Patrimonio culturale e nuove tecnologie
Riprodurre il patrimonio culturale? I "pieni" e i "vuoti" normativi
Sommario: 1. Tre premesse storico-normative. - 1.1. Il dominio della materialità. - 1.2. Diritto del patrimonio culturale vs. diritto d'autore. - 1.3. Tutela vs. valorizzazione. - 2. Le regole (pubblicistiche) della riproduzione dei beni culturali. - 2.1. La disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio. - 2.2. Le norme europee sul riutilizzo dei dati e delle informazioni delle pubbliche amministrazioni. - 2.3. Usi commerciali vs. usi non commerciali: vero o falso dilemma? - 3. I problemi aperti: verso la libera riproduzione delle immagini?.
Reproducing cultural heritage? Regulatory "solids" and regulatory "voids"
The article
deals with the issues related to the digitization and reproduction of cultural
property. It examines the historical regulatory premises of this topic, the
rules established by the Italian and European regulations, and the problems
still open. The article illustrates the main dilemmas which mark the
relationships between new technologies, copyright and protection of cultural
property, such as the distinction between commercial and non commercial
purposes or the so called "freedom of panorama".
Keywords: Copyright;
Reproduction of Cultural Heritage; Digital Library; Public Sector Information.
1. Tre premesse storico-normative
È possibile o meno riprodurre un bene culturale? Se si considerano i profili storico-normativi e le origini della tutela del patrimonio storico e artistico, la risposta a questa domanda sarebbe negativa. Un bene culturale, in quanto tale, è irriproducibile, è un unicum, perché il risultato di un "sinolo" inscindibile tra supporto materiale e valore immateriale di cui esso è portatore [1]. Ma è proprio la necessità di trasmettere e diffondere questo valore che fa emergere il tema e il problema della riproduzione dei beni, strumento essenziale per promuoverne la conoscenza [2].
La disciplina della riproduzione dei beni culturali, perciò, è ancora oggi fortemente condizionata dai caratteri della normativa generale in materia di patrimonio storico e artistico [3]. In particolare, risulta possibile individuare almeno tre premesse di natura storico-normativa che tutt'ora influenzano le regole della riproduzione in Italia.
1.1. Il dominio della materialità
La prima premessa è rappresentata dal predominio della materialità e della coseità che ha sempre contraddistinto la legislazione delle cose d'arte, prima, e dei beni culturali, poi. Basta leggere le disposizioni sul divieto di trarre calchi, ancora oggi presenti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n. 42 del 2004, con riferimento alla "riproduzione di beni culturali". La disciplina del Codice è prevalentemente intrisa di materialità e incentrata sulla conservazione fisica del supporto. Non mancano, è vero, alcuni spunti che mostrano forme di attenzione anche verso la dimensione immateriale dei beni, per esempio con riguardo alla tutela del decoro, un concetto giuridico indeterminato di grande interesse e rilievo anche per le questioni legate alle riproduzioni. Ma è evidente che una normativa così costruita, ove non adeguatamente aggiornata, difficilmente può stare al passo con i tempi, soprattutto tecnologici. È sufficiente mettere in sequenza le disposizioni del 1913, del 1939 e del 2004 per rendersi conto della permanenza di questo tratto nella attuale legislazione italiana in materia.
L'articolo 7 del regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, che approvava il regolamento per l'esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364, e 23 giugno 1912, n. 688, relative alle antichità e belle arti, rimasto in vigore fino agli anni Novanta del XX secolo, stabiliva che "[è] in massima proibito di trarre calchi dagli originali di sculture e opere di rilievo in genere, siano in marmo o in bronzo o in terracotta o in legno o in qualsiasi altra materia. Normalmente i calchi si ritrarranno da gessi già esistenti negli Istituti artistici governativi o ricavando getti dalle matrici di cui gl'Istituti stessi sieno provvisti".
Più laconicamente, l'articolo 51 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, prevedeva, per un verso, che "[è] vietato di trarre calchi dagli originali" delle cose di interesse storico-artistico "di proprietà dello Stato o di altro ente o istituto pubblico"; e, per altro verso, che il "Ministro della pubblica istruzione, sentito il consiglio superiore delle antichità e delle belle arti o quello delle accademie e biblioteche, può autorizzare la esecuzione di calchi, qualora le condizioni dell'originale lo consentano".
