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Individuazione dei beni culturali

Sulle pertinenze culturali. Un problema di circolazione degli istituti giuridici

di Paolo Varricchio [*]

Sommario: 1. Premessa. - 2. La disciplina del vincolo pertinenziale. - 3. L’autonomia della nozione pubblicistica dell’istituto: profili problematici. - 4. Un’osservazione conclusiva.

Il contributo approfondisce il tema delle pertinenze culturali, che rappresenta un istituto privo di una precisa regolamentazione giuridica e collocato al crocevia tra diritto privato e pubblico, e lo fa partendo da un recente caso riguardante le collezioni artistiche ospitate a palazzo Thiene (Vicenza). Infatti, sebbene le pertinenze siano regolate esclusivamente dal Codice civile, la loro applicazione nell’ambito del diritto dei beni culturali è ampiamente diffusa e, di conseguenza, problematica.

Parole chiave: patrimonio culturale; proprietà privata; pertinenze.

On cultural appurtenances. An issue regarding the circulation of legal institutions
The contribution investigates cultural appurtenances, an institution lacking precise legal regulation and positioned at the intersection of private and public law, starting from a recent case concerning the artistic collections housed in palazzo Thiene (Vicenza). Indeed, although appurtenances are regulated solely by the Civil Code, their application within cultural heritage law is highly specialized and, consequently, problematic.

Keywords: cultural heritage; private property; appurtenances.

1. Premessa

La recente attenzione del Consiglio di Stato alle collezioni di palazzo Thiene [1] è un’occasione preziosa per osservare da vicino le pertinenze culturali, figure tanto tradizionali quanto prive di una puntuale disciplina di diritto positivo, e il loro evolversi al mutare del diritto del patrimonio culturale.

La vicenda comincia nel 2016, quando il ministero della Cultura dichiarò l’eccezionale interesse culturale, ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. e) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, di otto collezioni artistiche [2], corrispondenti ad altrettante sezioni museali, ospitate dalla Banca popolare di Vicenza all’interno del palazzo palladiano, vincolato dal 1927, e impose sulle stesse un vincolo pertinenziale con l’immobile. Le ragioni a fondamento del provvedimento, indicate nella relazione storico-critica, ruotano intorno ad un’operazione culturale denominata “Capolavori che ritornano” [3], con cui la Banca popolare, negli anni Novanta del secolo scorso, formò dette raccolte nell’ottica di recuperare e ricomporre “un patrimonio disperso di arte veneta da destinare alla fruizione pubblica” [4].

L’intuizione fu felice, poiché la Soprintendenza arrivò a definire le collezioni un “unicum inscindibile con il complesso denominato Palazzo Thiene”. Il provvedimento, infatti, intese preservare questo “processo di comune simbiosi”, destinando le opere all’immobile. La Banca propose ricorso avverso il vincolo ministeriale, rigettato dal Tar [5] con sentenza poi confermata da palazzo Spada. I giudici amministrativi, richiamando a più riprese la relazione della Soprintendenza [6], hanno applicato gli ormai consolidati orientamenti in tema di sindacato della discrezionalità - sia tecnica, nell’accertamento dell’interesse culturale [7], sia amministrativa, nella modulazione degli effetti del vincolo [8] -. Né in primo grado né in appello, tuttavia, è stato posto l’accento sul regime delle pertinenze culturali, fulcro dell’interesse della ricorrente.

2. La disciplina del vincolo pertinenziale

L’ordinamento definisce il vincolo pertinenziale soltanto nel diritto privato patrimoniale (art. 817, comma 1, c.c. [9]). La ratio sottesa alla disciplina dell’istituto è, essenzialmente, di “riduzione dei costi transattivi” [10], tant’è che la pertinenza segue la sorte della cosa principale nei rapporti giuridici che riguardano quest’ultima (818 c.c.) [11].

Nel diritto pubblico, all’abbandono delle esigenze di semplificazione dei traffici sottese al Codice civile [12] non corrisponde un diverso e univoco regime giuridico delle pertinenze. Sul punto, l’approccio dottrinale risulta giocoforza empirico: la nozione di pertinenza è utilizzata, in alcuni casi, quale “criterio di individuazione di ulteriori beni pubblici contraddistinti da demanialità” [13], in altri quale vincolo conformativo degli usi del bene accessorio in senso positivo o negativo. Alle due categorie potrebbe aggiungersene una terza, riguardante le pertinenze urbanistiche e legata a doppio filo con l’impatto edilizio del bene [14].

