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Beni culturali e principi della delega

di Girolamo Sciullo

 


Nei commenti che hanno accompagnato la preparazione delle disposizioni relative ai beni e alle attività culturali, racchiuse nel Capo V del Titolo IV del d.p.r. 112/98, in genere si è posto l'accento sul contenuto in sé di tali disposizioni oppure si è operato un confronto fra lo schema c.d. Cammelli e quello c.d. Cheli - Veltroni (debitore rispetto all'altro, sia detto per inciso, di un'ascendenza logica attestata da puntuali coincidenze di formule normative).

È da pensare però che risulti di non minore interesse assumere una chiave analitica che conduca a valutare tali disposizioni in rapporto al contesto - non siamo del resto in tema di beni culturali? - in cui esse si collocano, a cominciare dall'occasione che ne ha costituito l'origine e la finalità che le avrebbe dovute guidare. È quanto appunto ci si propone di fare in questo intervento.

Quale sia il contesto, è presto detto. Le disposizioni rappresentano una parte di un atto normativo costituente la principale attuazione del Capo I della l. 59/97, legge di delega con la quale il Parlamento ha inteso promuovere il più ampio conferimento possibile - a Costituzione invariata - di funzioni e compiti amministrativi, finora svolti dallo Stato, a favore del sistema delle autonomie territoriali. Conferimento da attuarsi nel rispetto, in particolare, del principio di sussidiarietà - verticale (fra soggetti pubblici) ma anche orizzontale (fra pubblico e privato) - di responsabilità e unicità dell'amministrazione, di autonomia organizzativa e regolamentare nonché, ma nel presupposto dell'attuazione di tali principi, con la previsione di forme di collaborazione fra le diverse sedi di governo (art. 4, comma 3, e art. 3, comma 1, lett. c)). Conferimento, è da aggiungere, praticabile anche a favore di enti locali diversi da province o comuni, purché costituenti loro proiezioni.

Il quadro si completa con riguardo specifico ai beni culturali con la riserva allo Stato della funzione di "tutela" (art. 1, comma 3, lett. c)) e con l'indicazione che il governo, nell'esercizio dell'anzidetta delega, poteva "prevedere il trasferimento della gestione dei musei statali" alle autonomie territoriali (art. 17, comma 131, l. 127/97).

Questo, dunque, il contesto, rispetto al quale, secondo il taglio di analisi assunto, valutare le disposizioni in questione. Il che è come dire considerare se o in quale misura il legislatore delegato abbia dato un'adeguata attuazione al mandato ricevuto.

A tal fine può senz'altro procedersi secondo le consuete scansioni di indagine proprie dei fatti organizzativi: il che cosa? e il chi? Ovvero, venendo in rilievo un atto di conferimento di poteri, quale sia l'oggetto del conferimento e a favore di quali soggetti e con quali relazioni connettive esso sia disposto.

Quanto al primo aspetto, il decreto alloca le competenze utilizzando e combinando due criteri di riparto: per beni e per funzioni. Da un lato, in applicazione del principio di sussidiarietà, la gestione dei musei e di altri beni culturali attualmente statali verrà conservata allo Stato o sarà trasferita alle regioni, alle province e ai comuni (art. 150, comma 1). Dall'altro, vengono individuati quattro tipi di funzioni e compiti direttamente o indirettamente concernenti i beni culturali: oltre alla gestione, la tutela, la valorizzazione e la promozione (spec. art. 148).

