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Tutela e sicurezza del patrimonio culturale

La natura dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al mancato rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma e l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria

di Federico Margheri Biagi [*]

Sommario: 1. Evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali. - 2. Sanzioni amministrative e misure a carattere ripristinatorio. - 3. Un combinato disposto “a formulazione sintetica”?. - 4. La non applicabilità retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria. - 5. Ordine di riduzione in pristino e sanzioni sostanzialmente penali.

La più recente giurisprudenza amministrativa sembra orientarsi in modo sempre più convinto nel senso della qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria quale misura amministrativa di carattere senz’altro ripristinatorio. Dalla asserita natura “non sanzionatoria” dell’ordine di riduzione in pristino la giurisprudenza prevalente trae conseguenze di rilievo, in particolare per quanto concerne l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica postuma previsto ex artt. 146, co. 4 e 167, co. 4 e 5 del d.lg. n. 42 del 2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio. L’orientamento giurisprudenziale dominante sembra criticabile alla luce di una più rigorosa applicazione dei concetti di sanzione amministrativa in senso tecnico e di sanzione sostanzialmente penale all’ordine di riduzione in pristino adottato in reazione ad un abuso paesaggistico. L’articolo mira a dimostrare che il corretto inquadramento tipologico dell’istituto ne richiede la qualificazione quale misura prevalentemente sanzionatoria e comunque sostanzialmente penale. Da ciò verranno tratte le opportune conseguenze per quanto concerne l’impossibilità di fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Parole chiave: divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria; retroattività; ordine di ripristino; sanzioni amministrative.

The nature of the restoration order resulting from the failure to issue a posthumous landscape permit and the retroactive application of the prohibition on amnesty landscape permits
Regarding the issue concerning the correct qualification of the order ex art. 167, co. 1, legislative decree n. 42/2004 with which the administration imposes the artifact’s restoration as it was before the illecit intervention, the most recent opinions surfacing from administrative case law seem to converge on its exclusively restorative nature. Having landed on the “non sanctioning” nature of the measure, the interpretations infer the retroactive applicability of the prohibition to issue a posthumous authorization ex art. 146, co. 4, legislative decree n. 42/2004. In light of a more attentive consideration of the underlying concepts of administrative sanction and criminal sanction, as it is defined in the Echr case law, the prevalent administrative case law seems contestable, as both are pertinent. The article aims to prove the sanctioning nature of the order, which entails the non retroactive application of the prohibition.

Keywords: prohibition of landscape authorization in amnesty; retroactivity; order of restoration; administrative sanctions.

1. Evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali

1.1. Sino all’entrata in vigore del d.lg. n. 42 del 22 luglio 2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio (in seguito anche “Codice”) dalla disciplina dell’autorizzazione paesaggistica non emergevano dubbi in merito alla natura dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione in sanatoria.

Dubbi, in una certa misura sopravvissuti all’introduzione del Codice, hanno riguardato piuttosto il tema della natura della sanzione amministrativa pecuniaria erogabile dall’amministrazione in alternativa alla riduzione in pristino [1].

La questione peraltro presenta sicuri profili di collegamento con il tema oggetto del presente lavoro, ponendosi tuttavia “a valle del ragionamento”: la definizione della natura sanzionatoria piuttosto che ripristinatoria dell’ordine di riduzione in pristino conseguente all’abuso paesaggistico può incidere, se non sul risultato, quantomeno sui contenuti del dibattito riguardante la natura della sanzione amministrativa erogabile in luogo della misura ripristinatoria [2].

1.2. Piuttosto è opportuno rilevare sin da subito che per addivenire alla corretta qualificazione del potere di riduzione in pristino è necessario preliminarmente individuare la ratio della norma attributiva di tale potere. Il risultato di tale operazione esegetica, per le ragioni che saranno meglio puntualizzate in seguito (cfr. § 3), è in larga parte determinato dalla soluzione di alcune questioni giuridiche concernenti il regime del potere amministrativo di autorizzazione paesaggistica postuma.

A questo proposito si deve ricordare come la giurisprudenza anteriore all’introduzione del Codice avesse a lungo negato la sussistenza del potere di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, optando per l’interpretazione letterale della legge n. 1497 del 1939, che non lo prevedeva espressamente.

L’“overruling” è intervenuto nel 2000 tramite le sentenze pilota della Sezione VI del Consiglio di Stato n. 5373 del 9 ottobre 2000 e n. 5851 del 31 ottobre 2000 [3].

Da allora il collegio, nella sua costante giurisprudenza, ha ritenuto di poter ricavare il potere di autorizzazione in sanatoria dalla previsione di cui all’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, che consentiva all’amministrazione di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria in luogo dell’ordine di riduzione in pristino [4].

Il giudice amministrativo, così facendo, riconosceva la prevalenza del principio di economia dei mezzi giuridici sul principio di tipicità degli atti amministrativi [5]: la soluzione esegetica, infatti, consentiva di non procedere alla demolizione di interventi edilizi che non si ponevano in contrasto con le esigenze di tutela del paesaggio [6]. Quindi, nel quadro previgente, l’amministrazione, a fronte di ipotesi di abusivismo c.d. formale, poteva limitarsi a irrogare una sanzione pecuniaria, consentendo il mantenimento dell’opera [7].

Tale nuovo orientamento del giudice amministrativo è stato completamente neutralizzato dall’intervento legislativo del 2004 [8], o almeno così si sarebbe dovuto ricavare dalla lettera della legge [9].

Il Codice, nella sua originaria formulazione, faceva assoluto divieto di autorizzazione paesaggistica postuma, sancendo all’art. 146, comma 10, lett. c), che l’autorizzazione: “non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi” [10]. La rigidità del disposto normativo, che da un lato rifletteva le preoccupazioni avanzate da autorevole dottrina [11], dall’altro ne faceva emergere di nuove: “il predetto divieto, in quanto assoluto, destava perplessità, essendo lo stesso del tutto indipendente da considerazioni dell’interesse pubblico effettivo e concreto” [12].

A complicare ulteriormente il quadro interveniva la formulazione normativa, che appariva antinomica [13]: se da un lato, all’art. 146, comma 10, lett. c) del Codice, si faceva assoluto divieto di autorizzazione postuma dall’altro, all’art. 167, si prevedeva espressamente il potere di erogare la sanzione amministrativa pecuniaria, ciò che sembrerebbe presupporre la sussistenza del potere di autorizzazione in sanatoria [14].

Il problema fu risolto in giurisprudenza tramite una raffinata, e forse fin troppo sofisticata [15], soluzione esegetica: l’applicazione della sanzione pecuniaria avrebbe consentito di evitare la riduzione in pristino senza però rimuovere il carattere illecito dell’opera (il che ne avrebbe comunque condizionato la sorte giuridica, specie sotto il profilo della circolazione) [16].

