La fruizione del patrimonio culturale
La fruizione del patrimonio culturale nell’era digitale: quale evoluzione per il “museo immaginario”?
Sommario: 1. Le riproduzioni di beni culturali e i diritti sulle immagini: il contesto di riferimento. - 2. Interesse pubblico e libertà private secondo il regime del “copyright digitale”. - 3. Il controllo sugli usi tra natura commerciale e non commerciale dell’attività. - 3.1. Il fondamento delle limitazioni: godimento pubblico, tutela del valore culturale, originalità e utilità economica delle riproduzioni. - 3.2. I regimi di privativa nell’uso delle immagini: quali benefici per i musei?. - 4. La promozione della cultura nell’era digitale: concessioni in uso vs open data. - 4.1. Analisi dei dati, funzioni e servizi pubblici. - 4.2. L’“eccezione culturale” nella nuova disciplina di utilizzo delle informazioni del settore pubblico. - 5. Quali sviluppi per un “accesso aperto” al patrimonio culturale?.
Cultural heritage use and accessibility in the digital age: What evolution for the “imaginary museum”?
The article focuses on issues related to the reuse of cultural heritage images and data owned by public bodies and in public domain. It examines the new regulatory framework following the enactment of recent EU legislation on both copyright in the Digital Single Market and open data and reuse of public sector information. The article also considers the premises and implications of limits envisaged on the use of cultural heritage images and data for commercial purposes.
Keywords: Cultural heritage images; Copyright; EU legislation.
1. Le riproduzioni di beni culturali e i diritti sulle immagini: il contesto di riferimento
Nell'ambito della missione che il museo contemporaneo è chiamato a svolgere, l'affermarsi delle tecnologie digitali stressa le dinamiche già complesse tra fruizione delle collezioni da esso custodite - anche in forma di riproduzione - e diritti e interessi di natura patrimoniale, connessi alla diffusione dei contenuti culturali [1].
Tuttavia, una sempre crescente dimensione "universale" del patrimonio culturale invita a riflettere sul regime delle riproduzioni e immagini di beni culturali. Ciò al fine di abbattere le barriere dell'accessibilità ai luoghi, promuovendone la conoscenza anche al di fuori del territorio nazionale e realizzando la visione di un "museo immaginario"; oltre che nell'ottica di avvicinare il pubblico dei visitatori alla cultura e alle sue manifestazioni, anche tramite l'offerta di nuovi contenuti [2].
È noto come la materia delle riproduzioni di opere d'arte, ma soprattutto di beni culturali, e del loro uso, sia soggetta ad un peculiare e a tratti complesso regime normativo, dato dal coordinamento tra la disciplina pubblicistica, dettata dal codice di settore, e quella privatistica, principalmente riconducibile alla legge sul diritto d'autore [3].
In tale contesto, preliminarmente, è opportuno distinguere tre diverse ipotesi. La prima è quella in cui l'opera d'arte sia sottoposta solamente alle norme sul diritto d'autore. La seconda è quella in cui la protezione sia garantita tanto dal regime di tutela della paternità dell'opera, quanto dalla disciplina prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. La terza è, infine, quella in cui l'opera non sia (più) sottoposta alle regole del diritto d'autore - e come tale rientri tra quelle in c.d. pubblico dominio - ma sia in ogni caso ascrivibile alla categoria dei beni culturali e, come tale, soggetta alla specifica disciplina del settore [4].
Pur con le dovute differenze, legate alla natura pubblica o privata del soggetto titolare del bene, nelle prime due ipotesi si applicano, rispettivamente, le norme civilistiche vigenti in materia di diritto d'autore e, laddove si tratti di beni culturali, anche quelle previste in materia di usi individuali - stabili o precari e strumentali - che prevedono il pagamento di canoni e corrispettivi di riproduzione in caso di utilizzazione del bene o della sua immagine a scopi lucrativi [5].
È la terza ipotesi però a destare maggiore interesse ai fini della presente analisi, per almeno due ragioni.
La prima è data dalla circostanza per cui la maggior parte dei beni culturali presenti sul territorio nazionale sono beni in proprietà pubblica e in pubblico dominio. In altri termini, in particolare per quel che riguarda le collezioni dei musei, si tratta di opere che - oltre ad essere sottoposte a regime demaniale - non sono (più) soggette alla disciplina del diritto d'autore, benché comunque tutelate secondo le regole previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. La seconda ragione riguarda le contraddizioni che da tale status giuridico talvolta derivano, soprattutto alla luce delle possibilità offerte dal digitale in termini di accesso, fruizione ed uso dei dati custoditi dagli istituti museali [6].
Nonostante le novità introdotte negli ultimi anni nell'ordinamento nazionale in favore della libera riproduzione e divulgazione delle immagini di beni culturali - seppure con le dovute limitazioni - alcune questioni restano ancora per lo più irrisolte. In particolare, queste ultime assumono rilevanza alla luce delle modifiche che interverranno, prossimamente, a fronte del recepimento della recente disciplina europea emanata in materia di diritto d'autore online e di riuso dei dati e delle informazioni, presenti in ambiente digitale, in possesso della Pubblica Amministrazione [7].
Più specificamente, emergono questioni su: quali siano le ragioni della (persistente) previsione di un regime concessorio o autorizzatorio per le riproduzioni di beni culturali in pubblico dominio, in consegna ad enti pubblici, se effettuate ad uso commerciale; quale sia il beneficio effettivo che gli istituti museali pubblici possono trarre dal regime dei c.d. canoni di privativa; quale sia la funzione delle misure di limite all'uso - o del principio tariffario ribadito dal legislatore europeo - dei dati relativi ai beni culturali in pubblico dominio, in possesso delle pubbliche amministrazioni; quali siano le modalità attraverso cui è possibile combinare la previsione di un libero accesso ai dati del settore pubblico con i limiti fissati dalla disciplina in materia di copyright.
Il tentativo non è quello di fornire una risposta compiuta - dato anche il continuo divenire della disciplina che interessa la materia - quanto piuttosto quello di contribuire a stimolare una riflessione più approfondita sul tema, anche attraverso l'osservazione delle scelte adottate dal legislatore europeo [8].
Pertanto, in primo luogo, si tracceranno i contorni della disciplina normativa che interessa i beni culturali in proprietà pubblica e in pubblico dominio, tenendo conto sia delle novità introdotte nella legislazione nazionale di settore, sia di quelle contenute nell'ultima direttiva europea in materia di copyright [9]. In secondo luogo, si individuerà il fondamento e l'attuale funzionalità della disciplina del principio tariffario - imposto per l'utilizzo a scopi commerciali di dati relativi ai medesimi beni - alle esigenze di fruizione pubblica degli stessi. Da ultimo, entrambi gli aspetti verranno raccordati alla nuova disciplina in materia di digitalizzazione, di libera circolazione e accesso ai dati del settore pubblico nello spazio giuridico europeo.
