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Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998)

di Eugenio Bruti Liberati



Sommario: 1. Considerazioni introduttive: l'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998 n. 368 e l'esternalizzazione di compiti amministrativi. - 2. L'esternalizzazione mediante accordi. In particolare: i compiti affidabili ai privati. - 3. Il problema della qualificazione giuridica degli accordi esternalizzatori. Cenni al regime giuridico applicabile: modalità di scelta dei privati e disciplina del rapporto convenzionale tra ministero e privati. - 4. L'esternalizzazione mediante la creazione di una struttura pubblico/privata.


1. Considerazioni introduttive: l'art. 10 del d.lg. 20 ottobre 1998 n. 368 e l'esternalizzazione di compiti amministrativi

È noto che l’art. 10 del d.lg. 368/1998 prevede che "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali" il ministero per i Beni e le Attività culturali possa stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e soggetti privati nonché costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società.

Come emerge dal titolo assegnato al mio intervento, questa disposizione può essere intesa come una norma sulla esternalizzazione dei compiti del ministero, cioè come una norma che esplicitamente consente, e nello stesso tempo dà indirizzo, agli organi ministeriali di avvalersi di strutture (private ovvero pubblico/private ma comunque) esterne all’apparato burocratico del ministero per la realizzazione dei loro fini istituzionali.

Scopo delle annotazioni che seguono è appunto quello di sviluppare questa lettura della norma, chiarendo il nesso tra gli istituti giuridici richiamati dall’art. 10 e il fenomeno dell’esternalizzazione e delineando i principali problemi di regime giuridico che tale fenomeno pone con riferimento al settore dei beni e delle attività culturali.

È bene notare, preliminarmente, che di esternalizzazione può parlarsi, ed effettivamente si parla, per designare vicende assai diverse tra loro.

La scelta dello Stato o di un’altra amministrazione territoriale di istituire, per lo svolgimento di determinati compiti di rilevanza pubblicistica, una struttura autonoma e distinta dal suo apparato istituzionale ma destinata a rimanere formalmente e sostanzialmente pubblica (un’azienda, un’istituzione, un ente); quella di creare una struttura non solo autonoma dall’organizzazione interna dell’amministrazione territoriale ma anche aperta alla partecipazione di partner privati (una società, una fondazione, un’associazione); quella di affidare i compiti in questione ad un soggetto privato; quella di sostenere sotto il profilo finanziario (o anche logistico) lo svolgimento da parte di un soggetto privato di un’attività considerata di pubblico interesse ma non assunta dall’ente pubblico finanziatore sotto la propria diretta responsabilità: sono tutte soluzioni organizzative incentrate sulla decisione - che può essere assunta dall’amministrazione competente sulla base di astratte previsioni legislative oppure già direttamente dal legislatore - di perseguire determinate finalità pubblicistiche non utilizzando la struttura burocratica propria della suddetta amministrazione bensì rivolgendosi ad organismi ad essa esterni - sono cioè tutte scelte qualificabili come di esternalizzazione.

È ovvio peraltro che per ognuna di esse vengono in rilievo istituti e discipline in parte notevole differenti; e che differenti sono anche le ragioni di fondo che sostengono nei diversi casi la scelta esternalizzatoria.

Di tali differenti istituti, discipline e ragioni ispiratrici non è possibile, in questa sede, trattare in termini generali. È invece possibile e opportuno rilevare come sostanzialmente tutte e quattro le formule organizzatorie che ho sopra richiamato siano state (sia pure in modo non esteso) utilizzate, in questi ultimi anni, nel settore dei beni e delle attività culturali.

Cito, a titolo di esempio, la costituzione da parte di talune amministrazioni comunali di istituzioni o di aziende speciali preposte alla gestione dei servizi culturali (o di taluni servizi culturali) del comune [1]; l’affidamento dei compiti inerenti alla "diffusione dell’arte musicale" alle fondazioni di diritto privato (aperte alla partecipazione dei soggetti privati) risultanti dalla trasformazione degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate[2]; i casi (rari, a quanto mi risulta) di affidamento da parte di enti locali ad istituzioni culturali private dei compiti concernenti la valorizzazione e la gestione di beni culturali di proprietà pubblica; il finanziamento dato dallo Stato ad istituzioni culturali private per la realizzazione di determinate iniziative [3].

Come sovente accade, l’art. 10 del d.lg. 368/1998 non è quindi una norma che innovi radicalmente il sistema previgente, ma è invece una disposizione che registra, codifica e nello stesso tempo stimola ed indirizza un processo che era già in atto [4], e che aveva trovato un parziale ma esplicito riconoscimento anche in diverse disposizioni legislative precedenti (particolarmente significativi sono, da questo punto di vista, l’art. 4 del d.l. 14 novembre 1992 n. 433, conv. in legge 14 gennaio 1993 n. 4, e il successivo art. 47-quater del d.l. 23 febbraio1995 n. 41, conv. in legge 22 marzo 1995 n. 85, che hanno previsto l’affidamento a soggetti privati o pubblico/privati della gestione dei c.d. servizi aggiuntivi e di attività ad essi assimilate; nonché l’art. 10 della legge 8 ottobre 1997 n. 352, che ha autorizzato il ministero a costituire un’apposita società per azioni, denominata Sibec Spa, per la promozione e il sostegno di interventi di restauro, recupero e valorizzazione dei beni culturali [5]).

Anche a tali precedenti disposizioni era già sotteso, almeno in embrione, quel mutamento di indirizzo politico che ha poi trovato più netta e generale espressione nell’art. 10 del d.lg. 368. Sino ai primi anni novanta, il ministero per i Beni culturali e ambientali appariva come un corpo burocratico notevolmente qualificato sotto il profilo tecnico (in particolare, quanto all’esercizio delle funzioni di conservazione e di tutela dei beni), ma piuttosto incline alla chiusura (se non alla diffidenza) nei confronti dello spirito d’iniziativa e dell’apporto collaborativo dei privati [6].

Questo non impediva al ministero di avvalersi dei privati stessi per l’esecuzione di determinati compiti (ad esempio, per attività di inventariazione e catalogazione o di restauro o per scavi d’urgenza), né di ricercare l’apporto finanziario di imprese private per la sponsorizzazione di determinate iniziative. Era peraltro sostanzialmente assente la disponibilità a coinvolgere direttamente i privati nella gestione o valorizzazione di beni culturali e nello svolgimento di altre attività culturali di competenza del ministero.

Il cambiamento di rotta avviene, com’è noto, sia per ragioni interne al settore dei beni e delle attività culturali, sia per cause esterne e più generali.

Semplificando molto: crescono fortemente, da un lato, l’esigenza di una gestione più moderna ed efficiente dei beni culturali e di una più incisiva valorizzazione dei medesimi, nonché la consapevolezza dei limiti al riguardo propri dell’apparato ministeriale; si afferma gradualmente anche nel nostro sistema istituzionale, d’altro canto, quel complesso orientamento politico che va sotto il nome di sussidiarietà orizzontale, e dunque l’idea che i pubblici poteri non debbano in linea di massima provvedere direttamente alla gestione delle attività di pubblico servizio, bensì avvalersi - laddove possibile - delle risorse allo scopo rinvenibili nel mercato (quando si tratti di attività di rilevanza imprenditoriale) o nella società civile (per quelle di carattere più spiccatamente sociale).