Queste criticità hanno trovato almeno in parte soluzione col correttivo al Codice del 2006 [17]. L’importanza di quest’ultimo intervento normativo è confermata dal consolidato orientamento del giudice amministrativo che fa coincidere la data dell’effettiva entrata in vigore del divieto di autorizzazione in sanatoria con quella dell’entrata in vigore del decreto correttivo [18].

Tale soluzione, ormai di diritto vivente, consente di ritenere che la questione dell’applicazione retroattiva del divieto in parola riguardi le opere eseguite prima di tale data e non già prima dell’entrata in vigore del Codice nel suo testo originario.

Deve inoltre segnalarsi che con la novella del 2006 il divieto di autorizzazione postuma è stato spostato all’art. 146, comma 12 del Codice mentre l’art. 167 è stato profondamente modificato, tramite l’inserimento al comma quattro di una serie di fattispecie, rappresentati ipotesi di abuso minore, rispetto alle quali sarebbe stato possibile ottenere la sanatoria dell’intervento abusivo.

Secondo autorevole dottrina tali ipotesi avrebbero ricompreso la stragrande maggioranza dei casi in relazione ai quali sarebbe stato plausibile accertare in concreto la compatibilità paesaggistica postuma dell’opera [19]. In altri termini, non si sarebbe più posto, se non in marginalissimi casi, il problema dell’operatività del divieto in relazione a ipotesi in cui l’autorizzazione postuma sarebbe stata in effetti concretamente rilasciabile. La tesi, per quanto di autorevoli natali, risulta formulata in termini piuttosto apodittici e non ha avuto seguito. In effetti sembra che a smentire tali conclusioni intervengano già l’inesauribilità del contenzioso in materia e il perdurante interesse della dottrina per il tema oggetto di questo lavoro.

Merita infine chiarire che, in base a un’interpretazione rigorosa della normativa, per ottenere il rilascio dell’autorizzazione postuma in presenza di un’ipotesi di abuso minore ex art. 167, comma 4, cit. era ed è tutt’ora necessario dimostrare la sanabilità dell’opera in concreto [20].

L’evoluzione normativa in tema di autorizzazione postuma ha trovato il suo completamento con la novella del 2008, di sostanziale riorganizzazione della disciplina.

È l’attuale art. 146, comma 4 del Codice a disporre che “fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”. All’art. 167, comma 4 sono invece elencate le ipotesi di abuso minore [21], sanabili secondo la procedura descritta all’art. 167, comma 5.

La disciplina sostanziale introdotta nel 2006 e riorganizzata nel 2008 si caratterizza quindi per la rigida ripartizione tra le ipotesi eccezionali in cui è ammessa l’autorizzazione postuma (art. 167, comma 4, cit.) e tutte le altre ipotesi di abuso. Per quanto concerne le ipotesi eccezionali di sanabilità il Codice subordina il rilascio dell’autorizzazione postuma all’accertamento della compatibilità paesaggistica in concreto dell’opera e al pagamento di un’indennità pecuniaria [22] (quantificata come nel precedente art. 164, legge n. 490 del 1999) mentre in tutte le altre ipotesi l’amministrazione deve ordinare la riduzione in pristino (art. 167, comma 1, d.lg. n. 42 del 2004) sia in reazione a un abuso sostanziale che a un abuso formale [23].

Rispetto all’attuale sistemazione normativa deve invero rilevarsi come parte della dottrina, criticandone l’eccessiva rigidità, ne abbia ipotizzato l’illegittimità costituzionale.

Sarebbe un fuor d’opera richiamare per esteso tali tesi [24] ma sembra quantomeno opportuno segnalare come appaia maggiormente condivisibile la posizione di altra parte della dottrina, la quale ritiene che le peculiarità della materia paesaggistica giustifichino l’inusuale rigidità del disposto normativo, consentendo di ricondurre l’opzione legislativa nell’ambito della ragionevolezza [25].

Non per questo le istanze di flessibilizzazione avanzate dalla dottrina più critica paiono meno fondate [26] ed anzi sembra che la bontà del percorso argomentativo seguito in questo lavoro emergerà anche dal più ampio accoglimento che assicura a tali istanze.

1.3. All’introduzione del divieto di autorizzazione postuma ha fatto seguito l’emersione di una serie di questioni di regime, la più interessante e dibattuta delle quali concerne la possibilità di farne applicazione retroattiva.

La prima giurisprudenza amministrativa ad essersi occupata del problema l’ha risolto in senso negativo [27].

Più in particolare, secondo un primo orientamento del giudice amministrativo di primo grado, sarebbe stato possibile accogliere la tesi dell’irretroattività del divieto sulla scorta del semplice riferimento alla natura sostanziale della sopravvenienza normativa [28].

Il Consiglio di Stato è successivamente pervenuto alle medesime conclusioni spostando l’attenzione sulla natura della normativa sostanziale introdotta, rilevando come il divieto in esame debba essere collegato a un inasprimento del trattamento sanzionatorio, rispetto al quale opera il principio di irretroattività [29]. In tale occasione, tuttavia, il collegio non ha effettuato alcun riferimento ai criteri Engel, rimarcando anzi la natura amministrativa della sanzione in parola.

Il quadro giurisprudenziale è mutato in senso opposto a partire dalla sentenza della sesta Sezione del Consiglio di Stato, n. 5245 del 6 settembre 2018. Si tratta della “sentenza pilota” [30] che ha fondato l’orientamento, consolidatissimo, seguito anche dalla più recente giurisprudenza amministrativa [31].

Il Consiglio di Stato, in tale occasione, ha ritenuto di qualificare l’ordine di riduzione in pristino conseguente al mancato rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma quale di natura “ripristinatoria”, traendone la non applicabilità, sia all’ordine che al divieto di autorizzazione in sanatoria, che ne è la scaturigine, del “regime proprio delle sanzioni amministrative in senso stretto” e quindi del principio di irretroattività.

La successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato ha variamente argomentato nel segno della fondatezza della soluzione proposta. In particolare, si è costantemente collegata l’operatività del principio di retroattività alla natura di illecito permanente dell’abuso edilizio, che è tale in quanto “si pone in perdurante contrasto con le norme tese al governo del territorio e alla tutela del paesaggio, sino al momento in cui non venga ripristinata la situazione preesistente” [32].

In questo senso, l’attività provvedimentale volta alla riduzione in pristino è stata definita “di amministrazione attiva”, essendo tesa a ripristinare la situazione di fatto, sottraendola allo stato di illiceità permanente. Su queste basi si è giustificata l’applicazione del principio del tempus regit actum, al fine di consentire la “immediata applicabilità del regime più efficace ai fini della realizzazione della tutela” [33].

