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La nuova nozione di "beni culturali"
nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche

di Mario P. Chiti

 

Premessa

Poche parti del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, hanno sollevato così vivaci polemiche come il Capo V, dedicato a "Beni e attività culturali". È noto infatti che l'attuazione della delega prevista anche per questa tematica dalla l. 59/97 ha visto contrapporsi impostazioni di fondo quasi antitetiche, con una serie di testi normativi che si sono succeduti a seconda del prevalere dell'una o dell'altra posizione. Ciò ha avuto riflessi anche nella contestuale discussione sulla riforma costituzionale - dapprima nell'apposita Commissione bicamerale e, di recente, in parlamento - ove finora prevale, tra le contestazioni, un'impostazione simile a quella che infine è stata fatta propria dal legislatore delegato con il citato Capo V del d.lg. 112.

Considerata la già vasta messe di commenti generali, molti dei quali in un'ottica - tipica dell'attuale periodo - di ulteriori riforme, si reputa opportuno concentrare queste note sull'interpretazione giuridica delle principali disposizioni del Capo V relative alla nuova nozione di beni culturali, cercando di accertarne il grado di innovatività, la congruenza con la disciplina generale della materia e la rapportabilità ad un quadro normativo tra i più ricchi e complessi, da ultimo anche per l'apporto della Comunità europea.

 

La definizione dei beni culturali

Con la lettera a) del primo comma dell'art. 148 entra nel nostro ordinamento una definizione completa di "beni culturali", dopo che l'espressione era invalsa nell'uso corrente ed era stata utilizzata (senza però alcuna definizione connessa) nella normativa a partire dagli atti (l. 5/75 e d.p.r. 805/75) istitutivi del ministero per i Beni culturali ed ambientali. La medesima espressione è stata usata dagli anni cinquanta in numerosi atti internazionali sull'argomento e, più di recente, in direttive e regolamenti della Comunità europea.

È noto che la particolare vitalità della dottrina giuridica sui beni culturali aveva mostrato i limiti della impostazione della l. 1089/39, incentrata sulle "cose d'arte", che, da un lato, esprime una visione estetizzante idonea solo per una parte dei beni in questione; dall'altro rimane ancorata al bene materiale che supporta fisicamente il valore culturale del bene, e mal si adatta alle influenti interpretazioni che ritengono le attività culturali parte della generale categoria dei beni culturali. Malgrado ciò, erano finora rimasti senza successo tutti i tentativi di riforma della parte della legge del 1939 relativa alle definizioni ed ai principi generali, anche se particolarmente ben argomentati almeno a partire dalle conclusioni della commissione Franceschini del 1966. Anche in occasione della recente legge di riforma "Disposizioni sui beni culturali", dell'8 ottobre 1997 n. 352 , il problema non era stato risolto.

Di fatto, l'urgenza della innovazione era stata attenuata da una informale convenzione interpretativa che consentiva di riportare alla legge generale del 1939 nuove categorie di beni culturali progressivamente individuate, rimanendo insuperabile solo il limite per le attività culturali (che pur talora si è cercato di infrangere da parte del giudice amministrativo) . Nello stesso senso ha esercitato progressivamente un rilevante ruolo il diritto comunitario, con le sue particolari definizioni finalizzate agli interessi direttamente perseguiti (circolazione dei beni culturali nei limiti consentiti dal Trattato, restituzione dei beni illecitamente trafugati, regolazione della esportazione verso paesi terzi, ecc.). La tecnica legislativa seguita nel reg. CE n. 3911/92 del Consiglio e nella direttiva 93/7/CE del Consiglio è ben diversa da quella nazionale, avendo preferito il criterio degli elenchi e non quello delle definizioni generali.