È per queste vie che si perviene - non può dirsi quanto consapevolmente - alla disposizione dettata dall’art. 10 del d.lg. 368/1998, e cioè ad una norma che prevede in generale - e non con riferimento a singoli ambiti di intervento o compiti del ministero - che il medesimo possa avvalersi della collaborazione di soggetti privati "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni".

Occorre aggiungere che, secondo la previsione contenuta nell’art. 10, la stipula di accordi ovvero la creazione di organismi (associativi, fondazionali o societari) "misti" dovrebbero coinvolgere non solo i soggetti privati ma anche amministrazioni pubbliche diverse dal ministero.

Da questo punto di vista, evidente appare il collegamento della norma con quelle disposizioni del d.lg. 112/1998 che, in particolare con riferimento ai compiti di valorizzazione dei beni culturali e di promozione delle attività culturali (artt. 152 e 153), hanno previsto "forme di cooperazione funzionali e strutturali tra Stato, regioni ed enti locali" [7].

In questa prospettiva, l’art. 10 può essere visto come un punto di saldatura tra i principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale, come una norma che prevede specifiche forme di raccordo e di collaborazione tra lo Stato e le autonomie territoriali e, nello stesso tempo, tra lo Stato e le autonomie sociali ed economiche. E non è certo casuale, dato il forte collegamento tra l’idea della sussidiarietà e quella della paritarietà nei rapporti Stato/autonomie, che tali forme di raccordo e di collaborazione si fondino su istituti giuridici di tipo negoziale e pattizio: l’accordo, l’associazione, la fondazione, la società.

A tali istituti, e agli specifici problemi giuridici che essi pongono con riguardo all’esternalizzazione dei compiti del ministero per i Beni e le Attività culturali, è ora necessario rivolgere l’attenzione. Con la preliminare avvertenza che, se tra la stipula di accordi, da un lato, e la partecipazione ad associazioni, fondazioni o società, dall’altro, vi sono ovvie differenze funzionali e di disciplina generale - il che giustifica una loro analisi separata -, dall’angolo visuale qui considerato molte tra le questioni che vengono in rilievo sono in realtà comuni ai due casi; cosicché frequenti saranno inevitabilmente i rinvii e i richiami tra le differenti parti della trattazione che sono ad essi dedicate.

 

2. L'esternalizzazione mediante accordi

In particolare: i compiti affidabili ai privati.Alla luce dell’impostazione sopra delineata, è chiaro che ai fini in esame, tra le diverse tipologie di accordo stipulabili dal ministero ai sensi dell’art. 10 del d.lg. 368/1998, vengono in rilievo solo quelle finalizzate all’esternalizzazione di funzioni o servizi ministeriali.

Non è quindi possibile occuparsi, in questa sede, degli accordi che abbiano un oggetto e una funzione differenti, pur se essi possono in concreto assumere notevole rilievo ai fini del più efficace esercizio dei compiti del ministero [8].

Nella prospettiva ora precisata, la prima questione che appare necessario affrontare - con l’intento di fornire sul punto alcune prime, certamente non conclusive indicazioni - è quella dell’individuazione dei compiti affidabili dal ministero, in via convenzionale, a soggetti privati.

Al riguardo, è innanzitutto certo che ai privati possono essere assegnate in concessione le molteplici (e assai eterogenee) attività qualificate come "servizi aggiuntivi" ovvero assimilate agli stessi, secondo quanto esplicitamente previsto dai sopra citati art. 4 della c.d. legge Ronchey e 47-quater del d.l. 41/1995: affidamento in concessione che, stante il carattere normalmente convenzionale del rapporto che da esso discende [9], può farsi rientrare - per fini di chiarezza sistematica - nell’ambito di operatività della norma dettata dall’art. 10 del decreto 368.

Appare altresì indubbio che il ministero possa - ed anzi sia specificamente indirizzato dal suddetto art. 10 ad - acquisire in via convenzionale la collaborazione di soggetti privati nello svolgimento delle sue funzioni di valorizzazione e gestione dei beni culturali ed ambientali e di promozione delle attività culturali, e che a tale scopo esso possa affidare ai medesimi prestazioni strumentali rispetto a tali funzioni [10].

La questione centrale - relativamente alla quale si gioca in effetti la reale portata innovativa della disposizione introdotta con il d.lg. 368/1998 - è peraltro quella inerente alla possibilità per il ministero di affidare in concessione - rectius, mediante accordi di tipo concessorio - a privati la valorizzazione e/o la gestione complessiva di un bene culturale o ambientale oppure di un’attività di promozione culturale.

Può ad esempio il ministero, in base (o anche in base) alla norma qui in esame, affidare ad una fondazione culturale privata il recupero, la valorizzazione e la gestione di una dimora storica, di un’area archeologica o di un parco naturale? [11]

Sul punto, occorre rilevare che l’art. 10 non è formulato in termini del tutto univoci: esso, infatti, si limita a prevedere, genericamente, la facoltà del ministero di concludere accordi con privati (oltre che con altre amministrazioni pubbliche), ma non chiarisce se tali accordi possano assumere lo specifico contenuto di assegnare ai medesimi privati la gestione globale dell’attività di valorizzazione e di offerta al pubblico di un bene.

La disposizione in oggetto, inoltre, mentre prevede esplicitamente il conferimento in uso di beni culturali ad associazioni, fondazioni e società a cui il ministero ritenga di partecipare, nulla dice in merito alla conferibilità dei medesimi beni a privati mediante un accordo.

Tali difficoltà appaiono peraltro non insuperabili.

Quanto al secondo profilo, può notarsi che la facoltà del ministero di concedere in uso a privati i beni dello Stato che abbia in consegna era già espressamente contemplata dall’art. 4, comma 5-ter, del menzionato d.l. 433/1992.

È vero che tale disposizione è posta nel contesto della disciplina relativa all’affidamento dei servizi aggiuntivi; tuttavia, nulla, nella sua formulazione, sembra imporre di limitarne l’applicazione a tale fattispecie, cosicché essa appare riferibile anche alle ipotesi nelle quali il conferimento del bene è strumentale non all’espletamento di servizi aggiuntivi o assimilati ma alla gestione complessiva del bene culturale.

Per ciò che attiene, d’altra parte, all’altro profilo evidenziato come problematico - l’art. 10 non prevede in termini espliciti la facoltà del ministero di affidare ad un soggetto privato la valorizzazione e/o la gestione di un bene culturale o ambientale - mi sembra che, proprio per l’astrattezza della sua formulazione, la norma debba essere intesa come diretta a legittimare - e, ancora una volta, ad indirizzare - il ministero a concludere (in linea di principio, e salve le precisazioni che si formuleranno) qualsiasi accordo possa risultare conveniente ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni; e dunque anche accordi aventi il contenuto che si è qui ipotizzato.

Non vige infatti nel nostro ordinamento, né per quanto concerne i contratti privatistici dell’amministrazione né per quelli pubblicistici, un principio di tipicità equivalente a quello operante per i provvedimenti [12]: e quindi le amministrazioni, nel legittimo esercizio della loro capacità privatistica ovvero dei loro poteri pubblicistici, possono attribuire agli accordi che stipulano con i privati il contenuto che ritengono più conforme alla tutela degli interessi pubblici di cui sono portatrici [13].