Talvolta il Consiglio di Stato ha fatto ricorso ad argomenti che paiono già icto oculi di minor solidità, ma che consentono di offrire un’ancor più compiuta contestualizzazione all’oggetto di questo lavoro.

Si intende in particolare far riferimento ad una recente pronunzia [34] in cui il Collegio, affrontando la questione dell’applicazione retroattiva dell’ordine di riduzione in pristino in obiter dictum, ha apoditticamente affermato che eventuali considerazioni in merito all’affidamento maturato dal privato non sarebbero state determinanti al fine di individuare il regime dell’ordine amministrativo di riduzione in pristino.

Il Consiglio di Stato sembra aver argomentato sulla scorta di un implicito riferimento al principio del “versari in re illicita”: l’affidamento sarebbe stato irrilevante in quanto avente ad oggetto la sanatoria di una situazione di abuso [35].

Ma in questo caso la questione sembra presentare caratteri di maggior complessità: il principio di affidamento, a ben vedere, si pone in contrasto col principio del tempus regit actum, quale usualmente trova applicazione in relazione al sindacato di legittimità sui provvedimenti amministrativi, sicché a risolvere il conflitto nel senso della prevalenza dell’uno o dell’altro dei principi dovrebbero essere considerazioni ulteriori, che coinvolgono la corretta individuazione della natura delle misure amministrative di reazione all’abuso paesaggistico e dunque del regime giuridico loro applicabile. Col prosieguo di questo contributo, che in tale analisi trova il suo scopo precipuo, si porterà quindi a una soluzione sistematicamente corretta anche il problema del rapporto tra tali principi.

In questo senso il procedere argomentativo si presenta ribaltato rispetto a quello che pare essere stato accolto dal Collegio nella richiamata pronunzia: sarà l’analisi del diritto positivo a fare emergere quale sia l’effettivo bilanciamento tra i principi previsto dal legislatore, non sarà l’apodittica affermazione della prevalenza o della soccombenza di uno dei due principi a imporre una specifica interpretazione della legge. Quindi, se al termine di questo lavoro si riterrà possibile fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione in sanatoria ciò vorrà dire che il principio ordinamentale prevalente, quale emerge dal diritto positivo, sarà quello del tempus regit actum, risultando soccombente il legittimo affidamento del privato. Se invece il divieto di autorizzazione postuma non risulterà applicabile in via retroattiva sarà vero il contrario.

2. Sanzioni amministrative e misure a carattere ripristinatorio

2.1. Con questo lavoro si intende affrontare due ordini di problemi esegetici. Il primo, di carattere più generale, attiene alla corretta qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino quale consegue al diniego di autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Si intende, cioè, stabilire se tale istituto debba essere ricondotto al genus delle misure amministrative di carattere meramente ripristinatorio, a quello delle sanzioni amministrative in senso stretto [36] o, ancora, a quello delle misure sostanzialmente penali.

Dalla soluzione di questo primo problema interpretativo derivano rilevanti conseguenze giuridiche, scaturenti dal diverso atteggiarsi delle garanzie ordinamentali riconosciute al privato che sia soggetto all’esercizio di un potere pubblico riconducibile ad una di tali diverse categorie. In particolare, risulterà necessario determinare se trovi applicazione il principio di irretroattività quale vige in materia di sanzioni amministrative [37] e (sostanzialmente) penali [38]. In altri termini, si dovrà comprendere se il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma risulti inapplicabile in senso retroattivo in conseguenza della qualificazione quale misura di carattere sanzionatorio dell’ordine di riduzione in pristino che segue alla sua applicazione.

Quest’ultima questione, estremamente attuale, ha causato un acceso dibattito dottrinale, non privo di aspetti di rilevante autonomia e ulteriore complessità rispetto a quello emerso in relazione al quesito “pregiudiziale” anteriormente rappresentato.

2.2. Per una più chiara enucleazione di tale primo problema esegetico sembra necessario richiamare preliminarmente le categorie giuridiche cui si intende fare riferimento, nonché i risultati dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che hanno maggiormente interessato la loro elaborazione e quella dei relativi regimi giuridici.

In questo senso, nell’ottica di comprendere a quale delle due famiglie di provvedimenti possa appartenere l’ordine di riduzione in pristino, è opportuno delineare in modo puntuale i concetti di sanzione amministrativa in senso stretto e di misura amministrativa ripristinatoria.

In dottrina si sono nel tempo affermate due distinte sistematiche della sanzione amministrativa, le quali invero mantengono il proprio autonomo valore classificatorio.

La prima “tipologia” è quella di tradizione zanobiniana [39] in base alla quale la sanzione amministrativa “in senso stretto” deve essere intesa come “pena in senso tecnico” [40] e cioè quale istituto di funzione general e special preventiva che non può essere “assimila[to] a strumenti principalmente diretti a conservare o a ripristinare interessi sostanziali lesi dall’infrazione” [41]. Sussisterebbe, cioè, una netta distinzione tra ciò che è sanzione amministrativa e quindi anche pena, e ciò che non è qualificabile come tale, in quanto ha carattere risarcitorio o ripristinatorio [42].

La sistematica alternativa invece prende le mosse dall’accoglimento di una nozione di sanzione amministrativa di tipo “ampio”, definita dalla presenza di due elementi: l’incidenza sfavorevole rispetto a un interesse del destinatario e la relazione con la violazione di un precetto da parte del consociato [43]. In quest’ottica le misure amministrative di carattere punitivo, ripristinatorio e risarcitorio, vengono inquadrate all’interno della medesima famiglia, quella, appunto, delle “sanzioni amministrative”.

Come è stato autorevolmente evidenziato in dottrina il ricorso a questo secondo modello tipologico non porta necessariamente a sminuire l’autonomia concettuale di ciascuna delle sottocategorie di sanzioni appena elencate, autonomia che anzi “ha ricevuto i maggiori riconoscimenti proprio nell’ambito dell’orientamento in esame” [44].

Entrambe le sistematiche conservano dunque una propria dignità teorica.

Ciò non toglie che paia più opportuno fare riferimento al concetto di sanzione amministrativa intendendola “in senso stretto” e cioè come pena in senso tecnico.

Tale soluzione trova infatti un più solido fondamento di diritto positivo: come sottolinea la più autorevole dottrina [45], l’ambito di applicazione della legge n. 689 del 1981 non comprende le misure di carattere ripristinatorio bensì solo i provvedimenti sanzionatori in senso stretto.