A prendere sul serio il criterio di riparto dei beni culturali, non si può disconoscere che il decreto compia una scelta significativa e di un certo momento. In luogo del criterio della dimensione dell'interesse sotteso, spesso richiamato, ma senz'altro vago e arbitrario nei suoi esiti [1], viene assunto quello di sussidiarietà. Come inteso nella l. 59, esso condurrebbe, in linea di massima, l'allocazione in capo all'"autorità ... più vicina ai cittadini", ossia al Comune, a meno che l'ente non risulti inidoneo sul piano organizzativo (art. 4, comma 3, lett. a) e g) della l. 59). Ad ogni modo, parrebbe difficile ipotizzare che, salvo limitate eccezioni, possa risalirsi oltre il livello regionale. Sicché, al termine della procedura di individuazione, la gestione dei circa cinquecento musei attualmente statali dovrebbe finire trasferita, in linea di massima, ad altro ente. Non è difficile peraltro prevedere che la gestione del criterio risulterà assai meno agevole di quanto non appaia sul piano astratto e che un ruolo non indifferente sarà giocato dall'organismo decisore. Con il che il problema si sposta sul piano dei soggetti sul quale ci si soffermerà più avanti.

Il decreto non prevede il trasferimento della titolarità dei beni che continuerà a permanere statale. Il dato non appare secondario, ma occorre precisare. Il trasferimento o meno della titolarità, al di là della indubbia carica simbolica, non pare, in sé considerato, rappresentare un idoneo criterio per saggiare il tasso di federalismo (o regionalismo) della disciplina dettata per i beni culturali. Oltretutto la previsione dell'art. 17, comma 131, della l. 127 nonché la circostanza che si verte in una materia al di fuori di quelle dell'art. 117 Cost. danno una certa base alla scelta operata dal decreto. Il punto è altro, concerne i margini di compatibilità fra titolarità e gestione, e riguarda pertanto le funzioni sui beni e i loro reciproci rapporti.

Il discorso, dunque, si trasferisce sulle funzioni e tocca l'aspetto probabilmente meno convincente della disciplina dettata. Sia chiaro, che il decreto, sulla scia peraltro delle previsioni delle l. 59 e 127 sui beni culturali, non segua la concezione totalizzante della tutela - presente nella normazione [2] e anche di recente ribadita sul piano culturale [3] - e dia consistenza giuridica ad una pluralità di funzioni e compiti rispetto ad essi, è un fatto da valutarsi positivamente. Rappresenta infatti un segnale della valenza promozionale e non solo conservativa che una politica dei beni culturali al passo dei tempi non può non assumere. Ma rispetto alle scelte operate dal decreto si impongono tre ordini di considerazioni.

La individuazione di molteplici funzioni rispetto ad un bene risulta corretta a condizione che la relativa disciplina sostanziale e organizzativa eviti sovrapposizioni e al contempo preveda l'intera gamma dei possibili usi del bene. Ove così non fosse, tale individuazione costituirebbe fonte di incertezze sul piano delle regole da applicare e dei soggetti competenti a provvedere.

Le nozioni offerte dagli artt. 148, 152 e 153 - da reputarsi vincolanti ai fini dell'attuazione del decreto - presentano esplicite interferenze reciproche: ad es. la "conservazione" rappresenta una finalità testualmente assegnata sia alla tutela che alla valorizzazione, mentre la "fruizione" risulta indicata fra gli obiettivi tanto della gestione che della valorizzazione. Le sovrapposizioni logiche fra le funzioni paiono poi evidenti. Ad es., l'assicurare la fruizione (specifico della gestione) necessariamente suppone la conservazione (finalità della tutela). Ancora, ad es., la pubblicizzazione dello svolgimento di una mostra in un museo, in quanto iniziativa diretta ad "accrescere la conoscenza di un'attività culturale" pare ricadere senz'altro nella promozione (ex art. 153, comma 3, lett. b)), ma essa è anche attività diretta ad "assicurare" e "incrementare" la "fruizione" di un bene culturale, rappresenta, quindi, altresì gestione e ad un tempo valorizzazione (artt. 148, lett. d) ed e)).
D'altra parte, la individuazione eccessivamente analitica delle funzioni finisce con il soffrire del vizio cui non si sottraggono le classificazioni troppo puntuali: l'inidoneità a prevedere tutto. Le attività di catalogazione e di restauro a quali delle funzioni indicate appartengono? [4] Sulla base delle nozioni offerte dal decreto possono ascriversi, entrambe, tanto alla tutela, quanto alla gestione e alla valorizzazione.