Anche le concessioni di pubblico servizio e quelle di lavori pubblici - vale a dire, gli istituti attraverso i quali, come si vedrà tra breve, dovrebbe realizzarsi l’affidamento a soggetti privati della valorizzazione e/o della gestione di un bene culturale - sono di norma accordi (pubblicistici) [14]: essi quindi appaiono riconducibili alla previsione legittimante contenuta nel d.lg. 368/1998.

Ci si deve chiedere, peraltro, se un problema di tipicità degli accordi in esame non debba ritenersi sussistente in relazione ai principi inerenti all’organizzazione dei pubblici servizi. È infatti noto che, secondo una parte della dottrina, le pubbliche amministrazioni, in sede di scelta delle forme di gestione dei servizi pubblici di cui sono titolari, sarebbero obbligate ad attenersi ai modelli gestionali indicati dalla legge - sarebbero, cioè, appunto, vincolate da una regola di tipicità [15].

Un’analisi puntuale di tale orientamento dottrinale non è qui possibile, né è, d’altra parte, come si vedrà subito, strettamente necessaria. È solo possibile osservare che esso andrebbe forse rivalutato alla luce delle norme che in questi ultimi anni hanno fortemente ampliato la potestà di autoorganizzazione dell’amministrazione, configurando in termini diversi rispetto al passato - sia pure sempre nel quadro della riserva (relativa) di legge posta dall’art. 97 della Costituzione - il rapporto tra norme primarie e norme secondarie nella disciplina dei pubblici uffici [16].

Nell’ipotesi in esame, in ogni caso, l’eventuale affidamento a privati di attività qualificabili come pubblici servizi si concreterebbe in una forma gestionale, la concessione, che è nel nostro ordinamento tipizzata e di applicazione generale; il che sembra comunque escludere la necessità di una norma di legge che ne autorizzi specificamente l’utilizzo con riferimento ai singoli servizi pubblici.

Tale conclusione non esclude l’opportunità che, nei provvedimenti organizzatori previsti dall’art. 11 del d.lg. 368/1998, la possibilità di ricorrere alla concessione a privati per la valorizzazione e la gestione di beni culturali ed ambientali venga esplicitata (oltre che opportunamente disciplinata). Tale esplicita previsione non sembra tuttavia costituire una conditio sine qua non per la stipula da parte del ministero degli accordi qui ipotizzati.

 

3. Il problema della qualificazione giuridica degli accordi esternalizzatori

Cenni al regime giuridico applicabile: modalità di scelta dei privati e disciplina del rapporto convenzionale tra ministero e privati.

Dall’analisi svolta nel paragrafo precedente in ordine all’individuazione dei compiti che il ministero per i Beni e le Attività culturali può esternalizzare mediante strumenti convenzionali, è già emersa - pur se le figure considerate rappresentano solo una piccola parte delle fattispecie negoziali ipotizzabili - la notevole varietà contenutistica di tali strumenti: concessioni per l’affidamento dei c.d. servizi aggiuntivi e di quelli ad essi assimilati; accordi per l’attribuzione di specifiche prestazioni strumentali allo svolgimento dei servizi e delle funzioni di competenza del ministero; accordi per l’affidamento della gestione complessiva di servizi ed attività culturali.

E’ ora opportuno porsi il problema della più precisa qualificazione in termini giuridici di tali accordi, anche in questo caso senza la pretesa di esaurire il tema e con il solo intento di fornire alcune indicazioni iniziali, idonee ad orientare la soluzione delle molte questioni di regime giuridico che le figure considerate sollevano.

A tale scopo è utile una precisazione preliminare.

Come forse è affiorato dalle considerazioni formulate in precedenza, credo debba ritenersi che nel contesto dell’art. 10 del d.lg. 368/1998 il termine accordo sia usato in modo neutro, di per sé riferibile sia a rapporti contrattuali che a rapporti non propriamente contrattuali, e tanto a negozi privatistici quanto a negozi pubblicistici. Ciò del resto corrisponde ad un generale orientamento del nostro ordinamento, che non sembra ricollegare a tale termine - come anche a quello affine di convenzione - alcuno specifico istituto giuridico [17].

Potrebbe forse obiettarsi a questa lettura così estensiva della norma e del suo ambito di operatività che, per quanto attiene ai contratti privatistici, il ministero certamente non necessitava, per procedere alla loro stipulazione, di alcuna specifica autorizzazione legislativa.

Tale obiezione non terrebbe conto, peraltro, del fatto che, come si è già avuto occasione di segnalare, l’art. 10 del d.lg. 368/1998 appare anche, e forse innanzitutto, come una norma di indirizzo, che orienta il ministero a ricercare la collaborazione con i soggetti privati (oltre che con altre amministrazioni) e ad utilizzare (per ciò che qui rileva) moduli di azione e di organizzazione di tipo convenzionale, non importa se di carattere privatistico o pubblicistico.

Del resto, a ben vedere, nonostante le contrarie apparenze, un’analoga funzione di indirizzo era svolta dalla disciplina dettata dalla legge Ronchey in tema di assegnazione a soggetti privati dei c.d. servizi aggiuntivi.

In tale disciplina vi è in effetti una norma che ha verosimilmente una funzione di legittimazione dell’operare dell’amministrazione; ed è quella, già sopra ricordata, che abilita il ministero a concedere in uso a privati "i beni dello Stato che abbia in consegna senza alcun’altra autorizzazione" (art. 4, comma 5-ter). Ma per ciò che attiene all’assegnazione in sé ai privati dei servizi aggiuntivi, sembra da ritenere che essa sarebbe risultata del tutto legittima anche a prescindere da un'espressa autorizzazione legislativa: infatti, per quanto la legge descriva tale fattispecie nei termini di un affidamento in concessione, essa appare in realtà assai più fondatamente riconducibile all’istituto privatistico dell’appalto di servizi - come tale, utilizzabile dall’amministrazione nell’esplicazione della sua ordinaria capacità privatistica - che non a quello pubblicistico della concessione di pubblico servizio.

Le attività elencate dall’art. 4 della legge Ronchey, e ancor più, se possibile, quelle aggiunte dall’art. 47-quater del d.l. 41/1995 non sembrano infatti presentare i caratteri che - pur con le note incertezze sulla nozione di pubblico servizio- la dottrina ritiene propri di tale figura [18].

Alcune delle attività in questione appaiono, se singolarmente considerate, come normali attività commerciali, con l’unica particolarità di essere svolte in uno spazio - i l bene culturale - di proprietà pubblica e sottoposto ad un peculiare regime di tutela. Nel loro complesso, tuttavia, le medesime sembrano poter essere considerate come strumentali rispetto al servizio pubblico - l’offerta al pubblico del bene culturale - che l’amministrazione intende erogare. Il che sembra appunto giustificare la qualificazione come appalti di servizi dei rapporti convenzionali di cui costituiscono l’oggetto.

La riconduzione degli accordi stipulati dal ministero al genus della concessione appare invece corretta laddove essi prevedano l’affidamento al privato non di singole prestazioni funzionali allo svolgimento da parte del ministero dei diversi servizi di cui è titolare, bensì della gestione complessiva di tali servizi [19].

