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Riflessioni in tema di governo delle città d'arte:
esigenze, obiettivi, strumenti [*]

di Angela Serra

Sommario: 1. Premessa: le esigenze e gli obiettivi delle città d'arte. - 2. Gli strumenti: le città d'arte come oggetto di riflessione normativa. - 3. Sulle "città d'arte": definizioni e disciplina. - 3.1. Le proposte di legge statali. - 3.2. Le leggi regionali. - 3.3. Le elaborazioni programmatiche. - 4. Segue: I centri storici. - 4.1. I centri storici come oggetto della disciplina urbanistica. - 4.2. I centri storici come oggetto di tutela paesaggistica. - 4.3. Proposte di legge statale sul recupero dei centri storici. - 4.4. Disegni di legge di riordino in materia urbanistica contenenti una disciplina specifica sugli insediamenti storici. - 4.5. Legislazione regionale di disciplina dei centri storici. - 5. Segue: Le città incluse nella lista del patrimonio mondiale Unesco. - 6. Discipline di settori diversi, che hanno ricadute sulle città d'arte: la disciplina dei beni culturali. - 6.1. La disciplina di tutela come fonte di poteri cogenti nei confronti di qualsiasi proprietario, anche pubblico. - 6.2. La gestione dei beni culturali di proprietà degli enti locali. - 6.3. La possibile alienazione dei beni culturali di proprietà degli enti locali. - 6.4. Esempi di strumenti di tutela utili alla conservazione dell'aspetto delle città d'arte. - 7. Segue: La permanenza delle attività storicamente esercitate. - 7.1. La normativa statale. - 7.2. Spazi e proposte regionali e locali. - 8. Segue: Orari degli esercizi commerciali. - 9. Segue: Contributi di ingresso e soggiorno. - 10. Segue: Tutela penale e sicurezza. - 11. Note finali.

1. Premessa: le esigenze e gli obiettivi delle città d'arte

Le "città d'arte" sono realtà complesse e composite, costituite da numerosi elementi, come i tanti fili che compongono una trama; su di esse confluiscono problematiche altrettanto complesse, che spaziano dalla tutela e conservazione del patrimonio culturale ai servizi legati all'accoglienza dei visitatori. Molti dei problemi e delle esigenze delle città d'arte sono vissuti anche dalla generalità delle città; sicurezza, smaltimento dei rifiuti, questioni legate alle trasformazioni urbane [1], carenza di risorse ne costituiscono solo un esempio. Di certo la loro unicità in quanto incarnazione di valori culturali, storici e artistici "aggrava" la gestione delle città d'arte da parte degli amministratori locali di una serie di servizi da rendere, attività da svolgere e costi che le "altre" città non comportano.

Le città d'arte presentano caratteristiche comuni e differenziate allo stesso tempo; altrettanto, quindi, sono soggette a problematiche ed esigenze in parte comuni e in parte diversificate.

Delle problematiche comuni fanno parte tutte quelle riassumibili nelle esigenze di coniugare la cultura, il turismo e le esigenze dei residenti: dai problemi legati alla convivenza tra residenti e turisti all'assorbimento del flusso turistico - mobilità, parcheggi -, dalle esigenze di salvaguardare la vivibilità dei residenti evitando la "musealizzazione" di parti del nucleo urbano ai problemi di degrado ecologico e ambientale legato allo sfruttamento eccessivo, fino alla primaria esigenza di conservazione delle opere, dei monumenti, degli spazi urbani e dei beni culturali contenuti in esse. A queste tematiche se ne aggiungono altre che presentano valenze più ampie e che si collegano alle necessità di preservare i territori ancora non edificati attraverso il recupero e la riqualificazione delle città e dei centri storici esistenti.

Vi è poi l'esigenza, opposta a quella di limitare o conformare lo sfruttamento eccessivo del tessuto urbano, rappresentata dall'interesse economico alla crescita del turismo e di tutte le attività industriali e commerciali connesse; il turismo rappresenta infatti una delle maggiori risorse dell'economia non solo dei singoli luoghi ma dell'intero Paese, in un'ambivalenza che ne fa da un lato linfa vitale per l'economia e dall'altro causa di possibile consunzione e degrado proprio dei beni e dei paesaggi che ne costituiscono la causa.

Ogni città presenta poi caratteristiche ed esigenze sue, specifiche e differenziate, che richiedono soluzioni calibrate e tarate sulle peculiarità delle singole realtà; si pensi ad esempio che il concetto stesso di città d'arte sembra poter prescindere dalla massiccia presenza di beni di particolare qualità storico-artistica, fondando magari la sua valenza culturale su forme espressive di "cultura vivente".

Molteplici appaiono anche gli obiettivi cui devono tendere la regolazione e il governo di queste realtà. In gran parte essi risultano scontati, come è per la protezione dei centri storici e dei beni culturali; altri, pur essenziali, non hanno ancora ricevuto un analogo riconoscimento normativo, come è per la ricerca del minor impatto negativo sui luoghi, per la maggior presenza di attività riconducibili alla tradizione e alla cultura.

L'importanza delle città d'arte si coglie appieno anche leggendone la funzione attraverso la lente dell'approccio sociologico. Esse sono oggi percorse dalle spinte contrastanti prodotte, da un lato, dalla globalizzazione - fenomeno che va la di là della crescente interdipendenza e somiglianza tra le diverse parti del mondo e che, pur prescindendo dalla spazialità fisica, trova il proprio luogo di espressione per eccellenza nelle città, in particolare nelle macro-città o città globali, in quanto punto di intersezione tra realtà globale (che vive attraverso le nuove tecnologie) e la realtà spaziale tradizionalmente intesa -, e dai tentativi, dall'altro lato, di recupero delle singolarità dei contesti locali volto ad arginare la definitiva scomparsa degli stessi all'interno delle dinamiche derivanti dalla globalizzazione [2]. Il contrasto a questo fenomeno, che produce la decontestualizzazione e quindi l'impoverimento ed estraniamento delle realtà locali, regionali e nazionali, non può che partire proprio dal recupero dei concetti di realtà locale, di "micro-siti", di "micro-ambienti"; il "ritrovamento della località" [3], dunque, deve tenere come base la valorizzazione dei territori e del valore identitario delle loro diversità.

Anche la Comunità europea si mostra sensibile alle esigenze di preservazione dei valori e delle espressioni culturali locali, come dimostra l'adozione delle Convenzioni sulla protezione e promozione della diversità culturale e sulla tutela del patrimonio culturale immateriale [4]; quest'ultima, in particolare, si pone come obbiettivo la protezione delle espressioni derivanti dalle tradizioni etno-antropologiche nazionali - dalle lingue dimenticate alle rappresentazioni rituali -, legate inscindibilmente ai luoghi ove esse si sono sviluppate. Difficile non cogliere in questi atti una finalità di sostegno a quei "particolarismi" costitutivi delle identità regionali e locali minacciati dai processi "omologatori" connessi alla globalizzazione.

Solo, dunque, un'azione di governo del territorio che miri a preservare e sostenere quei "valori" locali capaci di rilanciare i luoghi cui essi sono legati attraverso l'uso di quel vettore unico e ineguagliabile rappresentato dalla cultura può ambire a uno sviluppo dei territori che ne coinvolga gli aspetti sociali, economici e culturali insieme. Il territorio e il patrimonio di culture in esso inserito, il "fattore cultura", insomma, può infatti rappresentare la "risorsa" capace di rivitalizzare il sistema città e favorirne l'innovazione economico/sociale.

2. Gli strumenti: le città d'arte come oggetto di riflessione normativa

Nel nostro Paese manca un'organica disciplina sul sistema delle città d'arte che miri a rispondere alle esigenze comuni della generalità di esse [5]; vari disegni di legge che ne proponevano una regolamentazione si sono arenati in Parlamento. Nella produzione legislativa si sono invece stratificate e intrecciate diverse discipline aventi ad oggetto molti dei singoli aspetti che "compongono" tali realtà (dalle norme di genere urbanistico inerenti i centri storici a quelle sulla regolamentazione dell'esercizio del commercio o ancora alle norme sull'uso dei beni culturali). In molti casi, dunque, norme capaci di risolvere alcune delle difficoltà di tali città già esistono; sono però frammentate e spesso mal conosciute e poco applicate.

Il presente contributo intende ripercorrere, senza pretese di esaustività, i contorni e i significati delle diverse discipline emanate o solo proposte in tema di città d'arte, offrendo una sintetica "mappatura" degli strumenti giuridici che gli enti locali hanno finora potuto utilizzare nell'attuazione delle politiche di governo di tali città, valutando gli effetti della loro applicazione o disapplicazione, e degli strumenti che invece sono rimasti a livello di proposta.

Sullo sfondo rimangono, scontati, i temi, con cui la Carta fondamentale impone di relazionarsi di volta in volta per ciascun argomento oggetto di disciplina, della spettanza della relativa potestà legislativa - basata sul riparto indicato dall'art. 117 Cost. -, e dell'allocazione delle competenze amministrative - fondata sui principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza (art. 118, comma 1) -.

Per tracciare con ordine i contorni della riflessione e della produzione normativa sulle città d'arte si procederà seguendo le singole tematiche incidenti sulla loro regolazione, che possono essere divise in due principali filoni:

A) un primo filone concerne direttamente il concetto e le esigenze delle città d'arte o dei nuclei urbani ad esse assimilabili. All'interno di esso si possono distinguere:

- una riflessione, che si è finora arrestata a livello di proposte di legge, avente ad oggetto direttamente le città d'arte;

- vi è poi la risalente disciplina di regolamentazione urbanistica dei centri storici;

- una recente legge detta poi misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani inclusi nella lista del patrimonio mondiale protetto dall'Unesco; tra essi compaiono diverse città.

B) un secondo filone tocca, al contrario, tangenzialmente le città d'arte, disciplinando settori specifici la cui regolazione ha però ricadute anche forti su alcuni aspetti costitutivi delle città stesse:

- troneggia fra tali normative la disciplina di tutela e valorizzazione dei beni culturali, che in molti casi rappresentano l'elemento più rilevante delle città d'arte; al suo interno i temi che più immediatamente hanno ricadute sull'azione di governo sono quelli della gestione dei beni di proprietà degli enti locali e dei vincoli alla loro alienazione;

- vi sono stati poi interventi normativi e giurisprudenziali sulle attività, in particolare commerciali, esercitate o esercitabili nelle città e sulla permanenza delle attività che storicamente vi si svolgevano;

- sempre in tema di attività commerciali, vi è la normativa speciale in tema di orari di apertura e di chiusura dei negozi nelle zone a vocazione turistica e nelle città d'arte;

- rimasti al livello della proposta normativa, figurano il tentativo di introdurre contributi "di ingresso e soggiorno", gravanti sui visitatori delle città d'arte, e la proposta inerente norme di tutela penale e sicurezza riguardanti specificamente tali città.

