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Il cinema dopo le riforme: il caso è chiuso?

di Carla Barbati

 

Il settore della cinematografia è pressoché l'unico, fra quelli ascrivibili al più ampio, ed eterogeneo, ambito dello spettacolo, ad usufruire di un assetto normativo suscettibile, ad oggi, di essere analizzato "a gioco fermo".

Pur non potendosi escludere, anche per esso, ulteriori riforme né ricadute da altre innovazioni di contesto, che l'esperienza di "questi ultimi anni" consiglia di dover sempre immaginare, quale che sia la materia con la quale ci si misura, il cinema è il solo, delle diverse espressioni dello spettacolo, nei cui confronti sia stata esercitata la delega, conferita al governo dall'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, per un riassetto delle disposizioni legislative volto a garantirne l'adeguamento ai nuovi criteri costituzionali di riparto delle competenze e la rispondenza ad esigenze di razionalizzazione-semplificazione degli apparati e dei procedimenti, tramite i quali si realizza l'intervento pubblico di promozione-sostegno al settore.

Di più; la disciplina di riforma delle attività cinematografiche, adottata con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28, è stata già oggetto, per iniziativa delle regioni, di scrutinio da parte della Corte costituzionale, la quale ha rilevato profili di incostituzionalità in alcune delle sue disposizioni (sent. n. 285/2005), cui ha fatto seguito la repentina adozione di provvedimenti legislativi ed anche amministrativi volti ad assicurarne la compatibilità con il disegno costituzionale.

Tant'è che, da parte delle regioni, non giungono, al momento, richieste esplicite per un ampliamento o per una ridefinizione del loro ruolo. Dopo le prime reazioni espresse, all'indomani della revisione del Titolo V, parte II, Cost., perché si giungesse ad un riconoscimento dello spettacolo quale materia che, in quanto "innominata", fosse collocabile fra quelle di loro competenza residuale, esse hanno mostrato di accettare, ancor prima che, sul punto, si pronunciasse la Corte costituzionale (sentt. nn. 255 e 256/2004), una differente interpretazione della lettera e, soprattutto, dei silenzi costituzionali.

Le regioni hanno così aderito alle tesi, di parte governativa, che facevano dello spettacolo, quale espressione delle "attività culturali", un ambito la cui promozione ed organizzazione è assegnata alla competenza concorrente, dunque assoggettato al legislatore statale, quantomeno per la fissazione dei principi fondamentali di disciplina (v., in questo senso, decreto legge 18 febbraio 2003, n. 24, conv. con legge 17 aprile 2003, n. 82).

Anzi, con un atteggiamento ancor più disponibile, hanno accettato che lo Stato intervenisse con provvedimenti amministrativi propri, spogliati, per autodichiarazione del legislatore statale, della natura regolamentare, che ne avrebbe impedito l'adozione in un ambito di competenza concorrente (art. 117, comma 6, Cost.)

Ancora una volta, anche per questo settore, il punto di incontro fra le ragioni dello Stato e le esigenze delle autonomie è stato individuato, dal giudice costituzionale, e come tale accettato dalle regioni, nella formula aurea, quasi "salvifica", della collaborazione e dell'intesa, garantite legislativamente ed attuate in sede amministrativa.

Può, perciò, affermarsi che tutto sia risolto per il settore cinematografico? Che il "caso cinema" sia chiuso, grazie ai passi compiuti dagli attori pubblici del sistema, con l'avallo e l'ausilio della giurisprudenza costituzionale e di un legislatore particolarmente solerte nei suoi interventi di adeguamento e di risistemazione della normativa che lo disciplina?

Forse, ciò che si può dire è che, il cinema sta vivendo un proprio momento di "tregua" istituzionale. Specie se lo si raffronta con le difficili composizioni che, ancora, condizionano l'assetto di altri settori, ivi compresi quelli, maggiormente vicini, dello "spettacolo dal vivo", da sempre in attesa di una normativa unitaria, per la quale continuano ad esistere, come sono esistiti pressoché in ogni tempo, disegni e proposte, mai giunti ad un'approvazione definitiva, e quelli, confinanti, dei beni culturali e, specialmente, dei beni paesaggistici, può, in effetti, trasmettere l'impressione che "tutto sia a posto".

In realtà, pensare che questa "tregua", tra gli attori istituzionali, abbia "chiuso il caso" equivarrebbe a ritenere che la questione cinema - così come più ampiamente quella dell'intero ambito dello spettacolo - attenga solo al "chi", fra i diversi livelli di governo, sia legittimato ad intervenire per la promozione delle attività cinematografiche, laddove i problemi del settore, e la stessa questione del decentramento per esso possibile, non sono riducibili a questi soli aspetti, come ben documentano le letture che del "caso cinema" offrono le analisi, accolte in questo numero della rivista, di Endrici, La Polla, Boarini.