Le pertinenze culturali rientrano nella seconda categoria [15]. Pur non menzionate espressamente dal d.lg. n. 42/2004, c’è chi ne individua una species ora nell’art. 50 (distacco di beni culturali) [16] ora nell’art. 51 (studi d’artista) [17]. Le due qualificazioni non vanno esenti da spunti critici. Rispetto all’art. 50, può notarsi che la norma, riferendosi in rubrica ad affreschi, stemmi, etc. in termini di “beni culturali”, implicitamente ne disconosce la posizione subordinata rispetto all’immobile. Si assiste, a ben guardare, ad un fenomeno di irrilevanza iure publico del vincolo pertinenziale iure privatorum: il divieto di distacco delle “pertinenze ornamentali” [18] mira a tutelare anche (se non soprattutto) queste ultime, non solo l’immobile su cui insistono [19]. Con riguardo agli studi d’artista, sembra più prudente riferirsi al concetto di cosa composta, nella quale le singole res sono tra loro in posizione paritaria e “autonoma di essenzialità” [20]. L’ambiente e il suo contenuto (opere, documenti, cimeli e simili), infatti, si integrano reciprocamente nella costruzione dello studio quale bene culturale complesso e indiviso [21].

Ancora, la giurisprudenza ha talvolta richiamato l’art. 45 (prescrizioni di tutela indiretta) [22], disciplinante una “categoria aperta” [23] utile per aggirare i problemi di tipicità del vincolo pertinenziale (v. infra). La qualifica, come notato in dottrina [24], sconta il limite del dato letterale della disposizione, la quale menziona soltanto l’integrità, la prospettiva, la luce, le condizioni di ambiente o il decoro dell’immobile [25]. Merito di questa tesi è, ciononostante, di illuminare il punto di partenza per elaborare una teorica della figura in esame: il vincolo pertinenziale, per essere tale, deve sempre esplicare “effetti giuridici in relazione a beni diversi da quelli oggetto di tutela” (corsivo aggiunto) [26]. È nella deviazione degli effetti che emerge, quale nucleo irrinunciabile del fenomeno pertinenziale, il vincolo reale di subordinazione funzionale [27]. Se quest’ultimo manca, sembra improprio riferirsi alla pertinenza, a prescindere dal ramo di riferimento dell’ordinamento.

Ciò chiarito, l’interprete dovrà individuare la disciplina applicabile all’istituto. Il ricorso analogico allo statuto civilistico è impedito, a monte, dalla diversità di ratio: la semplificazione e sicurezza dei traffici da un lato, la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dall’altro. La posizione è condivisa dalla giurisprudenza recente del Consiglio di Stato: “il concetto di pertinenza ha finalità e sostanza giuridica diverse da quelle proprie della pertinenza civilistica, dovendo la prima essere valutata, non in ragione del regime dominicale dei beni interessati, ma alla luce delle finalità di tutela e del legame che sussistono tra i beni sotto il profilo dell'interesse culturale” [28].

Dall’impossibilità di applicare gli art. 817 ss. c.c. derivano alcune prime, facili considerazioni. Le pertinenze culturali non sono ipso iure comprese negli atti e rapporti che hanno ad oggetto la cosa principale. Il relativo vincolo, come accade nella normalità dei casi e nella vicenda di Palazzo Thiene, può essere impresso anche da un soggetto diverso dal proprietario, atteso che il requisito della unicità dominicale si spiega soltanto dall’angolo visuale della circolazione della cosa principale [29].

Più incerta è, invece, l’intensità del collegamento tra il vincolo iure privatorum e quello iure publico. La giurisprudenza, nel tentativo di temperare l’ingerenza pubblica nell’autonomia privata, ha statuito, a più riprese, che il nesso di subordinazione funzionale deve preesistere al provvedimento impositivo del vincolo: “[...] qualora il collegamento del bene mobile quale pertinenza non vi sia mai stato o sia cessato prima dell'assoggettamento a vincolo è illegittimo pretendere di costituirlo in occasione del vincolo” [30]. Tale indirizzo, risalente [31] e più vicino alle ragioni dei privati proprietari, è stato abbandonato da quella giurisprudenza che afferma la sostanziale autonomia delle due nozioni: “[...] il rapporto di connessione fra beni non va ricondotto, ai fini della verifica della legittimità della costituzione del vincolo, al concetto privatistico di pertinenza che si enuclea dall'art. 817 c.c., ma trae giustificazione nella finalità pubblicistica di tutela dei beni in questione, che può ben estendersi a ritenere non scindibile la relazione fra beni, ove essi [...] concorrano unitariamente ad esprimere il valore culturale di cui è espressione il vincolo, indipendentemente da ogni aspetto proprietario” [32].

