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I centri storici come beni culturali:
un percorso difficile

di Matteo Sanapo


Sommario: 1. Principi costituzionali e normativa statale. - 2. Assenza di una definizione legislativa e concettuale di "centro storico". - 3. Centri storici e "attività culturali". - 4. L'esperienza del centro storico di Lecce.



1. Principi costituzionali e normativa statale

Tema di grande attualità e di estremo interesse è quello dei "centri storici", per l'importanza che essi rivestono non solo sul piano urbanistico, ma anche con riguardo a quella molteplicità di valori primari che trovano sede nel centro storico: accanto al valore monumentale-artistico ed a quello storico, l'interesse socio-ambientale, quello igienico-sanitario, perfino quello della sicurezza e dell'ordine pubblico.

Pertanto, la questione dei centri storici è la questione di una molteplicità di interessi che esigono tutti di essere soddisfatti.

Tali considerazioni spingono a guardare al centro storico, sotto un'ottica globale di gestione ottimale del territorio la cui tutela deve conciliare due esigenze fondamentali diverse tra loro: quella di conservazione delle antiche memorie e quella di trasformazione del territorio per adattarlo alle necessità di una società sempre più evoluta.

E' ormai ferma convinzione considerare i centri storici come "zone" da rivitalizzare e funzionalizzare nel contesto della pianificazione generale del territorio, sia a fini prettamente urbanistici, sia a fini socio-economici e di sviluppo. In altri termini, oggi, i centri storici, più o meno estesi, cessano di essere visti come oggetti di conservazione statica, per diventare "opere in movimento, tessuti non mummificati, beni vitali che devono essere protetti e non semplicemente conservati" [1].

La tutela dei centri storici, in quanto beni culturali, trova fondamento nell'art. 9, comma 2, della Costituzione, il quale sancisce che "la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"; norma che, anche per la sua collocazione tra i principi fondamentali, attribuisce alla tutela di questi beni un valore "superiore", idoneo a qualificare, orientandola, la stessa azione dei pubblici poteri.

In altre parole, la tutela dei beni culturali, dovrebbe ritenersi un obiettivo preminente rispetto ad altre finalità pubbliche rilevanti costituzionalmente, ma non riconducibili ai primi dodici articoli.

Fino ad oggi il legislatore ha preso in considerazione i centri storici solo sotto il profilo urbanistico, "ignorandone le caratteristiche che fanno di loro soprattutto dei beni culturali" [2], mettendo da parte l'indirizzo emerso, in sede di riordinamento del settore, in seno alla commissione Franceschini (istituita con la legge 26 aprile 1964, n. 310) che, nella prima metà degli anni '60, aveva fatto il punto sulle dolorose condizioni in cui versavano le nostre più importanti città storiche dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale, tenuto conto, quasi sicuramente, della c.d. "Carta di Gubbio".

Quest'ultima faceva riferimento ad alcuni principi in materia di salvaguardia e risanamento dei centri storici, i quali mettevano in rilievo come fosse stato sbagliato, fino a quel momento, prendere in considerazione il singolo monumento, enucleandolo dal complesso urbano, quando occorreva considerarlo un tutt'uno con il suo contesto di appartenenza.

La commissione Franceschini, facendo propri i principi emersi dal convegno di Gubbio, ne formulò di ulteriori, ai quali avrebbe dovuto attenersi il legislatore futuro, mettendo in rilievo come per la tutela dei centri storici ci si dovesse orientare non solo nel senso di mantenere le caratteristiche costruttive esistenti, ma si dovesse operare anche attraverso interventi di consolidamento, restauro, risanamento igienico-sanitario che ne migliorassero la vivibilità. Inoltre la commissione sottolineò anche la necessità di regolamentare il traffico affinché la circolazione indifferenziata dei veicoli non ne alterasse l'equilibrio e non ne imbruttisse il tessuto storico-urbano.

Peraltro tali direttive fino ad oggi non sono state ancora recepite in una normativa specifica di settore da parte del legislatore nazionale. Non che ciò costituisca una lacuna da colmare al più presto, poiché si ritiene che una disciplina unitaria non sia nemmeno ipotizzabile data la varietà di problemi che i centri storici presentano (degrado, criminalità, traffico, inquinamento, abbandono etc...).

Dall'evoluzione della legislazione generale in materia di centri storici possono ricavarsi diversi momenti.