Fin qui le funzioni e i compiti espressamente indicati. Ma all'elenco sarebbero da aggiungere quelli connessi alla titolarità dei beni. La separazione fra gestione (quando trasferita) e la titolarità porta ad interrogarsi su ciò che permarrà allo Stato, non in quanto titolare delle funzioni e dei compiti di tutela, ma appunto come proprietario del bene. Il decreto tace sul punto. È possibile che una qualche indicazione verrà contenuta nei decreti con i quali il ministro dei Beni culturali e ambientali definirà, ai sensi dell'art. 150, comma 6, i criteri tecnico scientifici e gli standard da osservare nell'esercizio delle attività trasferite. Ma è evidente che questa situazione di carenza normativa espone la gestione a condizionamenti ulteriori rispetto a quelli prevedibilmente discendenti dalla tutela.

Il riferimento alla tutela introduce la terza considerazione. Il decreto, se è rifuggito da una concezione totalizzante della tutela, non si è sottratto alla pervasività della funzione. Il dato è Stato da più parti già rilevato [5] e non meriterebbe ulteriori sottolineature, se non fosse che quello della tutela sembra rappresentare il nodo cruciale, nell'immediato e in prospettiva, del riassetto del settore dei beni culturali. Nell'accezione accolta negli artt. 148 e 149 la tutela è destinata ad incidere pesantemente sulle altre funzioni e compiti. Il "riconoscere, conservare e proteggere" non risulta definito, contenuto e limitato da ciò che caratterizza la gestione e le altre funzioni. Al contrario continua a sovrapporsi sui contenuti delle stesse. Poche o tante che siano le funzioni ulteriori che il legislatore individui rispetto ad un bene culturale, il peso della tutela resta immutato, qualora, come fa il decreto, si tengano fermi i dati normativi tradizionali che la concernono.

Probabilmente nel dibattito culturale seguito all'emanazione del d.p.r. 616 l'approfondimento sul punto non è stato sufficiente. Nella concezione corrente [6] la tutela si compone di un profilo tecnico (apprezzamenti e valutazioni di carattere scientifico - professionali) e di un profilo autoritativo (apposizione di vincoli, autorizzazioni). In una tutela rivisitata non è detto che entrambi i profili debbano comporne, come dire, il core - business. Se fosse così gli assetti funzionali e soprattutto organizzativi andrebbero su nuove basi ripensati.

In sintesi, si può affermare che relativamente alle funzioni il decreto avrebbe potuto fare uso di maggiore sobrietà: nell'individuazione del loro numero e nella precisazione dei loro contenuti. Il binomio tutela - gestione cui facevano riferimento le due leggi Bassanini poteva costituire una griglia idonea su cui procedere: la valorizzazione e la promozione tutto sommato apparendo profili particolari della gestione piuttosto che funzioni autonome e parallele. La indicazione delle funzioni connesse alla titolarità e soprattutto un contenimento dei contenuti della tutela avrebbero poi conferito maggiore spessore alla gestione, che pur si voleva trasferire [7].

Riguardo al profilo organizzativo della disciplina contenuta nel decreto, tre aspetti richiedono di essere presi in considerazione: le modalità di individuazione dei musei (e di altri beni) da trasferire; le entità organizzative che li gestiranno; le forme di esercizio delle funzioni di valorizzazione e promozione.