Pur non esistendo, dunque, situazioni di particolare delicatezza, potendosi alla fine dei conti riportare le varie problematiche alla legge generale del 1939, il legislatore delegato - sostanzialmente libero dalle difficoltà che in parlamento avevano bloccato finora ogni altro progetto di riforma - ha colto l'occasione offerta dalla l. 59/97 per introdurre una definizione generale ed attuale di bene culturale. In principio ciò consente, su di un piano generale, di riportare simmetria tra i risultati della dottrina giuridica dei beni culturali e lo sviluppo della legislazione; sul piano più particolare disciplinato dal decreto 112/98, di meglio definire i diversi ruoli dei soggetti istituzionali coinvolti.

La definizione data dal citato art. 148, comma 1, lett. a) - sono beni culturali "quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltò così individuati in base alla legge" - è estremamente ampia ed unisce nella stessa formulazione le principali categorie finora individuate di beni culturali con il riferimento agli altri beni che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà, categoria residuale e per definizione aperta.

Si risente qua l'eco diretta della prima dichiarazione della proposta della commissione Franceschini, tuttora assai attuale. Ma con due differenze di non piccolo peso: la prima, rappresentata dalla eliminazione dell'aggettivo "materiale" dalla espressione "testimonianza avente valore materiale di civiltà"; la seconda dall'ultimo inciso del nuovo testo che parla dei beni "così individuati dalla legge".

L'aver eliminato il riferimento alla "materialità" della testimonianza avente valore di civiltà dovrebbe dimostrare la piena rapportabilità delle attività culturali al genus beni culturali. La conclusione è però messa in crisi dallo specifico riferimento contenuto alla lettera f) dello stesso art. 148 alle attività culturali, quali "quelle rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte". In tal modo si assume una distinzione tra beni e attività culturali, invero inaspettata dopo le discussioni degli ultimi due decenni; e si dà una ben strana definizione di attività culturale, non come beni in sé, ma come attività di strumento e supporto. La conferma che il legislatore delegato ha assunto un approccio duale è data dallo stesso titolo del Capo V "beni e attività culturali", e dalla distinzione tra la "valorizzazione" dei beni culturali - oggetto della definizione della lettera e) dello stesso articolo - e la "promozione" di "ogni attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali" - come definita alla successiva lettera g).

Dall'esame generale dell'art. 148 e del complessivo Capo V risulta così una sicura distinzione tra beni e attività culturali, in tal modo frustrandosi l'aspirazione della migliore dottrina a costruire una nozione unitaria di beni culturali, comprensiva anche delle attività culturali. Se allora rimane da spiegare l'eliminazione dell'aggettivo "materiale" che era stato usato dalla commissione Franceschini, si può pensare che il legislatore si sia riferito a possibili beni culturali non materiali, ma in ogni caso distinti dalle attività culturali. Tali potrebbero essere ad esempio "le opere di ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all'architettura", finora disciplinate distintamente dalla l. 633/41. Appare tuttavia poco accettabile che una tradizionale peculiarità del nostro ordinamento sia stata abrogata per implicito con la semplice eliminazione di un aggettivo da una formulazione normativa. Se dunque è difficile al momento immaginare quali esattamente siano tali possibili beni immateriali, rimane apprezzabile l'eliminazione del limite della materialità del bene, che assicura una necessaria flessibilità all'evoluzione della categoria generale dei beni culturali.

La seconda modifica del nuovo testo rispetto alle proposte della commissione Franceschini sta nell'inciso finale "così individuati in base alla legge", che origina due questioni: il procedimento cui la legge allude vale solo per i beni che costituiscono "testimonianza avente valore di civiltà" oppure per tutti i beni culturali in generale? Inoltre, il "così individuati" allude ad un procedimento di mero accertamento della qualità di bene culturale che sussiste in modo originario ed indipendente dalla sua dichiarazione oppure ad un procedimento di carattere costitutivo?