Un primo momento in cui si punta alla salvaguardia e alla tutela "passiva" [3] dei beni culturali: si considera la mera conservazione del singolo immobile al di fuori della tutela del complesso ambientale in cui esso è inserito. E' l'indirizzo delle cc.dd. "leggi Bottai", la legge 1 Giugno 1939, n. 1089 (sulla tutela delle cose d'interesse artistico e storico) e la legge 29 Giugno 1939, n. 1497 (sulla protezione delle bellezze naturali) [4].

Il secondo momento è rappresentato dalla legge-ponte sull'urbanistica (legge n. 765/67), che ha modificato la legge urbanistica fondamentale 17 agosto 1942, n. 1150. L'art. 17, in particolare, introduce due concetti fondamentali in merito alla tutela e valorizzazione dei centri storici:

- l'esigenza di considerare il centro storico nell'ambito della pianificazione urbanistica generale;

- la fissazione di standards specifici per i centri antichi, che di norma prescrivono la conservazione delle densità edilizie e fondiarie preesistenti, il divieto di superare le altezze degli edifici già esistenti, e così via.

Inoltre, la stessa norma (art. 17), al comma 5, si preoccupa che i centri storici possano subire delle irreparabili manomissioni in assenza di piani generali e stabilisce che in tale ipotesi sono consentite "esclusivamente opere di consolidamento e restauro, senza alterazioni di volumi" e che le eventuali aree libere sono inedificabili fino all'approvazione dello strumento urbanistico generale.

Peraltro, la legge-ponte si limitò, nel tracciare la disciplina urbanistica per i centri storici, a ripresentare un sistema di salvaguardia analogo a quello della vecchia tutela di impronta culturale delle "leggi Bottai".

E' opinione comune che la tutela introdotta dalla legge n. 765/67 rifletta i caratteri peculiari della politica urbanistica del periodo, preoccupata di regolare principalmente (se non soltanto) gli interventi nelle zone di espansione dell'abitato: essa, quindi, per il tessuto edilizio e abitativo preesistente nei centri storici, non poteva che proporre una tutela conservativa, incentrata su uno "strumentario di blocco" [5] degli interventi.

Terzo momento di evoluzione della legislazione generale sui centri storici può rinvenirsi nel titolo IV della legge 5 agosto 1978 n. 457 (sul "recupero del patrimonio edilizio esistente"), che ha introdotto i "piani di recupero".

Questa legge non si occupa in maniera specifica dei centri storici: non distingue, infatti, il recupero e la rivitalizzazione dei centri storici dagli altri interventi di recupero, ma si limita a prevedere, riduttivamente, che "restano ferme le disposizioni e le competenze previste dalle leggi n. 1089/39 e n. 1497/39" (art. 31, ult. comma).

Peraltro il titolo IV della legge richiamata ha avuto il merito di costituire il primo tentativo di adattamento del sistema complessivo della pianificazione, costruito sullo stampo dell'urbanistica dell'espansione, alle nuove necessità tracciate dal recupero. Inoltre, esso indicò, determinò e classificò gli interventi edilizi sull'esistente che, fino a quel momento, non erano normativamente differenziati dalle nuove edificazioni.

Quindi, le caratteristiche peculiari degli interventi nei centri storici sono state assorbite dalla più ampia e generica nozione di recupero del patrimonio edilizio esistente.

 

2. Assenza di una definizione legislativa e concettuale di "centro storico"

La mancata previsione di una disciplina ad hoc per i centri storici va imputata soprattutto alle difficoltà che sono state incontrate nel momento in cui si è tentato di circoscrivere l'oggetto della tutela: in altre parole, non esiste una definizione di centro storico ed i tentativi che sono stati fatti in passato hanno avuto come risultato una nozione spesso oscillante, per cui alla fine non si saprebbe nemmeno che cosa tutelare.

Già le leggi del '39 ignorarono la questione dei centri storici, mirando sostanzialmente ad una tutela passiva dei singoli monumenti, prescindendo dal contesto ambientale in cui risultassero inseriti.

Il primo vero momento di considerazione dei centri storici da parte del legislatore si è avuto con la legge-ponte . L'art. 17, comma 5, di tale legge introdusse, come si è detto, una forma di tutela che finalmente guardava ai complessi ambientali e non soltanto ai singoli immobili di particolare interesse. La norma vieta, negli "agglomerati urbani aventi carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale", ogni alterazione di volumi e ogni costruzione sulle aree libere, fino all'approvazione dello strumento urbanistico generale.

