Il Codice dei beni culturali e del paesaggio vent’anni dopo - Atti del Convegno di Firenze (25 novembre 2024)
Il Codice ha molto più di vent’anni, è ora di farne un bilancio [*]
di Marco Cammelli [**]
Il contributo riflette sul Codice dei beni culturali e del paesaggio a vent’anni dalla sua entrata in vigore, soffermandosi sugli aspetti positivi del codice che vanno recuperati e riconosciuti e su quello che nel codice invece manca ed indugiando poi sul patrimonio culturale fuori dal Codice.
Parole chiave: Codice dei beni culturali e del paesaggio; patrimonio culturale; ambiente e paesaggio.
The Code is more than twenty years old, it’s time to take stock
The article reflects on the cultural heritage and landscape Code twenty years after its entry into force, focusing on the positive aspects of the code that should be recovered and recognised, as well as what is missing from the code, and then dwelling on cultural heritage outside the scope of the Code.
Keywords: Cultural heritage and landscape Code; cultural heritage; environment and landscape.
L’incontro è stato molto positivo per gli argomenti affrontati, per la scansione e la sequenza con le quali la regia di Beppe Morbidelli e Giuseppe Piperata li hanno organizzati, il modo con cui sono stati affrontati e soprattutto la qualità dei relatori. Anche perché per aiutarci a capire meglio le cose ci hanno portato a fare un passo indietro nel tempo e nello spazio per avere una visione di insieme, proprio quello che Francesca Cappelletti ci direbbe di fare per esaminare un quadro. E il quadro è quello del Codice dei beni culturali e del paesaggio che ha vent’anni e una storia che ne conta molti di più.
Prima di riprendere quanto è emerso dall’incontro, non è inutile ricordare che Codice è contemporaneamente un prodotto e un processo, di codificazione appunto, al quale storicamente si pone mano per le finalità più varie: introdurre innovazioni significative ormai ineludibili o consolidare quelle (già) adottate, garantire unità e sistematicità alle norme esistenti, recuperare al titolare della fonte normativa quote di potere decisionale transitate in via interpretativa ad altre sedi, amministrative o giurisdizionali.
Ebbene, come molti interventi hanno sottolineato (Severini, Montedoro, Bartolini) la filosofia del Codice del 2004 (e nelle modifiche successive) è stata di natura prevalentemente difensiva sia in ordine a innovazioni istituzionali e alle aperture possibili (privati) e necessarie (regioni) maturate alla fine degli anni ’90 e accentuate nel 2001 con la riforma del titolo V Cost., sia rispetto alla disciplina sostanziale largamente riferibile ai presupposti e agli strumenti dettati dalle leggi del 1939 (Casini).
Sono così rimaste all’esterno molte delle esigenze maturate nel frattempo, mentre alcune scelte di fondo quali l’invenzione della valorizzazione come elemento distintivo tra competenze statali e regionali (Severini), il riferimento esclusivo alle “cose” con la doppia esclusione dei beni immateriali (culto compreso, Sciullo) e dei diritti dei soggetti (Ramajoli) cui si rivolgono le recenti convenzioni internazionali e la vecchia e nuova versione dell’art. 9 Cost. (Bartolini), la stretta e voluta correlazione tra nuova disciplina e preesistente assetto amministrativo hanno battuto la strada che si è detto.
In particolare, le regioni ed il sistema locale si confermano una specie di convitato di pietra del settore: è vero che in materia si sono viste riconoscere (e in verità hanno giocato) un ruolo limitato, ma è innegabile che la sola loro presenza abbia attivato dinamiche altrimenti non comprensibili.
Nel 1974 il ministero per i Beni Culturali nasce in evidente contrappasso rispetto all’attuazione dell’ordinamento regionale e ai decreti del ’72. Se le regioni muovono i primi passi è bene opporre, malgrado la motivata opposizione degli esperti (Massimo Severo Giannini tra i primi) qualche cosa che esprima e identifichi l’autorità statale centrale al livello più alto, un ministero ad hoc appunto, superando la precedente (e formalmente meno titolata) direzione generale del ministero della pubblica istruzione.
Non diversamente si è operato con il Codice. Come nel 1998 il ministero per i Beni e le Attività culturali (questa al tempo l’intitolazione) si gestì la propria riforma (d.lg. n. 368/1998) in modo separato sfilandosi dalla logica di insieme della legge delega (legge n. 59/1997, capo II) che aveva governato tutti gli altri ministeri (d.lg. n. 300/1999), nello stesso modo il Codice del 2004 prende le distanze dal testo unico del ’98 e ancor più dal titolo V del 2001 per contrastare, giocando d’anticipo, innovazioni e mutamenti potenzialmente significativi.