La formulazione letterale del richiamato inciso finale della lettera a) non lascia dubbi sul riferimento della specifica individuazione della qualità di bene culturale ai soli beni, non ricompresi in una delle categorie precedenti, e che sono rapportabili alle testimonianze aventi valori di civiltà. Ciò però non si amalgama con l'espressa conservazione della l. 1089/39 quale disciplina generale della materia per quanto concerne la tutela dei beni, e quindi con il procedimento di individuazione dei beni culturali ivi previsto tramite "apposizione di vincolo, diretto e indiretto, di interesse storico o artistico e vigilanza sui beni vincolati" (art. 149, comma 3, lett. a)). Ferma dunque la necessità dell'individuazione dell'interesse culturale del bene tramite procedimento di acclaramento con effetti costitutivi (formula più attuale di quella usata dalla legge del 1939 in riferimento all'interesse storico e artistico), essa vale per tutte le tipologie di beni ora previste dall'art. 148, che semplicemente è mal formulato per quanto riguarda l'apparente limite della espressa individuazione solo per le testimonianze di civiltà.

 

Le attività relative ai beni culturali

Dopo la definizione di "beni culturali" che si è commentata nei precedenti paragrafi, l'art. 148 del d.lg. 112/98 prevede tre definizioni di attività pubbliche relative ai beni culturali: la tutela, di cui alla lett. c); la gestione, di cui alla lettera d); la valorizzazione, di cui alla lett. e).

Una così precisa distinzione tra le varie attività pubbliche del settore non trova riscontro negli altri Capi del decreto legislativo. La motivazione principale di tale scelta sta presumibilmente nell'esigenza di assicurare allo Stato una ingente massa di funzioni e compiti, collegati appunto alle attività così definite, ed in particolare alla tutela. Dietro una tecnica legislativa che in apparenza mira a meglio chiarire le politiche pubbliche dei beni culturali emerge in effetti il prevalere di una prospettiva centralistica per la quale tutte le attività di tutela sono riservate allo Stato, e molte altre funzioni sono egualmente assicurate allo Stato nei settori della gestione e della valorizzazione dei beni culturali. Altri commentatori hanno giustamente messo in evidenza quanto una scelta siffatta esprima una sfiducia, tanto generale quanto come tale immotivata, nelle capacità delle regioni e degli enti locali che è del tutto asimmetrica rispetto alla impostazione complessiva del decreto n. 112 e che pone problema di coerenza con i principi di delega. Scelta aggravata poi dal mantenimento - almeno per ora - del sistema statale centrale così com'è, senza alcun ripensamento sulla questione cruciale se il punto di riferimento unitario - in molti casi pacificamente necessario - debba necessariamente significare la forma classica della statualità ministeriale.

Proprio perché quest'ultima chiave di lettura ha già trovato numerose espressioni critiche, il punto che si intende qua affrontare si ricollega ai problemi generali scaturenti dalla nuova definizione di beni culturali, in particolare per verificare se il tipo di approccio definitorio della materia che sembra scaturire dalla lettera a) dell'art. 148 si rifletta anche in termini di funzioni e compiti.

A tal fine si tratta preliminarmente di verificare i caratteri delle definizioni di cui alle lettere c), d) ed e) del primo comma dell'art. 148.

Nella vigente legislazione di settore i termini "tutela", "gestione" e "valorizzazione" dei beni culturali si ritrovano costantemente, ma senza una precisa definizione in quanto si rinvia implicitamente al senso che tali termini assumono nelle problematiche di settore e nelle relative scienze. Quanto finora seguito dal legislatore pare assai più appropriato della tecnica definitoria ora prescelta: anzitutto, la definizione irrigidisce le attività considerate ad un dato momento di una evoluzione continua (basti pensare che la stessa valorizzazione dei beni culturali ha avuto solo recentemente dignità legislativa, per il lungo prevalere di una concezione aristocratica delle cose d'arte che sembrava non necessitassero di iniziative a rilevanza economica e sociale); in secondo luogo, la definizione implica di per sé specificare e distinguere, con il rischio di una moltiplicazioni di definizioni e di conseguenti confusioni. In effetti, la distinzione posta nella citata disposizione tra gestione e valorizzazione ha evidenti sovrapposizioni: se la gestione è diretta ad "assicurare la fruizione dei beni culturali ed ambientali" è evidente che contiene elementi di valorizzazione, tanto che la stessa lettera d) continua affermando che la gestione "concorre al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione". Così come viceversa vale per la valorizzazione (lett. e)) che da un lato ha aspetti conservativi ("ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali"), apparentemente connessi alla "tutela"; dall'altro, ha aspetti collegati alla fruizione che pure sembrava aspetto essenziale della politica di gestione.