Peraltro tale normativa non definisce i detti agglomerati. Pertanto, apparve subito evidente l'opportunità di una specifica determinazione da parte del consiglio comunale in sede di adozione del Prg. (o Pdf.) o con apposita delibera.

Nello stesso anno della legge-ponte, a titolo esclusivamente orientativo, il ministero dei Lavori pubblici tentò, con circolare 28 ottobre 1967, n. 3210, una definizione di detti agglomerati, riferendosi:

a) alle strutture urbane in cui la maggioranza degli isolati contengono edifici costruiti in epoca anteriore al 1860, anche in assenza di monumenti o di edifici di particolare valore artistico;

b) alle strutture urbane racchiuse da antiche mura in tutto o in parte conservate, ivi comprese le eventuali propaggini esterne che rientrino nella definizione di cui sopra (punto a);

c) alle strutture urbane realizzate anche dopo il 1860, che nel loro complesso costituiscono documenti di un costume edilizio altamente qualificato.

Mentre l'art. 17, comma 5, della legge-ponte può comunque ritenersi modificato dalla nuova disciplina per i territori sprovvisti di qualsiasi piano urbanistico comunale, ai sensi dell'art. 4 legge 27 gennaio 1977, n. 10 ed analoghe leggi regionali [6], ancora vigente è la disciplina sugli standards urbanistici, introdotta sempre dalla l. n. 765/67, ai sensi dell'art. 17, commi 8 e 9.

Tale disciplina è contenuta nel noto d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, che, tra i vari settori territoriali omogenei, distingue la tanto dibattuta "zona A".

L'art. 2 stabilisce che "sono considerate zone territoriali omogenee (...) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da posizioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi".

Peraltro da tale norma deriva, indirettamente, una definizione ristretta di "centri storici", come zona da sottoporre a vincoli conservativi di natura urbanistica, e normalmente comprensiva della parte più antica della città e delle zone contigue, ma lontana dalla considerazione attuale del centro storico nel suo rapporto costante con l'evoluzione della vita della comunità.

In tale direzione vale la pena citare la definizione di centro storico che si ricava dalla recente legge urbanistica della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 ("Norme sul governo del territorio"). Questa, dopo aver tracciato le finalità degli interventi sui centri antichi (art. 59), prescrive che "sono centri storici gli organismi urbani di antica formazione che hanno dato origine alle città contemporanee. Essi si individuano come strutture urbane che hanno mantenuto la riconoscibilità delle tradizioni, dei processi e delle regole che hanno presieduto alla loro formazione e sono costituiti da patrimonio edilizio, rete viaria e spazi inedificati. La loro perimetrazione, in assenza di documentazione cartografica antecedente, si basa sulle configurazioni planimetriche illustrate nelle planimetrie catastali redatte dopo l'avvento dello stato unitario. L'eventuale sostituzioni di parti, anche cospicue, dell'edilizia storica non influisce sui criteri indicati per eseguire la perimetrazione.

Gli insediamenti storici puntuali sono costituiti da strutture edilizie comprensive di edifici e spazi inedificati, nonché da infrastrutture territoriali che testimoniano fasi dei particolari processi di antropizzazione del territorio. Essi sono ubicati anche al di fuori delle strutture urbane e costituiscono poli riconoscibili dell'organizzazione storica del territorio" (art. 60).

Tale norma non fa cenno a criteri cronologici, ma a parametri distintivi fondati su una visione più "moderna" dei centri storici, in un costante processo di adeguamento del territorio alle esigenze e agli interessi dell'uomo.

Recentemente, com'è noto, è entrato in vigore il d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, costituente il Testo Unico in materia di beni culturali e ambientali. Questo non fa riferimento ai centri storici, dato che, come si evince dalla relazione stessa del T.U., si è "avuto cura di mantenere inalterate quelle formulazioni delle due leggi fondamentali (l. 1089/39 e l. 1497/39) che hanno ormai assunto nella consolidata esperienza giuridica un valore quasi sacrale per la definizione di contenuti sostanziali delle discipline dei beni culturali e dei beni ambientali". Pertanto i centri storici non sono stati inseriti nel novero dei beni culturali ex art. 2.

Peraltro, l'art. 4 del T.U. dispone che i "beni non ricompresi nelle categorie elencate agli artt. 2 e 3 sono individuati dalla legge come beni culturali in quanto testimonianza avente valore di civiltà".