In breve, scelte e difficoltà risalenti.
Si potrebbe dire, a ragione, nuovo codice e vecchio assetto. Ma se non mancano i motivi per dirlo, non è così che si può concludere.
È vero infatti che questa chiusura di cui si è detto ha eluso una parte significativa delle nuove esigenze che richiedevano un riconoscimento e che invece sono restate ai margini, rendendo oltretutto ancora più problematico e dirompente il successivo innesto nel sistema di ambiti o istituti non contemplati all’inizio, basti ricordare il tema della convenzione di Faro, la problematica apertura al paesaggio operata nel 2006, le serie difficoltà incontrate nelle dinamiche (anche collaborative) lungo l’asse centro-periferia o pubblico-privato.
Tuttavia è giusto riconoscere anche le basi di una ragionevole preoccupazione di vedere come le cose andavano a finire lungo l’asse verticale tanto per l’influenza crescente di sedi sovranazionali, portatrici di impostazioni spesso diverse da quella italiana, quanto della tenuta del sistema a fronte della competenza regionale e di uno spostamento di poteri e funzioni verso la periferia. Il che spiega perché nei primi anni del nuovo secolo l’attenzione, oltre al rapporto pubblico-privato, si sia concentrata sul rapporto pubblico-pubblico verso le sedi sovranazionali e soprattutto quelle decentrate.
Questa sembra, anche sulla scorta degli interventi che abbiamo avuto, la chiave prevalente di lettura del Codice. E questo spiega anche molti altri aspetti.
Ad esempio, non mancano richiami e aperture a fronti nuovi, come al tema della cooperazione, alla valorizzazione, alle modalità di gestione e alle forme miste pubblico-privato ma sono aspetti ancora da definire, più attestazioni del rilievo dei temi che non soluzioni e processi già in atto. Perché questo non è il punto, non si è in grado di farlo.
Ciò spiega il singolare capovolgimento dell’ordine concettuale e giuridico delle relazioni tra disciplina sostanziale e organizzazione amministrativa. In genere le leggi di sistema (come il Codice) disciplinano una materia affidando poi all’amministrazione il compito di assicurarne l’attuazione, ma qui in qualche modo avviene il contrario. La legge assume come premessa l’assetto ministeriale dato che on viene messo in discussione e ne trae le implicazioni dettando la disciplina. Dunque è l’amministrazione che condiziona la disciplina, non il contrario.
Detto questo, non mancano gli aspetti positivi che vanno recuperati e riconosciuti, sia per quello che c’è che per quello che (positivamente) è rimasto all’esterno. Sul primo punto, non si può negare che nel ventennio trascorso la presenza del Codice e la protezione assicurata al patrimonio culturale abbiano svolto un ruolo importante di contrasto (sia pure non sempre sufficiente) a disinvolte soluzioni cercate dalle politiche di settore (specie in ambito economico-territoriale o di sostenibilità ambientale). Grazie ai principi generali, la mancanza o l’insufficienza di strumenti più adeguati di regolazione sono state superate o almeno attutite in via interpretativa, in particolare in sede giurisdizionale (Carpentieri, Severini).
Quanto detto, suggerisce dunque anche maggiore prudenza in ordine al tema delle lacune o di ciò che il Codice ha omesso di disciplinare esplicitamente, il che porta il nostro discorso a passare da quello che c’è a quello che manca. Tra queste due realtà si collocano invece, tutt’altro che virtuosamente, i casi di interventi regolativi esplicitamente previsti richiesti dal Codice fin dal 2004 al ministero e a tutt’oggi mancanti quali gli indirizzi in materia di conservazione dei beni culturali (art. 29.5) o la determinazione dei livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione (art. 114.1) peraltro richiesta, in base alle rispettive competenze, anche a regioni ed enti locali territoriali.
Tornando dunque a quello che nel Codice manca, è bene aggiungere che non è detto che sia opportuno e prima ancora possibile accogliere in un testo normativo con completezza quanto riguarda un determinato ambito, il che tra l’altro nella nostra materia porre problemi aggiuntivi data la varietà dei piani coinvolti e l’accelerazione dei processi in atto. Con il rischio di una instabilità normativa indotta dal succedersi di innovazioni e aggiornamenti o dell’irrigidimento in schemi rapidamente superati e dunque in una stabilità giuridica tutt’altro che virtuosa.