Insomma, l'anelito definitorio del legislatore delegato finisce per dar vita ad un vero pasticcio verbale, che in mancanza di un accordo interpretativo o, meglio, di un intervento drasticamente correttivo in occasione dei prossimi decreti appositamente previsti, costituirà paradossalmente una sicura occasione di conflitto di competenze, anche nel profilo negativo - il peggiore, ovviamente - per cui nel dubbio nessuno interverrà.

Si pensi ancora che una ulteriore definizione è data per le attività culturali, rispetto alle quali la lettera g) usa il diverso termine di "promozione", in riferimento ad "ogni attività diretta a suscitare ed a sostenere le attività culturali". Con ciò dandosi sfogo ad un massiccio uso del vocabolario della lingua italiana, malgrado che i diversi termini usati non sembrino alludere ad attività molto diverse.

Ma non basta. I successivi articoli definiscono ulteriormente le attività che possono riportarsi alle categorie come sopra definite; l'elencazione è esemplificativa e non tassativa, ma ai presenti fini non sembra molto perspicua perché si disperde in una miriade di sottodefinizioni inevitabilmente intersecantisi l'un l'altra, da cui è facile prevedere un notevole contenzioso o, quanto meno, una forte confusione operativa. Basti un solo esempio: tra le attività che l'art. 152 ricomprende nell'ambito della valorizzazione vi è al primo posto (cfr. il comma 3, lett. a)) "il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrità e valore", che sarebbe invece logico attendersi nell'ambito della "tutela" se tale deve essere (art. 148, comma 1, lett. c)) ogni attività diretta a "conservare e proteggere i beni culturali ed ambientali".

Per concludere su questo punto, la scelta del legislatore delegato di definire sia in termini generali che analitici le varie attività in tema di beni culturali risulta del tutto insoddisfacente perché confusa e tale da irrigidire funzioni che mutano rapidamente carattere in relazione agli sviluppi delle varie discipline e tecniche coinvolte. Se l'intento sostanziale del legislatore era quello di dare una più forte base alla riserva di funzioni allo Stato, è dubbio che le disposizioni esaminate siano idonee a tal fine sia per il richiamato intreccio confuso che si determina tra le varie funzioni e competenze, sia perché la esperienza del primo trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni nel 1972 ha dimostrato (ma non evidentemente al legislatore delegato) la impraticabilità di ogni trasferimento analitico per funzioni parcellizzate.

 

La disciplina delle attività culturali

In ultimo, alcune considerazioni sulla nuova disciplina delle attività culturali. Dagli artt. 148 e 153-155 del Capo V, nonché dal successivo Capo VI dedicato allo Spettacolo, risulta che:

Sul primo punto, ovvero la distinzione tra beni ed attività culturali, non dovrebbero sussistere dubbi stante la chiara formulazione delle norme richiamate. Malgrado che nella definizione dei beni culturali non sia stato usato il riferimento alle testimonianze materiali aventi valore di civiltà, dizione che consentirà forse un'estensione dall'interno delle "testimonianze", tutto l'impianto del Capo V considera distintamente le attività culturali. Ciò rappresenta un regresso non solo rispetto alle più avanzate impostazioni dottrinali sui beni culturali, ma anche rispetto al decreto 616/77 che sotto un unico Capo VII, unitariamente titolato "beni culturali", trattava sia di questi che delle attività culturali. Per non dire poi dello scollamento con la definizione di attività culturale data dalla pur recentissima legge 8 ottobre 1997 n. 352, "Disposizioni sui beni culturali" (cfr. art. 2, comma 4).