Inoltre, prendendo le mosse da questa impostazione teorica, sembra che si possa pervenire agevolmente all’individuazione di quei “caratteri” eventuali del provvedimento amministrativo che, se presenti, ne determinano la natura sanzionatoria in senso proprio sul piano del diritto interno.

2.3. È dunque necessario sottolineare quali siano quegli elementi che accomunano e quelli che consentono di distinguere le sanzioni amministrative in senso tecnico dalle misure amministrative di carattere ripristinatorio.

Il riferimento è innanzitutto al carattere dell’afflittività. Tra le misure amministrative di carattere afflittivo [46] si possono annoverare sia le misure di carattere sanzionatorio che quelle di carattere risarcitorio/ripristinatorio, nonché le misure di carattere c.d. preventivo [47].Sono diversi i criteri che consentono di distinguere tali diversi tipi di misura amministrativa.

Le misure di carattere preventivo differiscono dalle misure sanzionatorie e ripristinatorie in quanto le prime operano in un’ottica prospettica, mentre le seconde in un’ottica retrospettiva, di reazione rispetto alla commissione di un illecito [48].

Le sanzioni amministrative e le misure di carattere ripristinatorio, che sono accumunate sia dalla natura afflittiva sia dalla loro funzione di reazione all’illecito, sono invece tra di loro distinguibili sulle basi del differente scopo perseguito dalla norma attributiva del potere [49]. Le sanzioni amministrative in senso tecnico operano quali pene [50] e cioè gravano sul privato con funzione general e special preventiva [51], di repressione dei comportamenti illeciti: hanno come scopo precipuo l’identificazione e la punizione degli autori” [52] dell’illecito.

Le misure di carattere ripristinatorio, al contrario, operano per reintegrare il bene giuridico offeso dalla violazione della legge, mirando “al mero ripristino dello status quo ante rispetto alla commissione dell’illecito” [53]. In ultima analisi dunque, merita ribadire, la distinzione tra sanzioni amministrative e misure amministrative di carattere ripristinatorio può essere operata solo per mezzo della corretta individuazione dello scopo perseguito dalla norma attributiva del potere.

2.4. Come anticipato, dall’esatta qualificazione del potere amministrativo esercitato dipende la corretta individuazione delle garanzie ordinamentali riconosciute al privato soggetto al suo esercizio.

Come è chiaro il sistema delle garanzie maggiormente pregnanti è previsto per far fronte all’esercizio del potere sanzionatorio e trova oggi dimora nella legge n. 689 del 1981. Ai nostri fini, in particolare, l’art. 1, legge 689 del 1981 prevede espressamente che i principi di legalità e irretroattività trovino applicazione in materia di sanzioni amministrative: “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”.

Si tratta quindi di comprendere se l’ordine di riduzione in pristino conseguente al mancato rilascio dell’autorizzazione postuma sia qualificabile quale misura ripristinatoria o quale misura sanzionatoria: nel primo caso si potrebbe ritenere applicabile anche alle opere effettuate prima dell’entrata in vigore del divieto [54], nel secondo caso, in forza dell’art. 1, legge 689, cit. ciò risulterebbe impossibile.

Poiché, come si è detto, la natura sanzionatoria o meno di una misura amministrativa è determinata dallo scopo perseguito dalla norma attributiva del potere, si comprende perché risulti tanto complesso addivenire alla corretta qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino in materia paesaggistica: i risultati di un’analisi al riguardo risultano in ampia parte determinati dalla non facile esegesi della disciplina dell’autorizzazione paesaggistica postuma.

3. Un combinato disposto “a formulazione sintetica”?

3.1. In dottrina l’ordine di riduzione in pristino viene usualmente qualificato quale “misura di esecuzione”: in quanto tale rientrerebbe nel genus delle misure amministrative di carattere senz’altro ripristinatorio [55].

Come si è anticipato, la più recente giurisprudenza amministrativa aderisce senza riserve a tale ricostruzione, argomentando variamente nel segno della sua fondatezza (cfr. § 1.3).

A questo proposito è particolarmente interessante il riferimento operato in giurisprudenza alla disciplina dell’abuso edilizio “puro”: il Consiglio di Stato ha talvolta richiamato la natura permanente dell’abuso edilizio per sostenere, tramite un parallelismo, la funzione eminentemente ripristinatoria dell’ordine di riduzione in pristino anche quando venga emanato in relazione a ipotesi di abusivismo paesaggistico [56].

Deve peraltro rilevarsi come l’autorevole dottrina richiamata a inizio paragrafo riconosca correttamente la natura che usualmente riveste l’ordine di riduzione in pristino. Ma le statuizioni di ordine generale non sempre rimangono condivisibili ad una più attenta analisi, che prenda in considerazione le specificità di talune ipotesi. Per questa ragione talune generalizzazioni, accettabili in dottrina [57], sembrano aver condotto la consolidata giurisprudenza amministrativa a incappare in significativi errori esegetici.

3.2. Per poter chiarire in che cosa consista l’errore giurisprudenziale sembra innanzitutto opportuno individuare quegli elementi di peculiarità che connotano il divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria e il regime giuridico connesso.

Dal quadro normativo precedentemente disegnato (cfr. § 1) emerge come il divieto di autorizzazione postuma di cui all’art. 146, comma 4, cit. operi indistintamente sia in presenza di un pregiudizio attuale al bene paesaggio sia nelle ipotesi in cui tale pregiudizio è assente. Quindi l’applicazione del divieto “fossilizza” la situazione di abuso, rendendolo insanabile, e impedendo contestualmente di qualificarlo quale abuso “sostanziale” piuttosto che “formale” [58]. L’art. 167, comma 1, cit. sembrerebbe poi prevedere, nella sua portata letterale, il potere/dovere dell’amministrazione di ordinare la riduzione in pristino in entrambi i casi.

Quanto interessa in questa sede segnalare è che la normativa di repressione dell’abuso paesaggistico appena richiamata presenta caratteri di evidente specificità e difformità rispetto alla disciplina generale di repressione dell’abusivismo edilizio.

In materia edilizia la misura ripristinatoria viene da sempre applicata solo in relazione a ipotesi di abuso sostanziale, essendo possibile sanare le ipotesi di abusivismo formale tramite l’accertamento di conformità [59].

Proprio ciò sembra giustificare la qualificazione dei poteri pubblici diretti alla demolizione dell’abuso edilizio come di carattere prevalentemente ripristinatorio [60]. La misura amministrativa risulta infatti funzionale alla rimozione di un intervento abusivo che causa un concreto, attuale e perdurante (appunto, permanente) pregiudizio ai pubblici interessi tutelati dalla disciplina paesaggistica, urbanistica ed edilizia.

