occupazione e delle unità produttive (per il quale il sostegno pubblico dovrebbe essere indistintamente finalizzato all'intera economia), come l'impatto economico su settori contigui (per il quale si dovrebbe guardare non tanto all'impatto economico tout court, ma all'impatto differenziale rispetto a produzioni alternative) appartengono a una retroguardia filosofica che cerca giustificazioni ex post a un filone di intervento che ormai sarebbe difficile smantellare, sotto pena delle proteste del settore e in nome della effettiva garanzia democratica del pluralismo di espressione.
La fragilità della cornice filosofica si trasmette nei meccanismi operativi del finanziamento pubblico, anche per una sorta di timidezza regolamentare nei confronti di un settore che può sempre gridare all'intervento censorio. In altre parole, il legislatore e gli amministratori si guardano bene, per tradizione ormai consolidata, dall'introdurre meccanismi di valutazione delle scelte gestionali adottate dai produttori di spettacolo dal vivo, per paura di intrudersi surrettiziamente in quell'area di intoccabilità che è rappresentata dalle scelte artistiche e culturali.
Si può facilmente controbattere che, per quanto è del tutto indispensabile che le scelte artistiche rimangano assolutamente nell'alveo della libertà di scelta degli operatori, e per quanto esista certamente un'area grigia di intersezione tra scelte artistiche e scelte gestionali, vi è un'area sufficientemente delimitata e ampia di scelte meramente gestionali (la durata di uno spettacolo, la sua diffusione nel territorio, la sua ricaduta produttiva in una gamma di servizi informativi, etc.) in cui nessuno dei gradi di libertà di cui il produttore culturale deve godere rischia di essere messo in discussione se il settore pubblico stabilisce di far dipendere l'erogazione, l'ammontare o le modalità del sostegno pubblico da alcuni di questi parametri.
Il meccanismo attuale prevede una valutazione, per quanto generica e volatile, chiedendo ai candidati al sostegno pubblico una relazione sulla qualità artistica del progetto da realizzare. Il che non è proprio un'intrusione, ma somiglia all'approvazione paternalistica di un contenuto che sta certo al di fuori della competenza del settore pubblico stesso. D'altra parte, nell'evidente impossibilità tecnica e inopportunità politica di un vaglio di qualità, il settore pubblico si limita a prendere atto benevolmente di queste autocertificazioni del tutto soggettive, e risponde a un ventaglio di obiettivi generici e talvolta confliggenti finendo per garantire a tutti il viatico per la sopravvivenza finanziaria nel corso del prossimo esercizio.
In questo il finanziamento pubblico dello spettacolo, posto al servizio di obiettivi generici e confusi, privo di potere incentivante, non assistito da un sistema sia pure rudimentale di monitoraggio e sanzione, risulta più o meno uguale - nell'esperienza italiana - al finanziamento pubblico degli altri settori dell'economia, riducendosi a un elementare strumento microeconomico di sostegno del reddito finalizzato alla garanzia di sopravvivenza dei suoi destinatari.
Il quadro non è incoraggiante, se si pensa - in concreto - che attualmente il Fondo unico dello spettacolo subisce alterazioni annue irrisorie, mostrandosi uno strumento blindato sul piano quantitativo e destinato a sostenere una rigida continuità (con buona pace per gli sforzi autocertificatori dei produttori); che la mancanza di un efficace sistema di monitoraggio in corso d'opera, e la dimensione minima delle ispezioni effettuate, induce il legislatore ad anticipare la fase di controllo ponendo una incisiva barriera all'ingresso: si può accedere al finanziamento dimostrando che è indispensabile per sopravvivere soltanto dopo aver provato per un certo numero di anni di essere capaci di farne a meno. Soltanto chi abbia svolto attività continuativa per alcuni anni, mantenendo un elevato livello qualitativo e senza il contributo statale, può aver diritto al finanziamento del Fondo unico dello spettacolo nella generalità dei casi.
Forti barriere mummificano il sistema anche all'uscita, non già a causa dei forti costi non recuperabili che spesso caratterizzano il settore dello spettacolo, ma al contrario in forza della prassi secondo la quale se per un anno la sovvenzione pubblica diminuisce - ad esempio, per un calo occasionale nel volume delle attività realizzate - è praticamente impossibile che torni a regime in tempi rapidi una volta cessata la causa della sua diminuzione. Il che genera un fertile mercato clandestino dei borderò, con buona pace dei formalismi bizantini che tanto piacciono al legislatore dello spettacolo.