2. Interesse pubblico e libertà private secondo il regime del "copyright digitale"
Come è stato correttamente osservato, "il controllo sullo sfruttamento commerciale di un'opera o di un bene non più protetto da diritto d'autore viene fondato prevalentemente sulle prerogative derivanti dal diritto di proprietà sul bene riprodotto" [10]. Sulle tali premesse si basa, dunque, anche il controllo sull'uso successivo delle riproduzioni - anche digitali - generalmente realizzate sotto forma di immagini. È allora proprietario dell'immagine colui il quale sia titolare del bene mobile (o immobile, con riguardo agli edifici) riprodotto. Ciò salvo i casi in cui la stessa immagine sia stata realizzata da un terzo, il quale, per poterne usufruire a scopi commerciali, dovrà però comunque ottenere apposita autorizzazione da parte del titolare [11].
I soggetti pubblici perfezionano tale controllo attraverso lo strumento della concessione in uso del bene di cui sono proprietari o, più frequentemente, della sua riproduzione. Ciò al fine di garantirne la conservazione e la pubblica fruizione, oltre che di assicurarne la compatibilità con la rispettiva destinazione d'uso [12]. In ogni caso, è consentita l'ipotesi di affidamento in gestione a terzi del servizio di riproduzione delle opere, eventualmente attribuendo a questi ultimi pieni diritti di utilizzazione economica delle immagini [13].
Il canone di concessione in uso, come è noto, non è dovuto per le riproduzioni richieste dai privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, "purché attuate senza scopo di lucro" [14]. Inoltre, non sono dovuti né canoni, né corrispettivi di riproduzione - altrimenti previsti - per finalità di ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale, posto che si tratti di attività svolte "senza scopo di lucro" [15].
La disciplina relativa al libero uso (o riuso) dei contenuti citati rappresenta il frutto di almeno un decennio di produzione normativa da parte del legislatore sopranazionale, diretta ad incrementare l'impiego delle nuove tecnologie digitali e le loro potenzialità, anche in ambito culturale. In particolare, l'obiettivo è quello di migliorare la conoscenza in rete di materiali in pubblico dominio, insieme alla loro fruizione, promuovendo "un accesso più ampio possibile ai materiali digitalizzati" e un maggior riutilizzo degli stessi [16].
Malgrado nella visione originaria non emergano differenze tra la diversa natura degli scopi d'uso (commerciali o non), la normativa europea più recente in materia - seguendo l'impostazione prevalentemente adottata negli ordinamenti degli Stati membri - ha invece evidenziato una distinzione tra i due. È quanto previsto nell'ultima direttiva emanata in materia di copyright e diritti connessi nel mercato unico digitale [17].
In particolare, se da un lato, essa ha ampliato il panorama delle possibilità di scambio ed estrazione di dati tra istituti della cultura a livello trans-nazionale, consentendo l'utilizzo e la libera condivisione online delle riproduzioni di copie non originali di opere d'arte in pubblico dominio, anche per scopi commerciali; dall'altro ha manutenuto essenzialmente inalterato il principio tariffario quanto all'uso, per fini commerciali, di dati 'originali' conservati da istituti e luoghi della cultura pubblici, tra cui rientrano anche i musei. Un principio che sarà poi ribadito - come si vedrà in seguito - nel successivo aggiornamento della disciplina in materia di riutilizzo dell'informazione del settore pubblico, benché in tal caso non subordinato alla natura degli usi [18].
In altri termini, mentre, per un verso, si afferma un principio di libera utilizzazione e riproduzione dei contenuti, nel soddisfacimento dell'interesse pubblico alla più ampia fruizione ed accesso al patrimonio culturale e alle sue manifestazioni; per altro verso, invece, si consente al proprietario di rivendicare il proprio diritto al controllo degli originali - ancorché in pubblico dominio - laddove diffusi per scopi commerciali, limitandone così l'utilizzo a scopo economico, anche in assenza di pregiudizi per le possibilità di fruizione collettiva dei medesimi.
3. Il controllo sugli usi tra natura commerciale e non commerciale dell'attività
In tale ottica, sorgono allora alcuni interrogativi. In primo luogo, vale la pena chiedersi quale sia il fondamento della distinzione tra usi commerciali e non commerciali ai fini della divulgazione di contenuti relativi a beni culturali non più sottoposti alla disciplina del diritto d'autore, in possesso di soggetti pubblici e, soprattutto, se essa sia ancora ragionevole. Un secondo interrogativo è quello che riguarda la funzionalità della distinzione nell'espletamento del servizio pubblico essenziale di fruizione reso, in particolare, dagli istituti museali nazionali e quali siano (o possano essere) gli eventuali benefici apportati dalla previsione di un regime di privativa o tariffario per il riutilizzo di contenuti - anche digitali - relativi a beni culturali in pubblico dominio [19].
3.1. Il fondamento delle limitazioni: godimento pubblico, tutela del valore culturale, originalità e utilità economica delle riproduzioni
In generale, è stato evidenziato ormai da tempo come le limitazioni d'uso delle immagini in pubblico dominio abbiano talvolta un fondamento giuridico dubbio. Infatti, se da un lato la disciplina privatistica riconduce il controllo dei 'contenuti d'autore' al diritto alla paternità dell'opera e all'esercizio delle libertà economiche; dall'altro i limiti all'uso previsti da quella pubblicistica, dettati dal codice di settore in materia di beni culturali, traggono il proprio fondamento da esigenze di tutela o 'controllo' fisico e materiale della "cosa" [20].
Con riferimento al controllo pubblico, sono varie le ragioni giustificative individuate a supporto di tale previsione.
Secondo un primo punto di vista, in conformità con la disciplina tradizionalmente operante nell'ordinamento nazionale, è stato sostenuto che l'uso individuale dei beni culturali o delle loro riproduzioni - sia esso stabile o strumentale e precario - è soggetto a restrizioni, più o meno marcate, in quanto integrante una deroga rispetto all'ordinaria destinazione degli stessi al godimento pubblico [21]. Il controllo previsto è quindi funzionale a verificare che l'uso del concessionario - ancor più se a scopo lucrativo - sia "compatibile con la destinazione culturale del bene" [22].
Da un'altra prospettiva, è stato affermato che il controllo preventivo sulla compatibilità della riproduzione è volto a preservare il valore culturale che l'opera esprime, oltre che ad evitare usi impropri del bene che lo 'incorpora' a fronte di sfruttamenti economico-commerciali non consentiti [23]. In tale ottica, si aggiunge anche la tutela del diritto all'immagine - da tempo espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza civile - vantato dal soggetto o ente, anche pubblico, tra cui l'istituto proprietario del bene o che gode di diritti sull'immagine riprodotta [24].
Un terzo punto di vista è poi quello che ha riconosciuto nel controllo sugli usi una garanzia dell'"originalità" (truth) della riproduzione, secondo l'idea per cui "la disciplina (anche) pubblicistica della riproduzione dei beni culturali sembra trovare il proprio fondamento anche nella esigenza di assicurare una forma di controllo sulla autenticità e sulla 'veridicità' delle cose che costituiscono il patrimonio culturale" [25]. Una visione certamente ancora più attuale alla luce della distinzione, formulata dal legislatore europeo, tra 'originali' e 'copie' delle immagini di beni culturali in pubblico dominio [26].
