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Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)

Il volto attuale del diritto penale dei beni culturali: qualche mesta riflessione [*]

di Vittorio Manes [**]

Sommario: 1. Brevi riflessioni sui profili penalistici del diritto dei beni culturali. - 2. I recenti interventi legislativi sulla tutela penalistica dei beni culturali. - 3. Le evoluzioni parossistiche in materia di confisca. - 4. Rilievi conclusivi.

Il contributo si sofferma sulle evoluzioni e trasformazioni dei profili penalistici del diritto dei beni culturali e sui recenti interventi legislativi in tema di tutela penale dei beni culturali che hanno radicalmente trasformato l’assetto della tutela, i quali sono andati nel senso dell’inserimento di nuovi delitti e contravvenzioni, anche recuperando il modello dei cc.dd. reati di sospetto.

Parole chiave: diritto penale dei beni culturali; codice dei beni culturali; codice penale; confisca.

The current state of criminal law relating to cultural heritage: some sombre reflections
The contribution focuses on the developments and transformations of the criminal law aspects of cultural heritage law and on recent legislative measures concerning the criminal protection of cultural heritage, which have radically transformed the protection framework, introducing new crimes and offences, including the recovery of the model of so-called crimes of suspicion.

Keywords: criminal law relating to cultural heritage; cultural heritage code; criminal code; confiscation.

1. Brevi riflessioni sui profili penalistici del diritto dei beni culturali

Nel diritto penale dei beni culturali sono originariamente rinvenibili due anime, poiché essenzialmente due sono le grandi costellazioni di fattispecie di interesse penalistico. Una è contenuta nel codice dei beni culturali, ed è, dunque, riferita alle fattispecie che sono ricomprese nel plesso sanzionatorio di questo corpus normativo, specifico e settoriale; l’altra, invece, è extra codice, o, meglio, intra codice se vista nella prospettiva penalistica, poiché fa riferimento ed evoca l’applicabilità dei reati comuni del codice Rocco [1].

La prima anima rispecchia un modello tipologico di intervento che è assolutamente paradigmatico nel settore del diritto penale complementare (Nebensstrafrecht), caratterizzato da una forte anticipazione della tutela e dal diffuso ricorso a reati di pericolo astratto, se non di pericolo presunto [2].

Da questa angolatura, si assiste ad una forte “amministrativizzazione” del precetto penale, che inquadra lo ius puniendi quasi come il “braccio armato” del diritto amministrativo, costruito, segnatamente, su fattispecie centrate sul momento autorizzativo dell’amministrazione competente, fattispecie cioè che sanzionano il compimento di determinate attività o condotte in assenza della autorizzazione o, comunque, del provvedimento abilitativo dell’Autorità competente, la Sovrintendenza per antonomasia; ovvero ancora, si registrano fattispecie costruite sul modello dell’inottemperanza a qualsiasi trasgressione rispetto all’indicazione amministrativa. Si tratta di reati formali, posti a tutela della “funzione amministrativa di controllo”: cosicché può integrare il reato perfino l’esecuzione di opere prive di autorizzazione ma che in realtà rispettano pienamente la correttezza filologica del restauro, evocando così - neanche troppo in filigrana - un congedo da qualsivoglia capacità selettiva o “critica” del bene giuridico e, in definitiva, da un ideale di diritto penale orientato al prescrittivo canone di offensività [3].

A questo modello paradigmatico del diritto penale accessorio si accompagna poi una sostanziale ineffettività della sanzione penale. Quest’ultima, infatti, si presenta come un modello vivo in astratto ma ineffettivo in concreto [4], che testimonia un utilizzo del diritto penale in chiave strumentale, finalizzato più ad assicurare la vigenza dei precetti amministrativi che a tutelare, autonomamente, beni/interessi/valori propri. In sostanza, si tratta di un utilizzo prettamente simbolico del medium punitivo ed anche la capacità di orientamento culturale del precetto extrapenale pare totalmente disperdersi all’interno di un sistema caratterizzato da un velleitarismo dai tratti essenzialmente “declamatori”.

