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Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici

a cura di Giancarlo Montedoro [*]
(con la collaborazione della dott.ssa Vania Talienti)
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Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.

1. Beni culturali

Cons. Stato, sez. V, 20 giugno 2025, n. 5404 - Pres. Caringella, Est. Perotti - In tema di limiti agli insediamenti di esercizi commerciali in aree pubbliche di particolare valore storico, artistico e paesaggistico.

L’unicità storico-culturale del Centro storico della Città di Firenze, declinata nelle sue diverse componenti, ne ha determinato, sin dal 1982, l’inserimento nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco. In particolare, nel 2014 il World Heritage Committee dell’Unesco ha riconosciuto che “l'unicità dell'artigianato fiorentino e i negozi tradizionali del Centro Storico sono una testimonianza concreta del passato locale. In questo modo, essi garantiscono la continuità` di una tradizione eccezionale, in grado di perpetuare l'immagine storica della città”. Il centro storico della città di Firenze costituisce, infatti, un valore inestimabile unico al mondo per i molteplici aspetti artistico, storico e architettonico, cui corrisponde una delicata fragilità, atteso che la massiccia presenza turistica in tutte le ore del giorno e della notte può comportare, per i rilevantissimi interessi economici che è in grado di sollecitare ed in assenza di una idonea regolamentazione, un degrado tale da rilevarsi di estremo pericolo proprio per quei valori che fanno del centro storico di Firenze un esempio unico al mondo. Ciò, anche in considerazione dell’ambito territoriale ridotto, che è dovere, prima che volontà dell’amministrazione comunale, tutelare.

La disciplina comunitaria della liberalizzazione delle attività commerciali non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla Pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali.

Il processo interno di liberalizzazione delle attività economiche perseguito attraverso le disposizioni di legge di recepimento della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno (c.d. “Direttiva Bolkestein”), sebbene muova nella direzione di un più ampio riconoscimento del diritto di iniziativa economica e della contestuale riduzione dei possibili limiti al suo esercizio, nondimeno legittima tuttora la previsione di limiti in funzione del perseguimento di ulteriori e diverse finalità di interesse generale, imponendo che le contrapposte esigenze siano bilanciate secondo i limiti della proporzionalità, della ragionevolezza e del minimo mezzo.

L’area del centro storico fiorentino è dunque assoggettata, quanto alla presenza di attività commerciali, all’art. 52 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, che disciplina l’esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali, e, al primo comma, prevede che “Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i Comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio”. In attuazione di quest’ultima disposizione normativa, il comune di Firenze, previo accordo con la competente soprintendenza dei beni culturali, ha emanato il “Regolamento per la tutela e il decoro del patrimonio culturale del Centro Storico” (c.d. Regolamento UNESCO), di cui alla Deliberazione di Consiglio Comunale n. 10 del 4 maggio 2020, in seguito modificato con successiva DCC n. 23/2023. Ai sensi dell’art. 1 di detto Regolamento, il comune di Firenze ha inteso tutelare l’area del “Centro Storico di Firenze quale Patrimonio Mondiale UNESCO, area di particolare pregio ed interesse storico, artistico, architettonico e ambientale della città, attraverso una generale lotta al degrado contro quegli elementi e quei comportamenti che portano alla lesione di interessi generali, quali la salute pubblica, la civile convivenza, il decoro urbano, il paesaggio urbano storico, l’identità culturale e storico-architettonica del centro della città, anche in coerenza con i programmi di viabilità urbana, con le limitazioni o interdizioni del traffico veicolare e la prevenzione dell’inquinamento sia atmosferico che acustico”.

Si deve concludere, quindi, che – non ostandovi la normativa vigente, né in particolare la disciplina eurounitaria – ben poteva il comune di Firenze, nell’ambito della pianificazione urbanistica, porre dei limiti agli insediamenti di vecchi e nuovi esercizi commerciali, al fine di garantire un corretto insediamento delle strutture di vendita nell’ambiente urbano. Stante la natura - in primis conformativa - di tali vincoli (proprio perché strumentale alla definizione dell’assetto urbanistico del territorio comunale), gli stessi non possono a priori essere circoscritti a formali divieti (in negativo) di installare determinate tipologie di attività commerciali, venendo piuttosto a ricomprendere anche eventuali prescrizioni volte comunque ad assicurare (in positivo) la salvaguardia di determinare attività o esercizi già esistenti, ritenuti meritevoli di tutela in ragione di precisi (e predeterminati) criteri selettivi.