Infine, l'articolo 107 del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, da un lato, precisa, al comma 1, che il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali "possono consentire la riproduzione, nonché l'uso strumentale e precario dei beni culturali che abbiano in consegna, fatte salve le disposizioni di cui al [successivo] comma 2 e quelle in materia di diritto d'autore". Dall'altro lato, al comma 2, stabilisce appunto che "è di regola vietata la riproduzione di beni culturali che consista nel trarre calchi, per contatto, dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti. Tale riproduzione è consentita solo in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale. Sono invece consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l'originale".
Dalla lettura di queste disposizioni affiorano sia il dominio della materialità, sia un certo timore di moltiplicare gli "originali". Tutto ciò, in qualche misura, evoca la necessità di tutelate quell'interesse pubblico che John Henry Merryman definì "truth" (traducibile qui con "autenticità" o "veridicità"), vale a dire "the shared concerns for accuracy, probity, and validity that, when combined with industry, insight, and imagination, produce good science and good scholarship" [4]. In sostanza, la disciplina (anche) pubblicistica della riproduzione dei beni culturali sembra trovare il proprio fondamento anche nella esigenza di assicurare una forma di "controllo" sull'originalità, sulla autenticità e sulla "veridicità" delle cose che costituiscono il patrimonio culturale.
1.2. Diritto del patrimonio culturale vs. diritto d'autore
La seconda premessa storico-normativa discende dall'inevitabile connessione che esiste tra disciplina del patrimonio culturale e diritto d'autore. Tale legame si rifletteva in origine anche nel parallelismo tra la soglia temporale dei cinquanta anni prevista, con finalità diverse, da questi due plessi normativi, soglia poi portata a settanta anni per il diritto d'autore e oggi di nuovo allineata a settanta anni anche per i beni culturali.
Vi è dunque una continuità temporale della disciplina, anche se cambia il titolo giuridico per esercitare diritti di privativa sulle riproduzioni di un'opera: ma una volta cessata la vigenza dei diritti (economici) d'autore, è giusto che un proprietario pubblico abbia diritti di "esclusiva" sulla riproduzione di un'opera divenuta bene culturale? Anche questa domanda, in realtà, non è nuova. Già Mario Grisolia, estensore della legge 1089 del 1939, scriveva, nel 1952, proprio con riferimento alle disposizioni sulle riproduzioni: "[e]cco dunque un altro interessante settore - caratterizzato dalla immaterialità della cosa - che sfugge alla corrente teorica dei beni pubblici, mentre è evidente che trattasi di beni con specifica pubblica destinazione. I suoi legami con il settore della tutela artistica sono incontestabili e ribadiscono la necessità di una revisione della tradizionale teoria della pubblicità dei beni" [5]. Né si possono dimenticare le significative diversità che esistono tra le differenti categorie di beni culturali: nel caso di beni archivistici e beni librari, per esempio, i punti di contatto e sovrapposizione tra le normative - diritto d'autore e riproduzione di beni culturali - sono ancora maggiori.
1.3. Tutela vs. valorizzazione
La terza e ultima premessa storico-normativa si riferisce al rapporto tra le due principali funzioni pubbliche affermatisi nel settore del patrimonio culturale negli ultimi decenni, vale a dire la tutela e la valorizzazione. Il forte ritardo che ha caratterizzato la definizione di istituti, procedure e mezzi propri della valorizzazione, in particolare, ha determinato poi all'improvviso, come spesso avviene, scelte troppo nette. È quanto avvenuto proprio per le riproduzioni, quando nel 1993 il legislatore si pose il problema, in occasione della c.d. legge Ronchey, e inserì il servizio di riproduzione dei beni culturali tra quelli da poter dare in concessione a soggetti privati. Da qui è scaturita l'idea che la riproduzione possa essere una fonte di reddito, in grado di assicurare introiti: non a caso, già nel 1994 è approvato dal ministero per i Beni culturali e ambientali il "tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalità per le concessioni relative all'uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero", tutt'ora in vigore [6].