Si tratta di una norma che "rende omaggio" alla definizione unitaria di bene culturale proposta per la prima volta dalla commissione Franceschini, per cui il bene culturale era spiegato quale "testimonianza materiale avente valore di civiltà" e che dà una continuazione normativa a quanto previsto dal recente d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, in materia di conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali.

L'art. 148, comma 1, lett. a) di tale decreto, infatti, definisce come beni culturali, "quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico (...) e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge". In ogni caso sia la formula utilizzata dall'art. 148 del d.lg. 112/98 che quella dell'art. 4 del T.U. non hanno una immediata efficacia operativa che consenta di qualificare una cosa come bene culturale, ma occorrerà comunque a tale fine l'intervento da parte del legislatore.

Proprio in questa direzione si inserisce quella terza parte del parere del consiglio nazionale per i Beni culturali e ambientali sullo schema di T.U., che evidenzia i temi sui quali sono particolarmente urgenti interventi di innovazione e di revisione legislativa.

Tra questi, in particolare, il consiglio nazionale auspica la redazione di una legge sulle città storiche, la quale estenda l'ambito dell'azione di tutela oltre i limiti propri della l. 1089/39, al tempo stesso congiungendo in modo organico e nel pieno rispetto delle competenze di comuni, province e regioni l'intervento di salvaguardia con la normativa urbanistica e territoriale [7].

A tal proposito, nella precedente legislatura era stato presentato al parlamento un disegno di legge d'iniziativa dell'ex ministro Veltroni sulle "città storiche", con cui per la prima volta si è tentato di assegnare ai centri storici la loro giusta collocazione nel novero dei "beni culturali". La finalità generale del provvedimento era proprio quella di proteggere, recuperare e valorizzare i centri storici italiani.

Il disegno di legge muoveva pregiudizialmente dalla osservazione che i centri storici assumono interesse non solo per l'enorme valore storico-artistico che in essi è contenuto, non solo per la caratterizzazione del territorio su cui insistono, ma anche e soprattutto per il turismo che essi richiamano, poiché il turismo costituisce una delle maggiori risorse per l'economia italiana.

Il progetto di legge si riferiva non solo ai centri storici, ma anche alle "città storiche", estendendo l'attenzione dal centro storico, propriamente detto, ai quartieri e ai siti di interesse storico e artistico che attorniano il centro storico per conservarli e valorizzarli.

Si trattava di un disegno di legge che affidava ai comuni gran parte dell'attività di conservazione e di valorizzazione, sia sotto il profilo organizzativo che sotto il profilo economico.

Esso si basava su alcuni istituti fondamentali della legge 241/90 come l'accordo di programma e l'accordo sostitutivo, e altri (alcuni dei quali di nuova istituzione) quali la "perimetrazione", la "Conferenza comunale degli eventi e delle manifestazioni", la "dichiarazione di interesse culturale" per i locali in cui si svolgono quelle attività tradizionali (artistiche, artigianali, culturali, etc.) che oltre a far rivivere il centro storico, possono potenziare il settore occupazionale e produrre ricchezza, anche per i flussi turistici da essi richiamati.

La vera novità del progetto di legge era quella secondo cui spettava ai comuni perimetrare le zone con caratteristiche storiche (centri, quartieri, siti), dopodiché il sovrintendente per i Beni ambientali e architettonici si sarebbe espresso sulla conformità della perimetrazione all'effettiva estensione del patrimonio storico urbano (sia in eccesso che in difetto) e in caso di inerzia del comune, sarebbe stato il sovrintendente a proporre la perimetrazione al comune, se riscontrava l'interesse storico-artistico meritevole di tutela.

Tale proposta normativa è stato uno dei punti più discussi del disegno di legge poiché in molti ritenevano che nei centri storici così perimetrati non si sarebbe potuto "muovere un dito" senza l'autorizzazione del sovrintendente.

Nel novembre del 1997 l'Inu (Istituto nazionale urbanistica) aveva approvato una mozione con la quale criticava aspramente il provvedimento qualificandolo come "legge datata". L'Istituto contestava, in particolare, il tentativo di "isolare i centri storici e la loro salvaguardia dalla più generale disciplina urbana e territoriale" e segnalava "la pesante limitazione dell'autonomia dei comuni".

In ogni modo, nonostante le critiche, sembrava che il provvedimento dell'ex ministro Veltroni continuasse a lasciare intatta l'autonomia del comune, affidando alla sua discrezionalità la decisione riguardo a se provvedere alla perimetrazione e al programma d'intervento, poiché il sovrintendente aveva, in questa fase, solo una funzione di supporto alle scelte.