E’ difficile precisare qui, in termini generali, in quali ipotesi tale evenienza si verifichi con riferimento ai compiti del ministero. Come si è già sopra accennato, essa sembra senza dubbio ricorrere nel caso in cui oggetto del conferimento al privato sia la valorizzazione e la gestione di un bene culturale o ambientale, cioè un’attività di regola qualificabile come pubblico servizio.

Meno agevole si presenta tale identificazione con riguardo alle attività di promozione culturale, che potrebbero talora risultare sprovviste dei connotati propri dei pubblici servizi (ad esempio, perché non direttamente rivolte al pubblico) pur senza essere pacificamente inquadrabili nel novero delle attività strumentali ai compiti la cui gestione è conservata in capo agli organi ministeriali.

Emergono qui, tra l’altro, le difficoltà derivanti sul piano concettuale dall’ancora insufficiente approfondimento operato in dottrina in merito alle diverse tipologie in cui possono in concreto articolarsi i contratti (o accordi) pubblicistici. È ancora da chiarire, infatti se, accanto alla figura della concessione di pubblico servizio, siano configurabili all’interno del nostro sistema giuridico altri tipi convenzionali aventi ad oggetto l’affidamento a privati di attività (non qualificabili come pubblico servizio, ma) pubblicisticamente caratterizzate, che siano sottoposti ad un regime proprio e peculiare.

Si tratta di approfondimenti che per ovvie ragioni non possono essere compiuti in questa sede. Ove, pertanto, si assumerà - sia pure con riserva - che le fattispecie convenzionali stipulabili dal ministero ai sensi dell’art. 10 (e, più esattamente, quelle che implichino l’attribuzione a privati di compiti di competenza ministeriale) [20] vadano ricondotte o alla tipologia degli appalti o a quella delle concessioni.

Per ciò che attiene a queste ultime, è bene ritornare ora ad una questione a cui in precedenza si è fatto cenno trattando dell’ipotesi dell’affidamento ad un’istituzione culturale privata del compito di valorizzare e di gestire un bene culturale o ambientale.

Riguardo a tale ipotesi, si è sopra osservato che essa può in astratto realizzarsi sia attraverso una concessione di pubblico servizio in senso stretto sia attraverso la figura, affine ma per vari aspetti distinta quanto al regime giuridico applicabile [21], della concessione di lavori pubblici (o concessione di costruzione e gestione).

La gestione di un bene culturale implica infatti, normalmente, una rilevante opera di manutenzione, e cioè un’attività che la legge quadro sui lavori pubblici, l. 109/1994, qualifica espressamente come lavoro pubblico; inoltre, la valorizzazione del bene può richiedere interventi di recupero e di restauro, anch’essi qualificati dalla legge Merloni come lavori pubblici.

In tale situazione, sembra utile richiamare il criterio ragionevolmente proposto in dottrina - in assenza di significative indicazioni legislative - per distinguere tra le due figure in discorso, che è quello imperniato sull’individuazione della prestazione (servizio o lavoro) prevalente [22]: con la precisazione, peraltro, che per identificare in concreto quale sia in effetti la prestazione prevalente e quale quella accessoria potrebbe non essere sempre possibile utilizzare un parametro economico (dato che - come si vedrà tra breve - il rapporto potrebbe talora risultare privo del carattere dell’onerosità), al quale dovrebbe quindi verosimilmente sostituirsi una valutazione di ordine funzionale.

Così precisate - con la consapevolezza della parzialità e non completezza della classificazione che si è compiuta - le figure convenzionali a cui il ministero per i Beni e le Attività culturali può ricorrere per fini di esternalizzazione, diviene possibile formulare qualche osservazione in merito alle specifiche questioni giuridiche che esse pongono.

Il primo profilo da valutare attiene alle modalità di scelta del privato con cui concludere l’accordo.

E’ noto, al riguardo, che per gli appalti di servizi e per le concessioni di lavori pubblici la legge impone in linea di principio l’utilizzo di specifiche procedure di gara [23]; e che invece per le concessioni di pubblico servizio manca una norma che prescriva in via generale l’adozione di procedure concorsuali, il che ha dato e dà luogo a notevoli incertezze in dottrina e in giurisprudenza [24].

Ora, a me sembra che proprio la questione dell’affidamento dei servizi culturali offra una dimostrazione chiara della fondatezza delle ragioni di coloro che si oppongono ad una generalizzata estensione degli obblighi di gara al settore dei pubblici servizi; e contribuisca a comprendere le ragioni che hanno almeno sino ad ora indotto il legislatore comunitario ad astenersi dal disciplinare l’istituto in esame in senso vincolistico.

Il punto è che è presumibile che, di regola, i servizi pubblici culturali - ad esempio, la valorizzazione e la gestione di un bene culturale - verranno affidati dal ministero a soggetti privati non profit, che normalmente non sono imprenditori in senso proprio, e nell’ambito di rapporti la cui effettiva onerosità sarà spesso incerta.

Si pensi al caso dell’affidamento in gestione a privati di una dimora storica. Sembra improbabile che lo Stato possa decidere di operare tale affidamento a favore di soggetti privati imprenditori, per l’ovvia considerazione che la logica del profitto, e dunque dello sfruttamento intensivo del bene culturale sotto il profilo della fruizione da parte del pubblico o della commercializzazione del medesimo, è difficilmente conciliabile con le esigenze di tutela e di conservazione del bene.

Del resto, è anche improbabile che privati imprenditori siano disponibili ad assumersi tale compito, dato che in ogni caso la redditività complessiva delle attività in discorso è di norma assai dubbia a causa della elevatezza dei costi di conservazione del bene.

Destinatari dell’affidamento saranno quindi, nella generalità dei casi, fondazioni culturali o altri soggetti non profit, cioè soggetti che non si muovono secondo la logica del mercato e della competizione economica.

Nell’ipotesi considerata, inoltre, appare dubbio che possa configurarsi un corrispettivo in senso proprio a favore del concessionario e dunque un contratto propriamente oneroso tra il medesimo e lo Stato, poiché le entrate che a vario titolo il concessionario potrà acquisire (contributi statali e pubblici in genere, biglietti d’entrata, servizi accessori), dovranno essere utilizzate, proprio per la natura istituzionalmente non profit del soggetto, unicamente per la copertura dei costi di valorizzazione e di gestione del bene.

In tale situazione applicare regole procedurali dirette a tutelare il mercato e la concorrenza, e ancorate largamente (anche se non esclusivamente) a parametri economici di scelta del contraente dell’amministrazione non appare ragionevole [25].

Logico è invece imporre al ministero il puntuale rispetto delle regole di trasparenza e di imparzialità che la giurisprudenza ha da tempo elaborato per l’individuazione dei concessionari di pubblico servizio [26].

Ed è bene sottolineare che la conclusione ora formulata vale, a mio avviso, non soltanto nei casi in cui l’affidamento del servizio culturale debba essere qualificato come concessione di pubblico servizio, ma anche nelle ipotesi (in realtà prevalenti) nelle quali esso, in base al criterio sopra indicato, vada invece ricostruito come concessione di lavori pubblici.