Gli "oggetti" di riflessione normativa elencati, dunque, si trovano in differenti "stadi" di produzione. In alcuni casi esistono leggi statali, recenti o risalenti, e/o leggi regionali; in altri casi la riflessione si è arrestata a livello di proposte di legge o sono stati prodotti unicamente documenti programmatici di valore culturale ma non normativo. In altri casi ancora si hanno pronunce giurisprudenziali che hanno chiarito i limiti entro cui la regolazione statale o regionale può esercitarsi legittimamente.

In questo intreccio di temi e di fonti, si darà conto solo dei contenuti che presentano ricadute forti sul sistema di governo delle città d'arte, oggetto del nostro studio. Altri temi teoricamente incidenti sulla loro regolazione ne rimangono dunque al di fuori; tra essi quello del turismo - la cui competenza legislativa appartiene alle regioni in quanto materia regionale "residuale" ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost. - e quello della "qualità architettonica", su cui è stato presentato un progetto di legge finalizzato alla promozione della qualità dell'architettura e del progetto architettonico e urbanistico.

Si daranno per scontate, poi, le norme generali sull'azione amministrativa, ossia le norme che gli enti pubblici territoriali qualificabili come città d'arte applicano nel loro agire. Tra esse meritano un richiamo la disciplina degli istituti in cui si concretizza il principio di leale collaborazione o cooperazione - la programmazione negoziata e concordata della gestione del territorio e la concertazione tra amministrazione statale e amministrazioni locali sembrano infatti rappresentare il punto di tenuta dell'intero sistema di governo dei territori su cui insistono beni e interessi che vedono intrecciarsi le competenze dei diversi livelli di governo - e i programmi per la valorizzazione dei beni pubblici proposti dalle ultime due leggi finanziarie [6] - il "Piano di valorizzazione dei beni pubblici per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali", che può essere proposto dal ministero dell'Economia e delle Finanzia di concerto con il Mbac per incentivare i processi di sviluppo locale attraverso il riuso e il recupero di immobili pubblici situati nei centri cittadini; sulla base delle sua indicazioni, poi, regioni ed enti locali, d'intesa con Mef e Mbac, promuovono i "programmi unitari di valorizzazione" per programmare congiuntamente le modalità di recupero e riqualificazione dei complessi immobiliari interessati -.

3. Sulle "città d'arte": definizioni e disciplina

3.1. Le proposte di legge statali

Il tema delle città d'arte è da decenni al centro di studi e riflessioni che hanno in alcuni casi portato all'elaborazione di proposte (statali) di disciplina, sempre arrestatesi a livello di progetto di legge.

Varie proposte di definizione della "città d'arte" si sono susseguite nel contesto non normativo dell'analisi dei dati sui flussi turistici, nelle diverse proposte di legge statale e in alcune leggi regionali di disciplina di tutela e/o valorizzazione delle stesse. In esse si può leggere l'ambivalenza di tale concetto, che da un lato sembra dover poggiare sulla densità di testimonianze storico-artistiche e dall'altro sembra poi poterne prescindere, potendo ambire a tale qualificazione anche luoghi che si pongono più come città "di cultura" che di "arte"; il "sentire" della collettività, il carattere simbolico, rappresentativo e identitario, così, ne rappresentano il tratto imprescindibile, al di là della quantità e del valore dei beni culturali contenuti in esse [7].

Quanto alla disciplina, a livello normativo statale le uniche disposizioni sulle città d'arte che hanno visto la luce sono state diverse "leggi-provvedimento" finalizzate a dare risposta alle esigenze di singole e importanti realtà (da Todi, Orvieto e Assisi a Urbino, Venezia, Roma e Lecce).

Numerosi sono stati poi i disegni di legge presentati in Parlamento per la disciplina delle città d'arte, anche se non sempre denominate con tale locuzione. Tra essi si ricordano:

a) Disegno di legge Senato n. 367/1996, Norme per la tutela delle 'città d'arte' (iniz. Passigli), che prendeva in considerazione il problema della conservazione, del restauro e della valorizzazione del patrimonio culturale concentrato in alcune città "universalmente riconosciute come sedi privilegiate dell'arte e della cultura" [8], ove spesso la consunzione riguarda "non solo singoli beni culturali ma veri e propri 'comparti' (centri storici, quartieri e complessi monumentali)". Il ddl proponeva non tanto una regolazione delle città d'arte quanto un sistema concordato di finanziamenti e agevolazioni agli interventi conservativi, affidato allo strumento dell'accordo di programma tra comune, regione e ministero; esso si poneva dunque come una "legge di procedure" improntate al principio di cooperazione.

b) Disegno di legge Camera n. 4015/1997, Norme per le città storiche (iniz. Veltroni), che fu giudicato "culturalmente avanzato" e perfettamente inserito nel contesto di riforma dell'amministrazione che si stava svolgendo nel periodo in cui il ddl fu elaborato, come traspare dallo spirito di sussidiarietà e collaborazione tra livelli di governo cui tutto il ddl è improntato. Per "città storica" si intendeva "quella che, con la stratificazione dei suoi monumenti e dell'intero tessuto urbano, rispecchia esemplarmente il processo evolutivo storico, antropologico, culturale e artistico di cui è stata protagonista'" [9]; l'oggetto andava dunque al di là del centro storico, "ricomprendendo anche parti del tessuto urbano diverse, se portatrici di un interesse storico, artistico, architettonico, ambientale" [10].

Presupposto applicativo della disciplina era la perimetrazione dei "centri, quartieri e siti" a valenza storico-artistica, di competenza comunale. Un ruolo prioritario, sotto il profilo organizzativo ed economico, veniva infatti assegnato ai comuni, in linea con il principio di sussidiarietà verticale che nello stesso anno di presentazione del ddl culminò con l'adozione delle prime due cosiddette "leggi Bassanini". Veniva in ogni caso riconosciuto il ruolo dell'amministrazione statale preposta alla tutela dei beni culturali, attraverso la richiesta alle soprintendenze della "conformità della perimetrazione alla estensione del patrimonio storico urbano". Ancora, ai comuni spettava l'adozione del programma degli interventi per la salvaguardia dei centri, quartieri e siti di interesse storico-artistico presenti nel territorio, obiettivi che non dovevano focalizzarsi meramente su interventi conservativi sul patrimonio culturale, ma anche sulla "qualità e le caratteristiche architettoniche, cromatiche e dei materiali dell'ambiente urbano nei suoi spazi pubblici e privati" "e in ogni altro elemento incidente sull'immagine urbana, nel rispetto dei caratteri originali e tradizionali" [11].

Negli anni successivi, i progetti di legge presentati in tema sono stati sostanzialmente ripropostivi dei due sopra richiamati oppure calibrati su singole realtà o categorie.

3.2. Le leggi regionali

Diverse sono state le leggi regionali contenenti un'organica disciplina per la valorizzazione delle città d'arte. Tra esse si segnalano:

a) Legge regionale Molise 26 aprile 2000, n. 30, Norme per la tutela e la valorizzazione delle 'città d'arte' del Molise, incentrata su finalità di promozione e salvaguardia delle città "il cui patrimonio culturale, architettonico ed artistico sia di rilevante importanza, attraverso l'attribuzione della qualifica di 'città d'arte del Molise' e l'iscrizione nell'apposito registro" (art. 1), che viene deliberata da un Comitato scientifico composto da "esperti" designati da regione (in specie, dal Consiglio), province e altri soggetti indicati dall'art. 3.

Gli obbiettivi della legge sono la valorizzazione dei beni e la promozione del turismo, ma anche la "vitalità socio-economica, nel quadro del piano di sviluppo regionale e dell'assetto territoriale della regione" (art. 1, comma 2). Le competenze sono divise tra comuni, cui è assegnato un ruolo centrale, e regione (art. 4).

b) Legge regionale Veneto 16 giugno 2003, n. 15, Norme per la tutela e la valorizzazione delle 'città murate del Veneto'. Il Veneto aveva già emanato una legge in materia di turismo, che trattava delle città d'arte, nel 1994 [12]. Con la legge del 2003 la regione "promuove la realizzazione di interventi finalizzati alla valorizzazione dei contesti urbani caratterizzati dalla permanenza di cinte murarie urbane e di opere di fortificazione connesse" (art. 1).

3.3. Le elaborazioni programmatiche

Al di là dell'attività legislativa, compiuta o solo proposta, non sono mancate profonde riflessioni sul tema, tra cui merita di essere segnalata l'iniziativa volta ad elaborare una sorta di statuto delle città d'arte europee, sfociata nella Carta di Firenze, statuto per le città d'arte d'Europa presentata il 19 gennaio 2000 [13]. Essa rappresenta il tentativo di elaborare una disciplina specifica per le città d'arte, finalizzata alla preservazione delle caratteristiche materiali, da un lato, e all'acquisizione di una nuova vitalità economica attraverso la valorizzazione dei beni culturali, dall'altro. Nella Carta viene, al di là dei temi più scontati legati alla tutela e valorizzazione del patrimonio, sottolineata l'importanza della funzione residenziale e abitativa delle città d'arte ed in particolare del loro nucleo storico-monumentale, oltre alla rilevanza della necessità di incentivare l'apporto di capitali privati nel ripristino e nella gestione delle città.

4. Segue: I centri storici

4.1. I centri storici come oggetto della disciplina urbanistica

Si potrebbe dire che il concetto stesso di "centro storico" risponda all'esigenza di conservazione della materialità di quegli agglomerati urbani che da un punto di vista culturale corrispondono alla città d'arte. Esso, infatti, è stato storicamente utilizzato solo all'interno della disciplina urbanistica, la quale è pervasa dalla prospettiva conservativa, dunque finalizzata a obiettivi di gestione del territorio in un'ottica di recupero edilizio conservativo [14]. I due oggetti di normazione, centri storici e città d'arte, paiono differenziarsi non tanto per diversità obiettive esistenti tra i due concetti, quanto nel fine della disciplina che li concerne: finalità di conservazione degli elementi strutturali e materiali di un insediamento nel primo caso e vitalità, vivibilità e conoscibilità delle città ricche d'arte e di cultura nel secondo.

