Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)
La proprietà culturale [*]
di Massimo Palazzo [**]
Sommario: 1. Notazioni preliminari. - 2. La proprietà culturale nella rete delle fonti. - 3. I beni culturali come tema interdisciplinare complesso. - 4. La disciplina legislativa e la struttura del codice. - 5. Il procedimento di verifica di culturalità. - 6. L’autorizzazione. - 7. La denuncia e la prelazione. - 8. La mancata osservanza delle formalità necessarie e gli effetti sul contratto. - 9. Il vincolo indiretto. - 10. Il ruolo del notaio. - 11. Conclusioni: il bene culturale come proprietà divisa o conformata.
La proprietà culturale costituisce un concreto esempio di valorizzazione dei molteplici statuti proprietari per i diversi beni, secondo l’insegnamento di Ferrara senior e di Pugliatti. Il contributo propone un’analisi della trama disciplinare che regola la circolazione dei beni immobili culturali, giungendo alla conclusione che si tratta di una proprietà “conformata” o divisa.
Parole chiave: proprietà culturale; valorizzazione; verifica di culturalità; conformazione della proprietà.
Cultural property
Cultural property is a concrete example of the enhancement of multiple ownership statuses for different assets, according to the teachings of Ferrara senior and Pugliatti. This contribution offers an analysis of the regulatory framework governing the circulation of cultural real estate, concluding that it is a form of “conformed” or divided ownership.
Keywords: cultural property; enhancement; verification of cultural value; property configuration.
L’interesse e l’attenzione del Notariato italiano verso la complessa tematica dei beni culturali, con particolare riguardo al regime della circolazione dei beni immobili, ben si comprende alla luce della rilevanza anche quantitativa e della diffusa distribuzione geografica del patrimonio storico-artistico nel nostro Paese.
Il Notariato, anche in parallelo all’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha visto susseguirsi, in particolare, la legge 1° giugno 1939, n. 1089, l’art. 9 della Costituzione, indi il testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (d.lg. 29 ottobre 1999, n. 460), ove erano contenute le diverse norme in materia, poi abrogato a seguito dell’entrata in vigore del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42), è tornato ciclicamente ad occuparsi di beni culturali, attraverso studi, pubblicazioni convegni, seminari [1].
Già queste prime notazioni fanno comprendere la rilevanza applicativa delle sottostanti problematiche giuridiche connesse alla nozione di bene culturale, alla sua individuazione in assenza di una completa e univoca catalogazione, alle complesse e differenziate regole di circolazione applicabili, a seconda dello statuto del soggetto proprietario. Nell’officina del notaio teoria e prassi devono trovare una sintesi ed un equilibrio necessari ad una efficiente, ma al contempo sicura circolazione dei beni e diritti, specie di quelli che sono espressione e risultato di una cultura che affonda le sue radici nel tempo e la cui tutela è costituzionalmente garantita.
L’analisi del regime giuridico dei beni culturali è sovente condotta da studiosi e operatori del diritto pubblico e amministrativo, meno dai cultori del diritto privato.
2. La proprietà culturale nella rete delle fonti
La proprietà culturale ha infatti una nota caratteristica data dal fatto che il suo regime di fondo è tracciato dalla legge dello Stato. Non mancano però interconnessioni con altre fonti, internazionali (v. ad es. la convenzione di Parigi del 16 novembre 1972 avente ad oggetto “la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale”), europee e regionali.
Tutto questo pone non pochi problemi sia di individuazione delle fonti sia di interpretazione, dovendosi coordinare testi di provenienza rispondenti a culture e ordinamenti giuridici diversi. Il fatto è che non siamo più di fronte ad una visione monistica o piramidale dell’ordine giuridico, ma ad una visione pluriordinamentale, in cui concorrono oltre allo Stato e alle Regioni e agli enti locali, comunità sovranazionali di varia origine e composizione, nonché comunità private produttrici di regole, che nel loro complesso danno luogo ad un arcipelago o sistema a rete.
Incombe infatti non tanto una gerarchia delle fonti tipica del resto di un sistema monistico, quanto un gioco di rapporti fra ordinamenti che, convivendo e co-vigendo, si comprimono nella relatività della vita giuridica. Queste sono invero le considerazioni con cui Paolo Grossi chiude il suo “Ordine giuridico medievale” (opera costellata di insegnamenti non solo per gli storici del diritto).
3. I beni culturali come tema interdisciplinare complesso
Lo “statuto” dei beni culturali è costituito da una trama nella quale diritto civile e diritto amministrativo, diritto ecclesiastico e diritto canonico, diritto penale e ordinamento del Notariato, legislazione urbanistica e diritto tributario si intersecano dando luogo ad un ordito che richiede al giurista notaio una solida competenza interdisciplinare e l’utilizzo delle tecniche contrattuali più adeguate ad una informata e sicura circolazione del bene culturale, specie immobiliare.
La complessità del tema deriva inoltre, anche a voler limitare lo sguardo, al solo diritto civile dalla necessità di dover “ripensare” alcune categorie classiche del privatista, quale la nozione di proprietà, la nozione di nullità, la nozione di prelazione. Queste categorie generali devono essere infatti rimeditate ed il testo legislativo adeguato al contesto.
4. La disciplina legislativa e la struttura del codice
La disciplina che viene in rilievo per ciò che attiene alla circolazione di un bene immobile culturale è contenuta nel d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 - codice dei beni culturali e del paesaggio - modificato da prima con il d.lg. 24 marzo 2006, n. 156 e dalla legge 4 agosto 2017, n. 124; dall’art. 46, comma 5, lett. b), n. 1), d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 aprile 2023, n. 41 e infine dal d.l. 2 marzo 2024, conv. con legge 2 aprile 2024, n. 56.
Il codice dei beni culturali, entrato in vigore il 1° maggio 2004, è suddiviso in cinque parti.
Più precisamente la parte prima concerne le disposizioni generali; la parte seconda (artt. da 10 a 130) attiene alla disciplina dei beni culturali; la parte terza (artt. da 131 a 159) regolamenta i beni paesaggistici; la parte quarta prevede le sanzioni ed infine la parte quinta contiene le disposizioni che regolamentano il regime transitorio e le abrogazioni.
Il trasferimento dei beni di interesse culturale è disciplinato dall’articolo 59 del codice, il quale prevede che “gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o la detenzione di beni culturali sono denunciati al Ministero”.
La normativa è articolata: prende in considerazione numerose fattispecie e disciplina il procedimento in base al quale deve avvenire la denunzia.
L’obbligo di denunzia al Mibac nasce dalla apposizione del relativo vincolo da parte degli organi competenti e scaturisce dalla valutazione di interesse culturale del bene in oggetto, che può essere sia su un bene mobile sia su un bene immobile; nel secondo caso, il ruolo del notaio in occasione del trasferimento assume una posizione determinante, avendo spesso l’onere prima di rilevare il vincolo e poi di provvedere alla denunzia del relativo trasferimento [2].