4. In attesa del sostegno finanziario privato
La sfasatura concettuale e operativa tra struttura dei mercati e meccanismi del finanziamento pubblico è palese, e la sua percezione diffusa. Tuttavia, invece di avviare una concreta riflessione che conduca in tempi ragionevoli a un ridisegno efficace del sostegno pubblico dello spettacolo dal vivo, il legislatore mostra di non sapersi staccare dagli attuali binari, e confida nella fonte di ultima istanza: l'impresa privata.
L'avvicinamento del settore culturale e dello spettacolo al settore privato è partito con lunghe e sinuose manovre, è tuttora in corso e sembra accelerare proprio nell'ultimo anno. Si è partiti da una generica "privatizzazione" che sostanzialmente mutava la forma giuridica di alcuni importanti enti pubblici operanti nel settore (prima gli enti lirici, poi gli Istituti per il dramma italiano e per il dramma antico, poi le istituzioni concertistico-orchestrali, la valanga di trasformazioni procede senza ostacoli).
Si è trattato, si tratta ancora di un processo di trasformazione esteriore, che lascia immutate le dimensioni, la struttura gerarchico-burocratica, i vincoli normativi e i contratti di lavoro, in una parola tutto l'impianto e il funzionamento di istituzioni che rimangono ampiamente sotto il controllo pubblico e dipendono fortemente dal finanziamento pubblico. Quello che c'è di privato è un modesto ingresso di alcune imprese che, a fronte di un conferimento patrimoniale contenuto, acquisiscono spesso un potere decisionale molto incisivo.
La seconda manovra di avvicinamento è rappresentata dalla commercializzazione di una serie di servizi, in più di un caso già messi a disposizione degli spettatori in vena di acquisti ulteriori, in forza di contratti di outsourcing che prevedono la perdita quasi totale del controllo sui prodotti da parte del produttore. Non vale l'obiezione che si tratta di mere riproduzioni o addirittura di testi critici, a fronte della centralità dello spettacolo sul palcoscenico che rimane di esclusiva pertinenza del produttore: per uno spettatore che abbia superato la smania rituale ottocentesca lo spettacolo è costituito da quello che avviene sul palcoscenico insieme a una gamma estesa e indefinita di prodotti a contenuto informativo che ne integrano il valore, accrescendolo.
Ulteriori manovre riguardano l'estensione dei servizi dei teatri, oggi più inclini a dare i propri locali in affitto per feste private ed eventi cittadini (il che va bene, nella misura in cui non condizioni o limiti la produzione ordinaria); oppure la ricerca di meccanismi di vendita più estesi nel territorio utilizzando come cassiere una struttura ramificata come ad esempio una banca (il che va altrettanto bene, senza condizioni) o un meccanismo virtuale come la rete informatica.
Ma il punto dolente di tutto questo corteggiamento nei confronti del settore privato sta nel finanziamento, che può assumere alcune diverse forme, dalla sponsorizzazione alla coprogettazione, dalla donazione liberale all'ingresso nel patrimonio delle istituzioni teatrali e musicali. In questo caso, i termini del problema non sembrano cambiare granché, dal momento che le trasformazioni societarie non forniscono di per sé alcuna garanzia ulteriore ai potenziali mecenati imprenditoriali dello spettacolo dal vivo.
Né giova a scardinare la tradizionale indifferenza delle imprese verso la cultura la previsione legislativa dell'esenzione fiscale integrale per chi eroga dei contributi alla cultura. Da solo, lo sconto sull'onere impositivo non va molto lontano, soprattutto in un'economia caratterizzata da un tessuto di piccole e medie imprese di derivazione familiare, da una bassa rilevanza del volontariato e della partecipazione, di una natura controversa e conflittuale dei rapporti tra comunità e territorio.
5. Le prospettive istituzionali
Le riflessioni sviluppate sopra mostrano un settore produttivo in notevole affanno. La situazione appare particolarmente grave in quest'ultimo anno anche a causa del peggioramento delle condizioni della finanza pubblica in un contesto internazionale di grande incertezza, e della parallela perdita di posizioni della cultura e dello spettacolo all'interno della gerarchia delle priorità governative.
L'impressione è che si vada verso una progressiva deresponsabilizzazione del governo centrale, che potrebbe tendere a trasferire le competenze in materia di spettacolo verso le istituzioni dei livelli inferiori, regioni ed enti locali, anche se tale tendenza sembra contraddittoriamente contrastata da un disegno accentratore proveniente dalla stessa coalizione governativa. Inoltre, le difficoltà congiunturali e le maglie rigide in cui la finanza pubblica è tenuta dai patti europei rischia di trasformare il Fondo unico dello spettacolo e la sua integrazione consistente nei proventi del lotto infrasettimanale in una sorta di salvadanaio d'emergenza cui fare ricorso in mancanza di alternative.