La prima definizione normativa dei centri storici risale alla "legge ponte", legge 6 agosto 1967, n. 765, disciplina di tutela urbanistica dei centri storici, che avrebbe dovuto poi essere superata da una disciplina organica in tema; essa definiva il centro come ogni "agglomerato urbano che riveste carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale". Si nota quindi come all'interno della normativa urbanistica il centro storico sia un concetto incentrato sui beni e, elemento rilevante, su beni non necessariamente culturali; la circolare del ministero dei Lavori pubblici del 28 ottobre 1967, n. 3210, chiariva tale punto specificando che essi potessero essere costituiti anche da "strutture urbane in cui la maggioranza degli isolati contengono edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche in assenza di monumenti o di edifici di particolare valore artistico, ...strutture urbane racchiuse da antiche mura in tutto o in parte conservate, ivi comprese le eventuali propaggini esterne, ... strutture urbane realizzate anche dopo il 1860, che nel loro complesso costituiscono documenti di un costume edilizio altamente qualificato". Successivamente, il decreto del ministro per i Lavori pubblici n. 1444/1968, in attuazione della legge ponte, dettò "standard urbanistici" differenziati a seconda delle "zone" in cui era possibile dividere il territorio, ove la zona A corrispondeva al centro storico.

Illuminante per descrivere l'essenza del concetto di centro storico, legata alla proposizione della categoria dei "beni culturali urbanistici", appare una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia del 2006, che vede come finalità della normativa urbanistica la conservazione "nella loro integrità [di] interi complessi urbanistici-architettonici, che - in quanto prodotti irripetibili di un ciclo economico e sociale ormai chiuso - assumono il valore di beni culturali a tutti gli effetti ('beni culturali urbanistici'). La tutela dei 'centri storici' (come anche dei minori 'agglomerati storici'), prescinde dal carattere eccelso dei medesimi: più che il valore dei singoli manufatti architettonici, assume in essi rilievo la compattezza dell'insieme, e quindi: l'assetto viario preesistente, le altezze, i caratteri figurativi degli edifici, e soprattutto le sapienti 'gerarchie' di volumi e di altezze tra edifici religiosi, civili e di comune fruizione abitativa, che costituiscono la vera insuperata essenza dell'urbanistica degli 'antichi' ivi compresa quella contadina" [15].

Quanto al rapporto tra la normativa di tutela dei beni culturali, che nei centri storici sono di solito presenti in misura copiosa, e la normativa urbanistica, occorre rilevare come la prima presenti carattere di specialità rispetto alla seconda e dunque prevalga su di essa [16].

4.2. I centri storici come oggetto di tutela paesaggistica

Tradizionalmente la legislazione di tutela dei beni paesaggistici non ha incluso i centri storici all'interno dei beni soggetti a tutela paesistica. La legge Galasso, legge 8 agosto 1985, n. 431, aveva segnato in tal senso il solco, avendo escluso dalla tutela ambientale i centri edificati, che restavano sottoposti soltanto alla normativa urbanistica. Anche il Codice dei beni culturali e paesaggistici del 2004 ribadiva che tra le aree tutelate per legge non sono comprese quelle che "erano delimitate negli strumenti urbanistici come zone A..", ovvero i centri storici (art. 142, comma 2, della stesura originaria del Codice); né essi erano inclusi nelle categorie di immobili il cui interesse paesaggistico dovesse essere accertato ai sensi degli artt. 136 ss.

La dottrina aveva peraltro proposto l'accostamento dei centri storici ai beni paesaggistici [17] o ai beni culturali [18]. Di notevole rilievo, poi, l'orientamento della recente giurisprudenza amministrativa, secondo cui "i complessi di cose immobili" che devono essere sottoposte a tutela paesaggistica ex lege "vanno identificati nei complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto di valore estetico e tradizionale, quali, ad esempio, antichi castelli, villaggi, borghi, agglomerati urbani e zone di interesse archeologico e persino interi centri storici (c.d. 'beni ambientali urbanistici')" [19].

La novella al Codice dei beni culturali apportata dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63, modifica profondamente l'assetto delle competenze relative alla tutela paesaggistica. All'interno di tale complessiva rivisitazione della norma, il legislatore propone una rilevante innovazione anche per quanto riguarda i centri storici. Mentre infatti il nuovo art. 142, al comma 2, lett. a), continua ad escludere i centri storici dalle aree tutelate per legge, la nuova stesura dell'art. 136, comma 1, lett. c), introduce tra i "complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale" il cui "notevole interesse pubblico" può essere dichiarato attraverso il procedimento descritto dagli artt. 138-141-bis, anche "i centri e nuclei storici". Essi vengono così inclusi tra quelle categorie di beni che per essere sottoposti a tutela devono essere dichiarati di interesse paesaggistico da un provvedimento.

4.3. Proposte di legge statale sul recupero dei centri storici

Sempre a livello statale, sono stati avanzati diversi disegni di legge sul recupero edilizio dei centri storici; i due più interessanti appaiono:

a) Disegno di legge Camera 1171/1996, Interventi per la salvaguardia, la ristrutturazione e la rivitalizzazione dei centri storici urbani (iniz. Lenti, Rossi ed altri), incentrato sul recupero edilizio dei centri storici degradati. L'individuazione delle aree interessate è rimessa alle regioni; oggetto ne possono essere i comuni dotati di un centro storico urbano di particolare valore storico, artistico e monumentale, le cui condizioni urbanistiche richiedano interventi urgenti e indifferibili. Nel sistema di individuazione e di progettazione degli interventi di recupero e rivitalizzazione un ruolo fondamentale è affidato al comune; al sindaco infatti spettano le competenze di iniziativa e proposta degli interventi, sentite le soprintendenze.

b) Disegno di legge Camera unif. 550, 764, 824/2006, Riqualificazione e recupero dei centri storici (iniz. Foti, Lupi, Strabella; approvato in testo unificato il 25 ottobre 2007 e trasmesso al Senato). Il ddl indica come finalità la rimozione degli "squilibri economici e sociali di determinati territori", favorendo interventi "finalizzati al recupero, alla tutela e alla valorizzazione dei centri storici, come definiti dalla normativa vigente, dei comuni con popolazione pari o inferiore a 200.000 abitanti". Non viene, dunque, data una definizione di centro storico, per quale si rinvia alle leggi vigenti. Gli oggetti specifici di intervento sono da un lato le "zone di particolare pregio dal punto di vista della tutela dei beni architettonici e culturali, in cui realizzare interventi integrati pubblici e privati finalizzati alla riqualificazione urbana", individuate dai comuni (art. 1, comma 2), dall'altro gli agglomerati urbani che ottengano il "marchio" "borghi antichi d'Italia". Anche in questo ddl il comune ha un ruolo centrale, dovendo deliberare gli interventi di risanamento e recupero.

4.4. Disegni di legge di riordino in materia urbanistica contenenti una disciplina specifica sugli insediamenti storici

Nel solo 2007 sono stati presentati in Parlamento diversi disegni di legge contenenti proposte di riordino della disciplina urbanistica e di governo del territorio; tre di essi contemplano specificamente gli insediamenti storici ricchi di testimonianze storico-artistiche.

a) Il Progetto di legge Camera n. 2086/2006, Riforma della legislazione urbanistica (iniz. Migliore, Cacciari ed altri) si incentra sull'esigenza di preservare il paesaggio e l'ambiente in quanto risorse di valore primario per la collettività; esso riconosce tra i "diritti dell'uomo" quello al godimento sociale delle risorse territoriali e ambientali e del patrimonio culturale (articolo 4, comma 1) e contiene l'indicazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale che abbiano ad oggetto il territorio, ossia le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici e per la fruizione collettiva, per l'edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni. Si propone la configurazione giuridica dei centri storici come beni culturali (art. 8).

b) Anche il Disegno di legge Senato n. 1652/2007, Principi fondamentali per il governo del territorio. Delega al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare (iniz. Piglionica) pone l'accento sulla necessità limitare "il consumo di suolo non urbanizzato, favorendo il recupero delle risorse degradate". Momento centrale della disciplina proposta appare il riordino "del sistema città-centro storico", punto di incontro di obbiettivi diversi e a volte configgenti, perseguito attraverso un adeguato sistema di pianificazione urbanistica, che "ai fini della promozione della qualità urbana" provveda "a garantire un'efficiente mobilità e accessibilità", "un'adeguata dotazione di aree verdi" "e un corretto rapporto degli insediamenti con il contesto storico-insediativo, geomorfologico, ambientale e paesaggistico" (art. 19, comma 5). Anche questo ddl affronta il tema dei livelli minimi delle dotazioni territoriali (art. 16).

Il sistema di relazione tra i soggetti istituzionali e il coordinamento tra le diverse materie ricomprese nel governo del territorio e quelle connesse di tutela e di valorizzazione dei beni paesaggistici e culturali rappresenta uno degli snodi fondamentali per un sistema integrato di governo del territorio; da tale constatazione discende la ricerca di strumenti idonei di coordinamento tra le autorità preposte alle diverse funzioni. Esplicito il richiamo ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e soprattutto al principio di cooperazione istituzionale (art. 5, comma 2).

In ultimo il ddl propone lo strumento della fiscalità urbanistica e immobiliare come incentivo al recupero e alla sostituzione edilizia, oltre che al contenimento dei consumi energetici; si propone di rivedere le "imposte relative ai trasferimenti immobiliari per favorire e orientare la trasformazione urbanistica ed edilizia verso la riqualificazione urbana e del territorio" nonché l'imposta comunale sugli immobili.

c) Il Disegno di legge Senato n. 1691/2007, Norme per la tutela ed il governo del territorio e deleghe al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare e per il riordino e il coordinamento della legislazione vigente (iniz. Ronchi ed altri) pone l'accento sul tema del territorio rurale, sulla sua riconversione rispetto alle tradizionali attività agricole; viene dato risalto ai problemi dell'abbandono delle campagne - che si riverbera negativamente anche su un eccessivo inurbamento che deteriora le città - e della "città diffusa" - che ha ormai inglobato le campagne con la proliferazione degli insediamenti -. Simili al ddl precedentemente richiamato gli strumenti proposti.

