Archivi e biblioteche
Ricordi di archivio e di biblioteca [*]
di Sabino Cassese [**]
Sommario: 1. Una donazione. - 2. Perché archivi e biblioteche. - 3. Tratti comuni e differenze. - 4. Gli archivi. - 5. Le biblioteche.
Il contributo rappresenta le considerazioni svolte durante la lezione tenuta alla Biblioteca nazionale centrale, a Roma, al Ciclo di incontri “Tullio De Mauro”, il giorno 12 dicembre 2024.
Parole chiave: ricordi; patrimonio culturale; patrimonio; archivio; biblioteca; donazione.
Archival and library memories
The contribution represents the remarks made during the lecture given at the National Central Library, Rome, at the “Tullio De Mauro” Cycle of Meetings, on Decembre 12th, 2024.
Keywords: memories; cultural heritage; heritage; archive; library; donation.
Due anni fa ho donato, con decorrenza dal momento in cui non potrò più valermene, la mia collezione di libri, circa 25 mila volumi, alla Biblioteca Nazionale Centrale. Il direttore Campagnolo ha gentilmente accolto la donazione. Insieme ci siamo chiesti come rendere pubblico questo atto ed abbiamo concluso che l’occasione giusta fosse questa, anche per unirla al ricordo di uno studioso al quale sono stato in molti modi legato, Tullio de Mauro.
Tullio si è interessato molto di biblioteche, come studioso e come amministratore pubblico, alla Regione Lazio e nel governo. Nei suoi scritti sono frequenti i riferimenti al libro e alla lettura: “leggere, potere leggere, avere il gusto di leggere - ha scritto - è un privilegio”. Un privilegio della intelligenza, della fantasia, della vita pratica, perfino economica; “chi ha il gusto di leggere non è mai solo”. Da assessore alla cultura della Regione Lazio, da presidente dell’Istituzione biblioteche del Comune di Roma e, infine, quando, nel 2000-2001, ha avuto la responsabilità del ministero della Pubblica Istruzione, ha fattivamente operato per il rafforzamento e la valorizzazione dei servizi bibliotecari di base.
2. Perché archivi e biblioteche
Il titolo di questa lezione, ricordi d’archivio e di biblioteca, ripete, con modificazioni, quello di uno scritto di Luigi Einaudi che citerò più avanti.
Figlio di un archivista, ho vissuto per 17 anni in un archivio, in un’epoca in cui i direttori usufruivano di un alloggio di servizio a condizioni di favore. Posso anzi rivelare che in molte delle 75 stanze che ospitavano l’archivio, deserte nel pomeriggio, ho giocato con miei compagni di scuola. Da piccolo, in casa, ho sentito tante volte fare il nome di Giorgio Cencetti, cultore di archivistica e di biblioteconomia, direttore della scuola speciale di archivistica e biblioteconomia romana, che ho poi conosciuto.
Poi, ho lavorato in tante biblioteche, in varie parti del mondo. Infine, dopo quasi settant’anni di studi, ho finito per raccogliere una ricca collezione di libri, sempre selezionandoli e donando quelli che mi interessavano di meno o a miei collaboratori ed allievi, oppure all’Università della Tuscia, alla quale sono stato molto legato per diverse iniziative culturali. Debbo aggiungere che sono stato, quale giovane laureato, per breve tempo, iscritto alla Scuola di archivistica e biblioteconomia dell’Università di Roma.
Infine, mi sono interessato scientificamente di beni culturali, categoria alla quale appartengono sia archivi sia biblioteche, scrivendo, in particolare, nel 1975, poco dopo la realizzazione dell’idea spadoliniana del ministero dei Beni Culturali (istituito inizialmente come una sorta di scatola vuota) della disciplina dei beni culturali in un articolo intitolato “I beni culturali da Bottai a Spadolini”, pubblicato prima nella “Rassegna degli archivi di Stato”, nel 1975, e poi nella “Antologia di scritti archivistici” del ministero dei Beni Culturali e Ambientali, curata da Romualdo Giuffrida nel 1985.
Posso, quindi, dire di aver titolo, per esperienza diretta e per aver studiato la materia, per parlare di archivi e biblioteche, evocando ricordi ed esponendo riflessioni.
Come ho detto, archivi e biblioteche sono ambedue beni culturali e sono ambedue funzionali alla storiografia e alla conoscenza. Gli archivi servono (tra l’altro) a scrivere la storia e la storia scritta si trova nelle biblioteche: l’archivio è il materiale di costruzione; la biblioteca è la costruzione.