La costituzione del vincolo pubblicistico, poi, non è subordinata all’accertamento della effettiva volontà, espressa o tacita, di destinazione della res al servizio o all'ornamento del bene principale [33], bastando il solo requisito oggettivo della contiguità tra i due cespiti [34]. La spiegazione cade, di nuovo, sul fondamento della ‘variante’ pubblicistica dell’istituto in esame, dal momento che la tutela del patrimonio culturale non potrebbe essere subordinata alle scelte negoziali dell’autonomia privata [35].

La decisione del Consiglio di Stato in merito alle collezioni artistiche di Palazzo Thiene sembra condividere questa impostazione: le prime si fondono col secondo in un “unicum inscindibile”, testimonianza della “civiltà veneta”, per il solo essere state collocate nel Palazzo e fatte oggetto di plurime esposizioni dall’istituto di credito proprietario, senza alcuna indagine sulla effettiva volontà di quest’ultimo [36]. Il rapporto fattuale e funzionale [37] tra i cespiti si concretizza in un “processo di comune simbiosi”, in cui “il Palazzo riversa la sua unicità e universalità (la sua bellezza) sulle opere ivi allocate, che dal primo traggono indiscusso valore, moltiplicando in maniera esponenziale i loro talenti, e il loro porsi quali elementi di singolare riferimento dell’arte e cultura veneta degli ultimi cinque secoli” [38].

Tale relazione, in cui il bene all’apparenza principale “serve” i beni all’apparenza secondari [39], si pone in evidente rottura con la tradizionale nozione civilistica di pertinenza.

3. L’autonomia della nozione pubblicistica dell’istituto: profili problematici

Il nomen iuris mutuato dall’art. 817 c.c. indicherebbe, allora, una figura del tutto autonoma dall’originale.

Nel vincolo pertinenziale in esame possono confluire due ipotesi assai diverse: a) la prima, coerente col nucleo civilistico, in cui il bene, in sé irrilevante ai fini del d.lg. n. 42/2004, è adibito “a servizio o ad ornamento” di un bene culturale pe ragioni di tutela di quest’ultimo; b) la seconda, con maggiori profili di specialità, in cui il bene secondario, di per sé bene culturale, è vincolato ad un altro bene culturale per ragioni di reciproca tutela, come nel caso del palazzo palladiano. Posto che in entrambi i casi il vincolo è pubblico, reale e di destinazione (v. infra) [40], solo sub a) produce effetti puramente indiretti. L’eterogeneità delle fattispecie non deve stupire né disorientare [41] l’interprete, trattandosi di una semplice conferma delle incertezze che aleggiano sull’istituto in esame [42].

Il dato comune alle possibili manifestazioni del nesso pertinenziale in ambito culturale è l’effetto conformativo del diritto dominicale: nel caso vicentino, le collezioni artistiche non possono ‘uscire’ dall’immobile che le ospita. Tale profilo, come anticipato, è particolarmente critico, non trovando alcun preciso fondamento legale. Sul punto, non a caso, il giudice amministrativo ha esaminato, di recente e in distinti processi, due istanze di rimessione - rispettivamente all’Adunanza Plenaria e alla Corte costituzionale [43] - circa l’ammissibilità/legittimità [44] del vincolo pertinenziale. Entrambe sono state rigettate.