Una delle difficoltà maggiori che si pone in presenza dell’interesse culturale - e quindi con particolare ricaduta sull’attività notarile - è rappresentata dalle modalità poco trasparenti di costituzione del vincolo stesso. Il vincolo, cioè, nasce da un decreto ministeriale ed è soggetto a trascrizione presso l’Agenzia del territorio - servizio pubblicità immobiliare. Molti vincoli, peraltro, soprattutto quelli risalenti nel tempo, non sono stati trascritti, per cui non sono facilmente conoscibili dai terzi pur essendo ugualmente opponibili.
Si verifica, nella pratica, la possibilità che un atto di trasferimento, pur avendo ad oggetto un bene immobile vincolato, possa non essere stato denunziato alle competenti Autorità, creando un vulnus sugli effetti del trasferimento e, conseguentemente, sul successivo ritrasferimento.
Occorre, dunque, esaminare con attenzione la fattispecie della mancata osservanza delle formalità necessarie per un corretto passaggio di proprietà, e successivamente le ricadute sul ritrasferimento del bene di interesse culturale.
L’art. 10 d.lg. 42/2004 riporta un’elencazione dei beni d’interesse culturale, distinguendoli in due macrocategorie che si differenziano dalla titolarità degli stessi.
Il comma 1 della citata norma classifica come beni culturali ope legis una serie di beni, la cui elencazione prosegue ai successivi commi 2 e 4, in quanto appartenenti allo Stato, alle Regioni o ad altri enti pubblici territoriali e non, nonché ad enti privati senza scopo di lucro ed enti ecclesiastici riconosciuti.
Il comma 3 della citata norma stabilisce, poi, che i beni ivi indicati possono, altresì, essere culturali, se dichiarati tali, pur essendo in titolarità di persone fisiche o giuridiche con scopo di lucro.
L’art. 12 d.lg. 42/2004 delinea una presunzione iuris tantum di culturalità dei beni appartenenti a soggetti pubblici o privati senza scopo di lucro, ovvero ad enti ecclesiastici riconosciuti, la quale può, tuttavia, venir meno in seguito all’espletamento di un procedimento ricognitivo che dia esito negativo.
Viceversa, affinché i beni appartenenti a privati siano riconosciuti come culturali occorre che essi siano sottoposti ad un procedimento di verifica ex ante. Tale procedimento è disciplinato, nelle sue fasi successive, dall’art. 14 d.lg. n. 42/2004 e si conclude con una dichiarazione di culturalità del bene, dotata di valenza costitutiva del vincolo culturale.
5. Il procedimento di verifica di culturalità
Per i beni culturali appartenenti a soggetto di diritto pubblico (Stato, regioni, province, comuni, altri enti pubblici) o a persona giuridica priva di scopo di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, ai fini dell’individuazione della culturalità occorre procedere con il procedimento di verifica di cui all’art. 12 del codice dei beni culturali.
La verifica è, dunque, quel procedimento da attuarsi d’ufficio o su richiesta della parte alla quale appartengono i beni, idoneo ad individuare un bene come culturale di proprietà dei soggetti elencati nel comma 1 dell’art. 10 del codice dei beni culturali.
Oggetto di verifica sono le cose di appartenenza dei soggetti sopramenzionati, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre 70 anni [3].
Ciò significa che per la commerciabilità di tali beni occorre, in primo luogo, accertare la vetustà del bene, poiché soltanto i beni la cui costruzione risalga ad oltre 70 anni rientrano nella disciplina in discorso; successivamente se il bene ha più di 70 anni lo stesso sarà sottoposto a verifica e soltanto a verifica esaurita si potrà conoscere se il bene sarà definitivamente valutato come bene culturale, oppure come bene non culturale, in quest’ultimo caso aprendosi la strada ad una commerciabilità di esso senza alcun intralcio. Con l’ulteriore precisazione che in attesa dell’esito della verifica il bene, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sarà sottoposto alle disposizioni di cui al codice dei beni culturali.
La vetustà del bene si atteggia, quindi, ad elemento oggettivo in presenza del quale la cosa è sottoposta al regime speciale previsto per i beni culturali, con ciò configurando una presunzione legale (relativa di culturalità del bene) valevole fino all’espletamento della procedura di verifica di cui all’art. 12 del codice dei beni culturali.
In riferimento alla conclusione del procedimento di verifica, e quindi al provvedimento che accerta la culturalità del bene, si sottolinea come al termine del procedimento di cui all’art. 12 del codice dei beni culturali, ogni bene sarà schedato come bene culturale, oppure come bene non culturale. In caso di accertamento positivo dell’interesse culturale, la schedatura costituisce dichiarazione del bene come bene culturale ai sensi dell’art. 13 del codice dei beni culturali e la stessa dovrà essere trascritta ai sensi dell’art. 15 del codice dei beni culturali.
Il legislatore non ha, invece, chiarito quale sia il provvedimento che conclude la verifica con carattere negativo (cioè, l’accertamento che un bene non è culturale), limitandosi solo a prevederne gli effetti. L’esito negativo della verifica, infatti, comporta l’esclusione del bene dall’applicazione del codice dei beni culturali, ai sensi di quanto disposto dal comma 4 dell’art. 12 del codice dei beni culturali.
Il procedimento di verifica si conclude, ai sensi del comma 10 dell’art. 12, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta.
I beni afferenti alla prima delle descritte categorie, quelli cioè di titolarità di soggetti pubblici, enti privati senza scopo di lucro o enti ecclesiastici riconosciuti, oltre ad essere assoggettati alla disciplina prevista ex artt. 59 e ss. del codice dei beni culturali, necessitano, in caso di trasferimento, della preventiva autorizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali, ai sensi degli artt. 55 e ss. d.lg. n. 42/2004.
L’autorizzazione è prevista per l’alienazione di un bene culturale allorquando titolare del bene sia un ente pubblico o una persona giuridica senza scopo di lucro o un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Non sono, pertanto, soggetti ad autorizzazione i beni culturali appartenenti a persona fisica oppure a società commerciale.
Inoltre, l’autorizzazione non è richiesta se l’alienazione viene fatta in favore dello Stato, e ciò in virtù della maggiore garanzia che offre la titolarità dello Stato per la conservazione e pubblica fruizione del bene stesso.
Scopo dell’autorizzazione è quello di porre la pubblica amministrazione nella condizione di valutare se il mutamento di titolarità del bene possa in qualche misura compromettere la conservazione e l’utilizzazione di quest’ultimo.
Si noti come il codice dei beni culturali delinea il procedimento autorizzativo come procedimento autonomo e separato rispetto al procedimento della prelazione di cui all’art. 60 del codice dei beni culturali. Ognuno dei due procedimenti si sviluppa autonomamente e senza sovrapposizioni.
Riguardo l’ambito di applicazione dell’autorizzazione il codice dei beni culturali menziona i seguenti atti: alienazione del bene; permuta, purché vantaggiosa per l’incremento del patrimonio culturale; negozio costitutivo di garanzia reale (ipoteca o pegno); infine, come norma residuale, negozi giuridici che possano comportare l’alienazione dei beni culturali.