Ma veramente alle istituzioni culturali conviene economicamente un regime di privativa a pagamento? Le risposte sul punto sono contrastanti. In Italia, le Gallerie degli Uffizi, per fare un esempio, possono mettere ogni anno in bilancio qualche centinaia di migliaia di euro, pari quindi a circa il 2% del proprio budget autonomo (oramai, nel 2018, vicino ai 30 milioni di euro). In altri casi, però, come il celebre esempio del Rijksmuseum ad Amsterdam, vige un'impostazione diversa, in cui la riproduzione è completamente libera ed esistono appositi strumenti messi a disposizione dal museo stesso [7].
2. Le regole (pubblicistiche) della riproduzione dei beni culturali
Predominio della materialità, rapporti contigui con la normativa in materia di diritto d'autore, difficile equilibrio tra tutela e valorizzazione (qui in un'accezione economica prima ancora che culturale), dunque, sono tre premesse storico-normative che è necessario tenere in debita considerazione quando si tentano di ricostruire i problemi legati alla disciplina della riproduzione dei beni culturali.
Le regole della riproduzione, perciò, sono strettamente collegate con quelle in materia di diritto d'autore e quelle sulla proprietà industriale [8]. In aggiunta, possono ben porsi anche importanti questioni relative alla protezione dei dati personali [9]. In questa sede, tuttavia, è utile soffermarsi sui profili più strettamente pubblicistici, ricavabili da due principali atti: da un lato, il Codice dei beni culturali e del paesaggio; dall'altro lato, il decreto legislativo n. 36 del 2006, come modificato con il d.lgs. n. 102 del 2015, che recepisce le direttive UE in materia di riutilizzo dei dati e delle informazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche (le c.d. direttive Public Sector Information-PSI).
Quali sono i limiti di queste normative? E quali opportunità offrono?
2.1. La disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio
Il Codice porta indubbiamente i segni del tempo. Sopra è già stato richiamato l'esempio dei calchi. Ma anche i tentativi di modifica della disciplina codicistica operati negli ultimi anni hanno evidenziato le difficoltà e le resistenze al cambiamento che emergono in tema di riproduzioni. Basta ricordare quanto avvenuto con le modifiche all'articolo 108, introdotte con il decreto legge n. 83 del 2014, il c.d. decreto-legge Art Bonus, che hanno reso libere le fotografie di beni culturali, anche con riguardo ai beni archivistici e librari. Ebbene, proprio per gli archivi e le biblioteche la modifica ha determinato immediatamente reazioni incontrollate, sotto diversi punti di vista: per un verso, i fautori del libero accesso hanno inteso la novità in senso estensivo, assumendo per esempio che l'intero contenuto di un libro dovesse essere liberamente fotografabile indipendentemente dalla normativa in materia di diritto d'autore (pur espressamente richiamata dalla legge); per altro, l'amministrazione preposta alla tutela dei beni archivistici e librari ha lamentato una difficile applicazione della nuova normativa ai libri e ai documenti, motivata da non ben precisate esigenze di conservazione.
Il "corto-circuito" provocato da queste contrapposizioni, probabilmente risolvibile con atti amministrativi quali circolari o direttive, ha portato il Parlamento, in sede di conversione del decreto-legge, a escludere dall'ambito di applicazione della disposizione i beni archivistici e librari. Tale esclusione ha inevitabilmente spostato l'ago della bilancia a favore dei "protezionisti", sicché i beni librari e archivistici sono stati sottratti interamente alla libera riproduzione, anche se svolta senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa o promozione della conoscenza del patrimonio culturale. Di conseguenza, un consistente numero di studiosi ha giustamente reagito, dando vita a un apposito movimento (Fotolibere), che dopo quasi 3 anni è riuscito a portare il Governo e il Parlamento, con la legge n. 124 del 2017, a modificare nuovamente l'articolo 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, riammettendo nell'ipotesi di libera riproduzione non lucrativa o per motivi di studio, ricerca, libera espressione, ecc., anche i beni librari e i beni archivistici, purché non sottoposti a restrizioni di consultabilità [10].
A seguito delle modifiche compiute nel 2014 e nel 2017, quindi, il Codice oggi stabilisce che "nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro" [11]. Inoltre, sono in ogni caso "libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità [...], attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l'esposizione dello stesso a sorgenti luminose né, all'interno degli istituti della cultura, né l'uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro" [12].