Ma allora, essendo che la riduzione in pristino ex 167, comma 1, cit. è applicabile anche alle ipotesi di abusivismo formale [61], se ne deve escludere l’affinità rispetto alle misure amministrative di reazione all’abusivismo edilizio, generalmente pensate per rapportarsi a ipotesi di abusivismo sostanziale [62].

È proprio questa differenza strutturale tra l’ordine di riduzione in pristino “edilizio” e “paesaggistico” che permette in prima istanza di dubitare della natura propriamente ripristinatoria di quest’ultimo.

La soluzione sembra invero confortata dalle innumerevoli occasioni in cui in dottrina si è più [63] o meno [64] consapevolmente ammessa la natura sostanzialmente deterrente e lo scopo general e special preventivo dell’ordine in parola, e da quelle in cui parte della giurisprudenza ha fatto altrettanto, salvo poi non trarne le dovute conclusioni [65]. Per queste ragioni sembra difficilmente dubitabile che l’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria abbia natura di sanzione amministrativa in senso stretto.

3.3. Ma questo primo approdo esegetico merita qualche ulteriore puntualizzazione, derivante dal fatto che l’ordine di riduzione in pristino può essere adottato a fronte di ipotesi di abusivismo non solo formale, ma anche sostanziale.

L’ordine in parola infatti verrebbe ad avere un connotato pienamente e nitidamente sanzionatorio solo se venisse adottato esclusivamente per reagire all’abusivismo formale. Il fatto che invece venga adottato per far fronte sia a ipotesi di abusivismo formale che sostanziale induce a ritenere che la disciplina di cui all’art. 146, comma 4 e 167, commi 1, 2 e 5, cit. risulti più articolata di quanto non appaia icto oculi.

Tale normativa sembra prevedere una sola misura di reazione ordinamentale, l’ordine di riduzione in pristino, a cui sono però riconducibili due distinte vesti giuridiche. In altri termini, si potrebbe trattare di un combinato disposto “a formulazione sintetica” da cui emergono due diverse fattispecie normative: una di carattere (prevalentemente) ripristinatorio, ideata per far fronte alle ipotesi di abusivismo c.d. sostanziale, e una di carattere sanzionatorio, che trova attuazione a fronte di un abuso c.d. formale [66].

Da quanto si è argomentato infatti emerge come il regime del divieto di autorizzazione postuma sia volto a tutelare il bene paesaggio non solo in via diretta ma anche indirettamente, reprimendo una più vasta gamma di comportamenti illeciti, non necessariamente connessi a un vulnus attuale al bene paesaggio.

La soluzione esegetica prospettata sembra dunque essere la più rispettosa del tenore letterale della legge, in quanto consente di dare pieno riconoscimento ai diversi scopi espressi dalla norma attributiva del potere, ricavando la corretta qualificazione giuridica dell’istituto preposto dall’ordinamento al loro perseguimento.

4. La non applicabilità retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria

4.1. Sembra ora possibile trarre le conseguenze di regime che discendono dal ragionamento sin qui svolto, offrendo una prima soluzione al secondo dei problemi esegetici oggetto di questo lavoro (cfr. 2.1), si intende cioè comprendere se sia possibile fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica postuma.

Pare opportuno premettere alcune considerazioni in merito alla stretta connessione che intercorre tra il mancato rilascio dell’autorizzazione postuma e l’ordine di riduzione in pristino.

Deve in particolare rilevarsi come il divieto di autorizzazione in sanatoria, che è ad oggi biunivocamente connesso al diniego dell’autorizzazione postuma (salvo per quanto concerne i casi marginali di cui all’art. 167, comma 4, cit. [67]), risulta pure biunivocamente connesso all’adozione dell’ordine di riduzione in pristino che consegue a tale diniego.

È vero infatti che con l’introduzione del divieto di autorizzazione postuma l’innovazione normativa ha riguardato la sola impossibilità di procedere alla “sanatoria” delle ipotesi di abusivismo formale (in quanto gli abusi sostanziali non sono mai stati “sanabili”), ma tale innovazione di regime ha comportato pure che, sul piano pratico, l’amministrazione non sia più tenuta ad accertare l’effettiva consistenza dell’abuso al fine di optare per il diniego dell’autorizzazione postuma. Quindi è corretto affermare che ad oggi l’amministrazione può adottare il provvedimento di diniego sulla scorta del semplice riferimento al divieto di autorizzazione postuma, senza dover indagare la concreta lesività dell’intervento, sicché il diniego può essere motivato con esclusivo riferimento alla sussistenza del divieto e l’ordine di riduzione in pristino può essere motivato tramite l’esclusivo riferimento all’intervenuto diniego.

Proprio il rapporto di strettissima correlazione che si è appena delineato sembra rendere possibile la determinazione dell’ambito di applicazione temporale del divieto di autorizzazione postuma avendo riguardo all’ambito di applicazione temporale dell’ordine di riduzione in pristino, che ne è conseguenza indiretta ma necessaria. In altri termini, si dovrebbe ritenere possibile applicare in via retroattiva il divieto di autorizzazione postuma solo qualora l’ordine di riduzione in pristino, di cui è la certa scaturigine, risultasse applicabile retroattivamente.

Deve peraltro segnalarsi come di recente il Consiglio di Stato, con la sent. n. 1573 del 2024, abbia invece tentato di risolvere la questione relativa all’applicazione del divieto di autorizzazione in sanatoria “a monte”, prescindendo da qualsivoglia considerazione intorno alla natura delle misure amministrative di reazione all’abuso connesso al suo mancato rilascio.

Prima di entrare nel merito della questione si deve tuttavia puntualizzare che il Collegio, argomentando in tal senso, non ha direttamente optato per la retroattività del divieto di autorizzazione postuma (ciò che invece ha fatto in obiter dictum), ma l’ha surrettiziamente ammessa per tramite del rigetto dei motivi di gravame sollevati da parte appellante. Nondimeno, l’effetto della decisione sul punto è stato quello di riconoscere la retroattività del divieto di autorizzazione postuma sulla scorta del mero riferimento alla disciplina sostanziale che lo impone.

Una motivazione un poco più esaustiva sarebbe stata quantomai opportuna, se non altro alla luce della risalente giurisprudenza in materia di applicazione retroattiva del divieto in parola che, sempre tentando di risolvere la questione “a monte”, giunse a conclusioni di segno opposto. Così il Tar Emilia Romagna nel 2016: “considerato che, prima dell'entrata in vigore del Codice, non si dubitava del potere dell'Amministrazione di rilasciare ex post l'autorizzazione paesaggistica, essendo stato il relativo divieto imposto solo con il predetto provvedimento normativo, gli abusi commessi prima dell'operatività del suddetto divieto si ritiene debbano essere definiti avendo riguardo alla disciplina applicabile ratione temporis, la quale ammetteva la possibilità di valutare la compatibilità paesaggistica dell’intervento, anche ex post [68].