Si noti come nel concetto di “alienazione” rientrano sia i trasferimenti a titolo oneroso che i trasferimenti a titolo gratuito.
Ragionando, inoltre, sulla formula omnicomprensiva “negozi giuridici che possono comportare l’alienazione” si è detto che la stessa si riferisce non solo agli atti di alienazione in senso stretto ma anche a tutti quei negozi con i quali si trasferiscono o si costituiscono - sia a titolo oneroso che gratuito - il diritto di proprietà e/o qualsiasi altro diritto reale di godimento minore (enfiteusi, usufrutto, diritto di superficie, servitù).
L’autorizzazione del ministero, che deve precedere il negozio che si intende compiere, sarà diversa a seconda che si tratti si tratti di beni immobili demaniali ovvero di altri beni, e ciò in quanto il codice dei beni culturali diversifica i procedimenti e le condizioni per il rilascio dell’assenso alla vendita.
La normativa di riferimento è contenuta negli artt. 53-58 del Codice dei beni culturali.
L’art. 53 del codice dei beni culturali stabilisce che “i beni culturali di proprietà dello Stato, delle Regioni, e degli altri enti territoriali, che rientrano nelle categorie di cui all’art. 822, c.c., costituiscono il demanio culturale. I quali beni possono essere alienati secondo le modalità previste dal codice”.
Premesso ciò, il comma 1, dell’art. 54 del codice dei beni culturali individua i beni culturali demaniali che sono inalienabili in modo assoluto.
Vi sono poi altri beni che sono provvisoriamente inalienabili in attesa della verifica ai sensi di quanto disposto dal comma 2 dell’art. 54 del codice, lettera a).
L’art. 55 del codice dei beni culturali elenca invece quei beni appartenenti al demanio culturale che non rientrano tra quelli di cui all’art. 54 del codice dei beni culturali e che possono essere alienati con l’autorizzazione del ministero.
Per tali beni, tuttavia, è stabilito che l’autorizzazione ministeriale possa essere rilasciata solo se dalla vendita non derivi danno alla loro conservazione e non risulti menomata la loro pubblica fruizione sempreché nel provvedimento autorizzativo siano indicate le destinazioni d’uso compatibili con il carattere storico-artistico degli immobili e comunque tali da non recare danno alla loro conservazione.
Inoltre, il comma 3-quinquies dell’art. 55 del codice dei beni culturali afferma che: “l’autorizzazione ad alienare comporta la sdemanializzazione del bene cui essa si riferisce. Tale bene resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela di cui al presente titolo”.
Ne consegue che avvenuta la sdemanializzazione, il bene, che ha perso la qualifica di bene demaniale, rimane comunque bene culturale e come tale sarà sottoposto alla disciplina del codice dei beni culturali.
Infine, l’art. 55-bis del codice dei beni culturali prevede che: “Le prescrizioni e condizioni contenute nell’autorizzazione di cui all’articolo 55 sono riportate nell’atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell’articolo 1456 del codice dei beni culturali civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa. Esse sono anche trascritte, su richiesta del soprintendente, nei registri immobiliari”.
Per gli altri tipi di beni, nonché per le cose appartenenti alle persone giuridiche senza scopo di lucro ed agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, occorre fare riferimento all’art. 56 del codice dei beni culturali che disciplina il contenuto dell’autorizzazione, la quale potrà essere rilasciata a condizione che dall’alienazione non derivi danno alla conservazione e alla pubblica fruizione dei beni medesimi.
Per ciò che attiene alle condizioni da riportare in atto il comma 4-ter dell’art. 56 del codice dei beni culturali prevede che: “le prescrizioni e condizioni contenute nell’autorizzazione sono riportate nell’atto di alienazione e sono trascritte, su richiesta del soprintendente, nei registri immobiliari”.
7. La denuncia e la prelazione
I beni culturali in titolarità di privati sono, invece, soggetti alle sole prescrizioni di cui agli artt. 59 e ss. d.lg. 42/2004, che disciplinano la c.d. prelazione dello Stato.
Trattasi di una prelazione legale sui generis.
Il diritto di prelazione viene, infatti, definito come il diritto soggettivo di essere preferito in caso di alienazione di un determinato bene a parità di condizioni.
La par condicio è, in genere, elemento essenziale della prelazione, mentre è quasi del tutto assente quale parametro per la prelazione dello Stato. Ciò si giustifica in ragione degli interessi pubblici di rango costituzionale che la normativa è volta a soddisfare, attinenti alla conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale (art. 9 Cost.) [4].
A differenza della normale operatività del diritto di prelazione, che impone l’obbligo di comunicazione preventiva (c.d. denuntiatio) dell’alienazione del bene al prelazionario, nel caso della prelazione artistica la denuntiatio è effettuata dopo la stipula dell’atto traslativo, che nelle more resta sospeso.
Né, in conseguenza della peculiarità della disciplina tratteggiata, è necessario alcun diritto di riscatto, caratteristico, invece, delle prelazioni legali: la tutela del diritto di prelazione dello Stato opera, infatti, ex ante.
L’assenza della parità di condizioni influisce, poi, inevitabilmente sull’ambito applicativo della normativa in commento, ampliando notevolmente il novero degli atti sottoposti alla prelazione.
Riferimenti essenziali per delineare il campo di applicazione della normativa sono gli artt. 59 e 60 del d.lg. n. 42/2004.
La prima delle citate norme stabilisce che devono essere denunciati al ministero per i Beni e le Attività culturali “gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o, limitatamente ai beni mobili, la detenzione di beni culturali”.
Così ha inizio il procedimento che consente l’esercizio della prelazione artistica. La denuntiatio deve essere effettuata entro trenta giorni dalla stipula dell’atto dai soggetti indicati al comma 2 della suddetta norma.
Ratio della denuncia è consentire all’Autorità amministrativa di venire a conoscenza delle vicende circolatorie dei beni d’interesse storico-artistico.
L’art. 60 consente, poi, all’Autorità amministrativa di esercitare il diritto di prelazione sui beni culturali “alienati a titolo oneroso o conferiti in società”, chiarendo, nel successivo comma, che il diritto opera anche nel caso di vendita in blocco, ovvero senza previsione di un corrispettivo, o di permuta. Il comma 4 estende, poi, l’operatività della prelazione ai casi in cui “il bene sia a qualunque titolo dato in pagamento”.
La descritta disciplina consente, dunque, di definire il campo applicativo della normativa in commento, comprendendovi sicuramente atti a titolo oneroso, anche se caratterizzati dall’infungibilità delle prestazioni, nel novero dei quali rientrano: compravendita, datio in solutum, permuta, conferimento in società.
Quanto all’oggetto del trasferimento, è sottoposto alla prelazione artistica non solo il trasferimento della piena proprietà, ma anche della nuda proprietà [5]. In quest’ultimo caso, infatti, la temporaneità del diritto reale che limita la proprietà e la naturale vis espansiva che la contraddistingue consentono comunque allo Stato di divenire pieno proprietario in futuro.