Rispetto a questa prima anima ve ne è poi una seconda, il diritto penale “comune” del codice Rocco, che con il passare del tempo ha visto espandere il proprio raggio operativo, oltre che la propria severità, estendendosi dalle fattispecie classiche a tutela del patrimonio, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) e la ricettazione (art. 648 c.p.), sino alle incriminazioni di più recente conio via via introdotte - all’insegna di una deprecabile incontinenza repressiva - sempre nel testo codicistico.

2. I recenti interventi legislativi sulla tutela penalistica dei beni culturali

L’evoluzione normativa più recente ha fortemente modificato - se non addirittura radicalmente trasformato - l’assetto della tutela e si deve ad un intervento del 2022 (legge n. 22 del 9 marzo 2022) che ha addirittura “ricodificato” il diritto penale dei beni culturali, importandolo per la gran parte all’interno del codice [5]. Limitandoci a tracciare alcune direttrici di fondo di questo intervento, che è stato poi ulteriormente modificato da una novella del 2024 (legge n. 6 del 22 gennaio 2024), seppur in un ambito più limitato, può evidenziarsi come il punto di fuga sia individuabile in un’estensione molto significativa dello spettro applicativo delle fattispecie incriminatrici, dovuto soprattutto all’introduzione di nuove ipotesi delittuose.

Al riguardo, possono essere esemplificativamente richiamati il delitto di importazione illecita di beni culturali di cui all’art. 518-decies c.p., oggetto di asseriti obblighi di tutela sovranazionali che rimandano alla Convenzione di Nicosia, o l’introduzione di nuove contravvenzioni, anche recuperando il modello dei cc.dd. reati di sospetto, un modello tipologico che il penalista orientato a Costituzione ha sempre guardato con particolare sfiducia, nonostante la loro “pervicace resistenza” nel sistema [6].

Il legislatore, infatti, ha introdotto il possesso ingiustificato di strumenti di ricerca di beni culturali, la nuova contravvenzione prevista dall’art. 707-bis c.p., curiosamente inserita nel titolo che oggi si dedica a queste fattispecie, il titolo VIII-bis. Quasi con un esperimento di iper-codificazione, le fattispecie ancillari, accessorie, quelle declinate sul modello del pericolo astratto o addirittura del reato di possesso che in questo caso avrebbero dovuto restare all’esterno del Codice, sono invece state introdotte nel testo fondamentale per i penalisti. La stessa sorte è stata riservata anche ad un’altra fattispecie principalmente votata ad assicurare la pregnanza, la cogenza del precetto amministrativo, ossia il reato di violazione in materia di alienazione dei beni culturali. Inoltre, sono state rivisitate tutta una serie di fattispecie classiche, il furto, l’appropriazione indebita, la ricettazione di beni culturali; addirittura, il legislatore del 2022 ha riesumato fattispecie prima depenalizzate.

A questi convulsi interventi ha fatto poi da pendant un’estensione in chiave di corresponsabilizzazione anche delle persone giuridiche - secondo una linea di politica criminale che vede oramai quest’ultima come un’“appendice” irrinunciabile di qualsivoglia intervento repressivo - in quanto ben dieci di queste fattispecie sono entrate nella cerchia dei reati presupposto che possono innescare la responsabilità ex delicto dell’ente.

Di sicuro rilievo, è anche l’ulteriore “moltiplicatore” della responsabilità penale che si deve all’art. 518-undecies c.p. che è intervenuto sull’applicazione della legge penale nello spazio, estendendo le norme del nuovo titolo VII-bis, senza eccezione, a tutti i fatti commessi all’estero in danno del patrimonio culturale nazionale. Quest’ultimo intervento, in particolare, si muove sul crinale scivoloso dell’adempimento di obblighi sovranazionali di tutela penale, risultando fortemente compresso tra esigenze contrapposte e non facilmente componibili: da un lato, assicurare il rispetto degli impegni cogenti assunti in sede sovranazionale, dall’altro rimanere fedeli ai superiori principi di garanzia che governano la materia penale, su tutti, evidentemente, la riserva di legge, il principio di ultima ratio e la limitazione dell’efficacia della legge penale all’interno del territorio nazionale. Si affaccia, pertanto, con evidenza una stagione non solo di proliferazione senza fine di obblighi sovranazionali, un tempo considerati perfino inconcepibili, ma anche una stagione di “reati universali”, “planetari”, “globali” - come la gestazione per altri [7] - e il diritto penale dei beni culturali non si sottrae a questa moda, che pretende di considerare irrilevante il vecchio principio di territorialità (art. 3 c.p.): come se il diritto penale, che non è più padrone in casa propria perché sempre più gravato e condizionato da vincoli sovranazionali, pretenda in qualche modo di essere padrone in casa altrui; aspetto curioso o forse persino stravagante della penalità contemporanea.