Aldilà delle considerazioni di ordine sistematico sopra formulate, infatti, è la stessa legge quadro sui lavori pubblici a prevedere che le concessioni assoggettate agli obblighi di gara da essa stabiliti sono rapporti tra un’amministrazione aggiudicatrice e un imprenditore, nell’ambito dei quali dev’essere pattuito a favore del secondo un corrispettivo [27].

Anche per gli appalti di servizi potranno talora verificarsi le condizioni - di non imprenditorialità del prestatore e di non onerosità del contratto - che sembrano giustificare la sottrazione alla normativa che impone l’obbligo della gara.

Tuttavia, se si guarda all’elenco dei servizi aggiuntivi e delle attività assimilate contenuto nella legge Ronchey e nell’art. 47-quater del d.l. 41/1995 (servizi e attività che, come si è sopra osservato, appaiono di regola riconducibili alla figura dell’appalto di servizi), appare probabile che nella maggior parte dei casi le indicate condizioni non ricorrano, e che pertanto la menzionata normativa debba applicarsi.

Ricordo però anche che, in base alla direttiva 92/50/Cee e al d.lg. 157/1995 [28], per l’attribuzione di appalti di servizi culturali è prescritto soltanto il rispetto di particolari regole di pubblicità [29].

È poi necessario formulare qualche considerazione sulle regole applicabili al rapporto tra ministero e privato affidatario.

Emerge da quanto si è sopra osservato che (fatta salva l’eventualità che vengano in rilievo tipologie di accordi esternalizzatori diverse da quelle qui considerate) tali regole saranno, a seconda dei casi, quelle (tendenzialmente) privatistiche stabilite per gli appalti di servizi oppure quelle più largamente permeabili ad esigenze di tutela del pubblico interesse che sono proprie dei rapporti concessori.

Entrambi i complessi normativi ora richiamati sono oggi ben noti, e il loro adattamento alle specifiche caratteristiche dei servizi culturali non dovrebbe determinare particolari difficoltà (se non, forse, per ciò che attiene ai profili di carattere patrimoniale: sui quali è certamente opportuno che i provvedimenti organizzatori previsti dall’art. 11 del d.lg. 368/1998 forniscano qualche indicazione, sia pure senza pretendere di incanalare i rapporti in questione in schemi rigidamente uniformi).

Alcune considerazioni, meramente orientative, appaiono tuttavia necessarie.

È noto che nelle concessioni di pubblico servizio le amministrazioni concedenti dispongono, sulla base di leggi speciali e di una prassi ormai secolare e da tempo avallata dalla giurisprudenza, di poteri unilaterali diretti a garantire - in modo rafforzato rispetto a quanto consentirebbero le regole privatistiche- i pubblici interessi connessi alla gestione del servizio: ricordo, in particolare, i penetranti poteri di controllo intesi a verificare il rispetto da parte del concessionario del programma di gestione del servizio concordato con l’amministrazione; il potere di risolvere unilateralmente il rapporto in caso di inadempimento del concessionario; quello di revoca per sopravvenute ragioni di pubblico interesse [30].

È logico supporre che il ministero per i Beni e le Attività culturali terrà ben presenti tali poteri in sede di definizione del contenuto dell’accordo concessorio e di successiva esecuzione del medesimo.

È peraltro necessario avvertire che sarebbe un errore concepire i suddetti poteri come strumenti per indirizzare pervasivamente l’attività del concessionario. Se l’amministrazione sceglie di esternalizzare un servizio, essa deve rispettare l’autonomia dell’affidatario del medesimo nonché le ovvie esigenze di certezza (e di programmabilità dell’attività) di cui esso è portatore.

Non deve esservi confusione di ruoli tra ministero concedente e privato concessionario: il primo concorre a definire preventivamente il programma di gestione del servizio che viene poi inserito nel contratto di concessione (ed è in tale sede che le ovvie preoccupazioni di tutela dei beni culturali conferiti o di effettiva funzionalità delle attività di promozione culturali assegnate devono trovare esplicazione) e poi vigila sulla sua attuazione; ma non può ingerirsi nelle scelte gestionali correnti, che non possono che essere (almeno di norma) di competenza del privato [31].

Un contratto di concessione che abilitasse il ministero ad intervenire - in funzione, nella sostanza, di codecisore e non di semplice controllore - nella gestione di un servizio pubblico culturale determinerebbe una preoccupante commistione di responsabilità [32]; e potrebbe anche, in prospettiva, disincentivare gli operatori culturali privati a fornire al ministero quella collaborazione che l’art. 10 del d.lg. 368/1998 mostra di ritenere opportuna.

 

4. L'esternalizzazione mediante la creazione di una struttura pubblico/privata

Nelle pagine che precedono si è mostrato come lo strumento dell’accordo possa essere utilizzato dal ministero per esternalizzare non solo attività strumentali rispetto allo svolgimento dei servizi di cui è titolare, ma anche la stessa complessiva gestione di attività culturali qualificabili come pubblici servizi.

È tuttavia probabile che, almeno in una fase iniziale, il ministero si avvalga dei moduli di tipo convenzionale per affidare ai privati più attività del primo tipo che non del secondo. E che invece l’esternalizzazione di queste ultime si realizzi, se si realizzerà, principalmente mediante il secondo strumento previsto dall’art. 10 del d.lg. 368/1998: la costituzione da parte del ministero, di altri enti pubblici e di soggetti privati, di fondazioni, associazioni o società (ovvero la partecipazione del ministero a persone giuridiche di diritto privato già esistenti).

Le ragioni che militano a sostegno di questa previsione appaiono intuitive.

La soluzione organizzativa della partecipazione ad un organismo fondazionale, associativo o societario, contrariamente a quella imperniata su un accordo di tipo concessorio, consente al ministero di concorrere direttamente alla gestione del servizio; il che, mentre può apparire preoccupante a chi vede con sospetto l’assommarsi nel medesimo soggetto pubblico di un ruolo regolatorio e di un ruolo gestionale [33], risuterà invece verosimilmente apprezzabile per gli organi ministeriali, non solo in quanto ovviamente inclini a difendere le proprie competenze più significative, ma anche perché tradizionalmente diffidenti riguardo alla effettiva capacità (e volontà) dei privati di indirizzare la loro azione al perseguimento degli interessi pubblici connessi alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali.

Il modello organizzativo ora in esame offre d’altro canto il vantaggio di rendere possibile, insieme all’esternalizzazione di compiti ministeriali, anche quella di una quota di personale pubblico: vantaggio che, specie per i servizi e le attività già in atto, non appare trascurabile.

È anche probabile - ma al riguardo non è possibile disporre di dati oggettivi - che la formula dell’organismo pubblico/privato (e in particolare quella della fondazione) consenta di coinvolgere maggiormente e di valorizzare l’apporto collaborativo delle fondazioni bancarie, che appaiono oggi orientate a ricercare canali istituzionali ed insieme "dinamici" per l’utilizzo delle risorse finanziarie che per legge sono tenute a destinare ad attività di pubblico interesse.

La creazione di strutture partecipate dal ministero, eventualmente da altri soggetti pubblici e da soggetti privati è un modello di esternalizzazione più rassicurante: per l’amministrazione ma anche, forse, per i possibili finanziatori privati.