Più in generale, si è già dimostrato in questo paragrafo perché non sembri convincente l’idea per cui il ragionamento intorno alla retroattività del divieto di autorizzazione postuma possa affrancarsi da considerazioni intorno alla natura delle misure amministrative di reazione all’abuso conseguente al suo mancato rilascio. Un’opinione questa che sembra essere confortata proprio dalla recente e consolidata giurisprudenza amministrativa [69] che, discostandosi dalle isolate e risalenti pronunzie testé richiamate, nonché dall’isolato orientamento espresso dalla recentissima sentenza del Consiglio di Stato n. 1573 del 2024, non ha mai scisso le proprie considerazioni intorno alla retroattività del divieto da quelle intorno alla natura delle misure amministrative conseguenti all’accertamento dell’abuso paesaggistico [70].

Invero anche i principi generali in materia di rimozione degli abusi edilizi sembrerebbero suggerire la medesima soluzione: se è pacifico che la rimozione dell’abuso edilizio è per l’amministrazione doverosa [71] ciò significa che già impugnando il solo provvedimento di diniego dell’autorizzazione postuma il privato impugnerebbe un “atto presupposto” strettamente connesso al successivo (e teoricamente inevitabile) ordine di demolizione. Se ne dovrebbe trarre l’attualità dell’interesse a dolersi delle conseguenze nefaste che il diniego di autorizzazione postuma produce immediatamente nella propria sfera giuridica, essendo causa della futura, inevitabile, demolizione: una decisione del giudice al riguardo sembrerebbe corrispondere a un sindacato esaustivo in ordine al già esercitato potere di diniego dell’autorizzazione, che non sconfina nel sindacato su di un potere amministrativo non ancora esercitato [72].

Si deve peraltro ricordare come in passato già fosse emerso un orientamento giurisprudenziale che riteneva possibile scindere il discorso intorno alla sanatoria dell’abuso da quello relativo alle sanzioni previste per l’illecito commesso [73]. Si tratta dell’orientamento già richiamato secondo cui, nel periodo intercorso tra l’approvazione del Codice e l’entrata in vigore del correttivo del 2006, sarebbe stato possibile irrogare la sanzione pecuniaria in alternativa alla riduzione in pristino, senza però rimuovere l’illiceità dell’intervento.

Il principio sotteso a tale soluzione, già definita da parte della dottrina “fin troppo sofisticata” [74], appare di ancor più difficile e artificiosa applicazione al contesto attuale e cioè in relazione all’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica postuma.

Per tutte queste ragioni sembra agevole discostarsi dal recente, isolato orientamento espresso dal Consiglio di Stato nella pronunzia appena analizzata, e pare invece necessario ribadire il principio per cui la strettissima connessione che intercorre tra il divieto di autorizzazione in sanatoria e l’ordine di riduzione in pristino consente di discorrere del loro regime amministrativo in via unitaria.

Ma allora, se è vero quanto si è argomentato nel paragrafo precedente (cfr. § 3), si deve concludere che il divieto di autorizzazione in sanatoria non possa trovare applicazione retroattiva quando l’ordine di riduzione in pristino viene emanato a fronte di ipotesi di mero abusivismo formale, in quanto in tali ipotesi l’ordine assume natura di sanzione in senso stretto.

4.2. Deve peraltro puntualizzarsi che il problema dell’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria viene a riguardare proprio e soltanto le ipotesi di abusivismo formale. È infatti chiaro che a fronte di un abuso sostanziale non sarebbe possibile procedere alla sanatoria, indipendentemente dalla sussistenza del divieto. Per cui, per quello che concerne gli interventi sostanzialmente abusivi anteriori all’entrata in vigore del divieto, si dovrebbe predicare comunque la necessità di procedere con l’ordine di riduzione in pristino.

A questo proposito è opportuno evidenziare come l’intrinseca insanabilità degli abusi sostanziali discenda direttamente dalla reale natura della “sanatoria” di cui si tratta, che consta nel rilascio postumo di un’autorizzazione: alla mancanza dei presupposti previsti dalla legge non può che far seguito un diniego, sicché l’intervento, illecito, non potrà mai dirsi “sanato” (recte “autorizzato in via postuma”).

Quindi certamente si deve ammettere che il principio di applicazione retroattiva delle misure amministrative di carattere ripristinatorio, pacificamente riconosciuto in giurisprudenza e dottrina, troverebbe applicazione soltanto quando l’ordine di riduzione in pristino rientra effettivamente in tale genus e cioè con solo riguardo ai casi in cui l’ordine viene adottato a fronte di un abuso paesaggistico sostanziale, ma queste ultime considerazioni, alla luce della intrinseca “insanabilità” degli abusi sostanziali, risultano, per le ragioni anzidette, superflue.

Un’ulteriore puntualizzazione deve riguardare la già richiamata inutilità della distinzione tra abusi formali o sostanziali ai fini della riduzione in pristino (sempre che l’abuso non sia riconducibile al novero di cui all’art. 167, comma 4, cit.).

Merita chiarire infatti che, malgrado l’amministrazione possa non procedere all’accertamento dell’effettiva consistenza abusiva dell’intervento (in quanto ciò risulterebbe inutile, stante la necessità di procedere in ogni caso alla riduzione in pristino ex art. 167, comma 1, cit.), quest’ultimo è sempre astrattamente qualificabile come sostanzialmente o formalmente abusivo. Quindi resta fermo il fatto che l’introduzione del divieto di autorizzazione postuma ha modificato la sorte giuridica delle sole opere che sarebbero astrattamente qualificabili come formalmente abusive, mentre per quello che concerne le opere sostanzialmente abusive nulla è cambiato in merito alla necessità di provvedere con la riduzione in pristino.

Ricapitolando quindi, si deve ritenere che quando l’ordine di riduzione in pristino incide su una situazione di abuso formale debba essere qualificato quale sanzione amministrativa in senso tecnico, trovando dunque applicazione il principio di irretroattività di cui all’art. 1, legge n. 689 del 1981. Ciò impedisce di predicare l’efficacia retroattiva anche del divieto di autorizzazione in sanatoria (la cui introduzione ha modificato il solo regime amministrativo di reazione all’abusivismo formale), che dell’ordine di riduzione in pristino, come si è visto, è l’effettiva scaturigine.