La prima ha riguardato un’ipotesi di vincolo gravante su alcuni beni culturali già di per sé [45]. In quell’occasione i giudici di Palazzo Spada hanno statuito che l’inamovibilità è espressione - rectius: specificazione - del divieto di adibire il bene “ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione” (art. 20, d.lg. n. 42/2004). Inoltre, il collegio ha escluso che la questione fosse sovrapponibile a quella, poi risolta di lì a pochi mesi dalla Plenaria, dell’ormai celebre caso “Il Vero Alfredo” [46]: con il vincolo pertinenziale, a differenza di quanto accade per effetto di quello di destinazione d’uso, “non viene imposto lo svolgimento di alcuna attività nella porzione di immobile vincolato” [47]. La statuizione non convince. Se è pur vero che, di solito, l’imposizione di un facere è più invasiva di quella di un non facere, la differenza sfuma se si guarda al vincolo pertinenziale come fonte di un’obbligazione (reale) di destinare il bene ad usi non solo “dinamici” - come l’attività di ristorazione nella nota vicenda romana - ma anche “statici” - come il conservare l’archivio Alfa Romeo nella relativa casa-museo o, mutatis mutandis, le collezioni artistiche venete all’interno di palazzo Thiene. In altri termini, al pari del caso “Il Vero Alfredo”, la pubblica amministrazione impone (anche) un facere, seppur meno manifesto, consistente nel continuare ad esporre dei beni culturali in una specifica sede. Del resto, l’Adunanza Plenaria n. 5/2023 ha concluso per l’ammissibilità del vincolo di destinazione d’uso richiamando le medesime norme individuate dalla Sezione semplice per il vincolo pertinenziale [48].

L’istanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità del vincolo è stata presentata nel giudizio di appello sulle collezioni vicentine [49]. Il Consiglio di Stato ha giudicato manifestamente infondata la questione, richiamando l’art. 9 Cost. quale limite alla libertà di iniziativa economica privata e degradando la situazione giuridica soggettiva vantata dal ricorrente a “interesse meramente individuale che, come tale non può che ritenersi recessivo rispetto a quello, di carattere pubblicistico, volto alla tutela e promozione della cultura e del sapere”. Ancora, si legge: “[...] scopo evidente della previsione di cui all’art. 10, comma 3, CBC è quello di tutelare beni che rivestano particolare interesse ai fini storico-artistici, sì da porsi quale patrimonio spirituale da tramandare integro alle future generazioni. Per tali ragioni, l’avere il legislatore previsto un vincolo su beni di tal fatta è pienamente rispondente al descritto obiettivo, e realizza appieno la previsione di cui all’art. 9 Cost, svolgendo il citato art. 10, comma 3, CBC una chiara funzione di promozione della cultura e del sapere”. Il giudice, concentrando l’attenzione sulla legittimità dell’art. 10 cit., dà per scontato che alla dichiarazione di interesse culturale possa seguire l’effetto conformativo della proprietà nei termini già indicati. Un simile iter argomentativo, tuttavia, elude il punctum dolens dell’istanza di rimessione, ovvero la perimetrazione dell’effetto conformativo. Ci si domanda se, a fronte di una motivazione sul punto scarna, non sarebbe stato più opportuno, forse, richiamare il primo dei princìpi sanciti dall’Adunanza Plenaria n. 5/2023, che riconosce la possibilità di imporre un vincolo di destinazione d’uso funzionale alla conservazione del carattere artistico del bene [50].

Quand’anche si accogliesse quest’ultima notazione, gli orientamenti richiamati, più pretori che dottrinali, comunque non colmerebbero il deficit di legalità di quei vincoli pertinenziali insistenti su un bene dichiarato di interesse culturale al solo fine di tutelarne un altro. A differenza, ad esempio, delle collezioni di palazzo Thiene, i beni così gravati non sarebbero in sé una “testimonianza avente carattere di civiltà” [51], ma strumenti di tutela indiretta del bene principale estranei all’ambito applicativo dell’art. 45 d.lg. n. 42/2004. Trattasi, invero, pur sempre di ipotesi residuali [52], destinate a scomparire con l’affermarsi di una nozione di bene culturale [53] sempre più multiforme e onnivora [54].

4. Un’osservazione conclusiva

Dall’analisi del regime delle pertinenze artistiche si scopre un luogo in cui, al di là di un approccio squisitamente nominalistico, è meno avvertito il “peso crescente del diritto comune” [55] che grava sull’ordinamento del patrimonio culturale [56]. L’irrilevanza del collegamento economico tra cosa principale e cosa secondaria è sufficiente ad allontanare quest’ultima dallo statuto di cui agli artt. 817 ss. c.c., consegnandola alla nozione di bene culturale, ostile alle rigide - e, talvolta, obsolete - tassonomie del diritto civile.