È quanto si verifica su temi come le relazioni sovranazionali o le forme e i limiti della cooperazione tra amministrazioni pubbliche e con i privati e gli elementi di base come il rapporto tra materialità del bene e dimensione immateriale, l’estensione e i limiti della proprietà. Tra l’altro, profili come il regime delle immagini, gli interventi di supporto sul terreno delle risorse finanziarie pubbliche e private (Art bonus) o della tutela penale, la disciplina dei contratti pubblici afferenti a beni o attività culturali sono stati oggetto di singoli interventi legislativi che hanno sperimentato (in più di un caso con successo) regimi innovativi o nuove forme di gestione. Senza omettere l’ampio e reiterato ricorso, in qualche caso eccessivo, a riforme amministrative interne al ministero e ai suoi apparati centrali e periferici.
In breve il patrimonio culturale fuori dal Codice non è rimasto fuori da una pluralità di interventi normativi che pur non privi di aspetti problematici hanno inciso in modo significativo, come illustrato gli interventi di Palazzo, Manes, Cordeiro Guerra nella sessione presieduta da Maria Cecilia Fregni, nei rispettivi ambiti. Il che da un lato conferma la presenza e anche l’utilità di modifiche che per riguardare profili nuovi e in continua evoluzione non avrebbero trovato facilmente una adeguata collocazione organica all’interno del Codice. Nello stesso tempo e proprio per questo sottolineano la necessità di riferimenti generali e comuni, e dunque l’urgenza di porre mano all’aggiornamento di concetti di base (diritti dei soggetti e comunità, tipologie e natura dei beni, confini e rapporti tra proprietà e funzioni, regole della cooperazione) già evocato in apertura dagli interventi introduttivi (Morbidelli, Piperata), a cui ricondurre anche sul piano interpretativo le innovazioni introdotte su elementi specifici.
Nel frattempo, l’esperienza mette in evidenza la crescente delicatezza di elementi utilizzati per (tentare di) risolvere gli inconvenienti più diffusi specie in ambito ambientale e paesaggistico, dove le antinomie tra normative diverse e le difficoltà della amministrazione ordinaria vengono aggirate con veri e propri by pass come il ricorso ad automatismi, le clausole di silenzio assenso, la cedevolezza di procedure o fasi delle medesime, con conseguenze che nella maggior parte dei casi non risolvono il problema alla base mentre aggiungono ulteriori problemi e effetti indesiderati.
Merita dunque un particolare richiamo quanto sottolineato dal presidente Severini sul tema delle energie rinnovabili e la localizzazione dei rispettivi impianti. In questo caso lo strumento cui si ricorre è quello, incautamente utilizzato con le migliori intenzioni anni fa in senso opposto e cioè a protezione del patrimonio culturale, della gerarchizzazione in via legislativa della relazione tra interessi pubblici dichiarandone la supremazia di alcuni su altri.
Il problema è che la individuazione e valutazione di interessi pubblici di diversa natura tra loro intrecciati richiede giudizi circostanziati, concreti, legati alla realtà fattuale e al contesto e implicano chiare responsabilità anche di completezza istruttoria da parte di chi se ne occupa in modo da riconoscerli, valutarli e in concreto stabilire il punto di equilibrio più adeguato.
Se questo non si fa, intanto non si affrontano le cause delle difficoltà che si incontrano e poi si finisce nell’amministrare per legge il che non solo realizza vere e proprie irruzioni nel sistema amministrativo ma toglie discrezionalità, esenta da valutazioni, accentra invece di decentrare e sposta in una dimensione astratta quello che dovrebbe essere concreto, rendendo tecnicamente “irresponsabile” la scelta finale di cui nessuno in senso proprio ha piena paternità.
Aggiungerei anche una considerazione pratica, perché anche la realtà ha il suo peso. Se ci si affida alla preventiva gerarchizzazione degli interessi e si afferma che il proprio prevale su tutti gli altri non sarà del tutto inaspettato che qualche tempo dopo, quando il vento è cambiato o l’angolazione è semplicemente diversa, da qualcuno venga sostenuto che il metodo è giusto ma che un altro deve essere l’interesse destinato a prevalere su tutti gli altri: dopo di che torniamo al punto di partenza, con l’aggiunta dei numerosi inconvenienti appena segnalati.
Queste sono le considerazioni che nascono dal dato che ci è stato sottolineato (Severini) circa il fatto che il governo proprio in questi giorni nella sua qualità di legislatore delegato sembra intenzionato a stabilire in pianta stabile la prevalenza automatica dei profili legati alla localizzazione degli impianti per le energie rinnovabili. Scelta alla quale sembrano mancare anche solide premesse di fatto, considerando che secondo dati recenti gli obbiettivi fissati per il quadriennio 2021-2024 sono stati raggiunti dall’Italia con due mesi di anticipo (Sole-24 Ore, 24 novembre 2024): una ragione in più, insieme alle considerazioni già svolte in dottrina (Carpentieri, Sciullo), per evitare una soluzione così poco convincente. Non è proprio di sedi come la nostra intervenire sul terreno strettamente politico ma visto che stiamo parlando di politica culturale diciamo che si tratta di scelte su cui è lecito nutrire più di un dubbio.