Le prescrizioni contenute nel piano di governo del territorio, dovendo assicurare un ordinato assetto di quest’ultimo, ben possono pertanto porre limiti agli insediamenti di esercizi commerciali, sia nel senso di impedirne l’apertura, sia nel senso di circoscriverne e qualificarne la tipologia, impedendo (o strettamente limitando) il mutamento di destinazione di determinate attività già in essere (id est, imponendo vincoli d’uso limitato).

Cons. Stato, sez. VI, 27 maggio 2025, n. 4628 - Pres. Volpe, Est. Caponigro - Sull’estensione della dichiarazione di interesse culturale a beni mobili in pendenza del procedimento per il rilascio di attestato di libera circolazione.

L’art. 2-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 correla all’inosservanza del termine finale conseguenze significative sul piano della responsabilità dell’amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in definitiva, non è un vizio in sé dell’atto. In altri termini, il termine di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 della citata legge n. 241 del 1990 di regola riveste natura ordinatoria, con la conseguenza che il mancato rispetto del medesimo non vizia l’atto adottato tardivamente, salvo che la legge di settore lo qualifichi come perentorio.

Il termine di centoventi giorni previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 novembre 2010 (regolamento di attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241) in relazione al procedimento di dichiarazione di interesse culturale di cui agli artt. 13 e 14 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 è di natura ordinatoria con la conseguenza che, alla sua violazione, non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo.

Il termine di quaranta giorni fissato dall’art. 68, comma 3, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 per la conclusione del procedimento avviato con l’istanza di rilascio dell’attestato di libera circolazione è di natura ordinatoria con la conseguenza che, alla sua violazione, non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo.

In pendenza del procedimento avviato ad istanza di parte per il rilascio di un attestato di libera di circolazione di beni mobili ai sensi dell’art. 68 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), ben può l’amministrazione avviare d’ufficio il procedimento di cui all’art. 128, comma 3, del medesimo decreto per estendere anche a tali beni ritenuti pertinenziali, oltre che all’immobile al quale essi afferiscono, la dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante, con conseguente improcedibilità della istanza del privato.

L’art. 128, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2008 prescrive che il ministero può rinnovare il procedimento di dichiarazione dei beni, d’ufficio o su istanza di un soggetto qualificato, “in presenza di elementi di fatto sopravvenuti ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati”, per cui la previsione normativa è del tutto compatibile con un procedimento avviato d’ufficio durante la fase istruttoria di un procedimento ad istanza di parte per il rilascio di un attestato di libera circolazione. La formulazione della disposizione in esame non è tale da escludere la possibilità che il procedimento si concluda con una estensione della tutela a beni originariamente non oggetto della stessa. L’espressione “verificare la perdurante sussistenza dei presupposti per l'assoggettamento dei beni medesimi alle disposizioni di tutela”, infatti, può essere intesa in senso plurimo, ossia può avere una molteplicità di esiti: la conferma della tutela già esistente, la revoca della tutela precedentemente accordata; l’estensione della tutela oltre quella già precedentemente disposta.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, lett. d), del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 9, 42, 97 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli obblighi internazionali e comunitari sulla garanzia della proprietà privata e diritto inviolabile della persona, nella parte in cui richiede, come presupposto per la dichiarazione di cui all’art. 13 del d.lg. n. 42 del 2004, un interesse “particolarmente importante” anziché un “eccezionale interesse” come, viceversa, è previsto dall'art. 10, comma 3, lett. e).

Il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli articoli 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell'arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità ed è sindacabile dal giudice amministrativo esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto.

Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2025, n. 4338 - Pres. Volpe, Est. Ravasio - Sulla distizione tra archivio e raccolta o collezione, nonché sulla possibilità di sottoporre a vincolo anche raccolte che non siano di libri o di oggetti.

Per archivio deve intendersi un insieme di documenti conservati in modo ordinato e sotto una gestione unitaria, in modo che ciascun documento possa essere rintracciato seguendo determinati criteri logici, nonché raccolti e ordinati in complesso da un unico soggetto che ne è venuto in possesso per ragioni connesse all’attività, pubblica o privata, da esso svolta, atteso che l’archivio risponde all’esigenza di documentare tale attività. Non è perciò necessario, per aversi un archivio, un “nesso orizzontale” tra i documenti, nesso che invece caratterizza le raccolte o collezioni.

