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Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)

La valorizzazione dei beni culturali: la decodificazione per la codificazione [*]

di Giuseppe Severini [**]

Il contributo si sofferma sulla funzione di valorizzazione dei beni culturali a vent’anni dalla codificazione del codice dei beni culturali. Lo scritto, partendo dalle origini della valorizzazione, ricostruisce le traiettorie evolutive che negli anni si sono delineate e le differenti forme declinatorie che la valorizzazione ad oggi assume.

Parole chiave: patrimonio culturale; valorizzazione dei beni culturali; tutela dei beni culturali; codificazione.

The enhancement of cultural heritage: decoding for codification
This contribution focuses on the promotion of cultural heritage twenty years after the codification of the Cultural Heritage Code. Starting from the origins of promotion, the article reconstructs the evolutionary trajectories that have emerged over the years and the different forms that promotion takes today.

Keywords: cultural heritage; promotion of cultural assets; protection of cultural assets; codification.

La valorizzazione dei beni culturali si presenta oggi, a vent’anni dalla sua codificazione e a intervenuta sdrammatizzazione delle sue ragioni, come una questione di significazione e di conseguente normazione. Ma nasce, realtà da non dimenticare, come questione di organizzazione, o meglio di ripartizione di competenze tra Stato e regioni: limite, o controlimite regionale se si preferisce, alla competenza esclusiva statale sulla tutela.

Se è consentito un cenno di piccola storia, personale, mi rimane fermo un momento del dicembre 2002, durante i lavori della Commissione costituita dal ministro Giuliano Urbani per elaborare il testo di quello che sarebbe divenuto, poco più di un anno dopo, il Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Una delle principali ragioni del passaggio dal, recente e compilativo, Testo unico dei beni culturali e ambientali del 1999 all’organico e sistematico Codice che si andava componendo era che la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione aveva, con la forza della legge costituzionale, ineluttabilmente scisso la valorizzazione dalla tutela e ne aveva fatto, a differenza di questa che restava di dominio esclusivo dello Stato, una competenza concorrente tra Stato e regioni. Sicché, nel corpo fondamentale delle leggi di settore, finora incentrati sulla sola tutela, diveniva necessario introdurre i principi fondamentali sulla valorizzazione. Princìpi che peraltro nessuno mai aveva finora immaginato di codificare, trattandosi per lo più di attività materiale, proporzionale alle capacità e alla volontà di chiunque, pubblico o privato, e soprattutto inerente o la disponibilità del bene culturale o l’accordo con chi ne ha la disponibilità. Del resto, anche altrove in Europa di valorizzazione se ne faceva già molta ma senza avvertire necessità di norme. Ci si cominciò dunque a domandare come potesse essere considerata, almeno nei tratti essenziali, questa nuova materia; e soprattutto a vagliare in cosa davvero potesse consistere: perché in verità la parola era stata molto utilizzata, ma con scarsa chiarezza di presupposti e di implicazioni.

Si era dunque incerti sulla natura, sul significato e sulle conseguenze dell’espressione e ci si confrontava sulle varie e possibili sue derivazioni. Bisognava, se è lecito dire, decodificarla per poterla codificare. Con questi punti interrogativi, che forse lì per la prima volta venivano vagliati per darvi un qualche ordine, l’autorevolezza del professor Sabino Cassese, componente della Commissione, ricordò un’antica buona regola dei collegi giudicanti: l’estensore che riesce meglio a motivare è quello che più dubbi solleva in camera di consiglio. Sicché - ma non so se davvero ero io a sollevarli o piuttosto a porre interrogativi sugli equivoci - finì per toccare a me di predisporre un primissimo lavoro per le valutazioni della Commissione. Era poco prima di Natale e fu così che la valorizzazione continua a evocarmi il panettone, perché quel lavoro si prese quei giorni. Se l’antica regola abbia funzionato non so: ma so che tutto venne poi vagliato attentamente dalla Commissione e quel che ne è uscito è da riferire ad essa.