Ancora, e soprattutto, l’intervento legislativo del 2022 ha esasperato il versante sanzionatorio, che è sempre il battaglio della campana quando si brandisce a fini cimbolici il diritto penale, introducendo tutta una serie di circostanze aggravanti che amplificano o spesso duplicano la comminatoria edittale.

In particolare, sono state elevate le cornici edittali della pena, ed esasperate sino a livelli draconiani: a volte le pene sono state raddoppiate in modo secco, come nel caso del reato di esportazione illecita di beni culturali e paesaggistici [8]; altre volte sono state innalzate in modo del tutto irragionevole, come nell’ipotesi del nuovo reato di devastazione o saccheggio di beni culturali e paesaggistici [9], al quale attualmente è ascritta una pena da dieci a sedici anni di reclusione, come tale superiore di molto persino alla violenza sessuale (art. 609-bis c.p.). È una pena che, tra l’altro, può raggiungere la forbice dai quindici a ventiquattro anni di reclusione se il fatto risulta aggravato, come spesso risulterà nella prassi concreta dei casi, vista l’insistenza di questa ragnatela di circostanze aggravanti, così da arrivare persino a superare la pena per l’omicidio volontario, con esiti manifestamente irragionevoli - e persino paradossali - se osservati in una logica di proporzionalità tanto cardinale, quanto ordinale [10].

Con la recente riforma del 2024 il legislatore ha poi ulteriormente ritoccato questo modello in modo più puntuale e circoscritto ma la direzione rimane la medesima, si corre one way verso un utilizzo indiscriminato - e quasi “a tappeto” - del diritto penale nei casi di danneggiamento di beni culturali. Anche quest’ultimo intervento legislativo è stato emblematico di una politica criminale tipicamente reattiva, populistica; difatti, a seguito di alcuni episodi di danneggiamento a beni culturali di particolare risonanza mediatica, il legislatore, come spesso capita di vedere, ha reagito con un crack down - con un “giro di vite” repressivo - inasprendo le pene, come se la logica del more of the same [11] potesse in qualche modo servire a neutralizzare le - presunte o reali - emergenze criminali.

Ciò che deve anche segnalarsi - al di là di queste mediocri origini politiche criminali - è l’inserimento da parte del legislatore di un doppio livello di tutela in idem factum [12], con una duplicazione di sanzioni, cioè, applicabili al medesimo fatto. La condotta, infatti, avrà rilievo non solo per il diritto penale ma anche per le sanzioni amministrative che sono sostanzialmente ricalcate - verrebbe da dire quasi “a pappagallo” - sulle sanzioni penali. Difatti, i primi due commi dell’art. 1 della legge n. 6 del 2024 esordiscono con una “clausola di cumulo” - “ferme le disposizioni penali applicabili” [13] - e sanzionano la medesima condotta tipica descritta dall’art. 518-duodecies c.p.

Ben consapevole della sua “cattiva coscienza”, il legislatore ha inteso introdurre un fattore di mitigazione [14], quasi una valvola di filtro, declinato sull’art. 187-terdecies del Testo Unico sulle leggi finanziarie che vorrebbe in qualche modo stemperare questa lesione evidente del ne bis in idem, dimenticando però che la Corte costituzionale ha già decretato del tutto insufficiente questo meccanismo di filtro, proprio giudicando sugli illeciti in materia finanziaria [15].