Al contrario, non si ritiene operante la prelazione per il trasferimento di diritti reali limitati, non essendo idoneo tale trasferimento a soddisfare la ratio della disciplina in commento, quella cioè di assicurare allo Stato la definitiva acquisizione dei beni per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale.
Diverse sono, poi, le ipotesi in cui è discussa l’applicabilità della disciplina in esame: esse spaziano dal contratto preliminare, alla divisione, passando, poi, alla transazione, all’alienazione di quota indivisa dell’immobile culturale, fino ad arrivare alle operazioni societarie straordinarie.
Tra le tipologie negoziali escluse dal regime prelatizio parrebbero da annoverare:
a) i preliminari (essendo privi di effetti reali, anche se la prelazione potrà essere esercitata ove le parti domandino l’esecuzione forzata del contratto, ai sensi dell’art. 2392 c.c.);
b) gli atti di divisione (perché dotati di efficacia meramente dichiarativa [6]);
c) gli atti di affrancazione del bene da parte dell’enfiteuta in quanto investono il diritto del concedente e non la piena proprietà;
d) la clausola dell’accordo di separazione che operi il trasferimento a favore di un coniuge, al fine di assicurarne il mantenimento, della proprietà di beni mobili o immobili;
e) il contratto di cessione dei beni ai creditori, sembrando da condividere le opinioni che ne negano ogni assimilabilità causale con la transazione o con la datio in solutum: difatti nella cessione dei beni non si verifica un trasferimento dei beni a favore dei creditori, ma solo un conferimento di poteri in forza di un mandato a liquidare in rem propriam;
f) la cessione del capitale di una società proprietaria di un bene culturale, in quanto il bene appartiene alla società e non costituisce oggetto di trasferimento, ancorché l’unico cespite della società sia il bene culturale (v. il noto caso degli isolotti “Li Galli” [7];
g) la fusione, perché non v’è identità tra il soggetto che perde la titolarità del bene e chi riceve la partecipazione sociale.
Non è questa, tuttavia, la sede per esaminare ciascuna singola ipotesi, viceversa, appare ai nostri fini sufficiente precisare che ogni qualvolta vi sia un trasferimento, a qualsiasi titolo, della piena o nuda proprietà di un bene culturale, anche in caso di corrispettivo infungibile, s’impone l’osservanza delle formalità previste dagli artt. 59 e ss. del codice dei beni culturali.
L’art. 61 d.lg. n. 42/2004 impone un termine di sessanta giorni dalla ricezione della denuntiatio ex art. 59 per l’esercizio della prelazione. In pendenza del suddetto termine l’efficacia dell’atto di alienazione è sospesa da una condicio iuris.
Nonostante il comma 4 della citata norma si riferisca espressamente alla condizione sospensiva dell’“esercizio della prelazione”, si ritiene preferibile attribuire alla stessa contenuto negativo, caratterizzato, cioè, dal mancato esercizio della prelazione da parte dello Stato. Diversamente, infatti, l’atto traslativo sarebbe destinato a rimanere inefficace in perpetuo: tale sarebbe in attesa dell’espressione del potere ablatorio dello Stato; tale rimarrebbe tanto nel caso in cui la prelazione venga esercitata, quanto qualora il diritto non sia esercitato, venendo, in tale ultimo caso, a mancare l’evento dedotto in condizione.
La condizione de qua deve essere esplicitata nell’atto di trasferimento e sottoposta a trascrizione [8]. Alla scadenza del termine previsto dalla citata norma è, poi, prassi stipulare un atto ricognitivo dell’avveramento della condizione.
In pendenza della condizione, il medesimo comma 4 dell’art. 60 impone inoltre un divieto di consegna del bene in capo all’alienante, con gravi conseguenze in caso di inosservanza.
Qualora all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 62 d.lg. 42/2004 l’Autorità amministrativa decida di giovarsi del diritto di prelazione, essa deve notificare il provvedimento di prelazione ad alienante ed acquirente entro il termine previsto dall’art. 61, comma 1 e richiamato nella norma da ultimo citata. Ai sensi del comma 4 art. 62: “La proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica”.
Secondo il disposto dell’art. 60, d.lg. 42/2004, il prezzo da corrispondersi per l’esercizio della prelazione nelle alienazioni a titolo oneroso è pari a quello indicato come corrispettivo o valore del bene nell’atto di trasferimento. Negli atti con corrispettivo infungibile il prezzo è determinato d’ufficio dal soggetto pubblico prelazionario.
In caso di opposizione da parte del titolare-alienante, il suddetto corrispettivo può essere sottoposto al vaglio di un arbitratore, ai sensi dell’art. 1349 c.c., come si evince dalla disciplina del terzo comma della disposizione in commento.
Il mancato pagamento del prezzo da parte dello Stato non incide sulla fattispecie traslativa in favore di quest’ultimo, ma semplicemente può venire in rilievo come inadempimento contrattuale.
Ai sensi dell’art. 15 d.lg. 42/2004 nel caso in cui il bene che ne è oggetto sia sottoposto a sistemi di pubblicità immobiliare o mobiliare, la dichiarazione suddetta deve essere notificata al proprietario e - nella prima ipotesi - trascritta.
La trascrizione non adempie funzione né di pubblicità dichiarativa, come di solito le compete, né di pubblicità costitutiva. Essa semplicemente svolge un ruolo di pubblicità notizia relativa ad un vincolo costituito con la dichiarazione di cui all’art. 13 e reso opponibile al proprietario con la sua notificazione.
Come già ricordato, purtroppo, non di rado il procedimento costitutivo del vincolo si conclude nonostante la mancanza della detta pubblicità. Tale omissione, non consentendo ai terzi di venire a conoscenza del vincolo - il quale tuttavia sussiste ugualmente in virtù della dichiarazione di culturalità, legittimando la pubblica amministrazione all’esercizio della prelazione - determina così la possibile lesione della disciplina in relazione ai trasferimenti di proprietà del bene.
8. La mancata osservanza delle formalità necessarie e gli effetti sul contratto
Può verificarsi l’ipotesi che un contratto di trasferimento di beni di interesse culturale non venga assoggettato alle dette formalità previste dal d.lg. n. 42/2004.
Tale omissione può essere originata da diverse motivazioni, dovute a vizi legati alla mancata autorizzazione ai sensi dell’art. 55 d.lg. 42/2004, ovvero a vizi legati alla notifica.
Tale seconda ipotesi può scaturire da:
1) mancata conoscenza del vincolo per:
a) omessa notifica del vincolo;
b) omessa trascrizione del vincolo;
c) inadeguata informazione del proprietario;
2) mancata denuncia dell’atto di trasferimento all’Autorità competente per:
a) negligenza;
b) erronea individuazione dell’Autorità cui notificare l’atto;
c) erroneo procedimento di denuncia;
d) ritardo nella denuncia;
e) incompletezza della denuncia.