La prima considerazione di sistema fu che, a questi specifici riguardi, la ragion pratica della riforma del Titolo V a sua volta derivava da una disposizione del d.P.R. n. 616 del 1977, l’art. 48, dedicato ai beni culturali, per il quale “le funzioni amministrative delle regioni e degli enti locali in ordine alla tutela e valorizzazione del patrimonio storico, librario, artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologico saranno stabilite con la legge sulla tutela dei beni culturali da emanare entro il 31 dicembre 1979”.

Quella legge mai vide la luce. E anzi, nel connesso settore della tutela del paesaggio, pochi anni dopo sopravvenne la riforma Galasso (dapprima il d.m. 21 settembre 1984, c.d. “decreto Galasso”; poi il decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, cioè la “legge Galasso”) che, sul rapporto tra Stato e regioni, andava in tutt’altra direzione del d.P.R. n. 616 del 1977, ribaltando l’art. 82, sui beni ambientali, che nel testo originario era stato di non pochi nuovi danni al paesaggio italiano nel delegare alle regioni (e queste poi ai comuni) le funzioni amministrative statali su individuazione, tutela e sanzioni.

Venti anni dopo, con il d.lg. n. 490 del 1999, a riunire le due grandi leggi del 1939, su beni culturali e paesaggio, intervenne appunto il Testo unico: che però di valorizzazione dei beni culturali non faceva cenno. Nel frattempo, si concentrava su questa espressione, valorizzazione, la pretesa di competenza regionale in tema di patrimonio culturale.

In effetti, pur a fronte di una tutela che era espressione di una funzione propria dello Stato e con copertura costituzionale nei principi fondamentali dell’art. 9, secondo comma, Cost., da tempo di fatto le regioni, mostrando particolare capacità ed iniziativa, si erano occupate di patrimonio culturale: entrando talora in conflitto con le soprintendenze. Avveniva essenzialmente grazie all’originario art. 117 Cost., che prevedeva tra le competenze concorrenti quella sui musei e biblioteche degli enti locali: del che la Corte costituzionale si era occupata da ultimo con la dirimente sentenza 10 giugno 1993, n. 277, detta del piviale ligure, che aveva affermato che il restauro rientra nella tutela, dunque nella competenza esclusiva dello Stato pur se riguarda un’opera contenuta in un museo di un ente locale Il che aveva chiuso con l’idea che anche la tutela potesse essere ripartita tra Stato e regioni: e difatti la riforma del Titolo V la lasciò in esclusiva allo Stato.

Insomma la pretesa regionale di competenza si era concentrata su ciò che riguardava i beni culturali e che non era tutela: vale a dire nella parola chiave valorizzazione, dalla latitudine indefinita, analogamente a quelle, vicine, di governo o gestione del territorio. Tutto questo si era riversato nella nuova formulazione dell’art. 117: che peraltro, non va pretermesso, non recava più la competenza delle regioni su musei e biblioteche degli enti locali.

Questo quadro generale pose la Commissione di fronte ad alcune alternative che qui cercherò di riassumere nei loro tratti principali: anche se ormai oggi, concretamente, il rilievo principale è ben altro e consiste in quello che il presidente Cheli ci ha appena detto, cioè l’impatto della trasformazione tecnologica e, rispetto a quella, l’emergere del rilievo dell’immaterialità come questione attuale.

È bene sottolineare un tratto denotativo: il Codice non è e non pretende di essere il corpo onnicomprensivo della normazione in materia culturale. Sarebbe, per la sua vastità, una missione impossibile, una pretesa irraggiungibile. Il Codice solo è e vuol essere quello che è e dichiara essere, essenzialmente il corpo normativo della tutela sui beni culturali materiali e sul paesaggio: cui ora si aggiungeva la valorizzazione. A questi riguardi, l’art. 7-bis - ha ricordato il professor Bartolini - è sopravvenuto a marcare il suo confine, come un termine apposto a chiarire: perimetra questo corpo normativo della tutela delle cose materiali che costituiscono i beni culturali; come delle porzioni di paesaggio che costituiscono i beni paesaggistici. È lì il Codice si arresta perché lì si arresta la coerenza dei suoi dispositivi e dei suoi procedimenti. Non può e non pretende di andar oltre.