Un accenno al profilo dell’organizzazione. In astratto ha ragione chi dice che il Codice non poteva occuparsi di organizzazione, ma il discorso è più articolato perché non solo il Codice come ogni complesso normativo non può ignorare la concreta operatività dei propri precetti, ma soprattutto per il già segnalato condizionamento opposto, l’avere cioè considerato l’assetto ministeriale esistente (non diversamente dal corpus normativo del 1939) riferimento necessario e parametro di compatibilità del proprio intervento. Ne consegue che le innovazioni introdotte, se realmente tali, avrebbero richiesto almeno indicazioni in grado di prefigurarne l’effettività sul piano amministrativo.
Non a caso negli ultimi anni proprio questo terreno è stato particolarmente battuto. L’organizzazione, le relazioni tra apparati e ministro e quelle fra le direzioni nonché l’assetto a livello periferico (musei, direzioni regionali e segretariati, soprintendenze) sono state ripetutamente investite perché se è vero che il ministero non è cambiato nelle relazioni con il sistema delle autonomie territoriali è vero invece che molto è cambiato al suo interno, specie negli anni 2014-2019 anche se alcuni terreni (tra cui per l’appunto l’aggiornamento del Codice) sono rimasti a lato.
E qui vengo all’ultimo punto che è quello delle risorse. In ogni discorso riguardante la pubblica amministrazione (tutta, quindi anche gli altri ministeri e le altre amministrazioni pubbliche decentrate), il primo punto che viene sollevato (tra le cause delle difficoltà del passato e tra gli ostacoli per i rimedi futuri) è sempre questo: le risorse sono diminuite, non ci sono, mancano.
Naturalmente possono esserci specifiche situazioni critiche, ma di per sé è un discorso che non dice molto perché spesso improprio e in questi anni del tutto infondato in ragione del forte aumento delle quote di bilancio statale assegnate al ministero negli anni ’14-’19 e per la inedita dimensione delle risorse assicurate al settore dal Pnrr a partire dal ’20-’21.
L’improprietà è invece frutto della diffusa approssimazione delle valutazioni operate: quote di organici scoperte senza valutare quanto di tutto questo sia riferibile a sbilanciate e asimmetriche assegnazioni del personale disponibile o a mobilità non controllate, o senza accertare quanta parte della operatività materiale (e non solo, basti pensare alle applicazioni della AI) è ormai svolta dalle tecnologie digitali. Oppure, quali e quante altre risorse esterne poco o male utilizzate sarebbero invece disponibili valutando con attenzione la possibile complementarietà con altre politiche pubbliche di settore (e conseguenti economie di scala) o relazionandosi in modo corretto con Università, centri di ricerca, soggetti del privato sociale (associazioni, terzo settore, volontariato), imprese e fondazioni.
Se le cose stanno così, una buona pista da seguire sarebbe quello di accertare il perché di questi ritardi invece di insistere sulla via (solo) normativa della soluzione di problemi non pienamente conosciuti, sulla scia delle grida manzoniane come l’aggravamento delle sanzioni penali di cui Vittorio Manes ci ha parlato. Insomma, capire le ragioni e trovare il modo per venirne a capo. Si dirà che queste sono le virtù quotidiane più semplici ma certo non scontate e, come questa giornata conferma, danno il senso del molto che può cambiare ad ogni livello.
Da questo le ragioni di un prudente ottimismo perché le cose si possono fare, ci sono le ragioni per farle, c’è la richiesta di farle e abbiamo strumenti concettuali e operativi per farlo. Certo, non posso negare che due recenti provvedimenti legislativi, quello sul Made in Italy (n. 206/2023) e quello sulle rievocazioni storiche e i beni immateriali (n. 152/2024) per l’impianto istituzionale e gli strumenti utilizzati sollevano qualche ulteriore preoccupazione oltre a quelle di cui si è dato conto, ma come si dice... c’è ampio spazio per migliorare.
Nel concludere questa giornata di lavori, sia consentito un affettuoso ricordo e un riconoscente pensiero a Carla Barbati che per tanti anni è stata elemento centrale per tutte le iniziative di studio e di impegno diretto sul patrimonio culturale promosse dal gruppo riunito intorno ad Aedon, a cominciare dalla Rivista (dal 1998) e dal Commentario al Codice (2004) fino al Manuale di Diritto del patrimonio culturale. Sarebbe stata qui con noi in questa giornata, e così l’abbiamo sentita.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Marco Cammelli, emerito di Diritto amministrativo dell’Università di Bologna, Via Zamboni 33, 40126 Bologna, marco.cammelli@gmail.com.