Ancorché l’art. 10, comma 3, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) si riferisca specificamente a raccolte di libri (lett. c) e a collezioni di oggetti (lett. e), la soprintendenza ben può sottoporre a vincolo una raccolta di documenti (nel caso di specie, disegni); infatti, se le “raccolte” e le “collezioni” fossero soggette a tutela solo se riferite a libri o oggetti, resterebbero irragionevolmente privi di tutela documenti che, letti nel loro insieme, acquistano un particolare significato culturale e che, pertanto, è opportuno mantenere uniti.

Cons. Stato, sez. IV, 19 maggio 2025, n. 4259 - Pres. FF Martino, Est. Tagliasacchi - Sul difetto di motivazione della dichiarazione di interesse culturale “storico-relazionale".

È illegittimo il decreto di apposizione del vincolo storico artistico, ex art. 10, comma 3, lett. d), del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), quando la relazione della soprintendenza posta a sua fondamento si rilevi contraddittoria e carente nella motivazione per genericità delle considerazioni espresse dall'amministrazione a sostegno della dichiarazione di interesse culturale “storico-relazionale”, dovendo la stessa recare riferimenti a eventi storici specifici e alla rilevanza del bene quale testimonianza dell’identità e della storia delle “istituzioni pubbliche, collettive o religiose”.

Sussiste, inoltre, un onere di motivazione rafforzato allorquando le ragioni espresse a sostegno dell’apposizione del vincolo contrastino con altre valutazioni espresse in precedenza dalla medesima Soprintendenza.

Cons. Stato, sez. VI, 28 aprile 2025, n. 3575 - Pres. Volpe, Est. Vitale - Sul vincolo indiretto a tutela dei beni culturali.

Le “prescrizioni di tutela indiretta”, previste dall'art. 45 del d.lg. d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), hanno la funzione di completamento pertinenziale della visione e della fruizione dell’immobile principale (gravato da vincolo “diretto”). L’aspetto caratterizzante l’istituto, definito anche vincolo di completamento, è il carattere di strumentalità o accessorietà delle relative prescrizioni rispetto alla tutela del bene culturale oggetto di protezione diretta. I beni oggetto di tutela indiretta vengono quindi asserviti ai beni culturali, al fine di garantire a questi ultimi una “fascia di rispetto”, funzionale alla massima espressione del loro valore culturale. Il legislatore, pur individuando le finalità che il vincolo indiretto deve perseguire, ha lasciato non completamente tipizzate le varie prescrizioni che l’amministrazione può di volta in volta apporre al fine del perseguimento di detti obiettivi.

Nell’esercizio di una facoltà, riconosciutagli dalla legge, di dettare prescrizioni di utilizzo dei beni sottoposti a vincolo indiretto, il ministero deve contemperare, da un lato, le esigenze di cura e integrità e, dall’altro, la fruizione e la valorizzazione dinamica del bene culturale. Inoltre, non può escludersi che l’amministrazione tenga legittimamente in considerazione anche interessi ulteriori rispetto a quello culturale.

Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i diritti (Corte cost., sent. 9 maggio 2013, n. 85), anche per gli interessi di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Carta garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca.

Nell’adozione del provvedimento ai sensi dell’art. 45 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 l’amministrazione preposta alla cura dell’interesse culturale può essere chiamata a prendere in considerazione anche interessi diversi ed ulteriori rispetto a quello culturale (interessi che, secondo la dottrina tradizionale della discrezionalità amministrativa, si sarebbero definiti “secondari”). Tanto emerge dalla lettura della norma attributiva del potere che definisce con formule aperte gli obiettivi da perseguire e lascia all’amministrazione la facoltà di individuare le prescrizioni dirette al raggiungimento di tali obiettivi.

Lo scrutinio del provvedimento di vincolo indiretto deve condursi anche alla luce del principio di proporzionalità, non solo con riguardo alle componenti della idoneità (id est raggiungimento dell’obiettivo prefissato) e della necessarietà (ravvisabile quando non sia disponibile nessun altro mezzo egualmente efficace ma meno incidente nella sfera giuridica del destinatario), ma anche con riguardo al profilo della “proporzionalità in senso stretto”, il quale implica che una misura adottata dai pubblici poteri non debba mai essere tale da gravare in maniera eccessiva sul titolare dell’interesse contrapposto, così da risultargli un peso intollerabile. Pertanto, l’individuazione delle prescrizioni di tutela ex art. 45 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 implica anche profili di discrezionalità amministrativa, oltre che tecnica.