Questo naturalmente non è l’unico dei nervi scoperti di tale disciplina, quello più problematico - ad avviso di chi scrive - è senz’altro quello concernente la continua e apparentemente inarrestabile proliferazione di forme “spurie” e sempre più “eccentriche” di modelli ablatori, tra i quali spicca, per il contrasto frontale con numerosi principi di garanzia, la c.d. “confisca senza condanna”.

3. Le evoluzioni parossistiche in materia di confisca

Come si sa, la confisca è l’ultimo imperativo delle moderne politiche criminali, tanto che a buon diritto può dirsi che il tradizionale canone illuministico del nullum crimen sine poena è stato ormai sostituito dal nulla poena sine confiscatione: la ablazione statale è strumento ormai considerato irrinunciabile ed indefettibile, perché il “crimine non deve pagare” (crime doesn’t pay) [16].

Questo è il diktat che sopraggiunge dall’Europa e che si è affermato anche nel settore dei delitti contro i beni culturali con ben quattro interventi che anche qui potremmo definire “a tenaglia”.

Con un primo intervento, anzitutto, vi è stata l’introduzione della confisca obbligatoria, non facoltativa e quindi rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, ma, appunto, indefettibile in caso di accertamento del reato, a prescindere da qualsivoglia ulteriore apprezzamento circostanziale. Il secondo comma dell’art. 518-duodecies c.p., infatti, estende la confisca obbligatoria degli strumenti del reato e del prodotto a tutte le ipotesi di condanna o anche solo di applicazione della pena su richiesta delle parti.

In un secondo momento, è stata introdotta anche la variante della confisca per equivalente (la c.d. confisca di valore o value confiscation), che rende non più necessaria l’individuazione di un preciso nesso di pertinenzialità tra il bene - prodotto, profitto o provento del reato - oggetto dell’ablazione ed il reato commesso, ma estende l’apprensione anche al mero valore economico equivalente, il tantundem che corrisponde a quell’ipotizzata locupletazione illecita non immediatamente rinvenibile nel patrimonio del reo.

Il terzo intervento, di particolare interesse nella prospettiva penalistica, è l’inserimento, ormai codificato, della c.d. “confisca senza condanna”, nonostante la ferma opposizione della cultura penalistica per almeno due secoli, contraria a questa forma apocrifa di confisca in quanto evocante le vecchie condanne medioevali che tramandavano l’immagine di un imputato “acquitté à mi-chemin”- assolto a metà - sul quale residuavano gravi e stigmatizzanti “ombre di colpevolezza” [17]. Ne discende, dunque, che si procederà a confisca anche qualora il reato che la giustifica non sia stato accertato con una sentenza definitiva, a meno che quell’accertamento parziale, precario, sommario e solo eventuale, non intacchi direttamente la materialità dell’illecito, escludendone la sussistenza. Di conseguenza, anche se il reato non sia stato accertato in tutti i suoi elementi con tutti i crismi della definitività, l’accertamento della mera materialità dell’illecito generatore di ricchezza consentirà - quasi con un ribaltamento epistemologico dell’oltre ogni ragionevole dubbio - che la mano ablativa dello Stato possa comunque spingersi sul bene: con un chiaro rovesicamento dell’in dubio pro reo nel canone autoritario dell’in dubio pro republica.

Infine, il quarto intervento segnala anche un allineamento della materia criminis dei beni culturali a modelli tipologici che evocano quelli attivati contro il crimine organizzato, con applicazione anche al settore in esame della famigerata ipotesi speciale di confisca nota come “confisca di sproporzione”. In sostanza, grazie a questo formidabile maccanismo ablativo, tutti i beni di cui il soggetto non riesce a provare la lecita provenienza e che risultino sproporzionati rispetto al reddito dichiarato verranno inesorabilmente travolti dalla confisca ex art. 240-bis c.p., ora esteso - con buona pace di ogni massima di esperienza criminologicamente fondata - anche alle ipotesi di reati in materia di beni culturali.