Sia gli archivi, sia le biblioteche si distinguono in private e pubbliche ed ambedue sono funzionali a comprendere passato e futuro, come osservato - nel volume “Le biblioteche raccontate a mia figlia. Una visita guidata tra passato futuro”, Milano Editrice bibliografica, s.d. ma 2010 - da Fernando Venturini, che è stato bibliotecario e poi consigliere parlamentare addetto alla biblioteca della Camera dei deputati, e ne ha scritto la storia (“Libri, lettori e bibliotecari a Montecitorio. Storia della biblioteca della Camera dei deputati”, Padova, Cedam, 2019).
Un altro tratto comune tra archivio e biblioteca è costituito dal fatto che sono ambedue istituzioni culturali, con loro organizzazione, personale, risorse, come i musei. Sono tra i più antichi beni culturali, ed attraversano ora un periodo difficile, perché sono diventate la Cenerentola della cultura: “dominio dei beni rispetto agli istituti” (sono parole usate per gli archivi da Lorenzo Casini in “Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale”, Bologna, il Mulino, 2016, p. 196), poche risorse, scarsa valorizzazione del personale che vi lavora, troppa attenzione per l’effimero, attenzione rivolta ad altri mezzi, non cartacei, quale il digitale.
Nonostante questo, sono entità vive, non solo raccolte di documenti e di libri. Rientrano sia tra i beni culturali materiali, sia tra i beni culturali immateriali o intangibili, che sono stati oggetto di una convenzione UNESCO del 2003 che riguarda gli usi, il folklore, le tradizioni, le lingue, le pratiche, e che ha aperto la strada ad una nuova concezione dei beni culturali, includendovi anche quelli che non hanno una realtà materiale. In questo ambito è sorto nel 2014 il problema delle riproduzioni di opere d’arte, quando è circolata una foto del David di Michelangelo con una mitragliatrice. Non a caso, la parola con la quale vengono ora indicati i beni culturali in sede internazionale è “cultural heritage”, dove “heritage” indica sia eredità, sia patrimonio.
Dunque, sia archivi, sia biblioteche comprendono anche l’uso che se ne fa e richiedono sia conservatori, sia promotori.
Tra questi due tipi di beni culturali vi sono anche differenze. Gli archivi possono scartare, ma non scegliere. Le biblioteche scelgono i libri più utili per i lettori: un libro di economia avrebbe poca utilità in una biblioteca di storia dell’arte.
Prevale però un tratto comune: archivi e biblioteche sono accomunati dal metodo storico, dalla ricostituzione dell’ordine originario di carte e libri, gli uni e gli altri reciprocamente legati nel singolo fondo archivistico o bibliotecario, come notava giustamente Stefano Campagnolo in una lezione tenuta all’ateneo Veneto il 16 gennaio del 2020, intitolata “Grandi biblioteche e grandi archivi: distanze e vicinanze” e in cui concludeva che la storia unisce sia archivi sia biblioteche, anzi che spesso non esiste neppure una netta separazione tra gli uni e le altre.
Comincio con gli archivi. Tocqueville, dopo essere andato a studiare la rivoluzione francese a Tours, perché gli archivi parigini erano stati bruciati o dispersi, osservò che, quando si entra in un archivio si apre agli occhi dello studioso la storia di un Paese. Tocqueville si trasferì a Tours e vi lavorò per quasi un anno, tra il 1853 e il 1854. Pubblicò nel 1856 la sua importante opera sull’antico regime e la rivoluzione. A causa della sua fama e del ruolo che aveva svolto come parlamentare i curatori dell’archivio gli portavano le carte a casa.
Dopo circa mezzo secolo, nel 1901-1908, una cosa paragonabile capitò al giovane Luigi Einaudi, come ha raccontato lui stesso nel 1958, tre anni prima della scomparsa, in una conferenza tenuta, su invito di mio padre, al Centro culturale dell’Archivio di Stato di Salerno, intitolata “Ricordi d’archivio di uno studioso”. Vi ricorda che lavorava sulla storia finanziaria degli Stati sabaudi, a Palazzo Madama. Il conte Sforza, padre del più noto politico e ministro degli esteri, ordinò al custode di aprire ogni mattina la sede dove era ospitato l’archivio del controllo generale per consentire a Einaudi di lavorare fino a sera quando, verso le 20, la moglie lo raggiungeva, si faceva aprire a sua volta la porta d’accesso, per ritornare insieme con il marito a casa. Sono cose che non accadono più.