Una quarta ed ultima prospettiva è, infine, quella che vede nel controllo sull'uso dei contenuti relativi ai beni culturali e nella disciplina concessoria un'opportunità di sostegno economico per una "politica di redditività del patrimonio culturale". In tale ottica, una rinnovata attenzione e maggiore impiego delle forme di concessione in uso dei beni culturali "può rappresentare un serio ed equilibrato punto di mediazione tra riserva della proprietà pubblica e sollecitazione dell'iniziativa economica privata" [27].
A prescindere dalla ratio giustificativa individuata come fondamento del regime di controllo della circolazione delle riproduzioni di beni culturali, quest'ultimo pare rappresentare, in ogni caso, un presidio necessario ad impedire la diffusione incontrollata di contenuti, agevolata oggi dall'immediatezza dello strumento digitale [28].
3.2. I regimi di privativa nell'uso delle immagini: quali benefici per i musei?
Del resto, i diritti di privativa, le autorizzazioni, le licenze d'uso fanno parte delle attività di gestione interna del museo e riguardano decisioni concernenti la realizzazione e l'utilizzo, anche in ottica remunerativa, delle immagini delle opere facenti parte delle collezioni [29].
Pertanto, anche se molte di queste ultime non sono più tutelate dal diritto d'autore (o non lo sono mai state) - in virtù della natura sostanzialmente demaniale o della destinazione al pubblico interesse (public benefit) di molti dei beni che le incorporano - la maggior parte degli istituti museali nazionali dell'area europea subordinano l'uso delle riproduzioni in favore di terzi a restrizioni, sotto forma di canoni o licenze.
È il caso, tra gli altri, di due dei principali musei londinesi, il British e il Natural History Museum, nei quali è adottato il regime di licenza "creative commons" e quello di "Open Government Licence" per l'uso delle immagini di proprietà del museo (o dei trustees), che subordina la condivisione dei contenuti pubblicati in rete al modello di "alcuni diritti riservati", non consentendo quindi a priori l'impiego degli stessi per usi prevalentemente commerciali [30]. Ancora, in Francia, il Louvre mette a disposizione online le riproduzioni delle proprie raccolte, ma ne vincola il riuso commerciale al rilascio di un'autorizzazione da parte del titolare delle stesse, che può essere individuato tanto nel museo - in quanto persona giuridica - quanto in terzi, che vantano diritti di esclusiva o, ancora, nella Réunion Nationale des Musées, responsabile della valorizzazione e diffusione delle collezioni conservate dai musei nazionali, organizzati in forma di services [31].
In tutti gli esempi citati resta, dunque, determinante la distinzione tra uso commerciale e non commerciale per la scelta del regime di utilizzo dei contenuti relativi ai beni culturali in pubblico dominio. Con riferimento all'uso per scopi non lucrativi, ormai anche in Italia, nella maggior parte dei casi, come precedentemente ricordato, la riproduzione è libera. Per il resto, gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni a scopi commerciali sono fissati con provvedimento dell'amministrazione concedente [32].
Esistono però anche casi in cui nessun canone di privativa o autorizzazione sono richiesti per il riuso delle immagini relative ad opere d'arte che fanno parte della collezione museale, a prescindere dallo scopo per il quale si intendano impiegare. In Europa il riferimento è al noto caso del Rijksmuseum di Amsterdam, a cui si aggiunge oltreoceano, insieme all'esperienza del Metropolitan Museum of Art di New York, anche quella del Getty Museum di Los Angeles [33].
Alla luce di tali sperimentazioni realizzate all'estero, oltre che dell'autonomia speciale attribuita ai principali musei nazionali e degli spazi pure aperti dalla normativa sovranazionale citata, pare allora utile riflettere su una rimodulazione dell'ambito di operatività delle misure di privativa, così come attualmente vigenti. Anche in ragione del fatto che gli introiti derivanti dai canoni di concessione in uso non sembrano di fatto aver inciso in maniera così significativa sul bilancio degli istituti, come sperato. Né un diverso riscontro si individua con riferimento agli altri musei in consegna allo Stato, alle regioni e agli enti locali [34].
4. La promozione della cultura nell'era digitale: concessioni in uso vs open data
Oltre alle ragioni della distinzione e alla sua utilità con riferimento ai musei, un terzo interrogativo riguarda poi la ragionevole esistenza di un discrimen tra usi commerciali e non commerciali in rapporto alla disciplina in materia di libero accesso e uso dei dati in possesso della Pubblica Amministrazione, che invece supera la distinzione, a fronte dell'avvio di un ampio processo di digitalizzazione della sua azione.
L'alternativa è infatti stata superata, in via generale, con riferimento al riutilizzo di informazioni e documenti in possesso di enti, imprese pubbliche e private che prestino servizi di interesse generale. I contenuti dovranno essere resi accessibili gratuitamente, a prescindere dagli usi a cui siano destinati [35].
Tuttavia, fanno eccezione le informazioni in possesso degli istituti culturali, tra cui i musei, per i quali resta valida la possibilità di chiedere un corrispettivo per la messa a disposizione dei propri dati, anche di "importo superiore ai costi marginali per non ostacolare il proprio normale funzionamento" e tenendo conto delle peculiarità di gestione del servizio [36]. Ciò malgrado un impiego aperto delle informazioni in possesso dei musei pubblici possa rivelarsi particolarmente rilevante per l'esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione, per la messa in atto di politiche pubbliche e, più in generale, per il perfezionamento delle attività che ciascun museo realizza [37].
4.1. Analisi dei dati, funzioni e servizi pubblici
Le raccolte di dati - e i relativi "metadati" - rappresentano, infatti, una "base" importante per i prodotti e i servizi "a contenuto digitale" e hanno un enorme potenziale nel contribuire all'innovazione e alla crescita economica anche in settori quali formazione e turismo [38].
Della stessa categoria fa parte anche quell'insieme di informazioni prodotte dai musei nello svolgimento delle proprie attività. In particolare, si tratta sia di opere preesistenti, replicate e conservate attraverso tecniche digitali e rese disponibili sul web; sia di 'nuove opere', create in conseguenza della trasposizione di beni materiali in forma di dati digitali, attraverso un'operazione "costitutiva" [39]; sia di quel complesso di contenuti e informazioni, che nascono da principio come realtà immateriali.
Con riferimento a questi ultimi, si evidenzia come i musei nazionali detengano "una notevole quantità di preziose risorse di informazione del settore pubblico", dal momento che "i progetti di digitalizzazione hanno moltiplicato la quantità di materiale digitale di dominio pubblico" [40]. Ne costituisce un esempio la raccolta e l'analisi dei dati prodotti dalle istituzioni, a livello locale e nazionale. In tal senso, un esperimento degno di nota è stato quello condotto dalla Regione Piemonte nell'ambito del progetto "Mèmora", al fine di favorire lo scambio di dati tra amministrazioni e di analizzare flussi precedentemente sconosciuti [41]. Allo stesso scopo, è stato di recente avviato, a livello nazionale, un piano triennale per la digitalizzazione da parte della Direzione Generale Musei, nell'ottica di adottare un sistema di raccolta e analisi dei dati per favorire i processi di valorizzazione e gestione degli istituti accreditati al sistema museale nazionale [42].