Una manifestazione empirica molto tangibile - e particolarmente emblematica - della “bulimia ablativa” che caratterizza questo settore è ricavabile dalle vicende relative alla confisca dell’Atleta Vittorioso al trust del J. Paul Getty Museum [18]. L’Atleta di Fano sarebbe stato esportato in modo asseritamente illecito almeno cinquant’anni fa, fomentando un contenzioso infinito, che ha visto poi prescriversi il reato sulla cui base era stato adottato l’ordine di confisca e la richiesta di exequatur dall’Italia all’America.

Il trust ha attivato tutte le misure di contrasto possibili, persino il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [19], che però ha ritenuto infondata la doglianza, facendo emergere due aspetti di particolare interesse.

In primo luogo, ad avviso dei giudici di Strasburgo, il tema della confisca, pur in assenza di un giudicato definitivo, non è un tema che afferisce alla “materia penale” e non implica dunque l’applicazione delle garanzie penalistiche tipiche (segnatamente, l’art. 7 Cedu) perché la vocazione, la natura, la funzione della confisca nel caso concreto sarebbe assolutamente ripristinatoria e non punitiva. Di conseguenza, avendo l’ablazione ad oggetto una res extra commercium, deve essere sempre garantita l’effettività della misura ablativa dello Stato a prescindere dall’accertamento formale e definitivo dell’illecito, perché - esclusa in apicibus qualsivoglia venatura punitiva - le esigenze di ripristino dello status quo ante prevalgono sempre e comunque su ogni eventuale contro-interesse.

Il secondo aspetto, ancora più interessante, è che non potranno sottrarsi a questa “voracità ablativa” nemmeno i cc.dd. terzi in buona fede, cioè le persone estranee al reato. Sul punto, la Corte Europea, con l’avallo della Corte di Cassazione nella pronuncia che aveva esaurito “rimedi interni”, ha affermato che il terzo potrà anche essere estraneo al reato, ma non sarà persona estranea alla confisca ogni volta in cui possa essere in qualche modo essere elevato a suo carico un addebito, anche squisitamente colposo. In altri termini, ogni volta in cui il terzo ha agito in una posizione di willful blindness, di cecità volontaria, o di conscious avoidance, ossia di rimozione consapevole del sospetto di illiceità - adottando la c.d. “logica dello struzzo” [20] - sarà sempre tenuto a restituire il bene, pur in assenza di qualsivoglia compartecipazione effettiva alla realizzazione dell’illecito.

4. Rilievi conclusivi

Le brevi osservazioni fin qui svolte sulle evoluzioni, le trasformazioni e soprattutto le involuzioni del diritto penale dei beni culturali dimostrano come un tale settore sia di sicuro interesse anche se osservato da un’angolatura diversa da quella tipica degli studiosi della materia e, in particolare, se visualizzato dall’angolatura penalistica. Lo scenario che un tale settore disciplinare offre, infatti, è quello di un ampio campo di sperimentazione di tutta una serie di paradigmi, di modelli tipologici innovativi, talvolta originali e sempre meritevoli di approfondimento, con ricadute estremamente significative tanto in bonam, quanto in malam partem.

Il paradigma dei beni culturali, infatti, ha da tempo sviluppato una straordinaria - e quasi simbiotica - dipendenza dal diritto penale, anzi è stato autenticamente preda di tutte le distorsioni “populistiche” in materia punitiva. A ben vedere, si tratta di un settore che parla in modo fluente la “neolingua punitiva”: la parola magica - o la parola d’ordine - continua ad essere solo “repressione”; la parola “depenalizzazione” - così come quella “prevenzione” -, al contrario, sono anche qui parole inaccessibili, che non trovano più spazio - neanche in questo settore - nel vocabolario del penalista.

Il diritto penale, insomma, è eletto ad “apripista” con la consueta, tradizionale e triste duplice illusione, a cui il penalista è oramai assuefatto: l’illusione che basti introdurre un qualche nuovo reato per ottenere gli effetti normativamente attesi da quell’impulso di prevenzione generale - circostanza che, nei fatti, non si verifica mai -; e l’illusione, persino peggiore, che la nuova iniezione di farmaco punitivo non produrrà effetti collaterali, misurabili anche solo in termini di ipertrofia dei procedimenti e di ulteriore aumento dei già insostenibili tassi di carcerizzazione.