4.5. Legislazione regionale di disciplina dei centri storici

Cospicua è la produzione normativa regionale che si occupa specificamente di centri storici [20], al di là della loro (ovvia) inclusione in leggi regionali più genericamente dedicate al governo del territorio e all'ambito urbanistico. Anche alcuni dei nuovi Statuti regionali nominano i centri storici come specifico oggetto di conservazione e/o di riqualificazione (ad es. Lazio e Umbria).

Tra le (molte) leggi regionali in materia si segnala la legge regionale Campania 18 ottobre 2002, n. 26, Norme ed incentivi per la valorizzazione dei centri storici della Campania e per la catalogazione dei beni ambientali di qualità paesistica. Modifiche alla legge regionale 19 febbraio 1996, n. 3, che contiene una complessa e organica disciplina di valorizzazione dei centri.

Ai comuni è assegnato il compito fondamentale di classificare e catalogare gli insediamenti. Come finalità degli interventi di recupero, si esplicita che la valorizzazione del patrimonio culturale debba tendere alla "salvaguardia della presenza antropica, in quanto presupposto per la conservazione dell'identità storico-culturale dei centri stessi"; inoltre, viene perseguito un "adeguamento degli standards di qualità abitative dei centri storici, anche attraverso un complesso integrato ed organico di interventi riguardanti le funzioni ed i servizi urbani".

5. Segue: Le città incluse nella lista del patrimonio mondiale Unesco

Tra i siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale protetto dall'Unesco risultano alcuni centri storici e intere città italiane (ad esempio i centri storici di Firenze, Roma, Verona, Napoli, Pienza, Urbino, San Gimignano e l'intera città di Venezia e la sua laguna). La legge 20 febbraio 2006, n. 77, Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella 'lista del patrimonio mondiale', posti sotto la tutela dell'Unesco, dettata per la generalità dei "siti" inclusi nella lista Unesco si applica dunque anche ad esse, che peraltro non rappresentano che una piccola parte delle città d'arte italiane.

Punti centrali della disciplina sono la previsione dell'acquisizione della "priorità di intervento" dei siti Unesco come oggetto di finanziamenti e lo strumento indicato per la programmazione degli interventi di conservazione e valorizzazione, il "piano di gestione" (art. 3), che deve essere predisposto dai soggetti pubblici competenti alla valorizzazione dei siti e poi attuato mediante accordi e nelle forme previste dal Codice dei beni culturali. I "piani di gestione definiscono le priorità di intervento e le relative modalità attuative, nonché le azioni esperibili per reperire le risorse pubbliche e private necessarie". Sono poi disciplinate specifiche "misure di sostegno", finalizzate al corretto rapporto tra quali flussi turistici e servizi culturali offerti, quali "lo studio delle specifiche problematiche culturali, artistiche, storiche, ambientali, scientifiche e tecniche relative ai siti italiani Unesco", la "predisposizione di servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico, nonché servizi di pulizia, raccolta rifiuti, controllo e sicurezza", la "realizzazione, in zone contigue ai siti, di aree di sosta e sistemi di mobilità" e infine la "diffusione e alla valorizzazione della conoscenza dei siti italiani Unesco nell'ambito delle istituzioni scolastiche, anche attraverso il sostegno ai viaggi di istruzione e alle attività culturali delle scuole" (art. 4).

Il principale pregio della recente normativa consiste nell'aver proposto strumenti di gestione e di finanziamento dei siti protetti, ove prima della sua adozione il riconoscimento equivaleva più che altro a un'onorificenza [21], slegata dalla disponibilità di concreti strumenti di sviluppo e sostegno.

6. Discipline di settori diversi, che hanno ricadute sulle città d'arte: la disciplina dei beni culturali

6.1. La disciplina di tutela come fonte di poteri cogenti nei confronti di qualsiasi proprietario, anche pubblico

All'interno delle discipline non specificamente dettate per le città d'arte ma incidenti sulla loro regolamentazione, in posizione primaria si colloca senz'altro la disciplina di tutela e valorizzazione dei beni culturali in esse contenuti, che spesso ne rappresentano il fulcro, ma che certamente non ne esauriscono il valore e il significato culturale e storico.

Pare superfluo qui accennare all'impostazione conservativa di tale disciplina, dalla legge di tutela del 1939 in poi, che ha senza dubbio avuto il pregio di tramandare fino a noi le testimonianze storiche sopravvissute fino ad allora attraverso una politica vincolistica che ha cristallizzato le caratteristiche fisiche, e dunque la valenza culturale in esse "incorporata", dei beni sottoposti a tutela.

Se è superfluo rilevare i pregi di tale disciplina, occorre invece accennare al fatto che la sottoposizione ad essa della maggior parte dei beni di proprietà degli enti locali rappresenta senza dubbio un appesantimento delle modalità e procedure di gestione degli stessi, che sono sottoposti a una vigilanza che ne impedisce qualsiasi azione materiale o giuridica al di fuori del controllo dell'amministrazione che svolge le funzioni di tutela, vigilanza non sempre giustificata dalla oggettiva presenza di caratteristiche culturali nei beni. L'art. 12, comma 1, del Codice dei beni culturali estende, infatti, l'applicazione della disciplina di tutela a tutti i beni pubblici (e appartenenti a soggetti privati senza scopo di lucro) aventi oltre 50 anni, fino a che l'effettuazione della "verifica" dell'interesse culturale da parte del ministero stabilisca definitivamente la natura, culturale o meno, degli stessi.

D'altronde, uno dei tratti caratterizzanti il regime giuridico dei beni culturali è l'impermeabilità dello stesso all'assetto proprietario; in linea con tale unitarietà del regime di tutela, si nota che le differenze presenti all'interno della disciplina derivanti dalla natura del proprietari, se pubblico o privato, concernono aspetti procedimentali ("vincolo" tramite dichiarazione dell'interesse oppure tramite verifica; autorizzazione preventiva ad alienare oppure solo denuncia successiva ecc.), non sostanziali [22]. L'unica distinzione a livello di regime giuridico, anzi, gioca a sfavore della "libertà" di gestione dei propri beni da parte del proprietario pubblico: mentre i beni di proprietà privata "diventano" beni "culturali" nel momento in cui vengono dichiarati di interesse culturale (quindi gli atti di disposizione giuridica o materiale compiuti prima di tale momento al di fuori del controllo ministeriale sono legittimi), i beni di appartenenza pubblica, qualora possiedano "oggettivamente" caratteristiche culturali, sono "originariamente" da considerare culturali, a prescindere da qualsiasi procedimento di individuazione, che non rappresenta condizione necessaria allo status di bene culturale pubblico (art. 10, comma 1) - questo è il motivo della richiamata sottoposizione preventiva o cautelativa al regime di tutela prevista per i beni pubblici che abbiano oltre 50 anni -. Ciò, ancora, significa che gli atti di disposizione giuridica o materiale compiuti al di fuori del controllo ministeriale anche prima che il bene fosse accertato come "culturale" sono stati compiuti su un bene che culturale era già (originariamente, appunto), con rilevanti conseguenze, anche penali, sulla liceità degli atti stessi.

6.2. La gestione dei beni culturali di proprietà degli enti locali

Il tema della mancanza di autonomia da parte degli enti locali nella gestione del proprio patrimonio è senza dubbio uno dei nodi più problematici che le amministrazioni locali si trovano ad affrontare nel programmare le politiche di governo dei propri beni. Quando infatti si ha a che fare con un bene "culturale", il suo "trattamento" materiale e giuridico non può che essere sottoposto alla normativa speciale. Ciò significa non solo che ogni atto che ne implichi la modifica materiale va preventivamente autorizzato dalla soprintendenza, ma anche che ogni atto teso alla sua gestione o disposizione giuridica entra in contatto con il potere di controllo ministeriale.

Quanto alle modalità di gestione del patrimonio culturale civico, va preliminarmente ricordato il fattore della spettanza della potestà normativa, che incide direttamente sul tipo di fonte deputata a dettare la relativa regolamentazione [23].

L'art. 115 del Codice dei beni culturali, come novellato nel 2006 e confermato nel 2008, rappresenta dunque la norma contenente i principi fondamentali sulle forme di gestione dei beni culturali pubblici [24]; tale disciplina deve poi essere integrata dal legislatore regionale, che potrà stabilirne la parte di dettaglio e di sviluppo.

Tra i temi di particolare interesse per gli enti locali, vi è senza dubbio quello della possibile esternalizzazione della gestione. La stesura originaria dell'art. 115 precludeva agli enti locali la possibilità di gestire i servizi culturali attraverso la concessione a terzi; la nuova formulazione, a seguito della riforma del Codice avvenuta nel 2006, in una completa inversione di rotta fa venir meno la disposizione descritta, sostituendola con la generalizzazione del ricorso alla concessione a terzi nel caso le amministrazioni optino per la gestione indiretta e, prima facie, con la preclusione invece dell'affidabilità a organismi misti, prima permesso (nuovo comma 3).

Tale preclusione nei confronti di un'opzione ormai del tutto consolidata, prima nella prassi locale poi nella norma, può però essere superata da un'interpretazione diversa della stessa, prospettata da autorevole dottrina [25]. La disposizione prescrive che la gestione indiretta sia "attuata tramite concessione a terzi"; essa prevede anche, però, che i "soggetti giuridici" costituibili in base all'art. 112, comma 5 (misti, ma aperti solo a privati non profit o proprietari di beni da valorizzare insieme a quelli pubblici), possano essere "conferitari dei beni" da valorizzare (art. 115, commi 2 e 5). Sembra quindi potersi configurare l'ipotesi che detti soggetti giuridici misti possano anche, oltre che esternalizzare la gestione attraverso la concessione a terzi, gestire in proprio.

Quali spazi rimangono dunque al potere regolamentare degli enti locali per la regolazione della gestione dei propri servizi e beni culturali? La Costituzione assegna agli enti locali e alle loro fonti uno spazio di autonomia "incomprimibile" (per usare le parole della Corte costituzionale, sent. 272/2004) da parte del legislatore sia statale che regionale; essi sono infatti titolari di una potestà regolamentare "in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni ad essi conferite" (art. 117, comma 6). Alla legislazione regionale o statale compete, però, dettare la disciplina legislativa concernente sia l'oggetto delle funzioni amministrative locali sia le modalità del loro esercizio; il potere regolamentare locale, dunque, deve esplicarsi all'interno di tale cornice legislativa. Al di là del limite di quanto stabilito da tali fonti, gli enti locali sono liberi di decidere quali modelli di gestione adottare; anzi, l'esperienza ci mostra come spesso essi siano stati portatori di "una fortissima capacità di innovazione e sperimentazione di formule gestionali", "che in molti casi" ha "anticipato, se non addirittura costituito le basi, della disciplina statale in materia" [26].