Come già chiarito, l’omissione della notifica o della trascrizione non determina un vizio costitutivo del vincolo culturale, rispetto al quale rileva la sola dichiarazione di culturalità del bene ex art. 13 d.lg. n. 42/2004. I beni che ne sono destinatari sono, quindi, in ogni caso assoggettati alla disciplina degli artt. 59 e ss.
La normativa prevede la possibilità di sanare l’omissione della denuncia attraverso un adempimento tardivo, disciplinato all’art. 61, comma 2, d.lg. n. 42/2004. In alternativa al termine fisiologico di sessanta giorni, onde consentire l’esercizio della prelazione all’Amministrazione pubblica, infatti, la citata disposizione, per il caso di denuncia omessa o tardiva, prevede un termine allungato di centottanta giorni dalla data di ricezione della denuncia stessa da parte del ministero.
La possibilità di sanatoria è riproposta e confermata dall’art. 62, il cui comma 4, dispone che: “Nei casi in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente oppure risulti incompleta, il termine indicato al comma 2 è di novanta giorni, ed i termini stabiliti al comma 3, primo e secondo periodo, sono, rispettivamente, di centoventi e centottanta giorni. Essi decorrono dal momento in cui il ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa ai sensi dell’art. 59, comma 4”.
Nelle ipotesi in cui non venga effettuata neanche la denuncia tardiva, il trasferimento del bene risulta viziato, ed anzi l’articolo 164 d.lg. 42/2004 stabilisce che: “Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del titolo I della parte II, o senza l’osservanza delle condizioni e le modalità da esse prescritte, sono nulli”.
Tale sanzione, peraltro, è stata oggetto di approfondimenti da parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità. Sono state, in particolare, proposte tre diverse tesi circa la sua effettiva natura giuridica.
Un’isolata dottrina [9] ha sostenuto che si tratti di nullità assoluta, in considerazione della generica formulazione della norma. La nullità costituisce sanzione residuale nel nostro sistema normativo ed opera erga omnes. A sostegno di tale orientamento si rileva che tale assolutezza ben si addice ad una normativa preposta a tutelare interessi generali, quali la conservazione e la pubblica fruibilità del patrimonio artistico dello Stato.
Secondo il brocardo latino quod nullum est, nullum producit effectuum, una così rigida sanzione escluderebbe la produttività di effetti tout court nell’atto non denunciato, che non opererebbe nei confronti dello Stato, ma neanche tra le parti.
Altra parte della dottrina [10], e la costante giurisprudenza di Cassazione [11], giungono ad una qualificazione di detta nullità in termini di nullità relativa, che, in quanto nullità “protettiva” di interessi pubblici, potrebbe essere fatta valere solo dallo Stato.
Tale tesi, tuttavia, interferisce con la qualificazione della sanzione di nullità nella teoria generale del diritto. La nullità, come già chiarito, si caratterizza proprio in virtù della sua assolutezza e risulterebbe quanto meno strano affermare che un negozio, invalido nei confronti di un soggetto, peraltro non contraente, risulti valido nei confronti delle parti, direttamente in esso coinvolte.
La categoria della nullità relativa, inoltre, quando comminata, si trova espressamente disciplinata come tale dal legislatore.
Come pure, sembra contraddittorio sostenere che il negozio nasca valido, divenendo solo parzialmente invalido alla scadenza del periodo previsto per l’adempimento, anche tardivo, delle formalità richieste dalla normativa in esame. L’invalidità, infine, lo colpirebbe definitivamente e con valenza retroattiva solo nel momento in cui lo Stato eserciti effettivamente il diritto di prelazione.
Non si può fare a meno di notare, peraltro, che la nullità normalmente incide sul negozio ab initio. Appare incongruo che uno stato patologico del negozio dipenda da eventi ad esso successivi [12], che, invece, ben possono incidere sulla sua efficacia, determinando un’inefficacia successiva.
Non conviene in questa sede attardarsi sulla querelle della natura del contratto non correttamente prelazionato (nullità, nullità relativa, nullità speciale, nullità di protezione, inefficacia, inopponibilità, etc.). Basterà ricordare che, come del resto si ricava anche dal Codice del processo amministrativo a proposito della nullità del provvedimento amministrativo (che è apparentato con il contratto, anzi ne costituisce una discendenza), la nullità non è più o meglio non è più solo quella il cui regime così “assolutistico” è tracciato dagli artt. 1421, 1422, 1423 c.c.
La legislazione difatti conosce svariate ipotesi di nullità c.d. minori, per cui la dizione così tranchant dell’art. 164 c.b.c. non è superabile facendo leva su distonie con la nozione “tipo” di nullità, dato che questo “tipo” non v’è più.
La prevalente dottrina, in particolare quella notarile [13], ritiene, a dispetto del dato letterale dell’art. 164 d.lg. n. 42/2004, che la sanzione comminata non sia di nullità, trattandosi, piuttosto, di inefficacia relativa e successiva. In caso di omissione delle formalità prescritte, dunque, l’atto è valido, ma inopponibile allo Stato.
Occorre, come precedentemente chiarito, quindi, distinguere gli effetti dell’atto nei confronti delle parti e del ministero per i beni e le attività culturali (e degli enti pubblici territoriali interessati):
a) tra le parti: l’atto di trasferimento è efficace, per cui l’acquirente diviene proprietario del bene culturale. Tale efficacia può essere resa definitiva nel caso in cui, in seguito alla denuncia tardiva, il ministero competente non eserciti il diritto di prelazione, ma è destinata ad essere inficiata e venir meno nel caso contrario.
b) verso il ministero per i beni e le attività culturali (e gli enti pubblici territoriali): l’atto di trasferimento è inefficace durante tutto il periodo in cui l’Autorità amministrativa non riceve la denuncia e per i sei mesi successivi alla ricezione della denuncia tardiva. Alla medesima conclusione, infatti, si giunge tanto che si ritenga l’atto viziato da nullità relativa, quanto nel caso si acceda alla tesi della semplice inopponibilità all’autorità amministrativa.
La tutela o vincolo indiretto è disciplinata dalla sezione III del Capo III della Parte Seconda del Codice (artt. 45-47).
La tutela indiretta riguarda solo beni immobili e si giustifica solo in relazione ad un altro provvedimento di vincolo diretto. Il suo contenuto è costituito dalle prescrizioni (cfr. art. 45, comma 1) che il ministero ha facoltà di dettare e che sono dirette ad evitare che “sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e decoro”.
L’integrità dei beni culturali viene garantita da quelle previsioni dirette alla conservazione materiale del bene oggetto di vincolo, al fine di preservarlo da danni conseguenti all'uso improprio dell'area contigua.
Gli immobili assoggettati a vincolo indiretto, non sono beni culturali e quindi non sono soggetti né ad autorizzazione né a prelazione [14].