Fino ad oggi la mancata formulazione di una specifica definizione di centro storico, va imputata a sua volta alla indeterminatezza del concetto giuridico stesso di centro storico.

Infatti, nel momento in cui questo è preso in considerazione dalla disciplina urbanistica, e quindi non appena quest'ultima sembra trasferire l'oggetto della materia dalla tutela di tipo culturale a una tutela di tipo urbanistico, il centro storico viene definito come bene culturale.

Leggendo, infatti, l'art. 41-quinquies, comma 5, legge n. 1150/42 (introdotto dall'art. 17 della legge-ponte), che si occupa delle zone dell'abitato che hanno un valore storico-artistico-ambientale, e andando poi a vedere, nel d.m. n. 1444/68, la definizione della zona A, ci si accorge che, pur essendo il centro storico diventato una zona urbanistica, in realtà è definito come bene culturale: si fa riferimento, cioè, alle sue caratteristiche storico-ambientali.

Ciò non ha fatto altro che alimentare l'alone di ambiguità e incertezza che circonda la questione in discussione, perché a voler interpretare letteralmente l'art. 41-quinquies, il centro storico dovrebbe essere tutelato esclusivamente come zona urbanistica. Peraltro si fosse interpretata tale norma per quello che effettivamente dice, non tutti i Prg avrebbero dovuto procedere alla individuazione del settore A, poiché in molti comuni del nostro paese non c'è un centro o una parte dell'agglomerato urbano che abbia quei caratteri storico-artistico-ambientali richiesti dalla legge.

Ma poiché ciò non si è verificato, questo significa che l'interpretazione che è stata attribuita alla locuzione della legge-ponte (poi spiegata nel d.m. n. 1444/68) è stata una interpretazione ampia ed elastica: nonostante si fosse definito il centro storico come un bene culturale, esso è stato poi inteso esclusivamente come una zona urbanistica.

Predieri nel 1972 osservò che lo strumento urbanistico "può prevedere o non prevedere che una porzione del territorio venga considerata centro storico". Il legislatore "non dispone né che il comune sia tenuto ad individuare un'area come centro storico, né quando sia tenuto a farlo", nello strumento urbanistico generale "il centro storico può esserci o non può esserci; e qualora esso ci sia, non vi sono criteri posti dalla legge per determinarlo" [8].

 

3. Centri storici e "attività culturali"

Si è fatto in precedenza riferimento all'art. 148 del d.lg. 112/98, norma di estrema rilevanza poiché dopo aver fornito una nozione unitaria dei beni culturali (incentrata sulla testimonianza avente valore di civiltà), delinea uno spettro assai ampio delle attività che rientrano fra le responsabilità dei poteri pubblici nella materia.

Alla tutela si affiancano la gestione e la valorizzazione, nella cui definizione assume centralità la finalizzazione alla fruizione collettiva dei beni culturali e ambientali. Inoltre i tipi di azione amministrativa previsti dal decreto legislativo non si limitano a quelle di tutela ed a quelle che hanno di mira la fruizione del bene culturale. Sia pure molto diverse per finalità e logiche di svolgimento, esse riguardano comunque una cosa che incarna un valore culturale. Ad esse l'art. 148 aggiunge le "attività culturali", dirette a formare e diffondere espressioni dell'arte e della cultura, e la "promozione" diretta a suscitare e sostenere le suddette attività culturali. Quindi si affievolisce o sparisce del tutto il riferimento alla cosa materiale da tutelare o da valorizzare, ed entrano in gioco le attività più varie, anche se comunque distinte da quelle rientranti nella nozione di spettacolo delineata dal successivo articolo 156 del decreto.

Cosa esattamente siano le attività in questione è davvero arduo dire, sia per la oscura definizione sopra ricordata, sia perché anche le disposizioni connesse non danno alcuna indicazione positiva (cfr. specialmente l'art. 148, comma 1, lett. g); e l'art. 153). L'unica certezza è che si tratta di attività di carattere strumentale rispetto alle "espressioni della cultura e dell'arte", non attività a valenza diretta ed autonoma [9].

Sulla base di tale premessa, parlando di centri storici occorre accennare alla questione relativa alle attività tradizionali, per lo più artigianali, che vengono viste come beni vitali per gli antichi centri urbani. Alcuni [10] hanno parlato addirittura di "beni culturali-attività", con riferimento a quelle manifestazioni di vita "spirituale" prive di supporto materiale e che nonostante ciò sembrano elevarsi a grado di bene culturale, richiamando così la distinzione tra beni culturali-cosa e beni culturali-attività elaborata per la prima volta da Cassese [11].