Si tratta di un notevole passo in avanti, soprattutto se si considerano le tre premesse storico-normative sopra illustrate che, comunque, in parte sono ancora rintracciabili. Permangono, infatti, quali limiti alla libera riproduzione, alcuni punti fermi: le esigenze di conservazione fisica del bene; la disciplina del diritto d'autore; il carattere non lucrativo delle attività rese libere (perché semmai è il proprietario pubblico che potrà commercializzare le immagini o comunque è a lui che spetta concederne eventuali usi a fini di lucro).
2.2. Le norme europee sul riutilizzo dei dati e delle informazioni delle pubbliche amministrazioni
La disciplina relativa al riutilizzo dei dati e delle informazioni delle amministrazioni pubbliche è importante perché, oltre a riguardare, dopo la Direttiva 2013/37/UE, anche musei, archivi e biblioteche (dapprima esclusi), ha stabilito la possibilità di applicare tariffe per il riuso dei dati - ivi incluse le immagini - conservati da queste istituzioni; tariffe che, nel caso di usi commerciali, possono essere anche maggiorate. Sono inoltre previste possibili convenzioni ad hoc, anche per favorire opportunità di digitalizzazione.
La Direttiva UE stabilisce, in sostanza, un principio tariffario per il riutilizzo dei dati delle pubbliche amministrazioni: è il prezzo per i costi di riproduzione e di messa a disposizione e che, nel caso di musei, archivi e biblioteche, può anche essere incrementato al fine di assicurare alle istituzioni un congruo utile sugli investimenti realizzati (per esempio per realizzare la digitalizzazione delle loro collezioni).
La Direttiva 2013/37/UE è stata recepita in Italia con il d.lgs. n. 102 del 2015, che ha aggiornato il d.lgs. n. 36 del 2006 di recepimento della prima Direttiva PSI del 2003. L'Italia ha così accolto il principio tariffario della normativa europea, precisando che musei, archivi e biblioteche di appartenenza pubblica, laddove chiedano un corrispettivo per mettere a diposizione del pubblico i propri dati, non sono tenuti a limitare l'importo di tale corrispettivo ai costi effettivi sostenuti. I criteri tariffari sono fissati con un decreto del Mibac, che a oggi, però, non è ancora stato adottato.
2.3. Usi commerciali vs. usi non commerciali: vero o falso dilemma?
Il tratto comune alle due discipline - quella del Codice e quella sul riutilizzo dei dati e informazioni delle pubbliche amministrazioni - è la distinzione tra usi non commerciali e non commerciali. E anche questo è un tema antico. Basta richiamare il regolamento del 1913, prima menzionato, che all'articolo 18 stabiliva che, ai fini della determinazione dell'ordine del turno per effettuare la riproduzione, la preferenza era data: "a) a chi non esegua fotografie per scopo di commercio ma a solo intento di studio; b) a chi, pure eseguendole per scopi di commercio, dichiari di obbligarsi a rinunziare ai diritti che possano competergli per la riproduzione con mezzi fotomeccanici dalla fotografie stesse, quando la riproduzione indicando il nome del fotografo, sia fatta ad illustrazione del testo in pubblicazioni edite in Italia e utili alla pubblica cultura".
La distinzione tra scopi commerciali e non commerciali, quindi, che la si condivida o meno, esiste nell'ordinamento italiano da molto tempo ed è anche in quello europeo (ed è un punto, questo, su cui la nuova Direttiva UE in materia di diritto di autore, adottata dal Parlamento europeo lo scorso settembre e ancora in fase di negoziazione, non interviene). Le novità tecnologiche sempre più portano a superare questa distinzione e a favorire forme integralmente libere di riproduzione per i beni culturali, specialmente se di proprietà pubblica. Vi sono anche casi dove non solo la riproduzione è totalmente libera, ma è addirittura possibile per gli utenti richiedere una risoluzione più alta delle immagini digitalizzate, come avviene con il Metropolitan Museum of Art di New York. Al di là di questioni ideologiche, entrambe le posizioni - mantenimento di un regime differenziato in relazione agli scopi della riproduzione, se commerciali o meno, oppure piena "liberalizzazione" - sono sostenute da validi argomenti. Diviene allora importante, soprattutto con riguardo all'Italia, alla sua storia e al suo ordinamento, mettere in luce alcuni aspetti.