Quanto alla spettanza delle funzioni amministrative inerenti la gestione e valorizzazione del patrimonio culturale civico, la legge stabilisce che ciascun ente territoriale è competente per la valorizzazione/gestione dei propri beni culturali (art. 112, comma 1, Codice).

Il tassello più importante all'interno del quadro dei rapporti tra soggetti istituzionali in questo ambito è poi rappresentato dal principio di leale collaborazione, che la giurisprudenza costituzionale sull'art. 9 Cost. [27] indica come criterio necessario nei modelli relazionali tra amministrazioni e tra diversi livelli di governo e che ha trovato espressione nella nuova formulazione dell'art. 112 del Codice dei beni culturali: il principio di concertazione e collaborazione tra i livelli di governo viene indicato come "la forma" attraverso cui devono essere stabilite le strategie di valorizzazione del patrimonio culturale pubblico. Perfino ove trova applicazione una riserva statale di competenze, come quella in materia di tutela [28], il criterio di riparto delle funzioni deve avvenire secondo tale principio; lo stesso principio di sussidiarietà andrebbe dunque letto in senso collaborativo più che competitivo. Conseguenza dell'applicazione del principio di collaborazione è che qualsiasi intervento che implichi una potenziale riduzione o compressione della sfera di autonomia degli enti locali deve essere esercitata "ricercando, con ogni mezzo, tutte le forme possibili di preventiva concertazione" [29].

6.3. La possibile alienazione dei beni culturali di proprietà degli enti locali

I limiti all'alienazione di immobili del demanio storico-artistico sono spesso percepiti dalle amministrazioni locali come una contrazione della propria autonomia; tale contrazione è però giustificata dalle esigenze di tutela del patrimonio culturale.

Tentando di sintetizzare i contenuti della disciplina sull'alienabilità dei beni culturali pubblici, contenuta negli artt. 53-55-bis del Codice dei beni culturali, appena profondamente innovati dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62, i punti centrali della nuova disciplina sono rappresentati dalla previsione di alcune categorie di beni assolutamente inalienabili (le collezioni, i beni archeologici, i monumenti nazionali, ecc.) e dalla necessità dell'autorizzazione ministeriale preventiva per l'alienazione dei beni del demanio culturale non rientranti in tali categorie.

La domanda di alienazione, che l'ente proprietario deve presentare, contiene, oltre al "programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene", l"'indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l'alienazione del bene e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento", l'"indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire" e le "modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso" (nuovo art. 55, comma 2). Sulla base di tale domanda, il ministero può rilasciare l'autorizzazione; questo provvedimento "detta prescrizioni e condizioni in ordine alle misure di conservazione programmate", "stabilisce le condizioni di fruizione pubblica del bene, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso" e "si pronuncia sulla congruità delle modalità e dei tempi previsti per il conseguimento degli obiettivi di valorizzazione indicati nella richiesta" (art. 55, comma 3). L'autorizzazione, dunque, qualora rilasciata, può assumere un contenuto conformativo dell'utilizzo del bene successivamente alla vendita, ma solo in ordine alla conservazione e alla fruizione pubblica. Nel testo precedente alla modifica del 2008, invece, la norma prescriveva che l'autorizzazione potesse contenere l'indicazione di "destinazioni d'uso compatibili con il carattere storico ed artistico" dello stesso. L'ultima novella ha probabilmente recepito quanto affermato da un'altrettanto recente sentenza del Consiglio di Stato, che statuiva l'illegittimità di una fattispecie conformativa dell'uso successivo all'alienazione di immobile culturale demaniale che ha visto una soprintendenza dettare destinazioni d'uso specifiche in positivo, tentando dunque di vincolare la destinazione futura a categorie di usi specificate nel provvedimento di autorizzazione; la sentenza in questione riteneva, nella fattispecie, "illegittima l'imposizione [...] del rispetto di determinate destinazioni d'uso per strutture ricettive di tipo socio-assistenziale, sanitario e di tipo residenziale speciale, con divieto di ogni destinazione d'uso per attività commerciali, industriali e artigianali" [30]. Ancora, la norma stabilisce che "le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione ... sono riportate nell'atto di alienazione" e sono trascritte nei registri immobiliari (art. 55-bis, introdotto dal d.lg. 62/2008).

La novità più rilevante introdotta nel 2008 al sistema di alienabilità del demanio culturale è poi rappresentata dalla reintroduzione della clausola risolutiva espressa che era stata ideata dal d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, e non inclusa nella stesura originaria del Codice. Così, qualora il nuovo proprietario del bene non adempia alle prescrizioni cui si è obbligato contrattualmente (ossia tutte le sopra richiamate condizioni contenute nell'autorizzazione), il soprintendente può farsi promotore dell'azione di risoluzione del contratto di alienazione, che produrrà il ritorno del bene in capo all'ente originariamente proprietario.

L'impianto normativo predisposto, che riprende anche letteralmente i contenuti del d.p.r. 283/2000, appare senz'altro improntato a un'ottica garantista. Il bene non sembra infatti fuoriuscire dal proprio regime pubblicistico a seguito della vendita: non quanto alla tutela, comunque assicurata (art. 55, comma 7), ma nemmeno con riguardo all'orientamento alla fruizione collettiva, principio impresso altrimenti ai soli beni culturali pubblici. Il passaggio di proprietà in mano a privati, dunque, appare ininfluente sulle condizioni sia di tutela che di fruizione del bene, in un "mantenimento al bene delle caratteristiche 'demaniali' (conservazione, destinazione d'uso e fruizione)" che ne garantisce la destinazione pubblicistica [31].

6.4. Esempi di strumenti di tutela utili alla conservazione dell'aspetto delle città d'arte

All'interno degli strumenti di conformazione predisposti dalla normativa di tutela, al di là dei numerosi e ben conosciuti strumenti atti al mantenimento ai beni culturali delle caratteristiche originarie - che si ritiene superfluo richiamare -, assume grande importanza per la conservazione dell'aspetto delle città d'arte quello della tutela indiretta (art. 45); suo oggetto non sono beni che presentano di per sé un interesse storico-artistico e neppure beni che possiedano un interesse culturale "relazionale", ossia per il suo collegamento a fatti storici o culturali, bensì beni del tutto comuni che però si pongono in relazione spaziale con un bene tutelato.

Il Codice ha poi incluso tra i beni culturali le "pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico" (art. 10, comma 4, lett. g); tali aree, dunque, diventano a tutti gli effetti "beni culturali", sottoposti all'intero complesso della normativa di tutela (ivi compresa, dunque, la possibilità di sottoporre a prescrizioni di tutela indiretta gli immobili prospicienti gli stessi).

7. Segue: La permanenza delle attività storicamente esercitate

7.1. La normativa statale

Le attività che si svolgono all'interno delle città, la loro qualità, la loro tipologia, la loro concentrazione, costituiscono "una delle tipiche componenti della civiltà urbana perché contribuisc[ono], talora in modo anche decisivo, a delineare l'aspetto di parti rilevanti della città ed in particolare dei centri storici" [32]. Il "controllo" da parte della pubblica autorità sulla loro tipologia e concentrazione, dunque, assume un significato decisivo per determinare il volto delle città e la qualità della vita all'interno di esse; in particolare, poi, come già la Commissione Franceschini ebbe modo di sottolineare, appare necessario, in riferimento ai centri storici e alle città d'arte, incentivare il mantenimento delle attività commerciali tradizionalmente e storicamente esercitate.

A partire dagli anni '80 si pone il "nuovo" problema della trasformazioni degli esercizi commerciali; in particolare, in seguito alla scadenza dei contratti di locazione, spesso le tradizionali botteghe sono state soppiantate dall'introduzione di attività commerciali più redditizie ma meno in linea con la tradizione dei luoghi [33].

La vitalità delle città è un tema che si compone di numerosi elementi; tra essi, il controllo sulla compatibilità delle attività commerciali che vi si esercitano con il carattere peculiare della città e la permanenza di quelle che storicamente vi si svolgevano rappresentano un punto nevralgico.

Diverse sono le norme che vigono in materia, introdotte da fonti variegate e oggi raccolte nel Codice dei beni culturali e del paesaggio; esse sono però spesso poco applicate. Conviene, per chiarezza espositiva, dividerle in due categorie: quelle che sono riferibili alla generalità dei luoghi e dei beni presenti nelle città d'arte (al di là del loro legame con determinati beni culturali) e quelle invece applicabili ai soli beni culturali.

a) Limiti applicabili alla generalità dei luoghi e dei beni:

L'art. 52 del Codice dei beni culturali conferisce ai comuni, sentito il soprintendente, il potere di individuare "le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del commercio" [34]. Il contenuto dell'art. 52 appare applicabile a qualsiasi città d'arte o a sue zone determinate, richiedendo la norma solo che l'area individuata dal comune sia di "valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico".

Si tratta di un potere conformativo non solo "in negativo", ossia che si esplica vietando attività commerciali incompatibili, ma che implica la possibilità di imporre contenuti "in positivo" all'esercizio delle attività commerciali, potendone i pubblici poteri (comune e soprintendenza) dettare "condizioni particolari".

La Corte costituzionale, con sentenza 118/1990, ha chiarito come tale disposizione (introdotta nel 1986 e ora confluita nel Codice), fosse di per sé capace di fondare un controllo da parte del comune sulla tipologia di attività commerciali esercitabili nei centri storici, al fine di tutelarne l'integrità socio-economica.

b) Limiti applicabili ai soli "beni culturali":

b.1) Il Codice prevede poi un potere di controllo ministeriale sulla destinazione d'uso degli immobili vincolati (art. 20, comma 1), finalizzata a far rispettare il divieto di adibirli ad usi incompatibili con il loro carattere storico o artistico. Anche la norma in parola, dunque, può fondare una modalità di controllo delle attività (commerciali e non) eserciate nelle città, ma essa risulta applicabile solo a singoli immobili vincolati.