Ciò non toglie, come noto, che l’autonomia privata spesso riesca ad anticipare l’azione amministrativa nella tutela e valorizzazione dei beni culturali, se non a supplire alla sua inerzia [57]. È quanto accaduto, da ultimo, proprio nella vicenda da cui si è partiti: secondo la Soprintendenza, la Banca popolare di Vicenza ha raccolto e ricomposto “un patrimonio disperso di arte veneta da destinare alla fruizione pubblica” [58]. L’operazione ricorda un’intuizione di Feliciano Benvenuti, il quale, da presidente dell’allora Banca Cattolica del Veneto, avviò nel 1989 un programma per “aiutare le strutture pubbliche a restaurare quell’infinità di opere che giacciono nei magazzini, o che sono esposte nei musei, nelle chiese o palazzi pubblici ma hanno bisogno di essere riportate all’antico splendore [...]” [59]. Simili iniziative, al tempo, non erano sempre viste di buon occhio. Riportando le parole del Maestro, “il privato che compra sembra che sottragga - si dice così - alla fruizione del pubblico l’opera d’arte e diventa, quindi, un nemico della patria” [60].

V’è da chiedersi se la sentenza sulle collezioni del palazzo palladiano, nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, alimenti la descritta visione dirigistica nella gestione del patrimonio culturale, specie nel ritenere irrilevanti gli appostamenti a bilancio [61]. In caso di risposta positiva, un simile indirizzo non potrebbe che allontanare le istituzioni private dall’essere presenti nell’ambiente della cultura e dell’arte. Dinanzi al vuoto di disciplina delle pertinenze culturali, il delicato ruolo dell’interprete consisterà, allora, non nel consegnarle tout court allo statuto pubblicistico, ma nel dosare quest’ultimo alla riscoperta di nozioni - e valori - privatistici solo all’apparenza [62].

 

Note

[*] Paolo Varricchio, dottorando di ricerca in Studi giuridici comparati ed europei presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, via Verdi 53, 38122, Trento, paolo.varricchio@unitn.it.

[1] Cons. Stato, sez. VII, 17 dicembre 2024, n. 10140, est. Palmieri, segnalata su https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/105486-712.

[2] Per la precisione: 115 dipinti, 23 sculture, di cui 17 di Arturo Martini, 151 piatti popolari dell’Ottocento, 132 ceramiche Antonibon, 317 incisioni Remondini, 296 oselle veneziane, 199 monete veneziane.

[3] Su cui v., da ultimo, Capolavori che ritornano. I dipinti della collezione del Gruppo Banca Popolare di Vicenza, (a cura di) F. Rigon e I. Lapi Ballerini, Milano, 2008.

[4] Nota n. 26772 dell’11 dicembre 2015 con cui la Soprintendenza di Verona, Rovigo e Vicenza ha inoltrato alla Banca la comunicazione di avvio del procedimento e dalla relazione storico artistica allegata al provvedimento impositivo del vincolo, citata da Tar Veneto, sez. II, 3 dicembre 2020, n. 1162.

[5] Tar Veneto, n. 1162/2020.

[6] In realtà, il Consiglio di Stato, in motivazione, pur affermando di “muovere dalla relazione allegata all’atto impugnato” spesso omette di citarla, statuendo, ad esempio: “Tali imponenti collezioni di opere d’arte, tutte espressione della civiltà veneta, si sono indissolubilmente ‘saldate’ al suo contenitore, ovvero Palazzo Thiene, monumento che rende plasticamente evidente, anche al profano, l’intimo e profondo significato della parola ‘bellezza’; termine quantomai abusato, ma che nel Palazzo palladiano recupera il suo primigenio valore, la sua adamantina purezza” (corsivo aggiunto). Si confida nella inusuale circostanza che questo e simili passaggi siano soltanto citazioni indirette della relazione e non slanci di un giudice ‘bouche de la beauté’”.

[7] La dichiarazione è giudicata non eccedente i limiti dell’opinabilità scientifica, all’esito di un sindacato intrinseco, effettivo e, tendenzialmente, non sostitutivo. Sul tema si registra un’oscillazione da parte di quella giurisprudenza che distingue tra “fatti storici”, e “fatti mediati”, inscrivendo il bene culturale in quest’ultima categoria (v., da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285). La dicotomia, pur manifestando la tendenza ad un approfondimento storicamente intensificato del comune sindacato di legittimità, sembra riprodurre quella tra accertamenti tecnici e attività tecnico-discrezionale.