Il patrimonio archivistico italiano è enorme: la Commissione Franceschini, nel 1960, stimò che gli archivi italiani fossero da soli il doppio di quelli dell’Europa; secondo la Direzione generale per gli archivi, nel 2014 le carte degli archivi italiani erano conservate in 1500 km di scaffali, la distanza tra Roma e Parigi (questi dati si trovano commentati nel volume di Lorenzo Casini che ho citato, “Ereditare il futuro”).
L’archivistica, cioè lo studio degli archivi, è una disciplina ausiliaria della storia, ma la storia è a sua volta disciplina ausiliaria dell’archivistica, come hanno ben dimostrato sia gli studi teorici di archivistica di mio padre, sia le ricerche di Linda Giuva, Stefano Vitali e Isabella Zanni Rosiello, raccolte nel volume “Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nella società contemporanea”, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
La circostanza che gli archivi siano necessari alla storia, che servano per ricostruire vicende, ambienti, personaggi, contesti, di cui le carte sono solo una parte, non vuol dire che la storiografia resti immutata, perché le carte vanno interpretate e reinterpretate come fece capire, rimproverandolo, il conte Riccardo Filangieri di Candida, allora sovrintendente all’archivio di Napoli (nella prima fase della storia degli archivi, furono molti i nobili, cultori di storia locale ed eruditi, che sopperivano ai loro scarsi patrimoni familiari con un posto di archivista), quando un dipendente non ripose le carte consultate da Benedetto Croce con la motivazione, in napoletano, che “le aveva studiate il senatore” (come era chiamato Croce). Dava così per scontato che il loro uso da parte di Croce fosse definitivo, che non vi fosse bisogno di riporle nell’ordine in cui erano prima dell’esame fattone da parte del filosofo napoletano, per l’utilizzazione da parte di altri studiosi, e che altri non potessero leggerle per trovarvi risposte ad altre domande.
Ho frequentato molti archivi in Italia e fuori d’Italia. Innanzitutto, l’Archivio centrale dello Stato, dove ho lavorato sulle carte dell’archivio riservato del Duce per le ricerche sulla legge bancaria del 1936 e sugli enti del parastato. Poi nell’archivio Bottai, apertomi grazie alla vedova del ministro di Mussolini, nella bella casa di via Mangili, oggetto di speculazioni e denunce anonime al Duce, quando lavoravo alla prima biografia di Giuseppe Bottai, pubblicata nel Dizionario biografico degli italiani, dell’Istituto Treccani. Più tardi, nell’archivio dell’“All Souls College” di Oxford, sulle carte del “Vinerian Professor” Albert Venn Dicey e sulle lezioni da lui tenute e rimaste inedite (sono state infine pubblicate solo qualche anno fa).
Oltre agli archivi, ho conosciuto gli archivisti, con molti dei quali ho stretto rapporti di amicizia: Claudio Pavone, Costanzo Casucci, Elio Lodolini, Mario Serio, Isabella Zanni Rosiello. Ricordo in particolare quanto mi fu utile la guida di Costanzo Casucci, autore di “Il fascismo. Antologia di scritti critici”, edita da il Mulino nel 1961, nelle ricerche archivistiche sul fascismo. Mi impedì soltanto di consultare una cartella chiusa, relativa a Luigi Einaudi, in cui mi spiegò scherzosamente vi erano “storie di corna”.
Isabella Zanni Rosiello, nel suo libro del 1986, ha studiato la figura dell’archivista, considerandone i vari aspetti, quello di burocrate insoddisfatto, quello di conservatore di memoria-fonte e quella di archivista mediatore di sapere.
Tre sono stati gli autori recenti più importanti sull’archivistica: Elio Lodolini, Isabella Zanni Rosiello e Mario Serio. Penso ai tre volumi di Lodolini sulla “Storia dell’archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX”, Milano, Angeli 2022, VII edizione; “Archivistica. Principi e problemi”, Milano, Angeli, 2019 XIII edizione; “Organizzazione e legislazione archivistica italiana. Storia, normativa, prassi”, Bologna, Pàtron, 1998, V edizione, nonché alle “voci” “Archivi e archivistica” “Archivi di Stato” del Novissimo digesto Italiano. Penso ai tre volumi di Isabella Zanni Rosiello, “Archivi e memoria storica”, Bologna, il Mulino, 1986; “Andare in archivio”, Bologna, il Mulino, 1996; “L’archivista sul confine”, Ufficio centrale per i beni archivistici 2000. E penso infine all’importante contributo curato da Mario Serio su “L’Archivio centrale dello Stato 1953-1993”, pubblicato dall’Ufficio centrale per i beni archivistici nel 1993 per festeggiare quarant’anni di vita dell’Archivio centrale.