Del resto, l'incrocio e l'integrazione di banche dati, l'utilizzo di algoritmi e correlazioni, sono metodi già adottati dalle amministrazioni pubbliche in altri settori per produrre informazioni a fronte di una raccolta massiva di dati, al fine di assumere scelte puntuali o generali, ma in ogni caso 'predittive', per la cura di interessi pubblici. Esempi in tal senso si registrano in materia di strategia di programmazione e pianificazione di sistemi urbani (c.d. smart cities); di programmazione di risorse per la sicurezza pubblica; di regolazione dei mercati (c.d. cognitive regulation); o ancora, in ambito sanitario, per prevedere l'evolversi di malattie o epidemie, al fine di migliorare l'organizzazione del servizio [43].
In ognuna delle circostanze citate, attraverso lo studio dei dati raccolti si intende contribuire al miglioramento del servizio pubblico reso, favorendo l'assunzione di decisioni quanto più possibile coerenti e vicine alle necessità future e concrete dei cittadini. Il presupposto perché ciò avvenga è però quello di poter disporre di "dati aperti" o comunque liberamente accessibili, non soltanto per le amministrazioni pubbliche, ma anche per i privati che ne facciano richiesta, a prescindere dal fine ultimo del loro utilizzo [44].
4.2. L'"eccezione culturale" nella nuova disciplina di utilizzo delle informazioni del settore pubblico
Nonostante l'apertura mostrata in tale ambito dal legislatore europeo, ribadita anche di recente quanto alla possibilità di disporre di open data, in materia culturale restano però, come ricordato, delle eccezioni alle previsioni generali volte a favorire il libero accesso e riutilizzo dei dati in possesso delle pubbliche amministrazioni, ribadite dalla recente Direttiva n. 1024/2019 (c.d. Direttiva PSI-3), relativa all'utilizzo dell'informazione del settore pubblico.
La normativa è diretta ad ampliare ancora una volta - a distanza di non molti anni dalle previsioni introdotte dal FOIA - la materia dell'accesso alle informazioni in possesso di soggetti pubblici, dando un nuovo impulso al principio di trasparenza. Infatti, è la combinazione tra l'accessibilità e il riuso, insieme alla previsione di "dati aperti", che consente al cittadino di "disporre delle informazioni e dei dati e di impiegarli in accordo alle specifiche licenze di riuso, anche per fini ulteriori rispetto a quelli per i quali essi sono stati rilasciati, e dunque anche a fini d'impresa" [45].
Nell'aggiornare la legislazione precedente e fissando regole minime armonizzate per gli enti pubblici nazionali, la direttiva prevede il libero riutilizzo dei dati in possesso delle amministrazioni in favore delle persone fisiche o giuridiche che ne facciano richiesta, per fini commerciali o non commerciali. Malgrado ciò, dei limiti sono comunque previsti proprio in favore degli enti pubblici che siano chiamati a "generare proventi per coprire una parte sostanziale dei costi relativi alla prestazione di servizio pubblico", tra i quali figurano, fra gli altri, i musei [46].
Benché limitative, tali disposizioni sembrano, per la verità, coerenti con i limiti previsti dalla direttiva in materia di copyright sopracitata. Tuttavia, con riferimento alle immagini e alle riproduzioni di beni culturali, anche considerata l'entità dei proventi generati dai musei attraverso la riscossione dei rispettivi canoni, tale esclusione sembra incorrere nello stesso difetto di inefficacia, già evidenziato in precedenza. In ogni caso, l'impiego di strumenti più agili (simili a quelli delle licenze "creative commons") rispetto al controllo ordinariamente previsto, anche a tal fine, potrebbero rappresentare una valida soluzione.
5. Quali sviluppi per un "accesso aperto" al patrimonio culturale?
Le regole sulla riproduzione dei beni culturali attraverso immagini fanno capo ad un'antica dicotomia: quella che contrappone le pretese del titolare del diritto di proprietà sulla "cosa", alle istanze pubblicistiche di fruizione ed uso del "bene", tradizionalmente ritenuto testimonianza avente valore di civiltà [47].
Nel caso di inconsistenza del supporto materiale, sono già ben noti i numerosi problemi in ordine al rapporto tra la circolazione delle immagini (o, meglio, dei contenuti che esse esprimono) e la pluralità di posizioni giuridiche che sulle stesse insistono: dagli interessi pubblici alla promozione e sviluppo della cultura; alla tutela da utilizzi impropri o sfruttamenti economici incompatibili con la funzione e il valore culturale che interpretano; ai diritti di paternità dell'opera da parte dell'autore; fino alle prerogative riconosciute in favore delle istituzioni o enti che custodiscono o gestiscono tali beni e, tra gli altri, i musei [48].
È una questione che, come osservato, mostra tutta la sua rilevanza non tanto per quel che riguarda beni culturali protetti dalle norme in materia di diritto d'autore, quanto piuttosto con riferimento alle opere in pubblico dominio, non più garantite dal regime di tutela della paternità dell'opera, e appartenenti ad enti pubblici. Per queste ultime il codice di settore prevede limiti al libero uso delle immagini o, più in generale, delle riproduzioni. Le ragioni del controllo rispondono alla stessa logica che caratterizza i limiti alla circolazione di beni culturali materiali: l'intrinseca pubblicità che li connota e, pertanto, la loro funzionalità al soddisfacimento di un interesse pubblico di natura sociale. In particolare, si tratta di quello alla tutela del bene culturale e del suo valore, da trasmettere alle generazioni future, a cui si aggiunge la necessità di garantire l'originalità dell'opera stessa [49].
Tali limiti si scontrano però con l'immediatezza che contraddistingue oggi gli scambi in ambiente digitale e con la potenziale capacità, mostrata dalle nuove tecnologie, di raggiungere una fruizione "globale" del patrimonio culturale. Ciò ha allora contribuito a mostrare la debolezza della disciplina nazionale rispetto alle nuove istanze di libero accesso alla cultura, malgrado il progressivo 'alleggerimento' dei vincoli posti all'uso delle riproduzioni e, più in generale dei dati, inerenti a beni culturali in proprietà pubblica [50].
La libera diffusione di contenuti in ambito culturale e da parte dei relativi istituti è, comunque, attualmente prevista, per la gran parte, solo se supportata da motivi personali e non lucrativi o, secondo la recente normativa europea, qualora si tratti di copie di 'originali'. In quanto si è ritenuto comunque necessario preservare l'opera dallo sfruttamento indiscriminato del valore economico direttamente o indirettamente espresso dall'immagine riprodotta [51].
Con particolare riferimento ai musei, tuttavia, è stato osservato come esistano non solo casi in cui nessun canone o limite sia dovuto al riutilizzo dei dati (anche sotto forma di immagine) immessi in ambiente digitale - ove riferiti a beni culturali in pubblico dominio - ma anche circostanze in cui, sebbene non sia previsto un regime "aperto" di riuso delle immagini riferite ai medesimi beni, l'opzione è comunque quella di una restrizione 'moderata', secondo quanto previsto dalla disciplina delle licenze "creative commons".