Tale potere di controllo viene in rilievo in ogni ipotesi di utilizzazione economica dei beni; la norma ha lo scopo di impedire che vengano minacciati, al di là della conservazione e dell'integrità, il decoro e la dignità del bene. L'oggetto tutelato, infatti, è in questo caso non la fisicità del bene, bensì la compatibilità tra la destinazione del bene e le sue caratteristiche culturali. Quanto ai contenuti, il divieto è solo genericamente descritto dalla norma, restandone gli esatti contorni da definire ad opera del giudice, che ha proceduto a individuarne una casistica piuttosto varia [35]; il divieto è inoltre assistito da sanzione penale (art. 170).

Le modifiche al Codice effettuate nel 2006 introducono poi un onere informativo generalizzato sul mutamento di destinazione [36]. Tale comunicazione può essere intesa come richiesta di autorizzazione avente ad oggetto "il rispetto del divieto di usi incompatibili ex art. 20, comma 1"; "l'esito di questa valutazione se negativo inibisce il mutamento d'uso, se positivo lo assente" [37]. La novella del 2006 al Codice, così, sembra fondare un potere ministeriale di controllo preventivo; la garanzia sulla compatibilità delle attività che possono essere impiantate all'interno degli immobili con la dignità di cui il bene chiede il rispetto, così, è demandata alle valutazioni delle soprintendenze in sede di comunicazione sul mutamento di destinazione d'uso.

La soprintendenza, poi, potrebbe addirittura indicare l'unica destinazione ritenuta compatibile, il che non arriverebbe però a poter imporre la prosecuzione dell'attività "culturalmente compatibile" [38].

La Corte costituzionale ha ribadito, con sentenza 388/1992, la legittimità della facoltà di imporre vincoli di destinazione sulla proprietà (come nel caso di negozi in cui si svolgano attività tradizionali), giustificati dalla funzione sociale della stessa ex art. 42 Cost. [39]. La Corte ha definito la norma che introduce tale potere come il "tentativo del legislatore di assicurare la tutela delle tradizioni locali e delle aree di particolare interesse site nei territori comunali, caratterizzati da un nucleo storico il quale rappresenti l'immagine della città ed esprima anche l'essenziale della nostra storia civile ed artistica e della nostra cultura".

Le due sentenze 118/1990 (sopra citata) e 388/1992 fondano dunque l'"ammissibilità di limiti incidenti direttamente ed autonomamente sull'esercizio di un'attività, ancorché correlata al fatto che essa si esplichi su un determinato bene [...], nel senso della legittimità dei vincoli di destinazione d'uso imposti su alcuni immobili" [40].

Dal punto di vista degli enti locali, il potere conformativo e di controllo ministeriale sui mutamenti di destinazione d'uso degli immobili sottoposti a tutela, d'altronde, può rappresentare un limite alla libera disponibilità dei beni di appartenenza comunale.

b.2) In alcune occasioni, la pubblica amministrazione ha tentato di arginare il problema della trasformazione degli esercizi commerciali di carattere storico-tradizionale utilizzando lo strumento del vincolo (dichiarazione dell'interesse) dell'immobile nel quale si svolgeva l'attività in base all'art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, ossia non per l'intrinseco interesse culturale dell'immobile ma per l'interesse storico "relazionale" di esso, ovvero per il suo collegamento alla storia della cultura. Alcuni di tali provvedimenti [41], impugnati dai proprietari degli stabili, hanno dato origine a un contenzioso amministrativo che si è risolto con pronunce che hanno negato l'applicabilità di tale potere alle attività svolte negli immobili tutelati. Anche la Corte costituzionale (sentenza 118/1990) ha chiarito, nel solco della costante giurisprudenza amministrativa, che i provvedimenti di vincolo (sia per interesse culturale diretto sia per interesse "relazionale") non possono applicarsi alle attività che si svolgono nell'immobile vincolato; l'"utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene" [42]. Pertanto, il vincolo di destinazione non può mai riguardare l'attività in sé, considerata separatamente dal bene.

b.3) In ultimo, si richiama l'art. 51 del Codice [43], che prevede l'inamovibilità del contenuto degli studi d'artista dichiarati di interesse storico dallo stabile in cui sono situati e soprattutto l'immodificabilità della sua destinazione d'uso.

In conclusione, i poteri conformativi inerenti le attività esercitabili nelle città storiche esistono: essi sono però poco e mal utilizzati.

Per ovviare a tale generalizzata disapplicazione, il Mibac ha emanato, il 9 novembre 2007, una direttiva finalizzata ad arginare i fenomeni dell'abusivismo commerciale e dell'eccessiva densità di commercio ambulante, fenomeni che pregiudicano il decoro urbano e costituiscono intralcio alla corretta fruizione del patrimonio culturale. La direttiva promuove l'adozione da parte delle direzioni regionali e delle soprintendenze di "ogni occorrente iniziativa di competenza per garantire la puntuale attuazione delle disposizioni di cui agli articoli 10 e 52" del Codice; inoltre, richiede che le articolazioni del Mibac si attivino "in termini di massima condivisione con le stesse amministrazioni comunali" per l'obiettivo di riqualificare le aree urbane, in particolare attraverso "una complessiva rivisitazione" da parte di queste ultime "del contesto autorizzativo" riguardante le attività commerciali, specialmente ambulanti, di cui si auspica un ricollocamento in zone maggiormente decentrate.

7.2. Spazi e proposte regionali e locali

La Corte costituzionale si è espressa in ordine ai poteri conformativi che spettano alle regioni in ordine al controllo sulle attività commerciali nella sentenza 232/2005, sulla legittimità costituzionale dell'art. 40 della l.r. Veneto 11/2004 [44]. La Corte dichiara che la norma - che prevede che il Piano di assetto territoriale, "con riguardo ai centri storici", stabilisca le "categorie in cui devono essere raggruppati i manufatti e gli spazi liberi esistenti", i "valori di tutela in funzione degli specifici contesti da salvaguardare" e individui "per ogni categoria" gli "interventi", le "destinazioni d'uso ammissibili" e i "margini di flessibilità consentiti dal piano degli interventi" - "non comporta contraddizione della normativa statale in tema di tutela dei beni culturali, in quanto la disciplina regionale è in funzione di una tutela non sostituiva di quella statale, bensì diversa ed aggiuntiva, da assicurare nella predisposizione della normativa di governo del territorio, nella quale necessariamente sono coinvolti i detti beni".

Già l'art. 6, comma 3, lett. c) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (su cui infra), indicava la salvaguardia e la tutela degli esercizi che presentano valore storico e artistico tra gli obiettivi che le regioni dovevano perseguire in sede di definizione degli indirizzi di urbanistica commerciale, al fine di "evitare il processo di espulsione delle attività commerciali e artigianali" dai centri storici.

Tra le regioni che hanno previsto una disciplina di sostegno alle attività tradizionali, si segnala la Lombardia, che con la legge regionale 23 luglio 1999, n. 14, attuata dai "Programmi triennali per lo sviluppo del settore commerciale", prevede il riconoscimento regionale dei negozi storici e il loro inserimento in un elenco tenuto dalla regione stessa - elenco in cui gli esercizi sono suddivisi in negozi storici di rilievo regionale, locale o negozi di storica attività -; nel 2003, con delibera di giunta regionale 12 dicembre 2003, n. VII/15602, viene approvato il Programma di interventi per la valorizzazione delle botteghe storiche. Anche il Lazio, con la legge regionale 6 dicembre 2001, n. 31, Tutela e valorizzazione dei locali storici, pone in essere una serie di misure per il sostegno delle attività commerciali tradizionali [45]. Interessante poi il ddl presentato in settembre 2007 dalla regione Abruzzo, contenente disposizioni sul riconoscimento dei negozi storici, in cui l'attribuzione della qualifica da parte della regione di 'negozio storico abruzzese' può avvenire per quegli esercizi che presentano caratteristiche di eccellenza sotto il profilo storico ed architettonico in quanto costituiscono significative testimonianze dell'attività commerciale regionale.

Anche a livello comunale si riscontra una chiara volontà di preservare le attività commerciali tradizionali. A titolo di esempio, il comune di Roma con delibera del consiglio 21 luglio 1997, n. 139, aveva stabilito misure di tutela dei negozi storici della città; diverse delibere successive ne hanno specificato i contenuti, fino alle due importanti delibere 14 giugno 2005, n. 130, e 6 febbraio 2006, n. 36, Disciplina di tutela e riqualificazione delle attività commerciali ed artigianali nel perimetro della città storica, che recano un'organica disciplina di individuazione e sostegno. Oltre alla capitale, anche la città di Bologna, con delibera del consiglio comunale 26 aprile 1999, n. 99, ha approvato misure di tutela delle botteghe storiche, nel quadro della legge regionale Emilia-Romagna 5 luglio 1999, n. 14 (di attuazione del d.lg. 114/1998), il cui art. 10, comma 2, prevedeva che le disposizioni di salvaguardia, ferme restando le competenze dello Stato in materia di tutela dei beni culturali, potessero riguardare, fra l'altro, la vocazione merceologica determinatasi nel tempo nelle botteghe storiche.

Quanto ai contenuti delle norme di favore, denominatore comune come condizione per il riconoscimento, cui consegue l'iscrizione in un albo - regionale o comunale -, appaiono la persistenza della medesima vocazione merceologica per oltre 50 anni e la presenza di caratteristiche storico-artistiche del locale in cui si svolge l'attività - la presenza di ambienti significativi dal punto di vista architettonico, il mantenimento delle caratteristiche morfologiche delle vetrine, delle insegne e dell'arredo per il lasso di tempo sopra indicato -. Gli strumenti proposti per il sostegno si incentrano su finanziamenti di vario tipo, dai contributi per il restauro conservativo dei locali o per la loro manutenzione a quelli connessi all'aumento del canone di locazione, fino alla previsione di finanziamenti tout-court; compare poi, di solito, il vincolo del mantenimento dell'attività storicamente esercitata per un determinato numero di anni come onere conseguente alla concessione di contributi. In qualche caso è previsto l'inserimento all'interno di percorsi e programmi turistici e culturali.