Dalle notazioni esposte emerge abbastanza chiaramente che in relazione al trasferimento dei beni culturali, in particolare quelli immobili, gioca un ruolo fondamentale l’attività del notaio rogante, il quale, deve confrontarsi con una materia spesso ostica e molto articolata. Ciò impone allo stesso di utilizzare tecniche redazionali ad hoc, in modo da rendere l’atto notarile per quanto possibile inattaccabile dal punto di vista processuale, in virtù anche delle istanze di trasparenza, chiarezza e informazione delle parti che caratterizzano il suo operato, nonché delle esigenze di certezza del diritto e di sicurezza nei traffici.
Si pensi, a tal proposito, alla fattispecie del “ritrasferimento dei beni culturali in caso di pregressa omissione di formalità necessarie” e ai suoi singolari aspetti, relativi ai soggetti legittimati ad effettuare gli adempimenti tardivi o, ancora, al prezzo in base al quale debba essere esercitata la prelazione, qualora il titolo o i titoli di provenienza siano stati notificati tardivamente.
Nella compravendita di un compendio vincolato ci si chiede se il vincolo insista sul plesso principale o si estenda anche alle pertinenze. Il dubbio può originare dal tenore letterale del provvedimento e/o dall’incertezza della rappresentazione grafica catastale, qualora questi siano entrambi risalenti nel tempo.
La questione non è irrilevante per le parti e per il notaio in ragione delle limitazioni dei diritti sul bene e della responsabilità, anche di natura penale, che assiste la tutela delle cose di pregio. Orbene, qui l’orientamento prevalente in giurisprudenza sembra quello di invocare l’interpretazione “autentica” dell’ente tutorio. In altri termini, la Soprintendenza è ritenuta soggetto capace in via esclusiva ad interpretare estensione e portata di un provvedimento di vincolo per quanto datato possa essere.
La posizione può essere riassunta nei modi seguenti: il vincolo può assumere veste di provvedimento amministrativo o di effetto diretto per prescrizione di legge.
Nel primo caso si tratta di atto riferibile all’amministrazione, cui viene riconosciuta tradizionalmente una discrezionalità tecnica difficilmente sindacabile in sede di processo; se ne deduce che in caso di dubbio possa farsi ricorso solo all’interpretazione autentica, intendendo come tale non propriamente quella dell’amministrazione che ha adottato il provvedimento di vincolo, ma anche di quella che ne sia il successore nella tutela, specie quando si tratti di provvedimenti risalenti.
Non v’è chi non veda come in questo modo sotto l’usbergo dell’interpretazione autentica si celi in realtà un provvedimento nuovo, peraltro, con efficacia retroattiva che viene rinnovato o adottato proprio nel momento in cui ci si chiede se debba essere denunciata la compravendita ai fini della prelazione pubblica [15].
Lo stesso vale nel caso di vincolo imposto direttamente dalla legge su determinate categorie di immobili. Trattandosi di categorie generali ed astratte, anche in questo caso l’applicabilità al singolo caso avviene tramite un giudizio di sussunzione della fattispecie concreta all’astratta, giudizio demandato in via esclusiva e pressoché insindacabile all’ente tutorio, che anche in questo caso si trova a dover riconoscere la sussistenza o meno del vincolo in zone d’ombra.
Delicati problemi interpretativi si pongono anche in caso di coesistenza di più prelazioni sul medesimo bene.
Nessun problema di rilievo si pone in ordine al rapporto della prelazione artistica con la prelazione volontaria. È, difatti, pacificamente riconosciuta la prevalenza della prelazione artistica sulla seconda, considerata la predominanza degli interessi pubblicistici perseguiti dalla stessa, ai quali gli interessi privatistici devono necessariamente sottostare. A conferma di ciò, basti pensare al differente tipo di tutela accordata alle due figure, nell’ipotesi di violazione del diritto di prelazione: reale per la prelazione artistica e obbligatoria per quella volontaria.
Al contrario, risulta essere diverso il rapporto con le altre prelazioni parimenti legali. Invero, qualora sul medesimo bene concorrano più prelazioni in favore di soggetti diversi, sembra necessaria una lettura costituzionalmente orientata, al fine di stabilire quale prevalga tra di esse.
Più specificatamente, occorre procedere all’analisi degli interessi sottesi alle singole ipotesi di prelazione e la successiva graduazione di essi, sulla base di una scala di valori che trova il proprio fondamento nella Costituzione.
La prelazione artistica è ancorata costituzionalmente all’art. 9 Cost., il quale la prevede quale strumento dello Stato atto a tutelare il patrimonio culturale del Paese. Sembra dunque venire in gioco un valore prevalente rispetto a quelli protetti dalle altre prelazioni.
Occorre rilevare, peraltro, che soltanto nella prelazione de qua, il soggetto prelazionario si identifica con un ente pubblico, mentre, nelle prelazioni legali ordinarie, esso è sempre un soggetto privato. Ciò è in stretta correlazione con la circostanza per la quale solo nel primo caso si perseguono interessi di natura pubblicistica, poiché nelle altre ipotesi si realizza, invece, una commistione degli stessi con interessi privati.
Affrontato il problema teorico dei rapporti tra la prelazione artistica e le altre prelazioni ordinarie, emerge un’ulteriore problematica, su un piano prettamente pratico, relativamente ai rapporti tra i procedimenti propedeutici all’esercizio delle medesime prelazioni.
Orbene, a tal proposito, si pensi, ad esempio, al diverso momento in cui sorge l’obbligo della denuntiatio: in una fase antecedente rispetto alla stipula del contratto, nel caso delle prelazioni legali comuni; successivamente alla conclusione del contratto, nell’ipotesi della prelazione artistica.
Di conseguenza, qualora su un determinato bene dovessero gravare due distinte prelazioni, si verrebbe a creare la situazione particolare in cui della volontà di alienare il bene vincolato verrebbe informato dapprima il soggetto prelazionario privato e in un momento successivo lo Stato; il soggetto privato, tuttavia, sarebbe preferito per secondo, in quanto comunque prevarrebbe il diritto di prelazione dello stesso Stato.
Secondo la dottrina, in tale fattispecie si verifica un’inversione logica e temporale dei rapporti tra i procedimenti propedeutici all’esercizio delle diverse prelazioni. Difatti, dal punto di vista logico, prevale la prelazione artistica; dal punto di vista cronologico o procedimentale, verranno avviate in primis le altre prelazioni.
In virtù di ciò, concretamente e in sintesi, si potrebbe suggerire il seguente schema procedimentale:
- la stipula di un contratto preliminare, avente ad oggetto un contratto definitivo di alienazione del bene culturale, sospensivamente condizionato al mancato esercizio della prelazione ad opera dello Stato;
- in secondo luogo, si effettuerà la denuntiatio al soggetto titolare di altra prelazione legale, il quale si trova già nella condizione di conoscere l’esistenza del diritto di prelazione dello Stato;
- a questo punto, se il soggetto prelazionario non esercita, nei termini previsti, la prelazione o vi rinunzia, si procederà alla stipula del definitivo tra alienante e terzo contraente;
- se, al contrario, il prelazionario eserciterà il suo diritto di prelazione, egli sarà preferito al contraente originario nella stipula del definitivo, il quale resterà comunque sottoposto alla condizione sospensiva di cui sopra. Si provvederà, di conseguenza, ad attivare la procedura prevista dal Codice, finalizzata all’esercizio della prelazione artistica.