In primo luogo, è sempre necessaria, prima di decidere quale regime applicare, una attenta valutazione economica dei margini reali di profitto per lo Stato. I dati degli Uffizi, per esempio, possono avere qualche rilievo, ma per gli altri istituti e luoghi della cultura? Nel caso del Museo Egizio di Torino, dal 2014 è stato adottato un sistema libero, in cui le immagini sono acquisibili e utilizzabili liberamente anche per fini commerciali, purché sia citata la fonte del Museo. A questa scelta - simile a quella effettuata in Olanda dal Rijksmuseum - si è giunti dopo aver valutato che una piena e libera diffusione del patrimonio egizio del Museo - il più importante in Europa - avrebbe recato vantaggi e benefici assai maggiori in termini di pubblicità e diffusione della cultura e della conoscenza rispetto agli esigui introiti derivanti dai pagamenti del canone di riproduzione.
In secondo luogo, va ricordato che l'amministrazione pubblica italiana non è ancora in grado - per competenze e per atteggiamento culturale - di dialogare alla pari con interlocutori quali i "colossi" della Tech-Economy, come Google o Apple (e, trattandosi oramai delle aziende più ricche al mondo, non è certamente solo un problema italiano). In questa situazione di squilibrio, è doveroso procedere con cautela. Ma la cautela non può e non deve portare ad accettare atteggiamenti "proprietari" da parte dello Stato, o addirittura di singoli funzionari: basta ricordare che gli archivi storici delle soprintendenze del ministero per i Beni e le Attività culturali mai sono stati versati negli archivi di stato oppure che la gestione delle banche dati nel settore dell'archeologia mai si è distinta per facilità di accesso e libertà di consultazione [13].
In terzo luogo, anche nel caso in cui si opti per abbattere ogni barriera alla riproduzione, inclusa quella basata sulla distinzione tra scopi commerciali e non, restano altre problematiche. Tra queste, vi è il tema della tutela del decoro e, astrattamente, anche quello del diritto morale sull'opera. Venuta meno l'autorizzazione alla riproduzione, ogni uso diventerebbe lecito e coerente con la tutela anche immateriale del bene culturale? Nel celebre caso del David di Michelangelo utilizzato a scopi pubblicitari da una società statunitense produttrice di armi, per esempio, non potrebbe esservi anche un tema legato alla incompatibilità dell'uso dell'immagine di un'opera d'arte con determinati scopi? Peraltro, proprio di recente il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso della Galleria dell'Accademia contro un'agenzia di viaggio che aveva utilizzato l'immagine del David per i propri mezzi pubblicitari (dépliant e sito web) senza aver chiesto la prescritta autorizzazione [14].
In quarto luogo, non va sottovalutato l'immenso valore simbolico del patrimonio culturale, anche evocativo, con evidenti ricadute economiche. Se così non fosse, non sarebbero così numerosi i tentativi di c.d. "domain-grabbing" - ossia una registrazione indebita di nomi a dominio per siti internet la cui titolarità spetterebbe legittimamente ad altri - operati da ogni parte del mondo a dànno delle istituzioni culturali italiane: basti citare il recente caso dell'indirizzo "uffizi.com", registrato negli Stati Uniti nel 1998 da una società del Liechtenstein attiva nella rivendita di biglietti. Le Gallerie degli Uffizi sono riuscite a farsi riassegnare nel 2018 il nome a dominio tramite la apposita procedura contenziosa regolata dalla Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy (UDRP) dell'Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN) e gestita dal centro per arbitrati e mediazioni dell'Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (OMPI) [15]. Ciò nonostante, la società ha poi citato in giudizio le Gallerie di fronte alla District Court dell'Arizona, reclamando la titolarità del nome a dominio - e giungendo a sostenere che l'espressione "uffizi" in italiano vuol dire "uffici" e dunque non potrebbe essere identificativo di alcunché... La causa è tutt'ora in corso. Queste vicende, però, offrono ulteriori argomenti a sostegno della necessità di considerare anche l'autenticità e la veridicità, la c.d. "truth", tra gli interessi pubblici relativi al patrimonio culturale e alla sua riproduzione.