Questo spiega anche perché non è da escludere che attraverso l’utilizzo di tale modello si pervenga all’affidamento a strutture esterne agli organi ministeriali di compiti che difficilmente - per ragioni di fatto e non giuridiche - verrebbero conferiti in via convenzionale a soggetti integralmente privati.

Mi riferisco innanzitutto alla gestione di un museo statale: è poco plausibile, anche in relazione ai trasferimenti gestionali previsti dall’art. 150 del d.lg. 112/1998, che venga affidata ad un’istituzione culturale a cui il ministero non partecipa; è invece ipotizzabile che essa venga conferita ad una struttura pubblico/privata [34].

Se si considera il modello ora in esame diviene inoltre realistico prospettare come possibile anche l’esternalizzazione di funzioni propriamente amministrative del ministero: non - si noti - funzioni di carattere decisorio, la cui affidabilità a strutture formalmente privatistiche appare quanto meno dubbia, ma funzioni istruttorie.

Tipico (e da tempo praticato da altre amministrazioni) è da questo punto di vista l’affidamento all’esterno della valutazione tecnica ed economica dei progetti presentati dai privati per ottenere finanziamenti statali.

È legittimo tale affidamento, considerato che qui non si tratta di appaltare all’esterno un servizio strumentale, ma di conferire un’attività propriamente amministrativa, le cui risultanze - come quelle di ogni attività istruttoria - vincoleranno il ministero in sede di decisione?

Anche in questo caso, come in quello, sopra considerato, dell’affidamento (in base all’art. 10 d.lg. 368/1998) di pubblici servizi, il problema si ricollega alla riserva di legge posta in materia di organizzazione dei pubblici uffici dall’art. 97 della Costituzione.

In forza di tale previsione, si è spesso affermato in dottrina che la delega di funzioni amministrative è ammessa solo nei casi previsti contemplati dalla legge, giacché l’ordine legale delle competenze è inderogabile se non per espressa disposizione di legge [35].

Occorre tuttavia notare che le competenze istruttorie di cui qui si tratta (e forse oggi, in connessione con il già rilevato ampliamento della potestà autoorganizzatoria dell’amministrazione, la gran parte delle attività istruttiorie in genere) non sono definite ed assegnate dalla legge, bensì da norme secondarie: in tal senso esplicitamente dispongono gli artt. 6, 8 e 11 del d.lg. 368/1998. E sembra quindi da ammettere che, sulla base del principio posto dall’art. 10 del medesimo decreto, i provvedimenti organizzatori di cui al citato art. 11 possano prevedere e disciplinare anche l’assegnazione [36] all’esterno delle funzioni in discorso [37].

Si è visto che l’art. 10 fa riferimento ai tre modelli "associativi" delle associazioni, fondazioni e società.

Logica vorrebbe che, in particolare nel settore della valorizzazione e della gestione dei beni culturali ed ambientali, il rilievo maggiore fosse assunto dal modello della fondazione, sia per la centralità che in esso ha l’elemento patrimoniale, sia per la sua istituzionale finalizzazione ad attività di pubblico interesse.

È poco ragionevole ipotizzare l’affidamento della gestione di un museo o di una dimora storica ad un’associazione o ad una società (pur se partecipate dal ministero). Laddove è invece sensato che lo strumento dell'associazione possa essere utilizzato per esternalizzare attività strumentali rispetto alla gestione del bene ovvero attività di promozione culturale; e quello societario per lo svolgimento di attività di carattere imprenditoriale finalizzate all’acquisizione di risorse finanziarie [38].

Ciascun modello organizzativo ha ovviamente una sua logica interna, che va tendenzialmente rispettata. Sarebbe, ad esempio, in linea di principio singolare costituire una Spa o una Srl per assegnarle compiti propriamente culturali, dunque verosimilmente privandola delle sue finalità lucrative [39], quando si può disporre a tale scopo del modello organizzativo della fondazione (modello che, come mostra l’esperienza di questi anni, si presta ad essere adattato alle specificità dei fini assegnati alle diverse fondazioni).

I problemi giuridici che vengono immediatamente in rilievo con riguardo al modello di esternalizzazione basato sulla creazione o sull’utilizzo di organismi pubblico/privati non sono dissimili da quelli in precedenza considerati relativamente al modello imperniato sullo strumento dell’accordo.

Anche qui si tratta in primo luogo di chiarire se il ministero è obbligato ad attenersi a determinate formalità nella scelta dei suoi partners privati; e poi di formulare alcune considerazioni di carattere generale in ordine al rapporto il ministero e la struttura a cui esso partecipa.

In ordine al primo profilo, è opportuno distinguere tra l’ipotesi della costituzione (o della partecipazione) ad un’associazione o fondazione e quella societaria.

Per le prime, sempre che non abbiano (come pure è possibile) fine di lucro, può ripetersi quanto si è sopra osservato in merito all’affidamento di concessioni a soggetti non profit: si è qui, almeno di regola, al di fuori della logica del mercato e della concorrenza tra imprenditori.

Non sembra quindi avere senso porsi il problema di un’eventuale estensione analogica a tali fattispecie delle regole che, con riferimento alle società preposte alla gestione di servizi pubblici locali, impongono di utilizzare procedure concorsuali per la scelta dei soci dell’amministrazione.

Trovano invece applicazione a queste ipotesi le ordinarie regole pubblicistiche intese a garantire la funzionalizzazione, l’imparzialità e la ragionevolezza delle scelte delle amministrazioni.

La questione appare più delicata laddove il ministero intenda costituire assieme a privati una società destinata a svolgere un’attività di carattere imprenditoriale. Qui, sempre che il fine di lucro non sia escluso dall’atto costitutivo, non può dirsi che non vengano in rilievo dinamiche di competizione economica e quindi esigenze di tutela della concorrenza tra i diversi soggetti privati eventualmente interessati a partecipare alla società.

Non vi è dubbio che la soluzione interpretativa di estendere in via analogica al caso in esame (e in generale alle ipotesi di costituzione di società miste da parte dello Stato) le norme dettate per le società partecipate dagli enti locali va incontro a forti obiezioni: dal problema preliminare di stabilire se tali norme, in quanto derogatorie rispetto al carattere tipicamente personale e fiduciario del contratto di società, non debbano considerarsi eccezionali e dunque insuscettibili di applicazione analogica; al dato, evidentemente molto rilevante, che la disciplina legislativa in tema di privatizzazione sostanziale delle società controllate dallo Stato abbia esplicitamente escluso l’obbligo della gara per la cessione a privati di quote associative.

Tuttavia, qualche incertezza permane. E se non è possibile, in questa sede, superarla (nell’una o nell’altra direzione possibile), essa va comunque segnalata.

Resta, infine, come preannunciato, da formulare qualche osservazione sul tema del rapporto tra il ministero e l’organismo fondazionale, associativo o societario a cui partecipi.

Al riguardo, il primo profilo da valutare attiene al ruolo duplice che il ministero riveste: quello di titolare del servizio o della funzione culturale esternalizzata, e dunque di regolatore e di controllore del modo in cui tale servizio o funzione viene svolto; e quello di soggetto partecipe dell’organismo comune, come tale direttamente coinvolto - anche se con intensità e modalità che possono essere molto diverse nei vari casi- nella gestione del servizio o della funzione.