È affetta da deficit istruttorio e motivazionale la prescrizione contenuta nel decreto ministeriale impositivo di vincolo indiretto a tutela di un bene monumentale ospedaliero ? che consentirebbe la realizzazione di nuovi edifici totalmente avulsi dal contesto stilistico e tipologico dell’area se destinati a funzione sanitaria ? che non trovi supporto negli atti istruttori e, in particolare, nella relazione della soprintendenza e che si ponga in contrasto con l’esigenza di preservare la cornice ambientale del bene principale. La valutazione di parziale recessività dell’interesse culturale rispetto all’esigenza di realizzare, in prossimità dell’edifico storico, nuove strutture edilizie a vocazione sanitaria deve essere supportata da un’adeguata e rigorosa motivazione, condotta al lume del principio di proporzionalità.

Cons. Stato, sez. VI, 11 aprile 2025, n. 3115 - Pres. FF Simeoli, Est. La Greca - In tema di persistenza dell’interesse culturale di beni di proprietà di enti pubblici privatizzati.

L’art. 12, comma 1, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, per i beni culturali di cui all’art. 10, comma 1, del medesimo decreto, prevede una protezione interinale, fino all’effettuazione della verifica dell’interesse culturale, destinata ad essere sostituita con una tutela definitiva, nascente dall’esito positivo della verifica e dal conseguente accertamento dell’interesse culturale ovvero destinata a cessare a seguito dell’esito negativo della verifica medesima.

Gli immobili appartenenti a soggetti che mutino la loro natura giuridica da pubblici a privati, come avvenuto nel caso delle società privatizzate, restano sottoposti al regime di tutela previsto dal d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 fino alla verifica dell’interesse culturale ex art. 12 del medesimo decreto. La demolizione senza preventiva autorizzazione comporta l’irrogazione di sanzioni.

Ai fini delle norme di cui agli artt. 10, comma 1, e, 12, comma 1, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, RFI (Rete Ferroviaria Italiana S.p.A.) deve essere considerata un soggetto pubblico per quanto riguarda i beni, già di proprietà statale, alla stessa trasferiti in esito al processo di privatizzazione. La trasformazione delle Ferrovie dello Stato in ente pubblico economico, regolata dalla legge 17 maggio 1985, n. 210, e la successiva modifica in S.p.A., ad opera del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, infatti, hanno inciso soltanto sulla disciplina organizzativa della struttura affidataria del servizio, senza far venir meno tutta la restante disciplina prevista dalla richiamata legge n. 210 del 1985, ivi compreso il regime giuridico dei beni di sua proprietà, che, quindi, resta quello tipico dei beni rientranti nel demanio accidentale, in cui va ricompreso il demanio ferroviario, cioè di quei beni in qualche modo destinati all’esercizio dell’attività ferroviaria. Sarebbe del tutto incongruo ritenere, da un lato, che detti beni abbiano natura demaniale e, dall’altro lato, che siano sottratti al regime di tutela che l’art. 12, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004 prevede per i beni di proprietà pubblica.

La giurisprudenza si è orientata verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico, con la conseguenza che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro di tale nozione non è sempre uguale a sé stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della relativa ratio sottostante.

L’Adunanza generale del Consiglio di Stato (parere 26 maggio 2011, n. 2102) ha ritenuto che l’art. 12, comma 9, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (secondo cui “[l]e disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di cui al comma 1 anche qualora i soggetti cui esse appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica”) debba applicarsi anche ai processi di privatizzazione intervenuti prima della sua entrata in vigore. Al riguardo ha chiarito, inoltre, che quella di “bene culturale” costituisce una caratteristica intrinseca del bene stesso, sicché essa non può essere perduta in virtù del semplice mutamento del regime giuridico del soggetto a cui il bene fa riferimento. Secondo l’Adunanza generale, poiché la norma di cui all'art. 12, comma 9, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 rende esplicita la rilevata persistenza dell’interesse culturale delle cose di proprietà di enti sottoposti a processi di privatizzazione, sarebbe del tutto incongruo ritenere che la medesima non possa trovare applicazione anche nei confronti di cose di proprietà di enti che siano stati privatizzati prima della sua entrata in vigore. Una siffatta conclusione finirebbe, infatti, per escludere proprio la persistenza dell’interesse culturale dopo i processi di privatizzazione, che la norma, invece, testimonia ed afferma.

Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2025, n. 2022 - Pres. FF Simeoli, Est. Agostini - In tema di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale.

L’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento, oltre ad essere previsto in via generale dagli articoli 7 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, che impone l’effettiva partecipazione del privato, è previsto in modo più specifico proprio per il procedimento di vincolo dall’art. 14 del Codice dei beni culturali e del paesaggio che stabilisce, al comma 2, che “La comunicazione contiene gli elementi di identificazione e di valutazione della cosa risultanti dalle prime indagini, l'indicazione degli effetti previsti dal comma 4, nonché l'indicazione del termine, comunque non inferiore a trenta giorni, per la presentazione di eventuali osservazioni”.

L’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale, ai sensi dell’art. 14 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, costituisce una rilevante violazione dei diritti partecipativi del privato. Tale omissione rende illegittimo il provvedimento finale ove la partecipazione del privato avrebbe potuto fornire un apporto significativo alla completezza della motivazione del provvedimento amministrativo.

2. Beni paesaggistici

Cons Stato, sez. VI, 18 giugno 2025, n. 5325 - Pres. FF Lamberti, Est. Sabbato - Sull’autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonte rinnovabile.

Un preciso orientamento giurisprudenziale prende atto di un trend normativo, sempre più favorevole e incentivante all’utilizzo delle fonti rinnovabili, oltre che costantemente interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa all’insegna della necessità della ricerca e della verifica, di volta in volta, in concreto, di un ragionevole bilanciamento tra interessi pubblici e privati e anche tra valori costituzionali in potenziale conflitto tra di loro, quali il paesaggio e l’ambiente.

Di qui la necessità di un preciso e rigoroso onere motivazionale. In particolare, occorre una severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi  ? ivi compreso quello paesaggistico  ? alla realizzazione (o, come nel caso di specie, al mantenimento, trattandosi di un procedimento di sanatoria) di un impianto di energia elettrica da fonte rinnovabile. Tale comparazione, infatti, nei casi in cui l’opera progettata dal privato abbia un’espressa qualificazione legale in termini di opera di pubblica utilità, non può ridursi all’esame dell’ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ma impone una valutazione più analitica che si faccia carico di esaminare la complessità degli interessi coinvolti. Ciò in quanto la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici.

Le motivazioni dell’eventuale diniego (seppur parziale) di autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonte rinnovabile devono essere particolarmente stringenti, non potendo ritenersi sufficiente che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico rilevi una generica minor fruibilità del paesaggio sotto il profilo del decremento della sua dimensione estetica. Infatti, il giudizio di compatibilità paesaggistica non può limitarsi a rilevare l’oggettività del novum sul paesaggio preesistente, posto che in tal modo ogni nuova opera, in quanto corpo estraneo rispetto al preesistente quadro paesaggistico, sarebbe di per sé non autorizzabile.

Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2025, n. 5158 - Pres. Simonetti, Est. Agostini - Sull’autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di infrastrutture di comunicazioni elettroniche.

L’art. 43, comma 5, del d.lg. 1° agosto 2003, n. 259, in materia di infrastrutture di comunicazioni elettroniche, fa salva l’applicazione delle disposizioni a tutela dei beni ambientali e culturali contenute nel d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). Dal citato articolo si desume, quindi, che il favor assicurato alla diffusione delle infrastrutture in esame non consente di derogare alla disciplina posta a tutela di interessi differenziati, dovendo l’autorità preposta al vincolo verificare, secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità, se i valori tutelati possano essere comunque preservati nonostante la realizzazione dell’opera, eventualmente sottoponendola a particolari prescrizioni. Di tale operazione l’amministrazione deve dare conto mediante una motivazione adeguata, che non può limitarsi ad affermazioni apodittiche e stereotipate, ma deve esplicitare, da un lato, il contenuto del vincolo e, dall’altro, tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto ed al suo inserimento nel contesto protetto, valutando altresì l’idoneità o meno delle misure di mitigazione eventualmente proposte dal soggetto interessato alla realizzazione dell’opera.