Cosa esattamente siano le attività in questione è davvero arduo dire, sia per la sibillina definizione sopra ricordata, sia perché anche le disposizioni connesse non danno alcuna indicazione positiva (cfr. specialmente l'art. 148, comma 1, lett. g); e l'art. 153). L'unica certezza è che si tratta di attività di carattere strumentale rispetto alle "espressioni della cultura e dell'arte", non attività a valenza diretta ed autonoma. Quanto poi alla interpretazione della bella frase "espressioni della cultura e dell'arte" si aprirà un'altra querelle, comprendendo essa cose molto eterogenee, quali beni culturali tradizionali, attività di spettacolo, opere di ingegno e chissà quant'altro.

L'ampiezza e la innovatività della disciplina prevista dal Capo V in tema di attività culturali pone il problema della possibile abrogazione, in tutto o in parte, dell'art. 49 del decreto 616/77. Mentre infatti il criterio adottato allora era quello del trasferimento alle regioni di una vastissima serie di attività promozionali, educative e culturali, quello che ora diviene cardine del nuovo sistema considera che la promozione "viene di norma attuata mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali tra Stato, regioni ed enti locali, secondo quanto previsto dagli artt. 154 e 155 del presente decreto legislativo". In tali articoli si organizzano le nuove forme di cooperazione tramite la costituzione in ogni regione a statuto ordinario di una Commissione per i beni e le attività culturali, ove ai cinque componenti statali ministeriali fanno riscontro solo due membri regionali (oltre a due membri designati dai comuni ed uno dalle province, ed altri tre di diversa estrazione). La Commissione propone un piano pluriennale ed annuale, monitora l'attuazione di tali piani, esprime pareri sulle tematiche del Capo V, perseguendo lo scopo di "armonizzazione e coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, della regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati".

È evidente che un siffatto modello organizzativo e funzionale è asimmetrico rispetto a quello del decreto n. 616, ma anche all'altra normativa recente; sì che potrebbe ipotizzarsi un'abrogazione implicita della precedente disciplina. Tale risultato sarebbe paradossale; ma fortunatamente è impedito da una delle disposizioni generali del decreto n. 112: l'art. 1, comma 4, secondo cui "in nessun caso le norme del presente decreto legislativo possono essere interpretate nel senso della attribuzione allo Stato, alle sue amministrazioni o ad enti pubblici nazionali, di funzioni e compiti trasferiti, delegati o comunque attribuiti alle regioni, agli enti locali e alle autonomie funzionali dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo".

La copertura di questo principio generale potrà evitare le conclusioni paradossali sopra ipotizzate, ma non potrà superare l'evidente contraddizione tra le due discipline ed i contrasti funzionali che ne deriveranno.

 

Conclusioni

L'esame compiuto dalle nuove definizioni legislative di beni ed attività culturali dimostra come si sia persa una buona occasione per una moderna disciplina di aspetti cruciali della materia. Malgrado che questa esigenza fosse particolarmente avvertita vuoi per l'oggettiva vetustà della l. 1089/39, vuoi anche per i recenti provvedimenti comunitari sulla materia, ispirati, come detto, ad un diverso approccio.

Il Capo V del d.lg. 112/98 appare inoltre disarmonico con la recente l. 352/97, che ridisciplina parti importanti della materia e prevede una delega legislativa per un testo unico delle norme in materia di beni culturali. Si tratta di un testo unico non innovativo, nel quale le definizioni sopra esaminate rimangono eccentriche.

Tale appuntamento, assieme ai decreti correttivi del decreto n. 112, sarà comunque un'occasione da cogliere per apportare - con qualche forzatura formale giustificata dall'esigenza di un coordinamento sostanziale della materia - gli aggiustamenti necessari ad un sistema che pienamente funzioni per l'effettiva tutela e valorizzazione dei beni culturali.

 


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