Tale duplicità di ruoli può dare luogo - com’è stato da tempo messo in rilievo con riferimento a tutti i casi di creazione di strutture pubblico/private - ad ambiguità ed incertezze nell’azione svolta all’interno della struttura dai rappresentanti dell’amministrazione, e può in tal modo condizionare negativamente il funzionamento della medesima.

Per ridurre il pericolo che ciò si verifichi, appare ovvia la necessità che i meccanismi di raccordo tra il ministero e i suoi rappresentanti, e dunque gli strumenti mediante i quali il primo indirizzerà e controllerà i secondi, siano predeterminati in modo da garantirne la trasparenza e la compatibilità con il corretto esplicarsi dei processi decisionali dell’organismo comune.

Di tale necessità, che si pone in termini diversi per i tre modelli "associativi" ipotizzati dall’art. 10 (date le differenze esistenti tra le rispettive discipline codicistiche), il d.lg. 368/1998 non si è fatto carico; e occorre dunque che a ciò provvedano i provvedimenti organizzatori previsti dall’art. 11 del decreto.

Si pone d’altro canto l’ovvio problema di trovare un equilibrio tra l’esigenza di assicurare al ministero un ruolo forte all’interno della struttura a cui partecipa, per garantire il più possibile gli interessi pubblici di cui è portatore, e quella di riconoscere comunque ai partners privati - sempre che non si tratti di semplici finanziatori - uno peso adeguato nell’assunzione delle scelte gestionali.

Appare del resto evidente che se da parte del ministero la costituzione dell’associazione, fondazione o società mira non solo ad acquisire risorse finanziarie private, ma anche ad avvalersi di capacità tecniche ed organizzative di cui - ad esempio nel settore della valorizzazione dei beni culturali o in quello della promozione di talune attività culturali - esso può non essere adeguatamente fornito, ciò non può non tradursi nell’attribuzione al privato di un ruolo significativo.

Il riparto dei poteri gestionali tra ministero e soci privati (e pubblici) dovrà naturalmente essere definito in concreto, nelle diverse situazioni, in relazione alle specifiche caratteristiche dei compiti che s’intendono affidare all’organismo comune nonché alle attitudini e agli scopi dei diversi soggetti che partecipano all’iniziativa. E occorre dunque sottolineare che in questa materia la normativa di carattere secondario contemplata dall’art. 11 del d.lg. 368/1998 dovrà intervenire con estrema cautela, per evitare di prescrivere modelli rigidi ed uniformi che mal si presterebbero a regolare fattispecie "associative" inevitabilmente varie ed eterogenee.

D’altronde, l’art. 10, nella sua laconica formulazione, non autorizza deroghe alle norme dettate dal codice civile; e i citati provvedimenti organizzatori dovranno quindi muoversi all’interno dei principi posti da tale norma. Il che, a prescindere dalla maggiore o minore consapevolezza con la quale il legislatore delegato ha operato tale scelta, appare indubbiamente apprezzabile: si riduce infatti in tal modo il rischio di un’alterazione profonda della logica che ispira gli istituti civilistici utilizzati [40].

 


 

Note

[1] Sulle istituzioni come strumento per la gestione di servizi culturali v. i contributi di A. Andreani, P. Cella e G. Valotti, R. Grossi, D. Jalla, A. Barbiero e G. Franchi Scarselli in Aedon 2/98 Sulle aziende speciali v. F. Ferrari, Aziende speciali per la gestione dei servizi culturali dei comuni, in Econ. Cultura 1996, 246 ss.

[2] In questo caso, più che di esternalizzazione in senso stretto, dovrebbe ovviamente parlarsi di passaggio da un modello di esternalizzazione a un altro. Sulle fondazioni liriche v. G. Iudica (a cura di), Fondazioni ed enti lirici, Padova 1998; A. Serra, La difficile privatizzazione delle fondazioni liriche: strumenti pubblici e presenza privata, in Aedon 2/98.

[3] Al riguardo, una disciplina di carattere generale è ora contenuta nella legge 17 ottobre 1996 n. 534, recante appunto Nuove norme per l’erogazione di contributi statali alle istituzioni culturali.

[4] Sulle esternalizzazioni operabili nel settore culturale prima dell’emanazione del decreto 368 v. le osservazioni di S. Amorosino, Per un modello di riparto di funzioni tra Stato, regioni ed enti locali, in Econ. Cult. 1997, 121.

[5] Da ricordare è anche la convenzione stipulata dal ministero e Confindustria, in data 26 novembre 1996, "per la valorizzazione del patrimonio artistico e dell’imprenditoria culturale". Sulla Sibec Spa v. M. Renna, La Sibec Spa. tra realtà normativa e prospettive di attuazione, in Aedon 2/98.

[6] Sul ruolo riconosciuto ai privati, nel periodo in questione, nell’ambito dell’amministrazione dei beni culturali v. l’analisi di L. Bobbio, La politica dei beni culturali in Italia, in Bobbio (a cura di), Le politiche dei beni culturali in Europa, Bologna 1992, 149 ss.

[7] Su tali disposizioni v. G. Corso, in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna 1998, 505 ss; nonché i contributi di M.P. Chiti, G. Sciullo, L. Bobbio, M. Cammelli, M. Ainis, M. Meschino in Aedon 1/98.

[8] Tale è, ad esempio, il caso degli accordi diretti a mettere in rete la gestione di musei o di altri beni e "luoghi" culturali, cioè a creare quei sistemi integrati che da più parti sono oggi auspicati per elevare l’efficienza e l’economicità nell’offerta di servizi culturali.

[9] Per una più precisa qualificazione dei rapporti concernenti i servizi aggiuntivi e le attività equiparate v. infra nel testo, al par. 3. Sul carattere di regola convenzionale delle concessioni, e in particolare di quelle relative ai servizi pubblici, v. G. Pericu, Il rapporto di concessione di pubblico servizio, in Pericu, Romano, Spagnuolo, Vigorita (a cura di), La concessione di pubblico servizio, Milano 1995, 102 ss; G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, Milano 1984, 284 ss.; G. Greco, Gli appalti pubblici di servizi e le concessioni di pubblico servizio, in F. Mastragostino (a cura di), Appalti pubblici di servizi e concessioni di servizio pubblico, Padova 1998, in part. 21 ss.

[10] Appare del resto pacifico che per l’attribuzione delle suddette prestazioni il ministero non necessitava di un’esplicita autorizzazione legislativa, potendo configurarsi la medesima come esplicazione della sua ordinaria capacità privatistica. Emerge da questo punto di vista in modo chiaro il carattere innanzitutto di norma di indirizzo dell’art. 10 (v. sul punto le considerazioni svolte infra nel testo).

[11] Appare invece al momento solo un’ipotesi di scuola, anche in relazione al previsto trasferimento a regioni ed enti locali della gestione di buona parte dei musei statali, l’eventualità che il ministero intenda affidare tale gestione a soggetti privati. Più plausibile è che il ministero consideri la possibilità di assegnare la gestione di un museo ad una fondazione a cui esso partecipi assieme a privati (sul punto v. infatti infra al par. 4).

[12] Sul modo in cui il principio di legalità opera in merito all’attività convenzionale, privatistica e pubblicistica, delle amministrazioni e sull’inapplicabilità a tale attività della regola della tipicità si rinvia a E. Bruti Liberati, Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico, Milano 1996, 119 ss.