Si aprono ora agli archivi e all’archivistica problemi nuovi, posti dall’uso dello strumento digitale, che richiede modi nuovi per registrare, preservare, conservare, ordinare quelle tracce del passato che chiamiamo archivi. Quella che viene chiamata l’età digitale consente anche ricerche che una volta erano difficili, se non impossibili, come è dimostrato da un’opera pubblicata di recente, che ha smentito due miti correnti da più di un secolo e mezzo, quello che l’Inghilterra non avesse un diritto amministrativo fino alla seconda metà del XX secolo e quello, ad esso legato, che gli Stati potessero essere retti da una sorta di diritto comune a privati e poteri pubblici.
Mi riferisco al ponderoso volume (700 fittissime pagine) di uno dei maggiori studiosi di diritto pubblico del Regno Unito, Paul Craig, intitolato “English Administrative Law from 1550: Continuity and Change”, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2024. L’autore dimostra che il diritto amministrativo è di 350 anni più vecchio di quanto non si pensasse, specialmente ad opera di uno di maestri oxoniensi dell’800, Albert Venn Dicey. Uno studio di questo tipo non sarebbe stato possibile senza l’ausilio della digitalizzazione dei regolamenti e degli atti amministrativi generali, delle sentenze, nonché delle norme primarie, fino agli atti amministrativi individuali, che ha permesso di fare ricerche per parole chiave e di scoprire, ad esempio, che, in materie come il governo delle acque e delle reti idriche, il principio di proporzionalità, la cui nascita si pensava fosse dovuta alla cultura giuridica tedesca dell’800, era già noto ed applicato nell’Inghilterra del XVI secolo sotto la forma lessicale “proportionability”.
Passo ora alle biblioteche, considerate da Borges ciò che si avvicina maggiormente al Paradiso. Borges ha notoriamente scritto che la biblioteca di suo padre è stato il fatto capitale della sua vita e ha continuato scrivendo che “la verità è che io non ne sono mai uscito”. Ho fatto mia quella frase di Borges nella mia autobiografia intellettuale.
Bisogna però distinguere le biblioteche pubbliche da quelle private. Sia le une sia le altre sono entità viventi, vivono nella storia. Quella che oggi è la biblioteca Angelica, ospitata nei bei locali disegnati dal Vanvitelli, fondata inizialmente dagli agostiniani, fu arricchita alla fine del ‘500 dai libri di Angelo Rocca (da cui prese il nome), nel ‘600 dalla raccolta del tedesco Lucas Holste e nel ‘700 dalla ricca collezione del cardinale Segretario dei Brevi Domenico Passionei. Questo spiega che le biblioteche sono non solo raccolte di libri, ma sono anche la registrazione di scelte fatte in epoche diverse e sono quindi sia beni culturali tangibili, sia beni culturali immateriali.
Sarebbe lungo fare l’elenco delle biblioteche che ho frequentato, ma ne voglio ricordare almeno alcune. Innanzitutto, la biblioteca universitaria di Freiburg im Breisgau, che ho frequentato, quale “wissenschaftlicher Assistent” di Joseph Kaiser, nella sua precedente sede, ora ricca di 3 milioni e mezzo di volumi. Poi, a Oxford, la rete delle Bodleian Libraries, che conservano oggi 13 milioni di volumi (quando io cominciai a studiarvi era ancora necessario, per essere ammessi, recitare, dinanzi a un testimone, un solenne giuramento).
Successivamente la Green Library dell’Università di Stanford, ricca di 11 milioni di volumi e la Sterling Memorial Library dell’Università di Yale (costruita nel 1930 nella forma di una cattedrale gotica), che conserva 2 milioni e mezzo di volumi. Poi la biblioteca del Max-Planck Institut per il diritto pubblico comparato e il diritto internazionale, di Heidelberg, che con i suoi 720 mila volumi è forse oggi la raccolta specializzata più ricca nelle due materie. Infine, la Library of Congress, di Washington, quasi certamente la più ricca biblioteca del mondo con i suoi 173 milioni di volumi (grazie al mio posto di Fellow del Wilson Center potevo aver accesso ai meandri sotterranei della biblioteca, tanto vasti che si racconta che lì vi sia stato assassinato un frequentatore, il cui corpo è stato scoperto solo dopo molto tempo).