La individuazione dei musei (e di altri beni) la cui gestione andrà trasferita a regioni, province e comuni è affidata dall'art. 150 ad una commissione "paritetica" Stato - enti territoriali. In realtà il ruolo di preminenza, giuridica e di fatto, dell'apparato ministeriale di settore, che emergeva dalla stesura originaria del decreto (art. 145) - livello centrale della commissione, presidenza (e quindi gestione) della stessa da parte del ministro, conseguente sua iniziativa circa la pubblicazione dell'elenco dei musei da trasferire, non previsione di intesa o parere con la Conferenza unificata circa tale elenco, non indicazione di rimedi in caso di arresto dei meccanismi procedurali - risulta in parte smussato nella versione finale. La previsione di pareri da parte di commissioni costituite a livello regionale (art. 150, comma 3) introduce un elemento di dialettica e di stimolo rispetto alle scelte del livello centrale. La possibilità che la commissione nazionale possa essere ricostituita per modificare l'elenco - e ciò anche su iniziativa della conferenza unificata (art. 150, comma 8) - consente di porre riparo a scelte restrittive. Infine, il nuovo art. 7, comma 10, delle disposizioni generali del decreto, contempla un meccanismo di impulso della conferenza unificata che parrebbe applicabile anche al caso di ritardi che intervenissero nella procedura di individuazione dei beni da trasferire.

Anche a proposito della configurazione delle forme gestorie dei musei (e degli altri beni) trasferiti il decreto nella sua versione definitiva, corregge, in parte, insufficienze della stesura iniziale. I trasferimenti della gestione erano (e restano) previsti in capo agli enti territoriali, senza alcuna indicazione né circa la struttura organizzativa che l'istituzione museo dovrà assumere, in modo che ne risulti garantita la necessaria autonomia funzionale rispetto al resto degli apparati dell'ente di riferimento, né circa il ruolo da assegnarsi ai privati all'interno di detta organizzazione.

La previsione inserita al comma 7 dell'art. 150 apre un qualche spiraglio al riguardo. Stabilendo, a specificazione di quanto fissato dall'art. 2 della l. 59 e confermato dall'art. 1, comma 3, del decreto, che la regione provveda, "con proprie norme, all'organizzazione" dei musei (e degli altri beni) la cui gestione sarà trasferita, offre un esplicito fondamento ad una legislazione regionale che voglia dar vita, con soluzione innovative, a istituzioni museali in grado di reggere il confronto, per i servizi resi all'utenza, con quelle di altri Paesi.

Sul tema, infine, delle forme di esercizio relative alle funzioni di promozione e di valorizzazione non pochi sono i dubbi che la disciplina del decreto solleva.
Il primo è che viene dettata una regolamentazione organizzativa di attività che non vengono conferite. Quando si afferma che lo "Stato, le regioni e gli enti locali curano, ciascuno nel proprio ambito" la valorizzazione e la promozione (artt. 152, comma 1 e 153, comma 1), senza toccare l'allocazione di tali funzioni, si conferma la preesistente mappa delle competenze. Ne deriva che per questo aspetto la disciplina dettata non è di conferimento, ma di riordino organizzativo del settore.

Il secondo dubbio discende dal fatto che detto riordino viene fatto essenzialmente consistere in "forme di cooperazione strutturale e funzionale", realizzate dalle commissioni in sede regionale a composizione mista per i beni e le attività culturali (artt. cit.). Con ciò parrebbe certa un'incidenza sui modi di esercizio di funzioni e compiti già di spettanza delle autonomie territoriali [8], se non fosse che l'art. 1, comma 4, delle disposizioni generali del decreto spinge ad interpretare come indicative le accennate disposizioni e quindi a considerare non vincolanti le proposte e i pareri espressi delle commissioni regionali. Con queste limitazioni dovrebbero concepirsi altresì le interferenze sull'autonomia dell'istituzioni museali che il sopra indicato incrocio fra promozione - valorizzazione e gestione rende non improbabili da parte delle attività delle commissioni.