In ambito nazionale, attualmente, sono ancora pochi gli istituti culturali pubblici (e privati) che utilizzano tali strumenti, tra questi si annoverano il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino e il Museo delle Grigne in provincia di Lecco. La soluzione fornita dalle licenze "creative commons" potrebbe però rappresentare una valida alternativa ai 'vincoli proprietari' alla diffusione delle immagini a scopi commerciali, benché abbia come principale limite quello di essere rimessa alla libera scelta dei singoli istituti, presupponendo quindi un certo margine di autonomia nell'organizzazione e gestione delle proprie attività da parte degli stessi, non ancora propriamente raggiunto dalla maggior parte dei musei pubblici nazionali [52].
Ancora, per quanto riguarda questi ultimi, non è stato esteso ad essi il regime di "accesso aperto" ai dati in loro possesso, tra cui quelli relativi ai beni culturali che ne compongono le rispettive collezioni, in deroga alla generale previsione fissata in materia di riutilizzo delle informazioni del settore pubblico.
In realtà, anche l'approccio piuttosto contenuto assunto dal legislatore europeo, si dimostra in linea con le tendenze ancora per lo più contrastanti con l'opzione in favore di un "accesso aperto" (open access) alla riproducibilità e diffusione di dati - e dunque anche di immagini - in materia di beni culturali, soprattutto se in proprietà pubblica. In ogni caso, le aperture mostrate tanto dalla direttiva in materia di diritto d'autore nel mercato unico digitale, quanto dalle norme di aggiornamento contenute nella direttiva in materia di riuso dei dati del settore pubblico, lasciano intendere, come è auspicabile, un potenziale maggiore ampliamento delle ipotesi di libera fruizione dei contenuti in materia di beni culturali in pubblico dominio.
In conclusione, al momento pare restare operante il regime dei canoni di privativa e l'applicazione di tariffari per l'uso di riproduzioni o dati relativi ai beni culturali in pubblico dominio, anche a prescindere dal fine commerciale o non commerciale per il quale essi siano impiegati. Tuttavia, possibili ulteriori sviluppi sono attesi sia nell'ambito del recepimento della normativa europea, durante il prossimo anno, sia a livello sovranazionale, visto il continuo perfezionamento e aggiornamento delle strategie per la digitalizzazione.
In ogni caso, rispetto al passato, l'oggetto suscettibile di uso o riuso da parte di terzi risulta ampliato e viene consolidato il ruolo fondamentale riconosciuto al patrimonio culturale - più in generale, della cultura - nello sviluppo socio-economico delle comunità.
Infatti, all'immissione nell'ambiente digitale di immagini o altri tipi di riproduzioni delle opere si aggiungono nuovi contenuti - sotto la generica forma di dati - i quali sempre più spesso sono rappresentati da informazioni originate come digitali. Queste ultime, laddove raccolte, analizzate e rese accessibili in forma 'aperta', si dimostrano in grado di condizionare non solo le decisioni assunte dalle istituzioni di governo o da quelle culturali, ma anche le scelte dei singoli. Inoltre, la centralità del valore di "uso" del patrimonio culturale, ribadita dalle convenzioni internazionali in materia, si concretizza nell'impegno a promuoverne la conoscenza come risorsa sociale ed economica in quanto fattore di sviluppo culturale, dando così voce alle visioni già espresse da Giovanni Urbani di non confinare il patrimonio culturale nel ruolo di "valore ideale", ma di renderlo "utilità" in favore della società [53].
Sarà allora interessante osservare come il legislatore nazionale gestirà il coordinamento, in sede di recepimento, della disciplina interna con quella comunitaria, considerata anche l'introduzione di un divieto di diritti esclusivi all'accesso e utilizzo delle informazioni e dati in possesso del settore pubblico, allo scopo di favorire la concorrenza tra gli operatori del settore. Esistono, infatti, numerosi accordi o partenariati tra istituti culturali museali e soggetti privati che prevedono la digitalizzazione di risorse culturali e garantiscono diritti di esclusiva a privati, la cui disciplina dovrà, pertanto, essere rimodulata [54].
Note
[1] Gli obiettivi e la funzione del museo descritti fanno capo a quanto fissato nella definizione che di "museo" da l'International Council of Museums (ICOM) nel proprio Statuto, cfr. art. 3, dell'articolo 3, sez. 1, dello Statuto ICOM, così come modificato a seguito della ventunesima Conferenza Generale del Consiglio, tenutasi a Vienna nel 2007 e attualmente in discussione a seguito delle proposte formulate nell'ultima Conferenza di Kyoto (maggio 2019). Sulle evoluzioni della nozione e i suoi significati, si v. V. Falletti, M. Maggi, I musei, Bologna, Il Mulino, 2012, pag. 12 ss., mentre sul ruolo e le funzioni del "museo contemporaneo", per tutti, si v. D. Jalla, Il museo contemporaneo: introduzione al nuovo sistema museale italiano, Torino, Utet, 2000.
[2] In tal senso, si dimostrano quanto mai attuali le 'rivoluzionarie' visioni di un museo "immaginario", aperto, interconnesso, in cui una varietà di opere, appartenenti a epoche e stili diversi fossero in grado di confondersi e contaminarsi a vicenda, allo scopo di creare nell'osservatore un continuo di alterne suggestioni, propugnate da A. Malraux, Le musée imaginaire (1965), Paris, Gallimard, 2016, pagg. 256-257. Sulla dimensione universale o "globale" associata al patrimonio culturale, per tutti, si v. L. Casini, La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2010.
[3] Il riferimento è alla legge 22 aprile 1941, n. 633, per un commento in merito alla quale, anche con specifica attenzione alle norme che riguardano le eccezioni e limitazioni al diritto d'autore (in particolare, artt. 70 ss.), si rimanda a L.G. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, Cedam, 2016.
[4] Vale la pena precisare che la proprietà dell'opera in questione, in tal caso, può essere tanto pubblica, quanto privata. Nel caso in cui sia privata, la disciplina applicabile è quella prevista in materia di tutela dei beni culturali in proprietà privata (artt. 10 e 29 ss., d.lg. 42/2004).
[5] Artt. 106, 107 e 108, d.lg. n. 42/2004.
[6] Per un'analisi della disciplina di tutela del diritto d'autore in rapporto alla materia dei beni culturali, tra le altre, si rimanda all'analisi di R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e paesaggistici, IV ed., Milano, Giuffrè, 2014, pag. 467 ss. Mentre per una più ampia analisi della disciplina giuridica in materia artistica, anche con riferimento alla pluralità degli interessi coinvolti, si v. G. Negri-Clementi, S. Stabile, Il diritto dell'arte. L'arte, il diritto e il mercato, vol. I, Milano, Skira, 2012, pag. 35 ss.
[7] Il riferimento alle novità introdotte a livello nazionale è alle modifiche apportate dalla legge annuale per il mercato e la concorrenza (legge 12 agosto 2017, n. 124), che ha portato a compimento le previsioni già introdotte all'interno del d.lg. 42/2004 (art. 108, commi 3 e 3-bis) dal d.l. 31 maggio 2014, n. 83 (c.d. decreto Artbonus), ossia la possibilità per i privati di riprodurre liberamente i beni culturali in consegna al ministero, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali. Per un'analisi della portata delle modifiche attuate, anche nella prospettiva degli effetti sulla disciplina del diritto d'autore, tra gli altri, si v. E. Sbarbato, Codice dei beni culturali e diritto d'autore: recenti evoluzioni nella valorizzazione e nella fruizione del patrimonio culturale, in Riv. Dir. ind., 2016, 2, pag. 63 ss.