8. Segue: Orari degli esercizi commerciali

Vi è poi la normativa speciale dettata in tema di orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali per le zone a vocazione turistica e per le città d'arte introdotta dal d.lg. 114/1998 all'interno della riforma della disciplina relativa al settore del commercio. La normativa affida alle regioni la regolamentazione dell'insediamento delle attività commerciali di vendita al dettaglio, assegnando ad esse l'obbiettivo di valorizzare la funzione commerciale al fine di riqualificare il tessuto urbano e, in particolare per quanto riguarda i quartieri degradati, al fine di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio. Tra le finalità assegnate alle regioni, compare la salvaguardia dei centri storici attraverso il mantenimento delle caratteristiche urbane, il rispetto dei vincoli sul patrimonio storico-artistico e la compatibilità dei "servizi commerciali con le funzioni territoriali in ordine alla viabilità, alla mobilità dei consumatori e all'arredo urbano" (art. 10).

Quanto ai contenuti, si tratta in sostanza di una disciplina derogatoria: si prevede che nei comuni ad economia prevalentemente turistica e nelle città d'arte gli esercenti possano determinare liberamente gli orari di apertura e di chiusura dei loro negozi, potendo anche derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva e della mezza giornata infrasettimanale (art. 12).

Competenti all'individuazione dei "comuni ad economia prevalentemente turistica, [del]le città d'arte o le zone del territorio dei medesimi" in cui applicare tale deroga sono le regioni, anche su proposta dei comuni stessi; la disciplina regionale deve anche indicare i periodi di maggiore afflusso turistico nei quali gli esercenti possano godere della descritta libertà di esercizio.

In attuazione del d.lg. 114/1998 vi è stata la stagione legislativa in cui le regioni hanno emanato le norme per l'individuazione dei comuni a prevalente economia turistica e le città d'arte, cui applicare le deroghe in materia di orari [46].

9. Segue: Contributi di ingresso e soggiorno

Si richiamano poi i tentativi di introdurre contributi gravanti sui visitatori delle città d'arte il cui gettito venisse destinato a intervenire su alcuni dei maggiori problemi creati dal flusso turistico stesso, al fine di migliorare le condizioni di vivibilità delle città interessate e lenire le difficoltà in cui si trovano le amministrazioni comunali nell'affrontare tali aggiuntive problematiche; nelle città ad alta vocazione turistica, infatti, sul bilancio dell'amministrazione comunale gravano ulteriori e onerose attività di manutenzione urbana, e non solo, legate al flusso turistico.

Ricompariva così nel ddl finanziaria 2008 la previsione, che era caduta nella scorsa finanziaria nel passaggio al Senato, relativa alla possibile istituzione da parte dei comuni di un "contributo di ingresso e soggiorno", che poteva essere imposto ai visitatori delle città d'arte, fino ad un importo massimo di 5 euro al giorno; i soggetti passivi dell'imposta sarebbero stati i non residenti che prendessero alloggio, in via temporanea, in strutture alberghiere, campeggi, villaggi turistici, agriturismi e strutture ricettive in genere [47].

La disposizione, alquanto discussa e contrastata a causa dei possibili effetti negativi sul turismo, è stata poi stralciata dal testo definitivo della legge.

10. Segue: Tutela penale e sicurezza

In ultimo, al di là dell'impianto sanzionatorio previsto dal Codice dei beni culturali [48], la legge 8 ottobre 1997, n. 352, introdusse nel Codice penale, all'interno delle fattispecie dei reati di danneggiamento (art. 635) e di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art. 639), la previsione che il fatto fosse commesso "su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili compresi nel perimetro dei centri storici", ipotesi perseguibili d'ufficio.

Negli ultimi mesi del 2007 era stato presentato in Parlamento un disegno di legge di iniziativa governativa, non divenuto legge, contenente Disposizioni in materia di sicurezza urbana, facente parte del più ampio "pacchetto sicurezza", approvato dal Consiglio dei ministri il 30 ottobre. In esso erano previste misure particolari per la tutela delle "aree di pregio", ossia quelle zone delle città d'arte e dei luoghi sottoposti a vincolo, in cui potenziare il controllo della polizia municipale. Veniva proposta l'estensione della perseguibilità d'ufficio al reato di danneggiamento compiuto su cose "esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza"; inoltre, il ddl proponeva di estendere la perseguibilità d'ufficio e la punibilità con la pena della reclusone anche al caso che il reato di deturpamento o imbrattamento di cose altrui venisse commesso "su immobili sottoposti a programmi di risanamento edilizio o ambientale o su ogni altro immobile, quando al fatto consegue un pregiudizio del decoro urbano". Il decoro urbano, dunque, al di là della protezione degli immobili di pregio, avrebbe potuto assurgere a valore protetto dall'ordinamento con norma penale.

11. Note finali

Lo studio compiuto ha tentato di offrire una ricostruzione leggibile del sistema di regolazione delle città d'arte, pur nella complessità e molteplicità dei temi toccati.

Si è evidenziato come alcune delle problematiche vissute quotidianamente dagli amministratori di tali città potrebbero in parte già trovare risposta in un'applicazione generalizzata della normativa esistente.

Quanto ai tanti "vincoli" all'azione degli enti locali nella gestione del proprio patrimonio, le criticità maggiori risultano legate all'insufficiente applicazione del principio di cooperazione o leale collaborazione nei numerosi momenti in cui "l'esercizio di competenze diverse e l'intervento di molteplici soggetti pubblici [...] finiscono [...] per compromettere la snellezza dell'azione amministrativa" [49] e per "legare" molte delle modalità di gestione finalizzate allo sviluppo del territorio che gli enti locali tentano di porre in essere. L'insieme dei rapporti tra i diversi soggetti istituzionali che svolgono funzioni differenti e spesso contrastanti all'interno degli stessi processi può in questo ambito funzionare solo attraverso un'applicazione generalizzata di tale principio; la ricerca di forme di concertazione e di composizione del conflitto tra amministrazione statale e amministrazioni locali, dunque, rappresenta il punto di tenuta dell'intero sistema di governo dei territori caratterizzati dalla ricchezza di testimonianze storiche e artistiche. E' evidente infatti come l'autonomia costituzionalmente riconosciuta agli enti locali non possa escludere dal proprio ambito di applicazione la gestione dei propri patrimoni, imponendo di declinare le modalità di relazione tra le amministrazioni statali e locali secondo il principio di cooperazione.

 

Note

[*] Il presente scritto trae spunto da una ricerca effettuata su incarico dell'Associazione Cidac-Mecenate '90 dal titolo La tutela e la valorizzazione delle città d'arte: gli strumenti giuridici utilizzati o proposti a livello normativo in Italia e in alcuni Paesi europei, presentata dall'autrice a Roma il 22 novembre 2007 nell'ambito del seminario La legislazione per le città d'arte, presieduto dal dott. Ledo Prato.

[1] Ad esempio la necessità di privilegiare l'intervento sul costruito, funzionale alla riqualificazione e rigenerazione urbana, piuttosto che costruire su terreni inedificati, consumando suolo, che rappresenta una risorsa non rigenerabile.

[2] Le teorie sulla globalizzazione sono state studiate da S. Sassen, da ultimo in Una sociologia della globalizzazione, W.W. Norton & Company, 2007, trad. it. Einaudi, 2008.

[3] Ancora S. Sassen, op. cit., p. 103.

[4] La legge 27 settembre 2007, n. 167, ha ratificato la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 e la legge 19 febbraio 2007, n. 19, ha ratificato la Convenzione Unesco sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali del 2005.

[5] Sono a volte state emanate leggi-provvedimento per ovviare a problemi di singole città.

[6] Dapprima la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (art. 1, comma 262), poi l'ultima finanziaria, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (art. 1, commi 313 ss.).

[7] S. Amorosino, Le "città d'arte": nozione e ipotesi di discipline amministrative di tutela, in Riv. giur. di urbanistica, n. 3-4/1990, pp. 527 ss. La presenza di un nucleo formato da "beni culturali" non sembra dunque necessaria, come è stato ben sottolineato da una sentenza inerente i centri storici: Sentenza Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia 22 marzo 2006, n. 107, di cui si riporta più avanti la massima, nel paragrafo dedicato ai centri storici.

[8] Dalla relazione di presentazione del ddl.

[9] La definizione fu elaborata dalla Commissione per le città storiche del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali; il testo tra virgolette è tratto dalla relazione di presentazione del ddl.

[10] M. Sanapo, I centri storici come beni culturali: un percorso difficile, in Aedon 2/2001.

[11] Sempre dalla relazione

[12] La l.r. 16 marzo 1994, n. 13, successivamente abrogata.

[13] Tale atto è il frutto dell'attività di ricerca della Fondazione "La città di ieri per l'uomo di domani-Onlus", Centro mondiale di studi sulle città d'arte, costituita nel 1991 dal comune e dall'Università di Firenze, e del Centro permanente delle Città d'arte, costituito nel 1988 presso l'Università di Firenze.

[14] W. Cortese, Il patrimonio culturale. Profili normativi, III ed., Cedam, 2007, p. 621.

[15] Cfr. sentenza Consiglio di giustizia amministrativa della regione Sicilia 22 marzo 2006, n. 107. Le parti tra virgolette sono della massima riportata da R. Chieppa, in Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di beni culturali e ambientali, in Aedon 2/2006.

[16] L'art. 45, comma 2, Codice dei beni culturali prevede infatti che gli enti territoriali recepiscano le prescrizioni di tutela e di tutela indiretta all'interno dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici.

[17] Ad es. W. Cortese, op. cit., pp. 621 ss.

[18] Ad es. F. Salvia, Modesta proposta per i centri storici: mettere anzitutto a dieta i pianificatori, in Nuove autonomie, 1993, p. 43.

[19] Cons. Stato, VI, 21 giugno 2006, n. 3733; cfr. la massima riportata da R. Chieppa, Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Aedon 3/2006.

[20] Già nei primi anni dopo l'istituzione delle regioni, esse emanarono una serie di leggi sui centri storici, tra cui la l.r. Sicilia 80/1977, l.r. Piemonte 56/1977, la l.r. Friuli Venezia Giulia 1/1987, la l.r. Lazio 38/1999, la l.r. Sardegna 29/1998, la l.r. Veneto 80/1980.

[21] In molti casi, anzi, i piccoli centri venivano messi in difficoltà dai vicoli e dalle responsabilità connesse al riconoscimento.

[22] L'unica differenza "sostanziale" tra regime giuridico dei beni privati o pubblici concerne l'intensità dell'interesse storico-artistico ecc. richiesto dalla norma come condizione per il riconoscimento della qualità di bene culturale. Per la generalità dei beni privati l'interesse deve essere "particolarmente importante", "notevole", "eccezionale" a seconda delle tipologie di beni; quando le stesse tipologie di beni appartengono invece a un ente pubblico, la norma richiede un interesse storico-artistico cosiddetto "semplice", ossia di intensità minore. Ciò significa che beni che presentano un interesse culturale diciamo "blando" non verrebbero vincolati se appartenessero a un soggetto privato, mentre lo saranno qualora appartengano a un soggetto pubblico.