3. I problemi aperti: verso la libera riproduzione delle immagini?
L'innovazione tecnologica ha oramai raggiunto un così alto grado di sviluppo e muta così velocemente che oggi è certamente difficile impedire una piena liberalizzazione della riproduzione dei beni culturali [16]. I rischi di intraprendere battaglie anacronistiche e senza margine di successo sono alti [17]. Allo stesso tempo, la disciplina della riproduzione riguarda anche altri aspetti importanti, legati alla stessa produzione artistica: si pensi alle problematiche del c.d. fair use di un'opera da parte di altri autori [18]. Inoltre, la riproduzione delle immagini, in connessione con il potenziale di polisemia e ambiguità delle opere, produce fenomeni culturali rilevanti, quali l'accomodamento, il riuso, sino alla manipolazione, che, per un verso, possono alimentare disinformazione e conflitti, ma, per altro verso, possono rivelarsi cruciali anche per la sopravvivenza delle opere stesse in contesti lontani da quelli che le hanno prodotte [19].
Gli argomenti storico-culturali a favore di una libera circolazione delle immagini sono quindi numerosi [20]. Ma, sotto il profilo giuridico, se sin dal 1913 si è distinto tra usi commerciali e non commerciali e se l'Unione europea continua a farlo ancora 100 anni dopo, non può non riconoscersi che si tratta di un tema radicato e certamente complesso. L'accordo quadro stipulato poco tempo fa tra la Direzione generale Musei del Mibac e la nota azienda Bridgeman Images s.r.l., come tutte le polemiche che ne sono seguite, mostra gran parte delle problematiche con cui bisogna misurarsi: in quel caso, pur trattandosi di un accordo senza diritto di esclusiva, le critiche rivolte all'amministrazione da parte della comunità scientifica sono state molto aspre.
Gli interventi normativi degli ultimi anni, soprattutto sotto l'aspetto organizzativo, hanno per fortuna contribuito a porre sempre maggiore attenzione sulle questioni legate alla riproduzione. La riforma dei musei statali e il loro emergere come istituzioni, dotate di direttori e organi di governo, ha spinto la Direzione generale Musei ad attivarsi per aggiornare il decreto sulle tariffe e comunque a vagliare anche le ipotesi di accordi come quello con Bridgeman Images s.r.l. Tra il 2016 e il 2017, inoltre, è stato avviato dal Mibac il progetto Digital Library, servizio attivo presso l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, per coordinare tutte le iniziative di digitalizzazione avviate dal ministero [21].
Naturalmente si può e si deve discutere quale sia il fondamento, nella teoria della proprietà (pubblica), di questo diritto dello Stato. E su questo il diritto pubblico è fermo forse a quanto scriveva Grisolia già nel 1952, nel senso che la questione mai è stata realmente investigata. Il diritto privato, invece, è più avanti, come confermano i diversi studi compiuti sul tema, anche con riguardo alla c.d. libertà di panorama che, come è noto, riguarda sia i beni culturali, sia i beni paesaggistici [22]. È dunque necessario che i gius-pubblicisti si misurino con le ragioni di fondo che possono giustificare il potere dello Stato o comunque del proprietario pubblico di limitare la riproduzione di opere su cui non vi sono più diritti d'autore. E qui l'interesse pubblico a quella "autenticità", che Merryman ben descriveva già negli anni Ottanta del XX secolo, potrebbe avere rilievo: esso rientrerebbe, in un certo senso, anche nel potere che lo Stato detiene di produrre certezza.
In conclusione, è utile richiamare quanto osservato all'inizio di questo scritto: anche il tema della riproduzione dei beni culturali, come altri, non può essere compreso se non lo si inserisce nell'ambito dei problemi che caratterizzano la disciplina generale del patrimonio culturale e delle sue regole. E i vuoti o le antinomie normative che possono rintracciarsi, in Italia, nella disciplina di questo settore discendono dalle premesse storico-normative sopra evidenziate.
Vi è, innanzitutto, un ritardo nel riconoscere e regolare le enormi potenzialità della dimensione immateriale dei beni culturali, anche alla luce delle nuove tecnologie [23]: un ritardo che spiega, in parte, le difficoltà del nostro ordinamento nell'accogliere nozioni o concezioni più estese di patrimonio culturale, come quella proposta dalla Convenzione di Faro [24]. In altri Paesi, anche se con tradizione comune nelle politiche dei beni culturali, la situazione è ben diversa: in Francia, per esempio, è attiva da oltre dieci anni l'Agence du patrimoine immatériel de l'État (APIE), creata a séguito del rapporto della Commission sur l'économie de l'immatériel [25].