Per dare un’idea del posto che viene assegnato a quest’ultima biblioteca, ricordo che il suo direttore è nominato dal Presidente degli Stati Uniti e confermato dal Senato. Fino al 2015, la nomina era a vita. Dal 1802 al 2015 vi sono stati quindi solo tredici direttori. Insomma, quel posto veniva considerato di rango non inferiore a quello di un giudice della Corte suprema.
Nessuno studioso può fare a meno di una biblioteca pubblica, anche se il Web fornisce moltissimo materiale. Ma vi sono eccezioni. Ne ricordo una. Uno dei curatori del centro di Palo Alto nel quale, per qualche tempo, ha lavorato Albert Einstein mi ha raccontato che ricevendolo, agli inizi degli anni ‘50, gli aveva chiesto di quali libri avesse bisogno avendo per risposta: mi dia solo una matita e un bloc-notes.
Le biblioteche private sono, più di quelle pubbliche, un profilo dell’autore, non soltanto una raccolta di libri. La biblioteca privata è, in sostanza, la storia di una persona. Come ha osservato Enzo Raimondi, i libri hanno un doppio valore: servono ad analizzare un problema, e quindi sono strumentali a un’operazione conoscitiva, ma sono anche un momento della storia personale del proprietario. Parlando, nel 1929, al funerale dello storico dell’arte tedesco Aby Warburg, il filosofo Ernst Cassirer disse, riferendosi alla sua famosa collezione di libri, “dalla sequenza dei libri emergeva con chiarezza crescente una serie di immagini, di temi e di idee originali e, dietro la loro complessità, pian piano si disegnava ai miei occhi la figura chiara e dominante dell’uomo che aveva costruito quella biblioteca, la sua personalità di studioso destinato ad esercitare una profonda influenza” (questo brano si trova in Jacques, Bonnet, “I fantasmi delle biblioteche”, tr. it., Palermo, Sellerio, 2009, pag. 50).
Bisogna avere le doti di osservatore, critico e storico di un Guido Melis per analizzare quella che lui ha chiamato la “nobile malattia di possedere libri” in un bellissimo articolo in cui ha passato in rassegna le linee che uniscono la ricca biblioteca di suo padre, l’avvocato Giuseppe Melis, in “Storie di libri che parlano: indizi, segnali tracce”, in Simonetta Buttò, Vittorio Ponzani, Simona Turbanti, “L’arte della ricerca. Fonti, libri, biblioteche. Studi offerti ad Alberto Petrucciani per i suoi 65 anni”, Roma, Associazione italiana biblioteche, 2021, p. 265.
La scelta e l’ordine dei libri di una biblioteca privata riflettono lo studioso. Anche qui, come in archivistica, il metodo storico consiglia di ordinare riflettendo la formazione della raccolta, evitando quindi quelle "razionalizzazioni” che Einaudi lamentava per gli archivi degli inizi del secolo scorso.
Questo - come osservato da Bernard Pivot nella prefazione al volume “La bibliothèque ideale” (Paris, Albin Michel, 1988, p. XV), un’opera pubblicata in connessione con una splendida mostra sullo stesso tema dal Centre Pompidou parigino - spiega perché la biblioteca ideale di Sartre non somiglierebbe a quella di Julien Green, né quella di Arthur Miller a quella di Günter Grass.
Così posso dire anche della mia biblioteca, perché, se passo in rassegna le diverse parti della mia collezione di libri vi rivedo i periodi e gli episodi della mia vita.
Ai libri scelti si aggiungono poi i libri donati per i quali Ezio Raimondi ricordava la frase di Martin Buber "ogni vita è incontro”.
Anche l’ordine dei libri è importante. Domenico Passionei li teneva in disordine. Solo lui sapeva dove fossero, grazie alla sua prodigiosa memoria. Ma forse era consapevole di quello che più tardi scriverà Anatole France, che il furto di libri è l’unico furto moralmente permesso.
Sull’ordine dei libri sono state scritte biblioteche. Ezio Raimondi nel bel volume su “Le voci dei libri”, Bologna, il Mulino, 2012 a p. 42 ha scritto: “non ho mai voluto ordinare la biblioteca: mi sono affidato sempre a misure relative con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e di ritrovarli”. Georges Perec ha scritto un libretto intitolato “Brevi note sull’arte e il modo di riordinare i propri libri”, pubblicato nel 2003 e tradotto in italiano nel 2010 per i tipi delle edizioni Henry Beyle.