Già in seno alla commissione Franceschini si diede risalto al fatto che sarebbe stato indispensabile salvaguardare le attività originariamente esercitate nel centro storico, per non snaturarne i luoghi, con attività ad essi incompatibili.

La questione si è posta con riguardo al tema della compatibilità della localizzazione, in contesti urbani di particolare interesse ed in rapporto alle tradizioni locali, delle attività commerciali e dei pubblici servizi. Si tratta in altre parole del fenomeno delle trasformazioni degli esercizi commerciali, avvenuto verso la prima metà degli anni '80 in tutte le medie e grandi città italiane, in sede di scadenza dei contratti di locazione degli immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, quando i titolari di alcune attività, per lo più artigianali, sono stati costretti a rilasciare gli immobili locati per fare posto ad esercizi commerciali più frequentati e redditizi (fast-food, jeanserie, ecc.), ma che non avevano nulla a che fare con le caratteristiche sociali ed ambientali dei centri storici.

Il tentativo di impedire lo sfratto delle tradizionali "botteghe" dei centri storici è stato perseguito dalla P.A., nella figura dell'allora ministero dei Beni culturali, attraverso lo strumento della "dichiarazione di interesse storico" dell'immobile in cui era svolta l'attività.

A tal fine ci si è avvalsi della legge n. 1089/39, alla quale erano soggetti anche gli immobili che, pur non possedendo un intrinseco pregio storico o artistico, erano peraltro riconosciuti di particolare interesse "a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere".

Peraltro la legittimità dei provvedimenti ministeriali di vincolo è stata impugnata dai proprietari degli immobili che hanno denunciato l'eccesso di potere in cui la P.A. sarebbe incorsa violando l'art. 2 della 1089/39 (oggi integralmente recepito dall'art.2, comma 1, lett. b, del T.U.) che consentirebbe di vincolare soltanto le cose di valore storico o artistico e non anche le attività, di qualunque natura, culturale o non, esse siano.

Tale vicenda si è conclusa con alcune pronunce della giurisprudenza, amministrativa prima e costituzionale poi, in base alle quali si è posto in chiaro che il sistema di tutela della legge n. 1089/39 attiene alle cose materiali e, quindi, non può essere oggetto di una trasposizione applicativa al diverso ambito di tutela delle attività culturali o di interesse culturale.

Questo vuol dire che la tutela delle attività dotate di rilevanza culturale ha rilievo giuridico, ma si deve attuare in una dimensione diversa da quella propria delle cose. In breve, occorre che al posto di un inefficace vincolo di continuazione dell'attività tradizionale, si operi con strumenti di sostegno che siano idonei a mantenere quell'ambiente culturale nel quale le attività culturalmente pregevoli possano conservarsi e riprodursi.

n questa prospettiva si collocano le innovazioni significative introdotte con il d.l. n. 833/86 parzialmente convertito nella legge 6 febbraio 1987 n. 15 (c.d.. "legge Mammì"), recante misure urgenti in materia di contratti di locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo [12].

L'art. 4 di tale legge affida ai comuni, al fine di tutelare le tradizioni e le aree di particolare interesse nel proprio territorio, il potere di negare le autorizzazioni commerciali per determinati prodotti, determinando le attività incompatibili con le esigenze di tutela sopra menzionate ed utilizzando a tal fine le disposizioni della legge n. 426/71 in materia di disciplina del commercio, che in tal modo vengono integrate.

Tale norma, peraltro, è stata da alcuni criticata per l'eccessiva discrezionalità [13] riconosciuta ai comuni a causa della mancata definizione dei parametri "culturali" idonei alla individuazione delle attività commerciali compatibili; altri ne hanno sottolineato la non irrazionalità, auspicandosi in ogni modo una legge di settore capace di connettere la tutela dei valori culturali con le esigenze urbanistiche e commerciali.

A seguito della entrata in vigore del d.lg. 31 marzo 1998, n. 114, concernente la riforma della disciplina relativa al settore del commercio a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, la materia delle licenze commerciali è mutata radicalmente con la soppressione, fra l'altro, del tradizionale sistema delle 14 tabelle merceologiche, sostituite da due soli grandi settori, gli alimentari e i non alimentari.