[13] Sui limiti che comunque le pubbliche amministrazioni incontrano nel determinare il contenuto dei contratti pubblicistici a cui aderiscono v. ancora E. Bruti Liberati, op.ult. cit., 127 ss.

[14] Su ciò v. gli Autori citati sopra alla nota 9.

[15] V. in tal senso G. Caia in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna 1998, in part. 931 ss.

[16] Il riferimento è ovviamente alla disciplina stabilita dal d.lg. 29/1993 (e in particolare, agli artt. 2 e 4), come modificata dal recente d.lg. 80/1998. Sui contenuti della riserva di cui all’art. 97 Cost. è sempre importante il riferimento all’analisi svolta da M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano 1966, in part. 157 ss.

[17] Quanto osservato nel testo trova un’indiretta conferma nel dibattito dottrinale svoltosi in ordine agli accordi previsti dall’art. 11 della l. 241/1990, riguardo ai quali sono state formulate proposte ricostruttive tendenti a qualificare i medesimi come contratti privatistici, come contratti pubblicistici oppure come accordi pubblicistici non contrattuali.

[18] Tali attività appaiono, da un lato, di per sé difficilmente configurabili come essenziali o comunque funzionali al benessere sociale o economico dei cittadini; dall’altro, almeno alcune delle stesse sono certamente sprovviste (lo sono per definizione: non a caso la legge li designa come servizi "aggiuntivi") dell’attributo della doverosità. Su tali elementi identificativi, e in generale per una recente messa a punto della nozione di pubblico servizio v. G. Caia in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F.G. Scoca (a cura di), op. cit., 917 ss.

[19] Su tale criterio di identificazione dei rapporti concessori v. M. D'Alberti, Le concessioni amministrative, Napoli 1981, 335 ss.

[20] La precisazione s’impone perché a mio avviso possono farsi rientrare nell’ambito di operatività della norma in questione anche eventuali accordi di sovvenzionamento, con cui il ministero attribuisca un sostegno finanziario ad istituzioni culturali private per lo svolgimento di attività o di iniziative ritenute di pubblico interesse.

[21] Per tali differenze di regime giuridico, che attengono sia al profilo della scelta del concessionario sia a quello della competenza giurisdizionale, v. G. Greco, Gli appalti pubblici di servizi e le concessioni di pubblico servizio cit., 17 ss.

[22] V. ancora, al riguardo, G. Greco, op.ult.cit., 19 ss.

[23] V., per i primi, la direttiva 92/50/Cee e il relativo decreto di recepimento 157/1995; per le seconde, l’art. 20 della l. 109/1994.

[24] Sul punto v. da ultimo G. Greco, op. ult. cit., 27 ss.

[25] Per un ordine di idee in parte simile v. M. Cammelli, Gli appalti pubblici di servizi e le società a partecipazione pubblica, in F. Mastragostino, (a cura di), op. cit., 41 s.

[26] Su tali regole v. F. Fracchia, La distinzione fra le concessioni di servizio pubblico e di opera pubblica, in Pericu, Romano, Spagnuolo Vigorita (a cura di), La concessione di pubblico servizio, cit., 216 ss.

[27] V. in particolare l’art. 19, comma 2, della citata l. 109/1994.

[28] Per effetto delle modifiche apportate all’art. 4, comma 3, della legge Ronchey dalla legge 8 ottobre 1997 n. 352, tali normative sembrano ora applicabili anche all’affidamento dei servizi aggiuntivi ed equiparati. Il testo attuale del citato art. 4 comma 3 prevede infatti che l’attribuzione del servizio debba avvenire "a norma delle disposizioni vigenti in materia": cioè, appunto, della direttiva 92/50/Cee e del decreto di recepimento. Appare pertanto non piò operativa la previsione contenuta nell’art. 4, comma 4, del d.m. 24 marzo 1997 n. 139, che, sulla base della disciplina originaria della legge Ronchey, prevedeva sempre l’affidamento mediante licitazione privata.

[29] E anche delle regole che impongono di definire specifiche tecniche: v. l’art. 3 d.lg. 157/1995.

[30] Su tali poteri v. M. D'Alberti, Le concessioni amministrative cit.; E. Bruti Liberati, Le vicende del rapporto di concessione di pubblico servizio e i poteri unilaterali dell’amministrazione. La decadenza e la revoca della concessione, in Pericu, Romano, Spagnuolo Vigorita (a cura di), op. cit., 151 ss.

[31] Su tale ordine di concetti v. G. Pericu, Il rapporto di concessione di pubblico servizio cit., in part. 101.

[32] Ricordo che, coerentemente con i concetti formulati nel testo, la giurisprudenza imputa in linea di principio al solo concessionario la responsabilità verso i terzi per la gestione del servizio.

[33] V. ad esempio in tal senso M. Trimarchi, Privatizzare la cultura in Italia: obiettivi, vincoli ed effetti, in Econ. Cultura 1997, 193 (peraltro nell’ambito di un ragionamento tendenzialmente scettico - mi sembra - sull’opportunità di un coinvolgimento dei privati nella gestione dei servizi culturali).

[34] Significativa, da questo punto di vista, è la recente esperienza della privatizzazione dei musei olandesi: su cui v. M. Angioni, La privatizzazione tutta speciale degli olandesi: i nuovi diritti e le nuove responsabilità dei musei, in Giorn. dell’arte 1998, n. 162, 68.

[35] In tal senso v. ad esempio V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino 1997, 117; F.G. Scoca, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca (a cura di), op. cit., 615.

[36] Per le ragioni che si sopra esposte è probabile che tale assegnazione, qualora venga in effetti operata, riguardi solo strutture partecipate dal ministero. E’ bene notare, tuttavia, che sul piano delle regole giuridiche tale limitazione non sembra obbligata.

[37] Del resto, anche la giurisprudenza ha riconosciuto, con riferimento alla delega, che essa richiede un supporto normativo dello stesso livello di quello che ha definito la competenza: v. in tal senso Cons. Stato, V, 24 novembre 1978 n. 1170, citata da V. Cerulli Irelli, op. loc. cit.

[38] A tale criterio di massima il legislatore si è attenuto - peraltro, mi sembra, in modo non del tutto lineare - con riferimento alla Sibec Spa (la cui costituzione è stata prevista, come si è sopra ricordato, dall’art. 10 della l. 352/1997).

[39] È noto da tempo che lo scopo di lucro non può essere considerato elemento essenziale ed ineliminabile degli organismi societari (su ciò v. di recente M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica, Torino, 1997). Questo peraltro non esclude la tendenziale finalizzazione dello strumento societario ad attività economiche rivolte al mercato.

[40] Un esempio notoriamente assai chiaro della disinvoltura con cui talora il legislatore interviene in materia di utilizzo da parte delle amministrazioni di istituti di diritto comune è offerto dalla legislazione sulle società partecipate dagli enti locali per la gestione di servizi pubblici (su ciò v. M. Cammelli, La società per azioni a partecipazione pubblica locale, in Servizi pubblici locali e nuove forme di amministrazione, Atti XLI Convegno di Varenna, Milano 1997, 125 ss.



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