In generale, alla base di nuove produzioni normative dovrebbero sempre sussistere bisogni effettivi di diritto. Ma, quando si parla di bisogno di diritto, occorre anzitutto rilevarne l’effettività e così l’urgenza reale di nuove norme. Esistono attività che per natura sono giuridicamente libere e che non necessitano di norme: anche perché, a volersi porre la questione, ancorano l’esistenza su altre previsioni o altri principi della Costituzione, in primis la libertà di espressione. Occorre dunque, per buona regola, diffidare da tendenze del momento che portano a sovrabbondare in produzione di norme anche se non corrispondono a un effettivo bisogno di diritto.

La valorizzazione ce ne offre un esempio notevole. Il Codice avrebbe infatti dovuto parlare, come poi ha fatto, soltanto di principi fondamentali della valorizzazione: ma più che per un reale bisogno di diritto, per una sorta di imposizione formale della sopravvenuta modifica del Titolo V della Costituzione.

Di più: la questione del bisogno o non bisogno di diritto è stata poi portata a dimostrazione inoppugnabile da quanto è seguito al Codice in questi venti anni. Sappiamo che i principi fondamentali per le leggi regionali vanno poi seguiti da leggi regionali che a quelli diano attuazione e si conformino. Ebbene, sono passati venti anni e non si rilevano leggi regionali che davvero contengano siffatte norme di dettaglio. Le regioni, cioè, che pure tanto avevano combattuto per ottenere la valorizzazione, pressoché non hanno legiferato sulla valorizzazione dei beni culturali. La causa, evidentemente, è che sul punto la riforma costituzionale non corrispondeva ad un effettivo bisogno di diritto; o comunque che questo si è esaurito ponendo i soli principi fondamentali, o perché per una qualche altra ragione esso è venuto poi meno.

È un tema sul quale sarebbe saggio riflettere: e parecchio. Anche ad evitare future repliche.

C’era davvero un bisogno di porre diritto circa la valorizzazione dei beni culturali, per giustificare un seguito a quella pretesa regionale - uso la parola “pretesa” in senso neutro senza segni di valore - oppure la parola di suo corrispondeva, al di là della lotta per le competenze tra Stato e regioni, a una mera attività che in realtà non aveva bisogno di diritto, come già si registrava non averne bisogno altrove che in Italia?

Il francese Code du patrimoine che, è stato ricordato, vide la luce quasi negli stessi giorni del 2004 del nostro Codice, non contiene norme sulla valorizzazione. Eppure il concetto è di matrice francese e muove dalla cura dei centri storici: è infatti nel 1962 con la legge Malraux che i secteurs sauvegardés dei centri storici sono stati identificati come bisognosi di conservazione e di mise en valeur della ricchezza che li compone.

Sicché “valorizzazione” è, al fondo, un termine mutuato dalla legislazione francese: che però lo ha utilizzato solo come testa di capitolo, perché poi è divenuto un obiettivo di indirizzi piuttosto che una funzione pubblica.

La ragione però è più semplice di quanto non appaia, e riporta al perché della nostra modifica costituzionale del 2001. In Francia non esisteva tensione circa le competenze costituzionali tra Stato e collettività territoriali circa il patrimonio culturale: quindi non si poneva un problema della definizione di un qualcosa di altro rispetto alla sauveguarde che poteva fuoriuscire dal monopolio di competenza statale. E questo è il punto.

Sarebbe bene dunque verificare l’effettiva necessità di norme quando nulla nella realtà osta ad azioni e a politiche pubbliche di ogni ente; e ricordare che è bene contenere la produzione normativa per prevenire conflitti e controversie sulle norme per la loro contraddittorietà o poi per loro obsolescenza. È insomma preferibile essere prudenti: anzi, pare necessario, e concentrarsi semmai su queste trasformazioni tecnologiche poi intervenute, che portano l’attenzione verso l’immateriale vuoi in termini di immagine che di rappresentazione e di percezione del valore culturale.