Vi è, poi, l'esigenza di coordinare meglio la disciplina del diritto d'autore con quella delle riproduzioni, anche sotto il profilo terminologico. Né sembra che il legislatore europeo, con la direttiva ancora in fase di negoziazione, si sia posto seriamente questo problema.
Vi è, infine, ancora un ritardo nel riconoscere che la disciplina della riproduzioni non è un tema solo di tutela (anche del decoro), né certo soltanto di valorizzazione economica e redditività, ma è, innanzitutto, un tema di promozione dello sviluppo della cultura. E, anche in questo caso, non bisogna dimenticare le scelte del passato. Si discute molto, ancora oggi, se sia preferibile o meno assicurare una "libertà di panorama", ma, già nel 1913, la normativa italiana - ancorata all'impostazione costruita sulla protezione fisica delle cose - stabiliva che "le riproduzioni fotografiche all'aperto di cose immobili o mobili esposte alla pubblica vista sono libere a tutti" [26].
Note
[*] Questo scritto sviluppa e approfondisce la relazione svolta al Convegno su "La digitalizzazione del patrimonio culturale tra tutela e valorizzazione: virtù e criticità" (Roma, 3 maggio 2018), organizzato e promosso dall'OGiPaC-Osservatorio Giuridico sulla tutela del Patrimonio Culturale, istituito all'interno del Centro di eccellenza in diritto europeo della Università di RomaTre (https://www.ogipac.com).
[1] Era il 1936 quando Walter Benjamin rilevava che "anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l'hic et nunc dell'opera d'arte- la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova" (W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), trad. it. E. Filippini, Torino, Einaudi, 1966, pag. 22); per un'analisi dell'opera d'arte "in un'epoca postmodernista di riproduzione elettronica e di banche di immagini", si legga già D. Harvey, La crisi della modernità. Alle origini dei mutamenti culturali (1990), trad. it. M. Vezzi, Milano, Il Saggiatore, 1993, pag. 421 ss.
[2] Si v. A. Tumicelli, L'immagine del bene culturale, in Aedon, 2014, 1. Si legga anche A. Serra, Patrimonio culturale e fruizione virtuale, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Bologna, Il Mulino, 2010, pag. 223 ss.
[3] Un'interessante ricostruzione dell'evoluzione normativa in questa materia può trovarsi in M. Modolo, Promozione del pubblico dominio e riuso dell'immagine del bene culturale, in Archeologia e Calcolatori, 29, 2018, pag. 73 ss. In prospettiva più ampia, possono leggersi i saggi raccolti in G. Morbidelli e A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2016 (consultabili anche, in una prima versione, in Aedon, 2014, 1).
[4] J.H. Merryman, The Public Interest in Cultural Property (1989), in Id., Thinking About the Elgin Marbles. Critical Essays on Cultural Property, Art and Law, London, Kluwer 2nd ed., 2009, pag. 142 ss., qui pag. 163.
[5] M. Grisolia, La tutela della cose d'arte, Roma, Soc. Ed. Il Foro it., 1952, pag. 351.
[6] Si tratta del d.m. 8 aprile 1994.
[7] È il caso di Rijkstudio: https://www.rijksmuseum.nl/en/rijksstudio.
[8] Si v. A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Napoli, Editoriale scientifica, 2017, pag. 219 ss.
[9] A. De Robbio, Fotografie di opere d'arte: tra titolarità, pubblico dominio, diritti di riproduzione privacy, in DigItalia, 2014, 1, pag. 11 ss.
[10] Si v. https://fotoliberebbcc.wordpress.com. Sul punto, si v. anche M. Modolo e A. Tumicelli, Una possibile riforma sulla riproduzione dei beni bibliografici ed archivistici, in Aedon, 2016, 1, nonché M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera conservazione dei dati, in M. Serlorenzi e I. Jovine (a cura di), Pensare in rete, pensare la rete per la ricerca, la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico. Atti del IV Convegno di Studi SITAR (Roma, 14 ottobre 2015), in Archeologia e Calcolatori, suppl. 9, 2017, pag. 111 ss.
[11] Articolo 108, comma 3, d.lgs. n. 42 del 2004. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione concedente.
[12] Articolo 108, comma 3-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, nella versione modificata, da ultimo, dalla legge n. 124 del 2017.