[8] In argomento, infatti, esiste una consistente letteratura prodotta dai privatisti, rispetto alla quale, senza alcuna pretesa di esaustività, si segnalano i contributi di G, Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L'immagine dei beni tra property e commons, in Pol. dir., 2009, 4, pag. 567 ss.; Id., L'immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, (a cura di) G. Resta, Torino, Utet, 2010, pag. 557 ss.; L. Mansani, Proprietà intellettuale e giacimenti culturali, in AIDA, 2013, pag. 120 ss. Con riferimento alla letteratura anglosassone, in particolare nordamericana, si rimanda poi a R.A. Reese, Photographs of Public Domain Paintings: How, If at All, Should We Protect Them?, in Journal of Corporation Law, 2009, pag. 1033 ss.; K.D. Crews, M.A. Brown, Control of Museum Art Images: The Reach and Limits of Copyright and Licensing, in The Structure of Intellectual Property Law, (a cura di) A. Kur, V. Mizaras, Cheltenham-Northampton, Edward Elgar, 2011, pag. 269 ss., disponibile anche su https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2026476. In prospettiva pubblicistica, per tutti, si v. A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1; G. Gallo, Il decreto Art Bonus e la riproducibilità dei beni culturali, in Aedon, 2014, 3; M. Modolo, Promozione del pubblico dominio e riuso dell'immagine del bene culturale, in Archeologia e Calcolatori, 2018, fasc. 29, pag. 73 ss.; L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I 'pieni' e i 'vuoti' normativi, in Aedon, 2018, 3.
[9] Il riferimento è alla Direttiva 2019/790 del 17 aprile 2019, in materia di diritto d'autore nel mercato unico digitale (c.d. Direttiva copyright).
[10] Così P. Magnani, Musei e valorizzazione delle collezioni: questioni aperte in tema di sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale sulle immagini delle opere, in Riv. Dir. ind., 2016, 6, pag. 211 ss., qui pag. 219.
[11] In particolare, con riferimento alla c.d. libertà di panorama e riutilizzo di opere collocate in luogo pubblico e liberamente riproducibili, di recente, si rimanda ai contributi di V. Franceschelli, Digital market, diritto d'autore e "società dell'informazione a pagamento", in Riv. Dir. ind., 2015, 6, pag. 247 ss.; mentre in prospettiva pubblicistica e in rapporto al tema della riproduzione dei beni culturali e dei diritti di immagine, si v. L. Casini, "Giochi senza frontiere?": giurisprudenza amministrativa e patrimonio culturale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2019, 3, pag. 914 ss.
[12] Cfr. art. 106, comma 1, d.lg. 42/2004.
[13] La previsione risale alle norme fissate dalla legge 14 gennaio 1993, n. 4 (c.d. legge Ronchey), successivamente trasposte all'art. 117, comma 2, lett. a), d.lg. 42/2004, in base alle quali, tra gli altri, i servizi di riproduzioni possono essere affidati in concessione a soggetti privati, verso il pagamento di un canone di gestione stabilito dal ministero ai sensi del d.m. 8 aprile 1994, peraltro ancora in vigore, cfr. L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I 'pieni' e i 'vuoti' normativi, cit., oltre che G. Resta, L'immagine dei beni, in Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, cit, pag. 583.
[14] Art. 108, comma 3, d.lg. 42/2004, così come modificato dall'art. 12, d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. in legge 24 luglio 2014, n. 106.
[15] Art. 108, comma 3-bis, d.lg. 42/2004, così come modificato dall'art. 12, d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. in legge 24 luglio 2014, n. 106.
[16] Cfr. Raccomandazione della Commissione europea del 27 ottobre 2011 (2011/711/UE), cons. 5, lett. b).
[17] Il riferimento è alla Direttiva 2019/790/UE del 17 aprile 2019 sul diritto d'autore e i diritti connessi nel mercato unico digitale, che modifica le direttive 2001/29/CE e 96/9/CE, e che dovrà essere recepita in Italia entro il prossimo anno.
[18] Cfr. Direttiva 2019/790, artt. 3-4, 6 e 14 e cons. 8-18, 25-29 e 53. Il riferimento è poi all'aggiornamento avvenuto a seguito dell'emanazione della Direttiva 2013/37/UE del 26 giugno 2013 (c.d. Direttiva PSI-2), che modifica la direttiva 2003/96/UE, relativa al riutilizzo dell'informazione del settore pubblico (recepita in Italia con d.lg. 18 maggio 2015, n. 102), in base alla quale è stato "accolto il principio tariffario della normativa europea, precisando che i musei, archivi e biblioteche di appartenenza pubblica, laddove chiedano un corrispettivo per mettere a disposizione del pubblico i propri dati, non sono tenuti a limitare l'importo di tale corrispettivo ai costi effettivi sostenuti", così L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I 'pieni' e i 'vuoti' normativi, cit. A ciò si aggiunge la possibilità per le istituzioni culturali di concedere di diritti esclusivi di utilizzazione, se necessario per rispondere alle esigenze di digitalizzazione, la cui durata però non deve eccedere i dieci anni, cfr. Direttiva 2013/37/UE, art. 1, par. 9, lett. b.
[19] In argomento, si segnala lo studio di P. Bilancia, L'evoluzione del diritto alla cultura: la cultura come servizio pubblico essenziale, in Servizi pubblici, diritti fondamentali, costituzionalismo europeo, (a cura di) E. Castorina, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, pag. 475 ss. Mentre, per un'analisi più approfondita degli effetti prodotti dalla previsione del d.l. 146/2015, che modifica le previsioni della legge in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 146/1990), includendo i musei tra questi, tra gli altri, si rimanda ai contributi di C. Zoli, La fruizione dei beni culturali quale servizio pubblico essenziale, in Aedon, 2015, 3; G. Falasca, A. Recalcati, Il decreto Colosseo, le novità in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Guida lav., 2015, 39, pag. 31; P. Ichino, L'accessibilità ai musei e siti storici come servizio pubblico, Relazione svolta il 27 ottobre 2015 nell'ambito della Commissione Lavoro del Senato sul d.l. 146/2015; G. Orlandini, Prima nota sul decreto legge n. 146/2015, disponibile su www.cgil.it, 2015.
[20] La tematica è stata oggetto di approfondimento finora soprattutto da parte della letteratura americana in argomento, a cui si rimanda, segnalando, tra gli altri le riflessioni di K.D. Crews, M.A. Brown, Control of Museum Art Images: The Reach and Limits of Copyright and Licensing, in A. Kur, V. Mizaras (a cura di), The Structure of Intellectual Property Law, cit., 3 e di N.A. Silberman, From Cultural Property to Cultural Data: The Multiple Dimensions of "Ownership" in a Global Digital Age, in International Journal of Cultural Property, 2014, 3, pag. 365 ss.
[21] Art. 105, comma 1, d.lg. 42/2004.