Oltre a ordinarli, i libri bisogna leggerli. L’incontro tra scrittore e lettore è altrettanto importante quanto l’ascolto della musica. Gli esempi di esercizi di lettura non mancano: da ultimo, quello di un cultore di scienza della bibliografia intesa come grammatica dell’investigazione letteraria, dedicato a una appassionata analisi dell’opera - cattedrale di Proust. Mi riferisco al libro di Pasquale Petrucci, “Il piacere della lettura. All’ombra di Marcel Proust e di John Ruskin”, Bologna, il Mulino, 2024, nel quale ho trovato una bella citazione tratta da un’altra opera, quella di Vladimir Nabokov, “Marcel Proust. Lezioni di letteratura”, Milano, Adelphi, 2018, p. 40: “un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore” (del libro di Petrucci vanno lette in particolare le profonde pagine con cui si conclude, in cui l’autore parla del lettore esplicito sul quale “si modella la costruzione del sé dell’io narrante”, p. 322, dove confluiscono emozione e coscienza, sentire e conoscere).
Gli esperti in dorsologia possono fare a meno della lettura. A proposito della quale dorsologia, è bene ricordare un noto dialogo che si svolge ne “L’uomo senza qualità” di Robert Musil (Torino, Einaudi 1957): "Signor Generale, - dice, - lei vuol sapere come faccio a conoscere questi libri uno per uno? Ebbene, glielo posso dire: perché non li ho mai letti! Ti dico io, per poco non m’ha preso un colpo! Ma lui, vedendo il mio sbigottimento, s’è spiegato meglio. Il segreto di tutti i bravi bibliotecari è di non leggere mai, dei libri a loro affidati, se non il titolo e l’indice. - Chi si impiccia del resto è perduto come bibliotecario! - m’istruisce. - Non potrà mai vedere tutto l’insieme! Gli chiedo senza fiato: - Dunque lei non legge mai nessuno di questi libri? Mai, tranne i cataloghi. Ma lei non è laureato? Certo. Sono anche docente universitario. Libero docente di scienza bibliotecaria. È una scienza in sé e per sé, egli dichiara. Quanti crede che siano, signor generale, i sistemi secondo i quali si dispongono i libri, si ordinano i titoli, si correggono gli errori di stampa e i dati sbagliati sui frontespizi, eccetera eccetera?".
Nel leggerli, i libri bisogna rispettarli e questo è efficacemente spiegato da Franco Sacchetti, nel suo “Trecentonovelle”, della fine del ’300, racconto CXIV, il quale narra di Dante, che “passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la ’ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se non che s’accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l’arte; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e cosí gittò molti ferramenti. Il fabbro, voltosi con uno atto bestiale, dice: - Che diavol fate voi? sete voi impazzato? Dice Dante: - O tu che fai? - Fo l’arte mia, - dice il fabbro, - e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via. Dice Dante: - Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie. Disse il fabbro: - O che vi guast’io? Disse Dante: - Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti”. Questo racconto mi è stato segnalato da Maria Luisa Catoni, una valente archeologa e storica dell’arte, che è professore ordinario all’IMT di Lucca.
Per saper leggere i libri, bisogna anche possedere l’arte di saltare. Il grande economista John Maynard Keynes tenne nel 1936 una conferenza radiofonica, intitolata “On reading books” che è stata ripubblicata, con traduzione italiana a fronte, dalla fondazione Ugo La Malfa nel 2017, nella quale raccomandava di impadronirsi di quest’arte.
Sono molti i libri che non vanno soltanto letti, ma riletti (i ripetuti incontri sono importanti), sottolineati (possibilmente a matita), annotati, in modo da farli propri, imitando quello che, come ricorda Guido Melis nel saggio che ho citato, facevano Carlo Marx e Benito Mussolini, cioè riempire i libri di segni. Qualcosa che persino Palmiro Togliatti raccomandava nel 1949 in uno scritto pubblicato su “Rinascita”. In questo modo chi prende poi il libro vi legge non solo l’autore, ma anche il lettore, per i suoi commenti, i suoi segni, le sue critiche e persino per le sue dediche (senza dimenticare che i francesi distinguono tra la dedica a stampa, su tutti gli esemplari, ad una persona - “dédier”, e la dedica manoscritta ad una singola persona - “dédicacer”).