Non può nemmeno ritenersi sufficiente che le amministrazioni preposte alla tutela del vincolo e all’esame dell’istanza di autorizzazione evidenzino in modo astratto l’interesse paesaggistico-ambientale-culturale insito nel vincolo, per negare la realizzazione dell’opera di pubblica utilità. Le amministrazioni preposte, a fronte di innovazioni tecnologiche indispensabili allo sviluppo del Paese, devono orientarsi non verso il divieto ma per quanto possibile verso la conformazione delle caratteristiche dello stesso, in modo da ridurre nella massima misura possibile l’impatto sullo scenario tutelato e rendere l’installazione compatibile con l’ambiente circostante. La tutela del bene paesaggio deve essere intesa in senso dinamico e flessibile e non in maniera statica e solo ostativa.

Diventa quindi doveroso anche per le autorità preposte alla tutela dei valori paesaggistici, in primis per le soprintendenze ma anche per il comune, gestore del procedimento e deputato alla gestione del territorio, in collaborazione tra di loro, in conformità ai principi di collaborazione e buona fede sanciti dall’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, proporre soluzioni alternative in termini di mitigazioni e, se del caso, anche localizzazioni alternative, qualora si giunga alla motivata conclusione che le opere di mitigazione non siano in alcun modo sufficienti a colmare il contrasto nella posizione prescelta o non siano praticabili. Spetterà poi all’istante di attivarsi per concretizzare la proposta.

Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2025, n. 4769 - Pres. Montedoro, Est. Gallone - In tema di silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio relativa ad opere abusive realizzate in area sottoposta a vincolo.

Il silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio inerente ad opere abusive realizzate in area sottoposta a vincolo si perfeziona, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 35 e 32, comma 1, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, unicamente in presenza del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo e non anche in caso di parere negativo. Il silenzio-assenso non si perfeziona, infatti, per il solo fatto dell’inutile decorso del termine perentorio a far data dalla presentazione della domanda di sanatoria, essendo necessario che sussistano tutti i presupposti sostanziali, soggettivi e oggettivi, ai quali è subordinato il rilascio del condono.

In ogni caso, il condono non può intendersi rilasciato nel caso in cui sia decorso il termine di ventiquattro mesi, previsto dall’art. 35, comma 12, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, ciò in quanto, nel caso di abusi in area vincolata, il termine per la formazione del silenzio-assenso decorre solamente dall’emanazione del parere favorevole, secondo quanto previsto dall’art. 32 della citata legge n. 47 del 1985.

Il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, non è legato al mero ritardo ma è subordinato alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene della vita collegato a tale interesse.

Cons. Stato, sez. IV, 20 marzo 2025, n. 2307 - Pres. FF Lopilato, Est. Loria - In tema di interventi edilizi su immobili situati in aree soggette a vincoli paesaggistici.

Gli interventi edilizi su immobili situati in aree soggette a vincoli paesaggistici devono essere autorizzati mediante adeguato titolo edilizio e, se necessario, anche dall’autorizzazione paesaggistica.

Per costante giurisprudenza amministrativa, in termini urbanistici, la differenza tra un lastrico solare e un terrazzo consiste nella circostanza che il primo si configura quale parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo è inteso come ripiano anch’esso di copertura, ma che nasce già delimitato all’intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti. La trasformazione di un lastrico solare in terrazzo, con interventi edilizi, richiede il rilascio del permesso di costruire e non può essere realizzata tramite semplice s.c.i.a. o comunicazione di inizio lavori ex art. 6 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380.

Nell’ambito di un procedimento amministrativo, l’amministrazione non ha un obbligo di puntuale motivazione e/o confutazione delle controdeduzioni presentate a seguito del preavviso di rigetto dell’istanza, considerato che le ragioni ostative all’accoglimento delle stesse possono dedursi dalla motivazione del provvedimento di diniego emanato.

 

 

[*] Giancarlo Montedoro, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro 13, 00186 Roma, g.montedoro@giustizia-amministrativa.it.

[**] Vania Talienti, dottore di ricerca in Diritto dell'economia presso l’Università degli Studi di Foggia e funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Piazza Colonna 370, 00187 Roma, vaniatalienti@gmail.com.

 

 

 

 

 



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