[22] Così G. Corso, Art. 106, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 421 ss., qui pag. 422.
[23] Per il rapporto tra usi impropri e valore culturale immateriale del bene, si rimanda all'editoriale di L. Casini, 'Noli me tangere': i beni culturali tra materialità e immaterialità, in Aedon, 2014, 1, oltre che agli altri contributi pubblicati nello stesso numero della Rivista. Ancora sulla disciplina dei beni culturali immateriali in senso ampio, si v. T. Scovazzi, B. Ubertazzi, L. Zagato (a cura di), Il patrimonio culturale intangibile nelle sue diverse dimensioni, Milano, 2012.
[24] In particolare, il riferimento è alla sentenza Corte Cass., sez. I, 22 giugno 1985, n. 3769, nella quale si è affermato che "nell'ordinamento italiano sussiste, in quanto riconducibile all'art. 2 cost. e deducibile, per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome, il diritto all'identità personale, quale interesse giuridicamente meritevole di tutela, a non veder travisato o alterato all'esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale". Da ultimo, si v. poi Corte Cass., 16 aprile 2012, n. 4213, con nota di G. Resta, Le fotografie delle Catacombe e la proprietà intellettuale, in Dir. inf., 4/5, pag. 2012. Un esempio in tal senso è rappresentato dal c.d. 'affaire Bruneau' che ha interessato i Bronzi di Riace custoditi presso il Museo Nazionale Archeologico di Reggio Calabria, per la cui vicenda si rimanda a D. Sammarro, La valorizzazione del patrimonio culturale: il caso dei Bronzi di Riace, 27 giugno 2019, in Dottrina Oss., Osservatorio Corte Costituzionale, https://www.ratioiuris.it/la-valorizzazione-del-patrimonio-culturale-il-caso-dei-bronzi-di-riace/.
[25] Così L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I 'pieni' e i 'vuoti' normativi, cit., riprendendo la tesi sostenuta da J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property (1989), in Id., Thinking About the Elgin Marbles. Critical Essays on Cultural Property, Art and Law, London, Kluwer, II ed., 2009, pag. 142 ss.
[26] Nell'ordinamento nazionale, l'esigenza di garanzia dell'originalità è ben evidente nella disciplina prevista in materia di calchi, ai sensi dell'art. 107, comma 2, d.lg. 42/2004. Per una contestualizzazione della visione dello studioso americano nel contest dell'era digitale, per tutti, si rimanda poi al contributo di N.A. Silberman, From Cultural Property to Cultural Data: The Multiple Dimensions of "Ownership" in a Global Digital Age, cit., pag. 368.
[27] Così A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, Bari-Roma, Laterza, 2019, pag. 54 ss., qui pag. 55.
[28] Sui pericoli derivanti dallo sfruttamento (soprattutto economico) "indiscriminato" delle immagini di beni culturali, si rimanda alle conclusioni di G. Morbidelli, Il valore immateriale dei beni culturali, in A. Bartolini, D. Brunelli, C. Caforio (a cura di), I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche, Napoli, Jovene, 2014, pag. 176 ss. In senso parzialmente contrario, riconoscendo pure la valida utilità di un impiego in senso economico del valore indirettamente generato dal patrimonio culturale, si v. G. Severini, L'immateriale economico nei beni culturali, in Aedon, 2015, 3.
[29] Sulle attività concernenti la gestione interna di un museo, tra gli altri, si v. A. Robinson, E. Coffield, R. Mason, Museum and Gallery Studies: The Basics, London and New York, Routledge, 2018, pag. 54 ss.
[30] Per approfondimenti, si rimanda, rispettivamente, a https://www.britishmuseum.org/terms-use/copyright-and-permissions#re-use-of-images; https://www.nhm.ac.uk/about-us/website-terms-conditions.html.
[31] Cfr. https://www.photo.rmn.fr/Agence/Presentation, mentre, per un'analisi dei rapporti organizzativi e dello statuto giuridico dei musei nazionali inglesi e francesi, in confronto con quelli dotati di autonomia speciale in ambito nazionale, sia consentito rimandare a M.C. Pangallozzi, L'istituzione museale: effetti e prospettive di una conquistata autonomia, in Aedon, 2019, 1 e alla bibliografia ivi citata.
[32] Art. 108, comma 6, d.lg. 42/2004.
[33] Nei quali le immagini relative alle opere in pubblico dominio appartenenti alle loro collezioni sono in regime di "open access". In particolare, con riferimento all'"Open content program" promosso dal Getty Museum, cfr. https://www.getty.edu/about/whatwedo/opencontent.html, oltre alla la riflessione di G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati, in L'immateriale economico nei beni culturali, pag. 185 ss., qui pag. 226.
[34] I dati relativi ai ricavi ottenuti dalle concessioni ex artt. 106 e 107, d.lg. 42/2004, ottenuti negli ultimi anni dalle istituzioni museali sono puntualmente riportati da A.L. Tarasco, Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., 57 ss., il quale però evidenzia, al contrario - benché pure correttamente - come nonostante i numeri mediamente poco rilevanti, esiste una potenziale rilevante fonte di reddito in tale settore, subordinata però al corretto uso degli strumenti giuridici a disposizione.
[35] Direttiva 2019/1024, cons. 69 e artt. 6 e 14.
[36] Direttiva 2019/1024, cons. 38, così come già previsto dalla Direttiva 2013/37/UE del 26 giugno 2013 recepita con d.lg. 18 maggio 2015, n. 102.
[37] In tal senso, è stato sostenuto che la tecnologia digitale può essere impiegata dall'Amministrazione sia per l'esercizio di funzioni, che per la prestazione di servizi già esistenti, sia per esercitarne o prestarne di nuovi, eminentemente digitali (c.d. born digital functions), cfr. S. Rossa, Open data e amministrazioni regionali e locali. Riflessioni sul processo di digitalizzazione partenendo dall'esperienza della Regione Piemonte, cit., pag. 1129.
[38] Come pure sostenuto di recente da S. Rossa, Open data e amministrazioni regionali e locali. Riflessioni sul processo di digitalizzazione partenendo dall'esperienza della Regione Piemonte, cit., pag. 1129.
[39] Sulla natura "costitutiva" dell'"immissione" di un'opera d'arte in ambiente digitale, si v. P. Forte, Il patrimonio culturale digitale: un'enorme sfida per la comunità nazionale, in "Impresa Cultura" - Rapporto annuale Federculture, Roma, Gangemi Editore, 2018, pag. 297 ss. Sugli sviluppi relativi alla nozione di bene culturale, di recente, si veda poi A. Bartolini, Il bene culturale e le sue plurime concezioni, in Dir. amm., 2019, 2, pag. 223 ss.