La circostanza che il Codice abbia dato buona prova di sé è dovuta probabilmente anche all’uso accorto di questo criterio. Tempo fa un ex segretario generale del ministero dei Beni Culturali mi ha detto: “il Codice è freschissimo, ha vent’anni ma ha dato ottima prova di sé”. Sicché attenzione a non confondere il Codice con l’intero perimetro dell’attenzione culturale e della materia culturale che può interessare il giurista; e a non pretendere dal Codice un’onnicomprensività che non pretende di avere e sarebbe inappropriato tentare di imporgli.

Quella disposizione dell’art. 7-bis introdotta con il decreto legislativo integrativo e correttivo del 2008 segna un opportuno ed essenziale confine: al di là c’è tutta un’altra materia, di segno sicuramente positivo e da prendere in considerazione; ma extra moenia, fuori dal Codice stesso. Lasciamo dunque al Codice cioè che è del Codice. E al resto oggi pensiamo con altre, organiche quanto si può, azioni o previsioni.

Come accennavo, tra le questioni che si posero sul contenuto della valorizzazione, si presentarono più coppie di opposti.

La prima era appunto quella della competenza tra Stato e regioni, cui abbiamo accennato.

La seconda questione era quella del rapporto tra pubblico e privato.

La terza, la più importante, era il rapporto tra valorizzazione intesa in senso economico e valorizzazione intesa in senso culturale.

Per il vero, la parola valorizzazione, di suo malcerta e polisemica, agli inizi della sua diffusione era intesa in altra declinazione da come poi la abbiamo assunta: vale a dire, muovendo dalla la sua derivazione da “valore”, se ne rimarcava il profilo economico, di creazione di un valore aggiunto in termini di ricchezza: alla luce di quell’accezione, poteva apparire che i beni culturali dovessero essere intesi come beni strumentali per creare questa nuova ricchezza.

A questi propositi, la scelta è stata invece coerente con la base costituzionale e la ragione fondante del Codice, vale a dire la rilevanza pubblica dell’interesse culturale alla cui cura presiede. Così, all’art. 6, il Codice pone un principio circa la valorizzazione che trova la base costituzionale non nel secondo comma, che tratta della tutela, ma nel primo comma dell’art. 9 Cost., che esordisce dicendo che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”. Era nota in dottrina, formulata da Fabio Merusi, la lettura unitaria dell’art. 9 secondo cui il secondo comma andava connesso al primo: e a quella si è fatto riferimento.

Pertanto l’art. 6 che, tra le norme generale sui princìpi del Codice, così dedicato alla nozione di valorizzazione del patrimonio culturale, esprime in modo manifesto l’opzione concettuale basilare. Fa chiarezza su questo che poteva essere il primo degli equivoci, appunto se la valorizzazione sia da intendere in senso economico ovvero in senso culturale: e ne scarta l’accezione economica e per orientarne il contenuto nella direzione dell’arricchimento culturale attraverso il potenziamento delle condizioni della sua conoscenza. Questo avviene ancorandone il testo, come detto, a quello appena ricordato del primo comma dell’art. 9 Cost. nel dire che è finalizzata a promuovere “la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”.

Va nondimeno evidenziato che i termini di questa coppia concettuale sono in relazione gerarchica ma non di reciproca esclusione: nel senso che la valorizzazione culturale prevale sulla valorizzazione economica ma non la esclude. Il potenziamento delle condizioni di conoscenza non nega la plausibilità di una derivazione di valorizzazione economica: soltanto esclude che possa essere la ragione dell’azione pubblica, libero il privato di optare diversamente purché conformemente alla tutela. Insomma, vi è una colonna gerarchica, a capo della quale sta la tutela, e il Codice dice espressamente che la tutela prevale sulla valorizzazione: come al secondo comma dell’art. 6, che dice che “la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”; analogamente afferma l’art. 1, comma 6, che vuole che la valorizzazione sia svolta “in conformità alla normativa di tutela”. Poi c’è la valorizzazione culturale e poi ancora la valorizzazione economica. Su quest’ultima, proprio ad indagarne il rilievo e le possibili declinazioni, in queste stesse sale della Fondazione Cesifin dieci anni fa è stato dedicato un importante convegno sull’immateriale economico nei beni culturali.