In definitiva, pare che il diritto penale dei beni culturali dimostri di aver ben poca “cultura” dei principi fondamentali in materia penale, quali l’offensività, la sussidiarietà, la proporzionalità, l’extrema ratio: anche qui ha preso piede e prosperato l’ipertrofia punitiva, con varianti e neotipi rigogliosi e multiformi.

A conferma, se ve ne fosse bisogno, di quanto la “mala erba” sia capace di attecchire e diffondersi.

 

Note

[*] È il testo, minimamente rivisto e corredato di note, dell’intervento al convegno su “Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo”, svoltosi presso l’Università di Firenze, 25 novembre 2024. Attualità - Valutato dalla Direzione.

[**] Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 33, 40126 Bologna, vittorio.manes@unibo.it.

[1] Per una panoramica sui profili penalistici del diritto dei beni culturali, cfr. G.P. Demuro, Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, 2002; più di recente, A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Torino, 2023; S. Manacorda, La circolazione illecita dei beni culturali nella prospettiva penalistica: problemi e prospettive di riforma, in Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Av. Vv., Milano, 2015, pag. 3 ss. Sul punto, sia consentito anche il rinvio a V. Manes, La tutela penale, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pag. 289 ss.

[2] Sul tema, M. Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, pag. 1 ss.; F. Bricola, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973; S. Canestrari, voce Reati di pericolo, in Enc. Giur., XXVI, Roma, 1991, pag. 1 ss.; M. Donini, voce Teoria del reato, in Dig. disc. pen., XIV, Torino, 1999. Nonché i lavori monografici di F. Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva, Milano, 1994; M. Parodi Giusino, I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990.

[3] Sul punto, sia consentito il rinvio a V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005. Si veda inoltre, in una letteratura vastissima, F. Mantovani, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in onore di Costantino Mortati, Vol. IV, Milano, 1977, pag. 445 ss.; F. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, pag. 350 ss.

[4] Sul punto, per tutti, cfr. C.E. Paliero, Il principio di effettività del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pag. 430 ss.

[5] Per ulteriori riflessioni su tale intervento legislativo si veda G.P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo titolo VIII-bis, in Sist. pen., 2022; A. Visconti, Esportazione e importazione illecite di beni culturali dopo la riforma del 2022, tra luci e ombre, in Studi sen., 2022, 1, pag. 155 ss.; N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, pag. 90 ss.

[6] Volendo, v. V. Manes, La pervicace resistenza dei "reati di sospetto”, in Giur. cost., 2008, 3, pag. 2539 ss.

[7] Per un’analisi critica di tale scelta di incriminazione si veda, M. Pelissero, Surrogazione di maternità: la pretesa di un diritto Punitivo universale. Osservazioni sulle proposte di legge N. 2599 (Carfagna) e 306 (Meloni), Camera dei deputati, in Sistema penale, 29 giugno 2021.

[8] Tale reato era punito, secondo la previgente disciplina, dall’art. 174 del Codice dei beni culturali che prevedeva una la reclusione da uno a quattro anni alternativa alla multa da 258 a 5.165 euro. A seguito della legge n. 22 del 2022 il delitto è ora punito, ai sensi dell’art. 518-undecies c.p., con la reclusione da due a otto anni e la multa fino a 80.000 euro.

[9] Prima dell’introduzione di tale reato, previsto dall’art. 518-terdecies c.p., fatti di saccheggio che vadano a colpire elementi del patrimonio culturale nazionale integravano la fattispecie comune di cui all’art. 419 c.p. che prevede un compasso edittale dagli 8 ai 15 anni di reclusione.

[10] In argomento cfr., per tutti, F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021, pag. 160 ss.

[11] Sul tema cfr. le osservazioni di C.E. Paliero, Il sogno di Clitennestra: mitologie della pena. Pensieri scettici su modernità e archeologia del punire, in La pena, ancora: fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, t. I, (a cura di) C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta, Milano, 2018, pag. 69 ss. Più in generale, cfr. anche E. Dolcini, La pena nell’ordinamento italiano, tra repressione e prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, pag. 3 ss.