[8] La scelta del ministero “costituisce espressione di esercizio ragionevole della discrezionalità amministrativa, della quale non vi è traccia dei denunciati profili di erroneità/illogicità/irrazionalità, vizi che soli consentono il sindacato giurisdizionale sulle scelte discrezionali amministrative”.

[9] “Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”.

[10] U. Mattei, La proprietà, in Trattato di diritto civile, (diretto da) R. Sacco, II ed., 2015, pag. 160, il quale offre il suggestivo esempio degli “ornamenti stagionali, anche molto complessi, che attirano la clientela a Natale, o a Carnevale, in un centro commerciale”.

[11] F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, pag. 66. La regola è dispositiva.

[12] “La nozione [...] ha solo la funzione di semplificare il lessico giuridico nel momento della stipulazione dei negozi traslativi” (A. Gambaro, La proprietà, in Trattato di diritto privato, (a cura di) G. Iudica e P. Zatti, 1990, pag. 27).

[13] C. Sganga, Dei beni in generale, in Il Codice civile Commentario, Artt. 810-821, (diretto da) F.D. Busnelli, Milano, 2015, pag. 273 ss., riprendendo una distinzione già presente in A. Gambaro, I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale, (già diretto da) A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni Milano, 2012, pag. 249 ss.

[14] “La qualifica di pertinenza urbanistica non è applicabile ad opere che funzionalmente si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera principale e non siano coessenziali alla stessa. Essa è configurabile solo allorquando sussista un oggettivo asservimento funzionale del manufatto rispetto all'opera principale, unitamente alla dimensione ridotta del medesimo; ai fini della qualificazione di un manufatto come pertinenza urbanistica rileva, pertanto, non solo l’aspetto “quantitativo”, ossia la modesta dimensione dello stesso, ma anche quello qualitativo e funzionale inerente allo stretto rapporto di accessorietà rispetto all'opera principale” (Cons. Stato, sez. II, 2 ottobre 2024, n. 7937).

[15] Per un isolato sguardo dottrinale sul tema, v. C. Balocchini, Il vincolo pertinenziale quale strumento di tutela per le collezioni e gli studi d’artista? Brevi osservazioni sull’evoluzione dell’istituto e sulle conseguenze civili e fiscali, in questa Rivista, 2/2009. Alcune considerazioni sulla pertinenza artistica sono altresì svolte da A. Gualdani, La prelazione artistica e il caso dell'archivio Vasari di Arezzo, in Aedon, 2010, 3.

[16] C. Sganga, Dei beni in generale, cit., pag. 274, nota 151.

[17] C. Balocchini, Il vincolo pertinenziale, cit., par. 4.

[18] Così G. Guzzardo, Art. 50, in Commentario al codice dei beni culturali e del passaggio, (a cura di) A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005, pag. 158.

[19] In tal senso, distingue tra beni culturali “a pieno titolo” e non E. Codini, Art. 50, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Commento al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche, (a cura di) M. Cammelli, C. Barbati, (con il coordinamento di) G. Sciullo, Bologna, 2007, pag. 241.

[20] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XXI ed., Napoli, 2024, pag. 206.

[21] Alla natura “composta” del bene sembra riferirsi Cons. Stato, sez. VI, n. 4198/2011: “modificare la destinazione d’uso [...] nonché rimuoverne il contenuto [...], qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico” (corsivo aggiunto).

[22] Il riferimento è a Tar Toscana, sez. II, n. 299/1994 (e all’art. 21 legge 1 giugno 1939, n. 1089) citata in A. Gualdani, La prelazione artistica, cit. Il giudice amministrativo fu chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del vincolo pertinenziale gravante sul carteggio del Vasari a favore della Casa-museo dedicata all’artista, reputando “corretto affermare che il vincolo in questione vada annoverato nella categoria dei vincoli indiretti (art. 21 legge 1089/1939), poiché mira a tutelare il bene storico, assicurandogli una sede ambientale decorosa e valorizzatrice che va oltre i confini della sua difesa meramente fisica”.

[23] G. Sciullo, Tutela, in Diritto del patrimonio culturale, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata e G. Sciullo, Bologna, 2020, pag. 162.

[24] A. Gualdani, La prelazione artistica, cit., par. 6.