11. Conclusioni: il bene culturale come proprietà divisa o conformata
Dalla analisi delle questioni che emergono nella circolazione dei beni culturali abbiamo la conferma che nella realtà effettuale il monopolio legislativo e la dichiaratività dell’interpretazione spesso cedono il passo alla complessità e al pluralismo delle fonti, affidando al notaio - giurista il gravoso compito della interpretazione - applicazione.
La nervatura pubblicistica della c.d. proprietà culturale è particolarmente intensa al punto che secondo una autorevolissima interpretazione dottrinale [16] il bene culturale costituisce una proprietà divisa, tra privato e pubblico potere, cui corrispondono appunto due diversi diritti dominicali [17].
La stessa dottrina ha successivamente precisato che “il bene culturale è pubblico, non in quanto di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione” [18]. Difatti - si osserva - “il bene culturale sembra non avere un “proprietario” in senso proprio”, “poiché il godimento lo ha l’universo dei fruitori del medesimo, cioè un gruppo disaggregato e informale di persone fisiche, indeterminate ed indeterminabili come universo, ma individuabili in concreto nel tempo presente in elementi o gruppi aggregati particolari che si costituiscono nell’universo, mentre incerte nell’individuazione ma certe quanto all’esistenza nel tempo futuro” [19].
Né questa tesi è contestabile attraverso il rilievo per cui la fruizione pubblica di beni culturali di proprietà privata riguarderebbe solo i beni di particolare importanza e quelli di cui il proprietario ha beneficiato dei contributi ministeriali, in quanto in tale obiezione si trascura la lettura necessariamente estensiva della nozione di fruizione. Che è data dalla stessa presenza del bene pur senza possibilità di accedervi all’interno, presenza che esprime di per sé e anzi esalta l’identità e con essa il percorso storico-architettonico del contesto e nel contempo dà modo a tutti di percepirne, oltre il valore materiale, tutti i valori immateriali che hanno fatto da “formante” del bene storico-culturale.
Se vogliamo usare una diversa terminologia potremmo parlare di “proprietà conformata” anziché di proprietà divisa, ma è certo che oggi siamo di fronte a una immagine della proprietà assai diversa dalla unitarissima e compatta proprietà del moderno diritto borghese, istituto che non si è mai risolto in una scelta puramente tecnica ma è sempre stato lo specchio fedele di progetti politici idealità ed interessi e, quindi, anche di opzioni ideologiche.
La proprietà culturale rappresenta quindi una plastica dimostrazione della valorizzazione dei molteplici statuti proprietari per i diversi beni, secondo l’insegnamento di Ferrara senior e poi di Pugliatti [20].
Il codice civile del 1942 indubbiamente regola la proprietà avendo in mente le classiche prerogative del proprietario, più che le funzioni dei singoli beni. Ma la civilistica più consapevole da tempo ha messo in luce la necessità di guardare alle cose tenendo conto delle differenti realtà strutturali e rispettate nella loro obbiettiva diversità strutturale e funzionale è emersa tempo nella riflessione scientifica.
Enrico Finzi [21], in una memorabile relazione al Primo congresso nazionale di diritto agrario del 1935, si era posto sulla strada di una deliberata dissacrazione, analizzando l’istituto della proprietà non più dall’alto del soggetto titolare ma dal basso della cosa e cercando di dargli una dimensione squisitamente pubblicistica trapiantando per caratterizzare i poteri proprietari categorie elaborate dai pubblicisti come quella del “potere discrezionale” e “interesse legittimo”.
Filippo Vassalli, in un volume collettaneo del 1939 su “La concezione fascista della proprietà privata” (Roma, 1939), valorizzando le diverse qualità delle cose, parlò di diversi statuti proprietari [22], anticipando una concezione pluralistica messa a frutto da Salvatore Pugliatti negli anni Cinquanta nel volume “La proprietà nel nuovo diritto” (Milano, 1954).
Francesco Ferrara senior parlò - nella stessa sede collettanea - esplicitamente di “proprietà/funzione” nella relazione titolata “La proprietà come dovere sociale” [23].
La dialettica fatto-norma, che connota di concretezza e apre al dinamismo della dimensione relazionale, manifesta il proprio rilievo nell’evoluzione in senso funzionale del concetto di patrimonio culturale. Al civilista si chiede un opzione metodologica che muova dal basso, dalla enucleazione degli interessi concreti alla utilizzazione e alle possibilità di sfruttamento che un bene culturale offre, nell’accezione di “cose che possono formare oggetto di situazioni giuridiche soggettive e di rapporti giuridici, in modo da disancorare la portata sostanziale delle definizioni contenute nel Codice dei beni culturali, tanto da frequenti rigurgiti di dogmatismo, quanto da ricorrenti derive relativistiche.
Il notaio contemporaneo, dismessi i panni del pratico che compila l’atto con chiarezza e precisione, è chiamato quotidianamente a ricomporre il divario tra realtà legislativa e realtà sociale nel testo dell’atto pubblico notarile, utilizzando per nuove funzioni un diritto scritto per una realtà spesso superata dalla trasformazioni sociali, adattando a nuovi compiti antichi istituti, per consentire la soddisfazione di nuove esigenze attraverso un costante adattamento degli schemi tramandati dai formulari.
Come ben si può comprendere facendo riferimento alla circolazione dei beni culturali, ma il discorso potrebbe essere facilmente esteso all’intera attività notarile, le prassi negoziali nascono negli studi notarili in relazione a singoli casi concreti, che successivamente danno luogo a processi di provvisoria consolidazione in termini di modelli negoziali aventi portata generale, i quali talvolta, dopo il vaglio giurisprudenziale vengono recepiti anche dal legislatore [24].
Per assolvere a questa complessa funzione il notaio è chiamato a calarsi nella storia, ad assumere la diretta responsabilità di scelte interpretative complesse, che spesso lo costringono ad uscire fuori dai comodi ripari del testo legislativo, talvolta esponendolo a conseguenze non irrilevanti anche sul piano della responsabilità civile e disciplinare, come ci ricorda una severa giurisprudenza in materia di doveri di consulenza, informazione e chiarimento da parte del notaio.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Massimo Palazzo, Notaio nel Distretto di Firenze, Via Vittorio Alfieri 28, 50121 Firenze, mpalazzo@notariato.it.
[1] Tra i molti v. C. Lomonaco, La circolazione dei beni culturali, in Studi e materiali, 2018, 1, Milano, pag. 125 ss.; Ead. Miti e riti delle vicende circolatorie dei beni culturali. Tradizione e post-modernità, in Percorsi notarili nel giuridico post-moderno della post verità, (a cura di) M. Palazzo, Milano, 2024. V. anche A. Pischetola, Circolazione dei beni culturali e attività notarile, Milano, 2006 e A. Fusaro, La circolazione giuridica dei beni immobili culturali, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, pag. 12 ss.