Dalla qualità dei lettori dipende anche la qualità dei libri come è implicito nella famosa frase “Pro captu lectoris, habent sua fata libelli”, e cioè la fortuna di un libro dipende dalla capacità dei suoi lettori, frase che si deve a Terenziano Mauro, “De letteris, de syllabis, de metris”. Un libro è anche il suo lettore e viene riscritto ogni volta che lo si legge, come ha notato una volta Leonardo Sciascia. Come la musica è diversa ogni volta che la si esegue, nonostante che lo spartito sia sempre quello, ma con la diversità che per la musica c’è un mediatore, l’interprete. L’aveva già scritto Voltaire nella prefazione al “Dizionario filosofico”: “i libri più utili sono quelli fatti per metà dai lettori” (Voltaire, “Dizionario filosofico” a cura di Domenico Felice e Riccardo Campi, Milano, Bompiani, 2013, p 5).
L’ultimo merito del lettore attento è quello che si acquisisce recensendo il libro letto. Io mi sono dedicato a questo genere a partire dal 1969, scrivendo su “Paese sera libri”; poi, con recensioni a carattere più scientifico, sulla “Rivista trimestrale di diritto pubblico”; infine, dal 1988, e più sistematicamente dal 2014, con un impegno quindicinale, sul “Domenicale” de “Il Sole 24 Ore”. Credo di aver recensito non meno di quattrocento libri, molti dei quali stranieri. Recensire un libro non è facile: bisogna informare il lettore del contenuto del libro, ma anche suscitare interesse per il libro, in modo da conquistargli nuovi lettori; bisogna cogliere lo spirito del libro; occorre valutarlo nel contesto e metterlo a raffronto con gli altri scritti sul tema; occorre giudicarlo; occorre, infine, orientare il lettore.
Tutto questo senza esaurire l’interesse del lettore, accontentandolo fino al punto che non legga più il libro, accontentandosi della recensione. Secondo alcuni, l’arte suprema consiste, poi, nel parlare di un libro senza averlo letto, come ha sostenuto ironicamente lo studioso di letteratura francese e psicanalista Pierre Bayard nel libro “Come parlare di un libro senza averlo mai letto”, trad. it., Milano, Excelsior 1881, 2012: vi scrive dei libri che non si conoscono, di quelli che si sono solo sfogliati, di quelli di cui si è sentito parlare e di quelli che si sono dimenticati.
Anche per le biblioteche vi sono problemi di dimensioni. La biblioteca di Montaigne aveva poco più di 5 mila volumi. Quella di Domenico Passionei, ospitata nelle stanze dell’edificio del Fuga in cui vi è oggi la Corte costituzionale, in una delle quali ho lavorato per nove anni, 6 mila volumi. La biblioteca di Umberto Eco più di 30 mila, oltre a 1500 libri rari.
Infine, per i libri, come per le carte conservate negli archivi, è importante definire i nostri rapporti con la storia. Non esiste una storia avvenuta una volta per tutte, com’è implicito nella famosa espressione di Leopold von Ranke “wie es eigentlich gewesen ist”. Infatti ogni generazione di storici riscrive la storia della rivoluzione francese perché poniamo ad essa sempre nuove domande.
Quindi, come per il diritto e per la musica, anche per la storia è importante l’interpretazione. La storiografia italiana, per esempio, ha tracciato una cesura tra l’età della destra e della sinistra e l’età giolittiana, mentre studi più attenti hanno posto in luce che le innovazioni dell’età giolittiana sono state preparate durante il quarantennio precedente. Allo stesso modo, il fascismo viene presentato con una parentesi, ma in realtà ha riscoperto istituzioni dello Stato liberaldemocratico precedente, come il confino di polizia. La Resistenza e la Costituzione sono stati presentati a loro volta come una cesura, che ci impedisce di capire che il fascismo in realtà è durato fino agli anni ‘60. Ci si può chiedere quanto della riforma Gentile e della Carta della scuola di Bottai siano presenti nella riforma della scuola media fatta nel 1962.
Insomma, la storia si realizza sia come un flusso, sia “per saltum”. E c’è anche una storia dimenticata come la storia della Costituzione italiana, di cui tutti parlano dimenticando tutte le norme inattuate.
Infine, la storia non si capisce se si studia solo una storia. Come ha scritto Tocqueville non capirà mai nulla della Rivoluzione francese chi studi solo la Rivoluzione francese.
Da ultimo, la storia non si capisce solo facendo gli storici. A partire dal 1920, Bloch, Febvre, Braudel spiegarono che sociologia, antropologia, demografia vanno portati nella storiografia; è così che nacquero gli studi sulla civiltà materiale e sulla lunga durata.