[25] Rinvia alla nozione di “cornice del monumento” A. Crosetti, Art. 45, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, III ed., Milano, 2019, 487.

[26] G. Sciullo, Tutela, cit., pag. 162. Corsivo aggiunto.

[27] Cass. civ., n. 1991/1991 citata in F. Gazzoni, Manuale, cit., pag. 206.

[28] Così, di recente, Cons. Stato, sez. VI, 9 febbraio 2023, n. 1433, a proposito del vincolo pertinenziale insistente sull’Archivio storico Alfa Romeo a favore di una porzione della relativa Casa Museo.

[29] Cons. Stato, ult. sent. cit. Per le pertinenze civili, v. Cass civ., sez. II, n. 30039/2022.

[30] Cons. Stato, sez. VI, n. 2326/2002, caso riguardante il vincolo sul compendio unitario costituito dalla villa Pio Falcò di Imbersago (Lecco) e dai relativi arredi, rivestendo esso un “interesse storico ed artistico particolarmente importante”, imposto dopo che l’immobile era stato venduto con esclusione del suo contenuto mobiliare.

[31] V. Cons. Stato, sez. VI, nn. 61/1943, 61/1964. Secondo quest’ultima: “Qualora un vincolo del genere mai vi fosse stato [...], pretendere di costruirlo dopo che il rapporto di pertinenza è venuto meno è illegittimo; ma quando il vincolo esisteva [...], è stato ritenuto irrilevante, agli effetti del perdurare del vincolo stesso, la circostanza che la cosa fosse stata rimossa ed usata dal proprietario come mobile, anche se per un lungo periodo di tempo”.

[32] Cons. Stato, sez. VI, n. 1433/2023.

[33] Un siffatto accertamento non sarebbe richiesto, giocoforza, neanche se i proprietari della pertinenza e della cosa principale fossero soggetti distinti.

[34] Sul requisito oggettivo nel diritto civile si rinvia ai riferimenti indicati in L. Pellegrini, Art. 817, in Commentario breve al Codice civile, (a cura di) M. Cian, XVI ed., Padova, 2024, pag. 792.

[35] Così, rispetto al vincolo pertinenziale pubblicistico, “l’atto di disposizione del privato è del tutto irrilevante per negarlo o infrangerlo” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2326/2002).

[36] Al punto che il collegio considera “irrilevante disquisire dell’oggetto sociale dell’attività dell’acquirente (attività bancaria), e men che meno del criterio di appostazione dei relativi beni in bilancio (valore di acquisto e/o di possibile realizzo)” (Cons. Stato, sez. VII, n. 10140/2024).

L’irrilevanza del requisito soggettivo accomuna le pertinenze in esame a quelle urbanistiche (su cui v. S. Ingegnatti, L’autonomia concettuale della nozione di pertinenza urbanistica rispetto alla concezione di pertinenza civilistica, nota a Cons. Stato, sez. VI, n. 3318/2021, in Urb. app., 2021, 5, pag. 611).

[37] Tar Palermo, sez. I, n. 585/1995.

[38] Cons. Stato, sez. VII, n. 10140/2024.

[39] “Detto in altri termini, è del tutto chiaro che un’opera (o una collezione di opere), per quanto di eccezionale impatto sul visitatore, necessita di un luogo che ne esalti la sua unicità, il suo pregio, la sua testimonianza storico-artistica, dimodoché senza tale indispensabile apporto essa perderebbe una significativa parte della sua cristallina limpidezza” (Cons. Stato, sez. VII, n. 10140/2024, par. 10 in diritto).

[40] Con riguardo alla trascrizione del vincolo pertinenziale, non si rilevano ragioni per seguire un regime diverso da quello ordinario. Pertanto, sul tema si rinvia a: G. Baralis, La funzione del notaio nella circolazione dei beni culturali (atti del convegno tenutosi a Ferrara il 21 e 22 aprile 2013), in Quaderni della fondazione italiana per il notariato, 2013, 1; J. Bercelli, Notifica e trascrizione del provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale tra esigenze di tutela dei beni culturali e principio di certezza dei rapporti sociali, in Aedon, 2006, 3.

[41] Specie se si considera che nel più “sicuro” diritto privato patrimoniale la casistica appare comunque “variegata, complessa e contraddittoria” (U. Mattei, La proprietà, cit., pag. 161).