Al tempo stesso, l’enunciazione del principio reca la eco diretta del concetto - scolpito a suo tempo da M.S. Giannini - del bene culturale come bene di fruizione, che esplica il suo valore nell’essere quanto più e meglio conosciuto. Insomma, nell’art. 6 la valorizzazione viene esplicitamente intesa come attività mirata al potenziamento delle condizioni di accesso e di fruizione: e così di conoscenza e dunque di arricchimento culturale diffuso.

È per questo che il fondamento della valorizzazione in termini di principi fondamentali va ricercato nel primo comma della Costituzione e non nel secondo, che è il comma della tutela.

Questo è il principio fondamentale. Ad esso sono coerenti le disposizioni che - anche numericamente - segnano la differenza tra Testo unico del 1999 e Codice del 2004, vale a dire gli artt. 111 e ss. che, è bene notare, usano per la valorizzazione l’espressione attività, per dire che non è una funzione.

La valorizzazione, in effetti, non è una funzione perché non ha carattere autoritativo, non modifica le situazioni giuridiche e comunque postula il consenso del dominus del bene quando non ne è lui stesso il protagonista. Ha carattere doveroso soltanto per i soggetti pubblici, perché una disposizione espressa lo dice per lo Stato e gli enti territoriali (l’art. 1, comma 3) ma per il resto la valorizzazione non è doverosa ed è appunto ancorata al principio dominicale, fatto suo dalla Corte costituzionale: ciascuno valorizza ciò di cui è titolare salvo accordarsi con altri soggetti. Il Codice, coerentemente, tratta ampiamente della consensualità, in tutte le disposizioni che sto ricordando.

All’art. 111 sono dettati alcuni capisaldi della valorizzazione.

Anzitutto: se la valorizzazione è pubblica, è un servizio pubblico. Non si usa per dirlo l’espressione “servizio pubblico” ma si ricordano all’art. 111, comma 3, le attribuzioni proprie del servizio pubblico: i “i principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione”.

Un’ulteriore e significativa novità, sempre connessa al carattere pubblico dell’interesse culturale, riguarda la valorizzazione a iniziativa privata che per il Codice è “attività socialmente utile e ne è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale”: è un riconoscimento importante e pone la base per un trattamento tributario proporzionato a questa utilità generale.

Le altre disposizioni sono improntate all’esplicazione ulteriore dell’art. 6, con un particolare accento sulla consensualità - il che su risolve la coppia concettuale pubblico-privato, cui si accennava - e sulle formule organizzative di accordo. Tra queste è da ricordare un’innovazione introdotta dal decreto legislativo integrativo e correttivo del 2008 all’art. 112, comma 9, dove si prevedono forme leggere consortili senza finalità di lucro, come responsabilizzanti strumenti di non-esternalizzazione per gestire biglietti unici integrati per le città d’arte. Se ne è fatto uso per configurare itinerari di potenziamento della conoscenza che favoriscono il percorso unitario.

Importante è anche quanto si dice sulla gestione all’art. 114: che muove dall’idea della preferenza per la gestione pubblica delle attività di valorizzazione di iniziativa pubblica salvo loro esternalizzazione; e, per l’esternalizzazione, affaccia il nodo del coordinamento con la normativa sui contratti pubblici. Va infatti ancorata a parametri che dimostrano il miglioramento delle condizioni di potenziamento della conoscenza, perché si fa riferimento alla valutazione comparativa di specifici progetti riguardo a obiettivi previamente definiti in vista di un miglior livello di valorizzazione.

Vista la diffusa attività di valorizzazione che a tutti i livelli è intervenuta dal 2004, è forse lecito affermare che nella realtà dell’esperienza giuridica questi principi fondamentali hanno definito un quadro di riferimento che ha funzionato. Il che non è, all’ultimo, poca cosa.

 

Note

[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Giuseppe Severini, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, è Presidente del Centro Studi Giuridici e Politici dell’Assemblea legislativa dell’Umbria, g.severini@giustizia-amministrativa.it.

 

 

 



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