[13] Si sofferma sulla libera circolazione dei dati in ambito archeologico M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera conservazione dei dati, cit., pag. 126, il quale rileva correttamente il "permanere di logiche proprietarie". In argomento, possono leggersi anche i contributi di A.M. Gambino e M.L. Bixio, I dati archeologici tra prerogative di tutela e istanze di accesso, in Archeologia e Calcolatori, 29, 2018, pag. 19 ss., e di V. Boi, Archeologia professionale fra diritto d’autore e accesso ai dati, ivi, pag. 41 ss.
[14] Trib. Firenze, ordinanza 25 ottobre 2017, R.G. n. 13758/2017.
[15] Si v. https://www.wipo.int/amc/en/domains/search/text.jsp?case=D2018-0166. Le Gallerie degli Uffizi, con altra procedura, hanno ottenuto la riassegnazione anche del nome a dominio "uffizi.org" (https://www.wipo.int/amc/en/domains/search/text.jsp?case=D2018-0167).
[16] Analizza il rapporto tra innovazioni tecnologiche e riproduzione dei beni culturali Anna Lazzaro, Innovazione tecnologica e patrimonio culturale tra diffusione della cultura e regolamentazione, in Federalismi.it, n. 24/2017, 20 dicembre 2017.
[17] Si v. l'iniziativa globale ReACH (Reproduction of Art and Cultural Heritage), avviata nel maggio 2007 dall'UNESCO e guidata dal Victoria and Albert Museum:
https://www.vam.ac.uk/research/projects/reach-reproduction-of-art-and-cultural-heritage#team.
[18] Questione molto dibattuta negli Stati Uniti: si v. A.M. Adler, Fair Use and the Future of Art, 91 N.Y.U. L. Rev. 559 (2016), la quale evidenzia le contraddizioni prodotte dalla giurisprudenza delle corti statunitensi in materia.
[19] Esempi interessanti di tali fenomeni sono in M.L. Catoni, C. Ginzburg, L. Giuliani e S. Settis, Tre figure. Achille, Meleagro, Cristo, Milano, Feltrinelli, 2013, nonché in C. Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Milano, Adelphi, 2015. Si leggano, sul tema, gli studi dello storico e critico dell'arte tedesco Aby M. Warburg (1866-1929), in particolare La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, Firenze, La Nuova Italia, 1966, e Id., Mnemosyne. L'atlante delle immagini, Aragno, Torino 2002. Nella letteratura italiana, S. Settis (a cura di), Memoria dell'antico nell'arte italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, 1997.
[20] A.M. Adler, Why Art Does Not Need Copyright, in 86 Geo. Wash. L. Rev. 313 (2018)
[21] Si v. il d.m. 23 gennaio 2017, "Servizio per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital Library dell'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione". La legge n. 145 del 2018 ha stanziato, per l’anno 2019, 4 milioni di euro per la digitalizzazione del patrimonio culturale (art. 1, comma 611; si tratta di risorse già in bilancio del Mibac, precedentemente destinate alla Card per i diciottenni).
[22] Per tutti, può leggersi G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L'immagine dei beni tra property e commons, in Politica del diritto, 2009, pag. 567 ss., cui si rinvia anche per la ricchezza dei riferimenti bibliografici e giurisprudenziali, anche in prospettiva comparata. Sulla c.d. libertà di panorama, si v. anche L.S. Faggioni, La libertà di panorama in Italia, in Dir. Industriale, 2011, 6, pag. 535 ss.
[23] In un contesto giuridico ancora poco attento alla dimensione immateriale del patrimonio culturale, si distinguono, oltre ai lavori di Tullio Scovazzi dedicati espressamente al patrimonio intangibile, gli scritti raccolti in G. Morbidelli e A. Bartolini (a cura di), L'immateriale economico dei beni culturali, cit.
[24] C. Carmosino, La Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, in Aedon, 2013, 1.
[25] Il rapporto, dal titolo L'économie de l'immatériel: La croissance de demain, e redatto da Maurice Lévy Jean-Pierre Jouyet, è consultabile all'indirizzo:https://www.ladocumentationfrancaise.fr/var/storage/rapports-publics/064000880.pdf. Sull'APIE, si v. https://www.economie.gouv.fr/apie.
[26] Articolo 16, secondo comma, r.d. n. 363 del 1913.