[40] Cfr. Direttiva 2013/37/UE (c.d. PSI-2), cons. 15. Ad esso è riconducibile, tra gli altri, quello fornito direttamente o indirettamente dai visitatori all'indomani dell'introduzione di piattaforme digitali per l'accesso da remoto (e-portal), di strumenti come le applicazioni museali, i QR code e, ancora, dei più sofisticati sistemi di dialogo e di realtà aumentata, in grado di raccogliere dati sugli stimoli e gli interessi mostrati dall'utente durante la visita, reale o virtuale. Sulle potenzialità della valorizzazione del patrimonio culturale in termini di accessibilità e attrattiva attraverso l'impiego delle tecnologie digitali, di recente, si segnala la riflessione di R. De Meola, Riproduzione digitale delle opere museali tra valorizzazione culturale ed economica, in Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2019, 3, pag. 669 ss. In prospettiva anche economica, per una disamina dei nuovi strumenti e opportunità offerte dalla tecnologia applicata alla realtà museale, si rimanda ai contributi pubblicati nella rivista "Economia della cultura", 2018, 3.
[41] Con riferimento al progetto avviato dalla Regione Piemonte, oltre al commento di S. Rossa, Open data e amministrazioni regionali e locali. Riflessioni sul processo di digitalizzazione partenendo dall'esperienza della Regione Piemonte, cit., pag. 1128, per approfondimenti sulla ratio e sul funzionamento del progetto, cfr. https://www.regione.piemonte.it/web/temi/cultura-turismo-sport/cultura/ecosistema-digitale-dei-beni-culturali/memora. Mentre per i risultati dell'analisi effettuata svolta dalla società "Sociometrica", in collaborazione con l'Associazione no profit "Mecenate 90", si rimanda al report redatto all'esito dell'analisi è disponibile su https://www.sociometrica.it/sites/default/files/Musei_Index_cultura_e_big_data.pdf.
[42] Cfr. d.m. 19 luglio 2019, n. 892. Per un'analisi dei contenuti del Piano approvato dalla DG Musei, si v. http://musei.beniculturali.it/notizie/notifiche/piano-triennale-per-la-digitalizzazione-e-linnovazione-dei-musei.
[43] Sull'impiego dei c.d. big data e degli strumenti di analisi per l'assunzione di decisioni pubbliche e specificamente con riferimento al settore sanitario, M. Falcone, Le potenzialità conoscitive dei dati amministrativi nell'era della "rivoluzione dei dati": il caso delle politiche di eradicazione dell'epatite c, in Ist. Fed., 2017, 2, pag. 421 ss. Sul loro impiego per la costruzione di sistemi urbani tecnologici integrati, si vedano i contributi contenuti nella rivista Istituzioni del Federalismo, 2015, 4 e in particolare, anche in prospettiva comparata, E. Carloni, M.V. Pineiro, Le città intelligenti e l'Europa. Tendenze di fondo e nuove strategie di sviluppo urbano, pag. 865 ss.; J.-B. Auby, V. De Gregorio, Le smart cities in Francia, pag. 975 ss.
[44] Per approfondimenti sulla materia degli "open data" con riferimento al contesto nazionale e agli sviluppi che hanno connotato il settore negli ultimi decenni, tra gli altri, si rimanda a A. Rossato, Open data: origini e prospettive, in I beni comuni digitali, (a cura di) A. Pradi, A. Rossato, Napoli, 2014, pag. 105 ss.; F. Costantino, Open Government, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., Torino, 2015, pag. 272 ss.; F. Sciacchitano, Disciplina e utilizzo degli "Open Data" in Italia, in Riv. dir. media, 2018, 1, pag. 283 ss.
[45] Cfr. S. Rossa, Open data e amministrazioni regionali e locali. Riflessioni sul processo di digitalizzazione partenendo dall'esperienza della Regione Piemonte, cit., pag. 1123.
[46] Art. 6, comma 2, lett. b, Direttiva 2019/1024/UE.
[47] In particolare, sulle origini e l'incidenza del regime proprietario nei confronti della disciplina dei beni culturali, rimanda a F. Santoro Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in AA. VV. (a cura di), Studi per il ventesimo anniversario dell'Assemblea costituente, Firenze, Vallecchi, 1969; N. Greco, Stato di cultura e beni culturali, Bologna, Il Mulino, 1981; G. Rolla, Beni culturali e funzione sociale, in Le Regioni, 1987, 1-2, pag. 54 ss.; e da ultimo, S. Mabellini, La tutela dei beni culturali nel costituzionalismo multilivello, Torino, Giappichelli, 2016.
[48] In generale, con riguardo alle problematiche inerenti al tema della digitalizzazione dei beni e del patrimonio culturale, si segnalano in particolare contributi contenuti nel volume G. Morbidelli, A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico nei beni culturali, cit., e precisamente quelli di D. Mastrelia, Tecnologie e strategie per la valorizzazione dei beni culturali, pag. 167 ss. e di G. Pellicciari, La digitalizzazione della cultura tra interessi pubblici e privati. Il valore immateriale dei beni culturali, pag. 185 ss.; oltre che G. Finocchiaro, La valorizzazione delle opere d'arte on-line e in particolare la diffusione on-line di opere d'arte. Profili giuridici, in Aedon, 2009, 2.
[49] Art. 107, commi 1 e 2, d.lg. 42/2004.
[50] Realizzato, sulla spinta della disciplina sovranazionale, a partire dall'entrata in vigore del decreto c.d. Artbonus, d.l. 31 maggio 2014, n. 83, conv. in legge 24 luglio 2014, n. 106.
[51] In questo senso si dirigono anche le previsioni di legge nazionali che escludono il versamento di canoni per la riproduzione di beni culturali da parte dei privati, se richiesta "per uso personale o per motivi di studio", o da parte di soggetti pubblici o privati "per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro" (art. 108, comma 3). Sulla stessa scia, più di recente, si pongono le novità introdotte dal decreto c.d. Art bonus, che estendono la possibilità di fruire liberamente delle immagini di beni culturali, contribuendo a liberalizzare un'attività precedentemente sottoposta ad autorizzazione da parte della competente soprintendenza, sebbene nei limiti dell'uso a scopo di "studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale", secondo le modalità specificamente fissate per il tipo di riproduzione e comunque solo in assenza di finalità lucrative (art. 108, comma 3-bis).
[52] Per un'analisi più approfondita sulle possibili applicazioni delle licenze "creative commons" nell'ordinamento italiano, si rimanda a F. Virtuani, La proprietà intellettuale nell'era digitale: spunti critici e possibilità, in Design&culturalheritage. Archivio animato, (a cura di) F. Irace, Milano, Electa, 2014.
[53] Cfr. art. 1, Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore dell'eredità culturale (Faro, 27 ottobre 2005), sottoscritta dall'Italia nel 2013, ratificata nell'ottobre 2019 e di prossima adozione. Il pensiero è quello espresso da G. Urbani, Intorno al restauro (a cura di B. Zanardi), Milano, Skira, pag. 49 ss., richiamato anche da M. Montella, La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana, in La valorizzazione dell'eredità culturale in Italia, in Il Capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, supplementi, 2016, 5, pag. 13 ss. In argomento, tra gli altri, si v. L. Degrassi, La "fruizione" dei beni culturali nell'ordinamento italiano e comunitario, in Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, (a cura di) L. Degrassi, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 137 ss.; M. Montella, La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana, in La valorizzazione dell'eredità culturale in Italia, in Il Capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, supplementi, 2016, 5, pag. 13 ss.
[54] Direttiva 2019/1024/UE, art. 12 e cons. 49.