Vorrei terminare ricordando che vi è un gran numero di libri sui libri e menzionarne qualcuno. Quello scritto nel 1907 da Francesco Lumachi intitolato “Nella repubblica del libro”, ripubblicato dall’editore di Bologna Pendagron nel 2019. Quello sull’architettura delle collezioni di Maria Gregorio “Imago libri. Musei del libro in Europa”, pubblicato da Sylvestre Bonnard, Milano, 2006, con un’analisi dell’architettura e degli allestimenti di tante biblioteche del mondo, dalla biblioteca Nazionale di Parigi al Deutsches Literatur Archiv di Marbach. Quello sulle cure assicurate dai libri di Ella Berthoud e Susan Elderkin, “Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno”, Palermo, Sellerio 2013 che elenca rimedi per ogni malanno, dal blocco dello scrittore alla gamba rotta. Quello sui vari modi per tenere i libri in casa di Leslie Geddes - Brown, “Abitare con i libri”, Milano, Mondadori, s.d. ma 2010. Quello sui modi per scegliere e collezionare libri di Hans Tuzzi (uno pseudonimo) “Collezionare libri antichi, rari, di pregio”, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000.
Tutti questi libri sono molto istruttivi, anche per preservarsi in vita. Ad esempio, insegnano come tenere i libri in casa evitando di metterli a tutta altezza, per cercare di evitare di fare la fine dello storico Delio Cantimori, che morì accidentalmente cadendo da una scala della sua biblioteca personale, mentre cercava un libro posto in alto.
Di questo ed altro ho scritto in “Varcare le frontiere. Una autobiografia intellettuale” (Milano, Mondadori, 2024), che, come tutte le autobiografie, costituisce una “variante perniciosa del genere romanzesco”, come osservato, nel libro che ho citato prima, da Jacques Bonnet (p. 94). Lì ho dedicato alcune pagine alla mia biblioteca, a come scegliere i libri da leggere, preferendo i classici; a come leggere, impadronendosi del testo (ad esempio, trascrivendone larghi brani); ai diversi modi di ordinare i libri. E potrei continuare a lungo, sulla scorta dei tanti libri sui libri che sono andato raccogliendo negli anni, e che si sono arricchiti da qualche anno grazie al contributo di uno dei maestri della materia dei beni culturali, Lorenzo Casini (autore da ultimo di un libro sui beni culturali nel mondo globalizzato, intitolato “Cultural Heritage Law”, ed edito da Elgar, Cheltenham nel 2024), che non manca, ogni anno, di rifornire la mia collezione con nuovi libri sui libri.
Chi vuole continuare può leggere quella antologia enciclopedica dei “biblio-patologhi”, ovvero bibliofili incurabili, che è il volume di Antonio Castronuovo, ”Dizionario del bibliomane’’ (Palermo, Sellerio, 2021), che va da “L’acquisto di libri’” di Giuseppe Pontiggia al ‘‘Decalogo del bouquineur’’ di Roberto Palazzi, a ‘‘La bibliofobia juvenil’’ di Cosme Guerriaràn, che narra del proprio figlio, il quale, se scorgeva un libro, era colto da un attacco che aveva imparato a controllare con l’antidoto: lo smartphone’’, al sinologo Peter Klein, protagonista di ‘‘Auto da fé’’ di Elias Canetti, malato di bibliolatria che finirà per darsi fuoco con tutta la sua immensa biblioteca, a William Blades che a fine Ottocento pensava che “amare i libri implica amare anche le creature che li abitano”, quindi i vermi che si nutrono di libri.
Infine, non ho potuto leggere, ma voglio egualmente menzionare il volume curato da Leah Price, “Unpacking My Library: Writers and Their Books”, pubblicato dalla Yale University Press nel 2011, che raccoglie le testimonianze di tredici romanzieri (Alison Bechdel, Stephen Carter, Junot Díaz, Rebecca Goldstein e Steven Pinker, Lev Grossman e Sophie Gee, Jonathan Lethem, Claire Messud e James Wood, Philip Pullman, Gary Shteyngart, Edmund White) sul modo in cui leggono, scrivono, raccolgono e ordinano libri, su quello che i libri possono dire sul loro proprietario e i lettori possono dire sulle loro collezioni di libri, oltre che con liste dei libri preferiti.
Note
[*] Attualità - Valutato dalla Direzione.
[**] Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, Piazza dei Cavalieri 7, 56126 Pisa, sabino@sabinocassese.eu.