L'ultimo dubbio concerne l'utilità in sé dello strumento previsto. Frutto dell'illusione (dura a morire) che la soluzione di un problema reale (coordinamento fra attori pubblici) richieda la creazione di una nuova, apposita struttura amministrativa, le commissioni sono chiamate a cancellare il ricordo complessivamente non esaltante [9] degli organismi che le hanno precedute (le commissioni paritetiche regionali istituite nel 1975). Detto questo, non va però sottaciuto, che, anche in base alle indicazioni della Commissione c. d. Cerulli e della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, Anci, Upi e Uncem, sono state eliminate dal testo definitivo del decreto le punte organiciste presenti in quello iniziale. La composizione delle commissioni risulta allargata ad esponenti della società civile e dell'episcopato cattolico (con evidente riferimento ai beni culturali di proprietà ecclesiastica). Mentre la proposta del piano di promozione e di valorizzazione - compito caratterizzante tali organismi - non pare più l'anello di un processo decisionale discendente dall'alto, ma piuttosto l'occasione di un autocoordinamento volontario.

Volendo tirare le fila delle osservazioni fin qui svolte può dirsi che certamente il decreto avvia sui beni e le attività culturali un processo di decentramento. Ancorché incerto nei suoi esiti (quali beni saranno trasferiti in gestione) e nelle condizioni che l'accompagnano (non chiarezza e arretratezza del quadro delle funzioni che li concernono), esso comunque si pone nella direzione tracciata dalla legge di delega, anche se è dubbio che risulti a tempo con l'ampio decentramento nel campo del governo del territorio che lo stesso decreto ulteriormente sviluppa. Assai più dubbio è se abbia soddisfatto altresì altri parametri tracciati dalla legge di delega. Il criterio della responsabilità e dell'unicità dell'amministrazione, che è poi alla fine cifra organizzativa di una condizione di chiarezza nei poteri e nei doveri dei soggetti istituzionali interessati, pare relegato sullo sfondo. Emerge l'impressione che la necessaria elasticità del sistema e la effettiva collaborazione (valori di un federalismo o ragionalismo cooperativo) non appaiano giocati, come sarebbe proprio [10] sul terreno delle regole e delle istituzioni, affidandosi piuttosto alle risorse della politica e sulle capacità dei suoi interpreti. Condizione questa senz'altro utile, forse indispensabile, ma come il dato storico spesso ricorda, insufficiente già nel medio periodo.

 


Note

[1] Cfr. L. Bobbio, Il decentramento della politica dei beni culturali, in Le Istituzioni del Federalismo, 1997, 306.
[2] Cfr., ad es., artt. 1 e 2 della l. 10 febbraio 1992, n. 145.
[3] Cfr., ad es., il documento di funzionari e tecnici della sopraintendenza per i Beni artistici e storici di Bologna comparso in "Il Giornale dell'Arte", 1998, n. 164, p. 8.
[4] Per questo interrogativo in ordine al restauro cfr. Commissione parlamentare per le questioni regionali, Seduta del 24 marzo 1998, e P. Petraroia, Un patrimonio di ambiguità, in "Il Sole-24 Ore", 22 febbraio 1998, 37.
[5] Cfr. L. Bobbio, Musei: la svolta, in "Il Giornale dell'Arte", 1998, n. 164, 1.
[6] Sulla quale si rinvia all'importante lavoro di Carla Barbati in corso di elaborazione.
[7] Sull'esigenza che venisse chiarita la reale autonomia gestionale dei musei, cfr. Commissione c.d. Cerulli, Seduta del 25 marzo 1998.
[8] Cfr. del resto le preoccupazioni espresse dalla Commissione c.d. Cerulli, Seduta del 25 marzo 1998.
[9] Cfr. L. Bobbio, Musei, cit., 4.
[10] M. Cammelli, Riordino istituzionale dei beni culturali e dello spettacolo in una prospettiva federalista, in Le Istituzioni del Federalismo, 1997, n. 267, sottolinea che la elasticità del sistema e la cooperazione in un modello federale richiedono la flessibilità del processo decisionale, ma in un quadro in cui resta stabile la gestione (corsivo dell'A).


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