4.3. Sembra opportuno accennare brevemente anche alle conseguenze procedimentali di questa ricostruzione.

Infatti, per gli interventi effettuati prima del 24 marzo 2006, sembra si dovrebbe consentire l’attivazione del procedimento di cui all’art. 167, comma 5, cit. al fine di verificare la concreta consistenza dell’abuso (per verificare, cioè, se si tratti di abuso sostanziale o formale) e ciò sebbene ci si trovi all’infuori delle ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit.

Infatti, da quanto argomentato nel corso di questo paragrafo, si ricava la necessità, per quanto concerne gli abusi anteriori all’entrata in vigore del correttivo del 2006, di determinarne l’effettiva natura, al fine di comprendere se l’opera debba essere demolita, in quanto sostanzialmente abusiva, o possa essere sanata, in quanto il divieto di autorizzazione postuma degli abusi formali non può trovare applicazione retroattiva.

Stante la mancata previsione di un procedimento ad hoc sembra ragionevole avvalersi, in via di analogia legis, del procedimento descritto dal legislatore, col medesimo scopo (ma in relazione alle sole ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit.), all’art. 167, comma 5 del Codice.

Dunque se all’esito di tale procedimento venisse accertata la sussistenza di un abuso sostanziale si dovrebbe ritenere senz’altro praticabile la riduzione in pristino in quanto l’opera sarebbe intrinsecamente insanabile (il che peraltro esclude alla radice l’operatività del divieto di sanatoria). Al contrario, nel caso cui venisse accertata la sussistenza di un mero abuso formale, non si potrebbe fare applicazione della più rigorosa disciplina sanzionatoria ad oggi in vigore, dovendosi ritenere ammissibile la sanatoria dell’abuso a fronte del pagamento di una sanzione pecuniaria [75].

4.4. Una volta chiarito quale sia il percorso esegetico più persuasivo al fine di ricostruire il regime del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria si può accennare alla possibilità di delinearne uno alternativo, che potrebbe essere visto con favore alla luce di talune critiche operate in dottrina in merito alla possibilità stessa di utilizzare l’ordine di riduzione in pristino in reazione ad ipotesi di mero abusivismo formale [76].

Deve peraltro segnalarsi che la giurisprudenza amministrativa di primo grado ha in passato manifestato un orientamento minoritario affine a tali istanze: il giudice amministrativo ha ritenuto che ove “non sussista alcun danno ambientale, o addirittura sia possibile ottenere un guadagno ambientale con l’assunzione da parte del trasgressore di specifiche obbligazioni nell’interesse del vincolo paesistico, non vi sono ragioni per escludere un’autorizzazione paesistica rilasciata in via successiva” [77]. Quest’ultima tesi giurisprudenziale, sicuramente affascinante, risulta difficilmente condivisibile a causa dell’evidente contrasto col tenore letterale della legge [78].

Invero, se si volesse ammettere la correttezza della premessa [79] per cui l’ordine di riduzione in pristino sarebbe misura prevista dal legislatore per reagire alle sole ipotesi di insanabilità corrispondenti a situazioni di abusivismo sostanziale, si dovrebbe conseguentemente riconoscere la sussistenza di una lacuna legislativa per quanto concerne la disciplina sanzionatoria prevista per far fronte alle ipotesi di abusivismo “formale maggiore” (cioè riguardante la realizzazione non autorizzata di un intervento estraneo al novero di cui all’art. 167, comma 4, cit.) [80]. Tali ultimi interventi risulterebbero insanabili, in quanto non rientranti tra le ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit. ma non sarebbero sanzionabili tramite la riduzione in pristino, come da premessa.

Né sembra plausibile prospettare l’applicazione in via analogica alle ipotesi di “abusivismo formale maggiore” della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cit., in quanto si tratterebbe di applicazione analogica in malam partem [81].

Dal quadro così delineato deriverebbe una situazione in cui le ipotesi di abuso “maggiore formale” risulterebbero insanabili, ma anche non sanzionabili [82] mentre gli abusi “minori formali” sarebbero sanabili ma dietro pagamento di sanzione pecuniaria. Il percorso esegetico, già estremamente artificioso, condurrebbe a risultati di pura irrazionalità giuridica sicché deve ritenersi senz’altro impraticabile in base al criterio dell’interpretazione costituzionalmente conforme.

4.5. L’analisi del problema giuridico non può però ritenersi esaurita senza prima aver preso in considerazione alcune pregnanti opposizioni in passato avanzate da autorevole dottrina rispetto alla possibilità di ammettere l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

L’opzione interpretativa proposta (cfr. § 4.1 e 4.2) aprirebbe la porta a un ampliamento delle ipotesi di abuso sanabili, per mezzo di un’applicazione estensiva del principio di irretroattività al divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Per queste ragioni è necessario superare le opposizioni di principio che potrebbero essere sollevate avverso tale risultato ermeneutico.

È noto in particolare come il Carpentieri [83], in vista dell’adozione del Codice e con il chiaro intento di stimolare un intervento legislativo sul punto, abbia inteso criticare aspramente quello che era il consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato nel senso dell’ammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. L’Autore riteneva infatti che i sofisticati argomenti giurisprudenziali che sostenevano tale risultato esegetico mirassero a celare la sostanziale applicazione analogica alla materia paesaggistica dell’accertamento di conformità previsto in materia edilizia. Un risultato interpretativo questo, nell’opinione dell’A., aberrante: le radicali differenze intercorrenti tra le due discipline ne avrebbero impedito qualsiasi forma di assimilazione.

In particolare, mentre l’accertamento di conformità viene rilasciato al termine di una valutazione di carattere vincolato, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica avrebbe presupposto una valutazione di carattere discrezionale. Il punto sarebbe stato cruciale, in quanto “il differimento del controllo autorizzatorio ex post ha una sua comprensibile giustificazione solo allorquando - come avviene per l’accertamento di conformità nell’edilizia - tale controllo si riduca a un riscontro interamente vincolato di conformità del progetto alle determinazioni dettagliate e autoesecutive del piano urbanistico. Ma non ha alcun senso allorché - come invece accade per la materia paesaggistica - la pianificazione (il piano paesaggistico) non ha - di regola - i contenuti di dettaglio ed esecutivi propri dello strumento urbanistico e il controllo si caratterizza dunque per l’ampia discrezionalità della scelta amministrativa” [84].

Ma già l’A. ammetteva che “naturalmente questo discorso potrà cambiare (e dovrà essere aggiornato) se e quando dovesse andare a regime e ricevere effettiva applicazione il nuovo modello prefigurato nel nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, modello che si basa su piani ricchi di contenuti prescrittivi includenti vincoli ‘vestiti’, cioè capaci di regolare in modo puntuale l’uso compatibile del territorio” [85].