[42] Al punto che, secondo autorevole dottrina, “[...] non è neppure sicuro che quella di pertinenza sia una nozione unitaria e non piuttosto una parola anfibologica che è utilizzata in vari contesti discorsivi per indicare significati diversi” (A. Gambaro, I beni, cit., pag. 223).

[43] Cons. Stato, sez. VII, n. 10140/2024.

[44] Dubbi di legittimità costituzionale sono altresì accennati in A. Gambaro, I beni, cit., pag. 251.

[45] È il caso dell’Archivio storico Alfa Romeo (Cons. Stato, sez. VI, n. 1433/2023, nota 28).

[46] Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2023. Per una raccolta di commenti alla pronuncia, v. specialmente in Aedon, 2023, 1.

[47] Cons. Stato, sez. VI, n. 1433/2023, par. 13.2 in diritto.

[48] “Il potere di imporre limiti all’uso del bene culturale discende dal combinato disposto degli articoli 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, del Codice approvato con il decreto legislativo n. 42/04 [...]” (Cons. Stato, ad. plen. cit., par. 3.1 in diritto).

[49] Const. Stato, sez. VII, n. 10140/2024, par. 21 ss. in diritto.

[50] “Ai sensi degli articoli 7-bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato”.

[51] G. Sciullo, Patrimonio e beni, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 40.

[52] Cons. Stato, sez. VI, n. 2326/2002. Una timida ritrosia giurisprudenziale a riconoscere la legittimità di simili vincoli è, ad esempio, in Tar Campania, Napoli, 21 aprile 1999, in Urb. app., 2000, pag. 187, con nota di A. Tarasco.

[53] Si rinvia all’efficace editoriale di G. Piperata, La tutela dei beni culturali: consolidamenti ed estensioni, in questa Rivista, 1/2023.

[54] Al punto da giungere ad arbitrarie declinazioni, se non ribaltamenti, del principio di legalità a fondamento della funzione di tutela del patrimonio culturale. Nel giudizio di primo grado, il T.A.R. ha rigettato l’azione di annullamento del vincolo gravante sulle collezioni artistiche di Palazzo Thiene anche perché “nessuna norma del Codice vieta l’apposizione di un vincolo d’insieme sui beni culturali di diversa natura”: ubi lex voluit, tacuit.

[55] M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione, in Diritto del patrimonio culturale, cit., pag. 26.

[56] Per una recente riflessione che dà conto di questo progressivo avvicinamento, v. G. Sciullo, Della nobile arte del distinguere (anche a proposito di “nullità” in tema di beni culturali), in Aedon, 2024, 1, pag. 36 ss.

[57] Per alcuni cenni introduttivi, M. Cammelli, Il diritto del patrimonio culturale: una introduzione, cit., pag. 28 ss.

[58] V. nota 4. L’operazione complessiva potrebbe ricordare la dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico. L’istituto “postula che il proprietario, con un comportamento anche non intenzionalmente diretto a dare vita al predetto diritto, metta volontariamente il proprio bene a disposizione della collettività, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, assoggettandolo al relativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune dei membri della collettività considerati uti cives e ciò indipendentemente non solo dai motivi per cui tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima, ma anche dal decorso di un congruo periodo di tempo o dall'esistenza di un atto negoziale o un provvedimento ablativo” (Cass. civ., sez. I, n. 25638/2024).

[59] F. Benvenuti, “Restituzioni”, in Venezia - Arte, Storia, Diritto, (a cura di) F. Cortese e L. Garofalo, Pisa, 2024, pag. 192. Per l’iniziativa in questione, v. anche https://restituzioni.com/il-progetto/.

[60] F. Benvenuti, ult. op. cit., pag. 190.

[61] Si rinvia alla nota 36.

[62] “Ebbene, non vorrei fare una predica e neppure una confessione pubblica, ma un invito a mettersi nei panni di chi ha visto l’opera prima e dopo il restauro da lui reso possibile: è un senso di paternità che sorge, perché quando la si guarda si può dire: “Quest’opera è il risultato della mia iniziativa, della mia fatica”. Se è facile immaginare il sorgere di tale sentimento in un individuo, posso assicurare che può sorgere anche in un’istituzione privata come una banca. Le “Restituzioni” ci hanno dato più soddisfazioni di quante, pur grandi, ce ne hanno date i bilanci” (F. Benvenuti, ult. op. cit., pag. 193).

 

 

 



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