[12] Lo evidenzia puntualmente anche, L. Carraro, Tutela dei beni culturali e paesaggistici: la creazione di un (altro) doppio binario cumulativo. Considerazioni a prima lettura sulla Legge 22 gennaio 2024, n. 6, in Arch. pen., 2022, pag. 1.

[13] L’art. 1 della legge 22 gennaio 2024, n. 6 prevede che:

“1. Ferme le sanzioni penali applicabili, chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o, ove previsto, non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 20.000 a euro 60.000.

2. Ferme le sanzioni penali applicabili, chiunque, fuori dei casi di cui al comma 1, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina i beni culturali ad un uso pregiudizievole per la loro conservazione o integrità ovvero ad un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 40.000”.

[14] Difatti, l’art. 1, comma 7, della legge n. 6 del 2024 prevede che “quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del reo o dell’autore della violazione, la sanzione amministrativa pecuniaria indicata ai commi 1 e 2 ovvero una sanzione penale:

a) l’autorità giudiziaria e l'autorità amministrativa tengono conto, al momento dell'irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate;

b) l’esazione della pena pecuniaria ovvero della sanzione pecuniaria amministrativa è limitata alla parte eccedente quella riscossa, rispettivamente, dall'autorità amministrativa ovvero da quella giudiziaria”.

[15] Sul punto cfr. Corte costituzionale 12 maggio 2016, n. 102. Con ancora più fermezza la Corte, nella decisione 16 giugno 2022, n. 149, in materia di diritto d’autore, ha affermato che il principio in questione mira a “tutelare l’imputato non solo contro la prospettiva dell’inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro la prospettiva di subire un secondo processo per il medesimo fatto (...). La ratio primaria della garanzia - (...) diritto fondamentale della persona - è dunque quella di evitare l’ulteriore sofferenza, e i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata” par. 5.1.1 del Considerato in diritto.

[16] Sul punto, sia consentito il rinvio a V. Manes, L’ultimo imperativo della politica criminale: nullum crimine sine confiscatione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 3, pag. 1259 ss.

[17] In questi termini si veda anche l’opinione dissenziente del Giudice Pinto de Albuquerque nella sentenza G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia.

[18] La statua bronzea, risalente al periodo ellenistico ed attribuita allo scultore greco Lisippo, fu ripescata da un peschereccio al largo delle coste marchigiane nel 1964 ed è ora posseduta dal Getty Museum di Malibù in California. L’intricata vicenda si è sviluppata in seguito ad un provvedimento di confisca della statua, il cui detentore - il museo californiano - si presenta come terzo estraneo, non essendo mai stato imputato nel procedimento in questione. In particolare, il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo è stato attivato a seguito dell’ordinanza del 2018 del Tribunale di Pesaro che ha rigettato l’opposizione proposta dal Getty Museum. Sulla questione era intervenuta, confermando in via definitiva la confisca, anche la Corte di cassazione, sezione III, con la sentenza n. 22 del 2019. Per un’analisi più puntuale della vicenda si rinvia a A. Visconti, La Corte EDU si pronuncia sulla confisca obbligatoria di beni culturali illecitamente esportati nella vicenda dell’‘atleta vittorioso’, in Sistema penale, 11 giugno 2024.

[19] Corte Edu, I, 2 maggio 2024, J. Paul Getty Trust e altri c. Italia (ric. n. 35271/19).

[20] Sulla teoria della willful blindness si veda, per tutti, M. Caputo, Dalla teoria dei “segnali di allarme” alla realtà dell’imputazione dolosa nel concorso dell’amministratore non esecutivo ai reati di bancarotta, in Riv. soc., 2015, 5, pag. 905 ss.; nonché le riflessioni di F. Rossi, Un’introduzione al problema dell’“ignoranza deliberata” nella teoria dell’elemento soggettivo del reato, in Legisl. pen., 27 settembre 2022.

 

 

 



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