[2] Per un quadro della materia si veda l’intenso disegno di G. Morbidelli, La proprietà culturale, in Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali, Fondazione italiana del notariato, Milano, 2015, pag. 15 ss.
[3] L’art. 12 comma primo del codice è stato modificato dall’art. 175 lett. c) della legge 4 agosto 2017, n. 124.
[4] Corte Cost. 20 giugno 1995, n. 269 in Giur. cost., 1995, pag. 1927.
[5] Cons. Stato, 24 maggio 1995, n. 348 in Foro it., 1996, pag. 226.
[6] Tale soluzione potrebbe essere riconsiderata alla luce del recente intervento delle Sezioni Unite (7 ottobre 2019, n. 25021, in Riv. not., 2019, 1235 con nota di Cicero-Leuzzi), le quali, in occasione di una controversia avente ad oggetto l’applicazione alla divisione ereditaria degli artt. 40, comma 2, legge 47/1985 e 46, comma 1, d.p.r. 380/2001, ripercorrono il tema della natura giuridica di quest’ultima. In particolare, escludendo che lo stesso negozio divisorio, ove avente ad oggetto una massa ereditaria, possa qualificarsi in termini di atto dichiarativo e mortis causa, le Sezioni Unite concludono, piuttosto, per una ricostruzione della divisione ereditaria quale atto inter vivos, avente natura “costitutivo-traslativa”.
[7] Tar Lazio, sez. IV, 6 agosto 2005, n. 6084, confermata da Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2008, n. 1205.
[8] Si discute se le parti possano risolvere per mutuo consenso il contratto in pendenza del termine per l’esercizio della prelazione. Secondo Tar Veneto, sez. II, 18 luglio 2005, n. 2838; conforme Cons. Stato, sez. VI, 23 febbraio 2010, n. 1052 (udienza del 19 gennaio 2010), Comune di Romano d’Ezzelino, c. Bortolazzo Clara - Mibac, le parti mantengono sempre la signoria sulla cosa, anche in pendenza del termine per la prelazione, tanto da godere di una sorta di ius poenitendi in ogni momento, fino a che non sia adottato l’atto di prelazione. Qui, tuttavia le opinioni si dividono fra chi vede il momento che stabilisce l’irreversibilità della prelazione nella comunicazione alle parti del provvedimento; altri che ritengono si debba far riferimento al momento in cui il provvedimento assume efficacia (delibera di immediata esecutività, ovvero dopo dieci giorni di pubblicazione all’albo pretorio). La vicenda giurisprudenziale è riassunta da M. Fracanzani, La fisionomia del bene culturale, in La funzione del notaio nella circolazione dei beni culturali, Quaderni della Fondazione italiana del notariato, Milano, 2013, pag. 10 ss.
[9] A. Fuccillo, La circolazione dei beni culturali di interesse religioso, in Dir. eccl., 1993, pag. 630.
[10] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, 1994, pag. 484; L. Puccini, Studi sulla nullità relativa, Milano, 1967, pag. 92.
[11] Tra molte v. Cass. 24 maggio 2005, n. 10920, in Foro it., 2006, pag. 1880.
[12] V. Scalisi, voce Inefficacia, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, pag. 368.
[13] G. Casu, Codice dei beni culturali. Prime riflessioni. Studio del Consiglio nazionale del notariato. 5019, in Studi e materiali, 2004, 2, pag. 686.
[14] Sulla portata del vincolo indiretto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che: “Il bene sottoposto a vincolo ex art. 21 della legge 1089 è diverso dal bene sottoposto a vincolo diretto: questo è esso stesso di rilevante interesse storico, artistico o archeologico e come tale oggetto anche di una forma più penetrante e intensa di tutela; mentre il primo bene (sottoposto a vincolo indiretto) è assoggettato a misure di entità ridotte, perché strumentali e complementari alla tutela di un bene storico (così, sostanzialmente, Tar Toscana, 17 gennaio 1991, n. 5, in Riv. giur. ed., 1991, I, pag. 469; citata in senso conforme da Pennarola, in Giust. civ., 1992, I, pag. 197. Si v. anche Cons. Stato 22 agosto 1991, n. 524, in Giust. civ., 1992, pag. 1973). Sul tema v. Lupetti-Lomonaco, Studio Consiglio nazionale notariato n. 53-2024, Il vincolo indiretto nella circolazione immobiliare, in Cnn Notizie del 12 settembre 2024.
Ma tale diversità determina, altresì, che l’art. 21 sopra citato, in quanto diretto al semplice godimento del bene, allo scopo di evitare che sia posta in pericolo l’integrità delle cose immobili d’interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, appare norma non prevedente ablazione del diritto di proprietà, e come tale non in contrasto con la norma costituzionale sull’obbligo di indennizzo (così Corte cost., 4 luglio 1972, n. 202, in Giust. civ., 1974, pag. 321).
Tale sentenza della Corte costituzionale appare particolarmente interessante, perché chiarisce che l’art. 21 della legge 1089/1939 non è preordinato in alcun modo a condizionare la titolarità del bene assoggettato a vincolo indiretto, data la natura di quest’ultimo tutta tesa alle modalità di godimento del bene, a prescindere da chi ne abbia la titolarità, ed evidentemente senza preoccuparsi del mutamento della stessa titolarità.
Le medesime conclusioni possono raggiungersi anche per quello che concerne l’art. 45 e ss. del codice dei beni culturali.
[15] Il tema è sviluppato da M. Fracanzani, La fisionomia del bene culturale, cit., pag. 14.
[16] M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, pagg. 92-93.
[17] M.S. Giannini, op. loc. cit.
[18] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 31.
[19] Come è stato ricordato da G. Severini, in Codice commentato di edilizia e urbanistica, (a cura di) S. Battini - L. Casini - G. Vesperini - C. Vitale, Torino, 2013, sub art. 9 Cost., tale disciplina “binaria” di appartenenza in un certo senso era stata colta e prefigurata da Victor Hugo quando ebbe a scrivere che “Il y a deux choses dans un édifice: son usage et sa beauté. Son usage appartient au propriétaire, sa beauté à tout le monde”: V. Hugo, Sur la destruction des monuments en France (1825), riprodotto in Id., Guerre aux démolisseurs!, Montpellier, 2002.
[20] La vicenda culturale del diritto di proprietà e è ripercorsa da P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, Napoli, 2006.
[21] E. Finzi, Diritto di proprietà e disciplina della produzione, Atti del primo congresso nazionale di diritto agrario, Firenze, 1935, pag. 159.
[22] La riflessione di Vassalli può leggersi anche in Per una definizione legislativa del diritto di proprietà, in Studi giuridici, Milano, 1960, II, pag. 333.
[23] Per una approfondita e puntuale analisi v. P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, (1985), II ed., accresciuta dalla premessa “Venti anni dopo”. Napoli, 2006.
[24] Per chi volesse approfondire questa prospettiva mi permetto di rinviare a M. Palazzo, La funzione del notaio al tempo di internet, Milano, 2017.