Le responsabilità, tuttavia, non possono ascriversi esclusivamente al governo o al legislatore (che in questo momento mostra un altro ordine di urgenze). Né possono ricondursi ad asseriti ammanchi di sensibilità da parte delle imprese private: se è desiderabile che i contributi societari alla cultura aumentino, non si può pretendere che le imprese si trasformino da unità produttive in enti di soccorso finanziario per altre attività private.
Gli operatori del settore (soprintendenti, direttori artistici, manager teatrali, etc.) aspettano che qualcosa succeda, e nell'attesa subiscono l'effetto di annuncio di voci incontrollate e di progetti di legge che, ormai da anni, tentano un ridisegno istituzionale; il dibattito - e i timori degli operatori - si sono di volta in volta concentrati sul tema della graduatoria tra teatri di rilevanza nazionale e locale, con la prospettiva di un declassamento simbolico di istituzioni maggiormente legate al proprio territorio di riferimento; o sul tema della separazione tra tutela e valorizzazione (meno rilevante, ma non senza strascichi nel caso dello spettacolo); o ancora su quello dei centri nazionali, proposti in diverse vesti più di una volta.
Si deve rilevare che, in attesa che legislatore e imprese comprendano che è arrivato il momento di mutare la strategia complessiva nei confronti del settore dello spettacolo dal vivo (ormai trasformato in un'industria multiforme con radici nel passato e con fertili tentacoli protesi verso la tecnologia diffusa), anche gli operatori dovrebbero chiedersi quali sono i passi possibili per avviare finalmente un adeguamento dello spettacolo dal vivo alla complessità dell'economia, in termini organizzativi e gestionali.
Tali passi dovrebbero essere fatti rapidamente ma non frettolosamente, e nel rispetto della compatibilità culturale del prodotto, ossia senza perdere gradi di pertinenza nel contenuto e nella qualità degli spettacoli realizzati e nella gamma dei prodotti integrativi offerta al pubblico degli spettatori. Al contrario, forse soltanto un incisivo adeguamento della struttura organizzativa e delle strategie produttive possono mantenere un livello sufficiente di qualità culturale, che verrebbe invece irrimediabilmente perduta nel caso in cui si volesse perpetuare l'attuale situazione di stallo.
L'introduzione graduale ma decisa di elementi di flessibilità gestionale, capace di snellire l'ossatura spesso pachidermica delle istituzioni culturali e di spettacolo e di finalizzarne le scelte in tempo reale ai molteplici obiettivi passa anche attraverso il rafforzamento della versatilità linguistica dei produttori di spettacolo, accentuandone per questa via la capacità di sperimentazione e di espressione e riuscendo a rivolgersi a fasce molto più ampie di spettatori.
Il consolidamento di rapporti duraturi e reciprocamente convenienti con le istituzioni politiche, sociali ed economiche operanti nel territorio, anziché privare i produttori di spettacolo di un blasone nazionale (come essi mostrano di temere) non farebbe che rafforzarne la capacità dialogica con una comunità di riferimento che deve essere il primo stakeholder delle attività culturali. Ciò contribuirebbe a rendere più evidente il senso di appartenenza e la percezione dell'identità, con ricadute favorevoli sul piano della partecipazione, del finanziamento, del sostegno volontario.
La scoperta - troppo a lungo rinviata - del proprio mercato, fatto da spettatori attuali ma anche e soprattutto da spettatori potenziali, che apprezzerebbero l'offerta culturale se solo venissero esposti ad essa con un minimo di pertinenza e di sistematicità, è la via maestra lungo la quale le istituzioni di spettacolo possono verificare, sintonizzare e accrescere la propria vocazione relazionale, interpretando il successo delle proprie produzioni come un risultato tanto sul piano culturale quanto su quello economico, e abbandonando la visione obsoleta e autolesionistica in base alla quale si cerca l'approvazione e il consenso di pochi iniziati in forza della sua valenza simbolica.
Questo spingerebbe il settore pubblico a rivedere gli obiettivi, i criteri e gli strumenti della propria azione di sostegno, in modo da poter intervenire efficacemente in quelle fasi della filiera produttiva in cui un apporto finanziario o materiale slegato da fini particolari può mostrarsi efficace. E convincerebbe le imprese private che l'instaurarsi di inedite complicità con il settore dello spettacolo può dare benefici a entrambi i versanti dello scambio, in un'ottica basicamente utilitaristica e senza orpelli etici.
E' chiaro che un simile ridisegno non passa soltanto attraverso uno sforzo di interpretazione ed elaborazione gravido di implicazioni tecniche ed economiche, ma va realizzato soprattutto con una svolta concettuale, che abbia ad oggetto il ruolo e le finalità di un settore quanto mai fertile in una società che si trasforma in cerca di nuovi indirizzi culturali.