[23] Si ricorda come la giurisprudenza amministrativa e costituzionale abbiano chiarito che la "gestione" dei beni culturali rientra all'interno della "materia" costituzionale "valorizzazione dei beni culturali", su cui lo Stato è competente a dettare i principi fondamentali e le regioni a stabilire la disciplina di dettaglio, ex art. 117, comma 3, Cost.. In questo quadro, però, si inserisce la variabile che il servizio di gestione/valorizzazione dei beni culturali pubblici sia svolto secondo modalità qualificabili come "servizio avente rilevanza economica": in questo caso la competenza legislativa non seguirà più il riparto sopra indicato, bensì verrà attratta verso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di "tutela della concorrenza", ex art. 117, comma 2, lett. e, Cost. La disciplina applicabile alla gestione di tali servizi andrà dunque reperita nelle fonti statali che regolano i servizi pubblici locali aventi rilevanza economica (ossia l'art. 113 del Tuel, d.lg. 267/2000).

[24] Il tema è stato oggetto di uno studio commissionato dalle regioni Lombardia, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto, dal titolo Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, di A. Serra, C. Tubertini, L. Zanetti, con il coordinamento di M. Cammelli; il testo dello studio è pubblicato su Aedon 2/2006.

[25] G. Sciullo, Valorizzazione, gestione e fondazioni nel settore dei beni culturali: una svolta dopo il d.lg. 156/2006?, in Aedon 2/2006.

[26] C. Tubertini, in L'individuazione degli spazi per la normazione regionale in rapporto al nuovo assetto costituzionale delle autonomie locali, in A. Serra, C. Tubertini, L. Zanetti, Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., parte I, par. 3.

[27] Così nell'interpretazione dell'art. 9 Cost., da Corte cost. sentenza 28 luglio 1988, n. 921, in poi.

[28] Art. 5, commi 1, 4 e 5, del Codice dei beni culturali; l'art. 118, comma 3, Cost., indica poi la possibilità di giungere a forme di intesa e coordinamento in riferimento alla tutela con le regioni che ne facciano richiesta.

[29] Ancora C. Tubertini, in L'individuazione degli spazi per la normazione regionale in rapporto al nuovo assetto costituzionale delle autonomie locali, cit.

[30] Cons. Stato, VI, 5 giugno 2007, n. 2984; le parole virgolettate fanno parte della massima della sentenza riportata da R. Chieppa, Osservatorio della giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di beni culturali e paesaggio, in Aedon 2/2007. Continua la massima: la normativa prevede "un complesso di misure di carattere reale che sono finalizzate a salvaguardare il bene da ogni possibile compromissione o da limiti all'accessibilità da parte della collettività nel momento in cui si determina il mutamento del titolo di proprietà. I limiti al diritto dominicale dell'acquirente che possono introdursi in sede di rilascio dell'autorizzazione alla vendita devono, tuttavia, operare in negativo, a salvaguardia dell'integrità e conservazione del bene e dei valori artistici e storici di cui è espressione, ma non possono imporre in positivo singole destinazioni d'uso per il perseguimento di scopi [...] la cui cura è affidata ad altri organismi e all'esercizio di diverse potestà pubbliche [...]".

[31] Sia consentito il rinvio ad A. Serra, L'incidenza del regime dominicale dei beni culturali sulle modalità di gestione, in Aedon 3/2002, par. 8; Id., Commento agli articoli 53-55, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, II ed., Il Mulino, 2007, pp. 247 ss.

[32] M.P. Chiti, La disciplina giuridica del commercio nei centri storici: problemi operativi e prospettive di riforma, in Riv. Giur. polizia locale, 1989, p. 308.

[33] Per un'approfondita analisi sul tema, M. Sanapo, I centri storici come beni culturali: un percorso difficile cit.

[34] La norma era stata introdotta nell'ordinamento dal d.l. 833/1986 convertito con mod. nella legge 6 febbraio 1987, n. 15, normativa in materia di locazione; l'art. 4 affidava ai comuni, al fine di tutelare le tradizioni e le aree di particolare interesse nel proprio territorio, la facoltà di individuare attività commerciali e artigianali compatibili o incompatibili con l'aspetto dei luoghi e con le tradizioni locali, negando le autorizzazioni commerciali per determinati prodotti (venendo così a integrare le disposizioni della legge 426/1971 sulla disciplina del commercio).

[35] Richiamata da M. Brocca, La disciplina d'uso dei beni culturali, in Aedon 2/2006, nota 4.

[36] Art. 21, comma 4: "Il mutamento di destinazione d'uso dei beni medesimi è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all'articolo 20, comma 1".

[37] M. Brocca, La disciplina d'uso cit.

[38] G. Volpe, Manuale di diritto dei beni culturali. Storia e attualità, II ed., Cedam, 2007, p. 141.

[39] Cfr. Corte costituzionale, sentenza 21 luglio 1992, n. 388. Da G. Clemente di San Luca, La elaborazione del 'Diritto dei beni culturali' nella giurisprudenza costituzionale, in Aedon 1/2007: "...il comune di Roma..., con propria delibera, ... aveva dichiarato 'incompatibile, con le esigenze di tutela dei valori ambientali di alcune zone del centro cittadino, l'attività di ristorazione veloce con menù limitato e non tradizionale'. La Corte considera costituzionalmente legittima la norma che consente al comune 'di precludere nel proprio territorio l'esercizio di determinate attività imprenditoriali, limitatamente agli esercizi commerciali, agli esercizi pubblici e alle imprese artigiane, ritenute incompatibili con la finalità di tutelare le tradizioni locali e le aree di particolare interesse' ... In particolare - osserva la Consulta - la disposizione oggetto di impugnazione 'rappresenta un ulteriore tentativo del legislatore' ... 'di assicurare la tutela delle tradizioni locali e delle aree di particolare interesse site nei territori comunali, caratterizzati da un nucleo edilizio ed abitativo riconducibile al concetto di centro storico il quale rappresenta l'immagine della città ed esprime anche l'essenziale della nostra storia civile ed artistica e della nostra cultura'. ... In tal modo - prosegue -, 'si è voluto porre freno al degrado delle aree di particolare interesse impedendo il moltiplicarsi di esercizi commerciali che, sostituendo quelli tradizionali, per l'attività che vi si svolge, producono effetti dannosi e distorsivi del loro assetto, mentre, invece, meritano protezione le particolari caratteristiche acquisite per lunga tradizione'".

[40] M.A Sandulli, La giurisprudenza costituzionale sulla tutela dei centri storici, in Riv. Giur. edilizia, 1995, parte III, pp. 3 ss., qui in particolare 10.

[41] La norma era già presente nella legge 1089/1939 all'art. 2, comma 1.

[42] I corsivi sono di chi scrive. Sul punto N. Aicardi, Centri storici e disciplina delle attività commerciali, in G. Caia e G. Ghetti (a cura di), La tutela dei centri storici, Giappichelli, 1997, pp. 110 s.

[43] La norma riproduce l'art. 4-bis del d.l. 832/1986, come aggiunto in sede di conversione dalla legge 15/1987. Su tale articolo si veda Corte cost., sentenza 185/2003, su cui A. Simonati, La Corte costituzionale decide: via libera agli "sfratti" degli studi d'artista. Riflessioni sulla sentenza n. 185/2003, in Aedon 2/2003.

[44] Si cita ancora G. Clemente di San Luca, La elaborazione del 'Diritto dei beni culturali' nella giurisprudenza costituzionale cit.: "La sentenza [Corte cost. 232/2005] ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via principale degli artt. 40 e 50, comma 8, lett. c) della l.r. Veneto 11/2004 ('Norme per il governo del territorio'), in relazione agli artt. 117, comma 2, lett. s), e 118, comma 3, Cost. L'art. 40 della legge in parola, con riguardo ai centri storici, 'prevede che il Piano di assetto del territorio (PAT), previa analisi dei manufatti e degli spazi liberi esistenti nei centri storici, determini [...] le categorie in cui gli stessi debbono essere raggruppati per le loro caratteristiche tipologiche, attribuendo in tal modo specifici valori di tutela e, quindi, individuando per ciascuna categoria gli interventi e le destinazioni d'uso ammissibili'. Ad avviso del ricorrente Presidente del Consiglio dei Ministri, la norma - che 'prefigura misure di limitazione e conformazione della proprietà privata' - è lesiva dei commi 2, lett. s), e 6, dell'art. 117 Cost., i quali riservano, rispettivamente, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e alla sua potestà regolamentare la tutela dei beni culturali, 'la cui individuazione' - rammenta la Consulta - 'rappresenta una delle attività fondamentali in cui si esplica la tutela dei beni culturali'".

[45] I criteri per l'individuazione dei locali storici sono stati emanati con delibera di giunta 2 agosto 2005, n. 723, adottata d'intesa con il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici del Lazio e con il soprintendente ai beni storico-artistici di Roma.

[46] Tra esse: l.r. Sicilia 22/1999; l.r. Emilia-Romagna 14/1999; l.r. Umbria 24/1999; l.r. Piemonte 28/1999; l.r. Lazio 33/1999; l.r. Veneto 62/1999; l.r. Campania 1/2000; l.r. Puglia 11/2003.

[47] L'Anci aveva presentato una richiesta di emendamento che prevedesse l'esenzione dall'imposizione per determinate categorie di soggetti (chi alloggiasse in strutture destinate al turismo giovanile o adibite a uso foresteria per lavoratori, nelle comunità alloggio, nelle strutture di assistenza sanitaria, nelle strutture ricettive in relazione a cure sanitarie o all'assistenza a familiari in degenza presso strutture sanitarie cittadine).

[48] Un disegno di legge di iniziativa governativa approvato dal Consiglio dei ministri il 23 maggio 2007 aveva proposto una riforma delle sanzioni penali in materia di reati contro il patrimonio culturale, rimasto privo di seguito. Tra le diverse misure proposte, veniva prevista come aggravante ai reati di danneggiamento e di furto il fatto che il reato fosse commesso verso beni culturali.

[49] M. Sgroi, Commento all'art. 25, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, II ed., Il Mulino, 2007, p. 159.

 

 



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