E' vero, semmai, che il terreno dell'intervento pubblico di sostegno finanziario è quello sul quale si combattono le battaglie e si celebrano le tregue: la stessa pax tra i soggetti istituzionali e ciò che l'ha preparata, ossia la disponibilità delle regioni a lasciare spazio all'intervento statale, origina dalla preoccupazione di garantire il funzionamento di questa che, ad oggi, è la leva principale dell'azione di promozione pubblica dello spettacolo. Ogni soluzione che avesse inteso ridefinire i modelli organizzativi e gestionali, sui quali poggia il sistema di finanziamento al cinema, avrebbe bloccato l'erogazione dei fondi e, dunque, molte attività del settore. Anche le decisioni della Corte costituzionale, dirette a legittimare l'intervento ed il ruolo statale, possono leggersi come espressioni della volontà di assicurare la tenuta di un sistema, messo a dura prova dalle indicazioni, ma anche dai silenzi costituzionali.

Tuttavia, è sufficiente allargare lo sguardo al fronte occupato dagli operatori del settore, per comprendere quanto questo, dell'intervento pubblico di sostegno finanziario, sia anche il terreno sul quale le battaglie continuano.

Il "caso cinema", in sostanza, non può considerarsi "chiuso". I problemi che restano aperti investono, prima ancora che il "chi", il "come" dell'attività di promozione pubblica che, se declinata o pensata in termini di mero ausilio finanziario, lascerà irrisolto il caso, stante l'insufficienza delle risorse disponibili.

Così, è sempre in relazione al "come" dell'intervento pubblico che si definisce anche la questione del decentramento possibile. Il decentramento, d'altro canto, non rileva solo come formula organizzativa, in sé e per sé considerata, modello o disegno di distribuzione delle competenze. Più che un fine, il decentramento è un mezzo, pensato per quello che si ritiene un miglior funzionamento degli apparati pubblici ed una loro maggiore capacità di risposta ai bisogni espressi dai diversi settori.

Di conseguenza, interrogarsi sul ruolo delle autonomie territoriali non significa solo rispondere ad esigenze di imputazione astratta di compiti e di funzioni. Significa, o dovrebbe significare, chiedersi se e come i diversi livelli di governo, compresi questi subnazionali, possano concorrere a "promuovere" le attività cinematografiche, nelle diverse fasi attraverso le quali passa la loro realizzazione e diffusione.

E' questo l'interrogativo al quale le autonomie sono chiamate a dare risposta, a fronte dei nuovi spazi che, comunque, si sono aperti anche per esse e del quale alcune stanno iniziando ad usufruire, come documentano le indicazioni offerte dalle analisi di Antonella Iunti e di Leonardo Zanetti.

Ma questo è anche l'interrogativo cui deve dare risposta il centro statale. La soluzione o la parziale soluzione del caso cinema, come più in generale di tutte le espressioni della cultura, non può essere consegnata solo alla sistemazione dei rapporti tra i soggetti pubblici. Essa presuppone anche, se non in via prioritaria, un ripensamento dei rapporti pubblico-privato. Tema, questo, tanto frequentato da farne apparire sin obsoleta o retorica l'evocazione, ma, in realtà, ancora aperto ed in attesa di risposte che richiedono sia un nuovo di modo di pensarsi del pubblico, sia un nuovo modo del privato di guardare al pubblico e declinare le proprie necessità.

La "tregua", celebrata nel nome della collaborazione, del coordinamento e, per taluni aspetti, della codecisione fra i livelli di governo, se rappresenta un indubbio e significativo passo avanti, rispetto a soluzioni di elevata o di esclusiva centralizzazione che ponevano in dubbio la stessa possibilità delle autonomie di espletare un proprio ruolo, non è dunque, ed ancora, il "punto di arrivo", capace di chiudere il "caso cinema".

E', semmai, un "punto di partenza" che apre nuovi scenari e nuove modalità di intervento ai diversi attori pubblici, ai quali crea le condizioni per pensare non soltanto al "chi", ma anche al "come" della loro azione di sostegno. Per essi si apre, perciò, la possibilità, ma anche l'opportunità, di immaginare politiche che li conducano ad andare oltre un ruolo meramente erogatore di risorse economiche (comunque insufficienti) nonché capaci di dare avvio ad un rapporto con il privato che non ne faccia il mero destinatario di finanziamenti pubblici, ma anche e, principalmente, il destinatario di misure volte a sollecitare o favorire lo sviluppo delle imprenditorialità di un settore che, proprio in ragione delle logiche e delle regole di produzione e diffusione/distribuzione delle opere, è meno esposto, se non per alcune delle sue espressioni, alle "debolezze" del mercato che condizionano la sorte di altre attività o beni della "cultura".



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