In particolare, l'articolo 6 di questo decreto legislativo, nel disciplinare la programmazione della rete distributiva, affida alle regioni l'insediamento delle attività commerciali di vendita al dettaglio e individua, fra gli obiettivi che le stesse regioni dovranno perseguire, anche:

- la valorizzazione della funzione commerciale a fine della riqualificazione del tessuto urbano, in particolare per quanto riguarda i quartieri degradati al fine di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio;

- la salvaguardia dei centri storici attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale.

A loro volta, gli strumenti urbanistici comunali debbono fra l'altro individuare le aree da destinare agli insediamenti commerciali e i limiti ai quali detti insediamenti sono sottoposti in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell'arredo urbano; analoghe limitazioni dovranno valere per le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale.

Ma anche in tal caso il legislatore non ha fatto alcun riferimento a quelli che dovrebbero essere i "criteri culturali" che l'amministrazione dovrebbe adottare nell'individuazione delle attività commerciali compatibili con il contesto storico-artistico dei centri antichi.

In ogni modo è significativo come l'autorizzazione commerciale possa essere condizionata non solo da bisogni principalmente economici di sviluppo, ma anche dalla compatibilità con le tradizioni del luogo; il che potrebbe portare alla conclusione che alla base delle norme fino ad ora richiamate vi sia l'intuizione che anche un'attività commerciale possa essere concepita come "bene culturale" da tutelare.

 

4. L'esperienza del centro storico di Lecce

Dall'analisi condotta fino adesso si può evincere una regola di carattere generale, cioè valida per tutti i centri storici: la sola urbanistica non è sufficiente a porre in essere un'organica opera di rivitalizzazione, ma occorrono altri strumenti che guardino soprattutto al profilo economico-sociale.

Inoltre, come spesso accade, la disciplina urbanistica esistente presenta addirittura elementi di insufficienza e incoerenza normativa.

E' il caso del centro storico di Lecce, dove le norme tecniche di attuazione (Nta) al piano regolatore generale oltre a fornire una definizione abbastanza ristretta di centro storico, comprendendo esso la sola maglia del tessuto urbano racchiusa dalle antiche mura cinquecentesche, presentano carattere di contraddittorietà, soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione delle destinazioni d'uso.

Nella zona individuata come centro storico sono previsti soltanto interventi di recupero di tipo conservativo finalizzati, tra l'altro, "a mantenere la popolazione attuale; mantenere la struttura del quartiere prevedendo il recupero delle zone degradate; (...) garantire il mantenimento delle destinazioni d'uso attuali per quanto attiene alla residenza, al commercio al dettaglio ed all'artigianato non nocivo; consentire l'allontanamento di attività nocive, o che comportano di norma notevole affluenza di pubblico e comunque quelle incompatibili con il restauro conservativo della zona; [...]" (art. 40, Nta).

L'art. 42 delle Nta, che è quella norma che vieta e consente all'interno del centro storico l'esercizio di determinate attività, ammette in tale zona l'apertura di esercizi commerciali di dettaglio, ristoranti, bar e locali per attività ricreative, agenzie di credito e di assicurazioni ed altre ancora.

Confrontando tale norma (art. 42) con la precedente (art. 40), laddove, si è detto, che tra le varie finalità cui devono mirare gli interventi, vi è quella di allontanare dal centro storico le "attività nocive", sembrerebbe che la possibilità di dar vita nel centro storico, in particolare, a bar e locali per attività ricreative mal si concili con la predetta finalità.

In realtà le disposizioni in questione non forniscono spiegazioni sufficienti su cosa debba intendersi per "attività nocive" e per "attività ricreative".

Sta di fatto che camminando per le vie del centro storico di Lecce, si è testimoni di una diffusa proliferazione di pub, birrerie, paninoteche, etc.; tutti locali, quindi, in cui l'attività ricreativa è l'elemento dominante e che, in quanto tali, attirano su loro una moltitudine di persone.

Se poi tali esercizi commerciali siano nocivi o meno per il centro storico, sta all'amministrazione comunale stabilirlo in base ad una valutazione discrezionale, vista l'assenza di parametri oggettivi prestabiliti e la genericità delle Nta.

A giudicare da quelli che sono stati i risultati di tali valutazioni, sembrerebbe che non si tratti di "attività nocive", anche se i dubbi restano, soprattutto quando si assiste passivamente alla nascita nel cuore antico della città di un esercizio "McDonald'S" che non ha avuto grosse difficoltà ad aprire i battenti.

Tutto il centro storico di Lecce è individuato come zona di recupero, spetterà poi ai piani particolareggiati di settore individuare gli immobili, i complessi edilizi, gli isolati da assoggettare a piano di recupero.

Fino ad oggi un solo settore del centro storico ha visto l'approvazione del piano particolareggiato di riferimento (con delibera C.C. n. 753 del 13/07/82), peraltro tale piano è rimasto praticamente inattuato per tutti questi anni. I motivi fondamentalmente vanno individuati nella esiguità delle risorse finanziarie a disposizione dell'amministrazione comunale rispetto a quelle occorrenti per avviare un organico processo di recupero.

In ogni modo, l'inizio dell'opera di riqualificazione del centro storico di Lecce è stata resa possibile grazie ai finanziamenti del programma di iniziativa comunitaria Urban, il quale rivolgendosi ai quartieri urbani "in crisi", sembra particolarmente adatto al recupero e alla rivitalizzazione, a fini abitativi e di sfruttamento economico e commerciale, dei centri storici.

 



Note

[1] F.G. Scoca - D. D'orsogna, Centri storici, problema irrisolto, in Scritti in onore di Alberto Predieri, 1996, Milano, vol. II, 1354.

[2] W. Cortese, La tutela dei centri storici e delle città d'arte. Profili normativi e prospettive alla luce della legislazione statale, regionale e comunitaria, in Nuove Autonomie, 2-3/1998, 236.

[3] M.S. Giannini, Difesa dell'ambiente e del patrimonio naturale e culturale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1971, 1124.

[4] Recentemente entrambe queste leggi sono state abrogate dal d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, il quale ha provveduto al coordinamento di tutte le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali e ambientali, tramite la predisposizione del Testo Unico per i beni culturali e ambientali. In particolare, per quanto concerne le leggi del '39, va detto che la disciplina in esse contenuta è stata quasi interamente recepita dal Testo Unico.

[5] A. Predieri, L'espropriazione di immobili nei centri storici per l'edilizia residenziale pubblica secondo la legge n. 865 del 1971. Canoni interpretativi nella semantica giuridica delle norme vigenti e prospettive di normazioni regionali, in Foro amm., 1972, III, 632.

[6] G. D'angelo, Quadro dei soggetti e delle competenze in tema di interventi nei centri storici, in Rivista giuridica dell'edilizia, 1994, 216.

[7] Per il testo del parere citato, cfr. M. Cammelli (a cura di), La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, Mulino, 2000 (appendice)

[8] A. Predieri, L'espropriazione di immobili nei centri storici per l'edilizia residenziale pubblica secondo la legge n. 865 del 1971. Canoni interpretativi nella semantica giuridica delle norme vigenti e prospettive di normazioni regionale cit., 627.

[9] Cfr. sul punto, M. Chiti,La nuova nozione di "beni culturali" nel d.lg. 112/1998, in Aedon, 1998, n. 1.

[10] F.G. Scoca - D. D'orsogna, Centri storici, problema irrisolto, cit., 1376 ss.

[11] Per un approfondimento del tema cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L'Amministrazione dello Stato, Milano, 1976, 177 ss.

[12] Occorre precisare, peraltro, come questo sistema di tutela incide solo sull'aspetto negativo del problema, dato che consente di impedire che vengano iniziate o proseguite attività commerciali incompatibili con la salvaguardia dei centri storici. In realtà, una incidenza efficace sul piano positivo che garantisca, tra le varie attività compatibili con il contesto del centro antico, anche lo sviluppo di quelle di interesse culturale, dovrebbe essere realizzata attraverso l'esercizio di funzioni attive di promozione ed incentivazione.

[13] L'originario contenuto dell'art. 4 d.l. 832/86, poi sostituito in sede di conversione, si faceva carico di ridurre considerevolmente la discrezionalità comunale attraverso un procedimento il quale prevedeva che il ministro dei Beni culturali, di concerto con il ministro dei Lavori pubblici e su proposta del sovrintendente o del comune, dichiarasse, con decreto, l'interesse culturale di aree comprese nei centri storici e inoltre dettasse, con l'ulteriore concerto del ministro dell'Industria, indirizzi e criteri per l'individuazione delle attività imprenditoriali compatibili con le caratteristiche delle stesse zone. Il comune, in questo caso, avrebbe dovuto intervenire solo in fase attuativa dei criteri ed indirizzi, precedentemente stabiliti, e nelle aree individuate. Questo procedimento è stato del tutto soppresso ed è rimasto così solo il potere comunale.



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