Ad oggi appunto si ha buon gioco nell’argomentare che il “discorso” del Carpentieri possa ritenersi in buona parte superato, stante il sempre più valorizzato predominio della componente tecnica sulla componente di valutazione discrezionale [86] nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

In questo senso di recente si è riconosciuto come “quella dell’autorizzazione risulta essere una valutazione finalizzata a garantire una ponderazione adeguata di tutte le circostanze rilevanti di natura tecnico-fattuale, le quali qualificano la decisione finale dell’amministrazione non tanto come un giudizio “soggettivo-assertivo”, ma propriamente come una reale valutazione “tecnico-discrezionale” ancorata a parametri obiettivi e verificabili” [87].

Il superamento dei propri stessi argomenti, che lo stesso Carpentieri prefigurava, sembra oggi sempre più solidamente argomentabile [88]. Deve peraltro ricordarsi come la tesi dell’A. fosse ben nota al giudice amministrativo, il quale pure ritenne di pervenire a diverse conclusioni argomentative, peraltro accolte con favore da altra parte della dottrina [89]. Deve quindi concludersi che nulla osti, sul piano dei principi, all’applicazione estensiva del principio di irretroattività e dunque all’ampliamento delle ipotesi suscettibili di sanatoria.

Del Carpentieri deve invece ispirare il metodo e cioè l’attenzione alla puntuale individuazione delle differenze sostanziali che intercorrono tra la disciplina di contrasto all’abusivismo paesaggistico e urbanistico/edilizio, proprio quanto ha condotto a ritenere che l’ordine di riduzione in pristino in materia paesaggistica possa presentare natura sanzionatoria, ciò che invece non sembra predicabile in materia urbanistico-edilizia (cfr. § 3.2).

5. Ordine di riduzione in pristino e sanzioni sostanzialmente penali

5.1. Sin qui, al fine di determinare quale sia il regime applicabile all’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego di autorizzazione paesaggistica postuma, abbiamo cercato di operare la più corretta qualificazione della misura sul piano del puro ordinamento interno.

Non sfugge tuttavia che in materia di sanzioni amministrative e misure ripristinatorie importanti principi e regole sono stati enucleati anche dalla Corte di Strasburgo nell’elaborazione della sua propria e autonoma [90] nozione di sanzione sostanzialmente penale [91].

Tale nozione è strumentale a consentire l’estensione delle garanzie riconosciute in materia penalistica anche a fronte dell’applicazione di misure e sanzioni formalmente non qualificate come penali [92]. Per quanto di nostro interesse, in particolare, il discorso coinvolge l’applicazione del principio di irretroattività.

5.2. È in base ai c.d. criteri Engel che, secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU sull’interpretazione dell’art. 7 della Convenzione [93], una misura può essere qualificata quale sostanzialmente penale. Tali criteri sono: la qualificazione giuridica della misura, la natura della misura e il grado di severità della sanzione [94]. I criteri, come è noto, trovano applicazione in via alternativa, non solo cumulativa.

Per evidenti ragioni ai fini della presente trattazione rivestono particolare interesse il secondo e il terzo dei criteri Engel, in quanto consentono, prescindendo dalla qualificazione formale della misura/sanzione, di riconoscerne la natura sostanzialmente penale. Sembra invero che l’ordine di riduzione in pristino, per come si atteggia in relazione alle ipotesi di abusivismo paesaggistico, risponda per certi profili ad entrambi [95].

Il criterio della natura della misura si riferisce, in particolare, alla sua funzione: allo scopo repressivo/preventivo del provvedimento corrisponderebbe la natura penalistica dello stesso, mentre uno scopo risarcitorio/ripristinatorio consentirebbe di ritenere altrimenti [96].

Abbiamo già avuto occasione di evidenziare come l’ordine di riduzione in pristino sembri presentare senz’altro una prevalente funzione general e special preventiva, quantomeno nelle ipotesi in cui viene adottato in reazione a un mero abuso formale.

Già sol per questo, a rigore, si dovrebbe ritenere che in tali casi l’ordine di riduzione in pristino venga ad assumere natura sostanzialmente penale, risultando con ciò impossibile la sua applicazione retroattiva. Il divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, per le ragioni precedentemente esposte (cfr. § 4.), seguirebbe la medesima sorte. Ancora più interessante l’applicazione del terzo dei c.d. Engel criteria, quello della severità della sanzione. In questo caso sembra che il criterio venga soddisfatto non solo con riferimento alle ipotesi di ordine di riduzione conseguente a un abuso formale, ma anche a un abuso sostanziale. La portata afflittiva della misura amministrativa sembra in entrambi i casi sufficiente a consentire di qualificarla come di natura sostanzialmente penale.

Come è stato correttamente affermato in dottrina “la misura ripristinatoria soggiace alla regola aurea della proporzionalità, e, se la sorpassa, trasmodando in sanzioni afflittive, non è tanto illegittima o indebita (...) quanto resta per ciò stesso vincolata ai relativi principi, e alle “garanzie minime”, prima tra queste l'irretroattività. La cui violazione ne comporta l’illegittimità” [97].

La statuizione richiede qualche ulteriore precisazione. In precedenza si è infatti rimarcato come l’afflittività non possa essere ritenuta un valido criterio per distinguere, sul piano del diritto interno, le misure ripristinatorie dalle sanzioni amministrative in senso tecnico [98] (cfr. § 2.3).

Ma tale criterio, al contrario, opera come fondamentale strumento di discernimento in base ai principi Cedu: la categoria delle sanzioni sostanzialmente penali, elaborata dalla Corte di Strasburgo, opera in senso trasversale rispetto alla tipologia internistica fondante sulla distinzione tra sanzioni amministrative in senso tecnico e misure amministrative ripristinatorie.

In altri termini, si deve ritenere che anche quelle misure amministrative che mancano di una funzione repressiva/preventiva e che quindi non sono correttamente qualificabili quali sanzioni amministrative in senso tecnico, possano comunque rientrare nel novero delle sanzioni sostanzialmente penali nei termini e per i fini ricavabili dalla giurisprudenza Cedu.

Deve oggi ritenersi pacifico che “secondo una regola già esplicitata nel caso Engel (...) e in seguito sempre ripetuta e quindi ormai indubbiamente radicata, una misura (che faccia seguito alla commissione di un illecito) deve dirsi penale ove anche presenti un contenuto e delle finalità non punitive in senso stretto, ma, ad esempio ripristinatorie e di cura in concreto dell’interesse pubblico. Ciò purché si caratterizzi - quale presupposto in sé sufficiente di riconduzione alla sfera del penale - per una significativa gravità di stampo penalistico” [99].

Per queste ragioni, ribadiamo, si dovrebbe ritenere che l’ordine di riduzione in pristino debba essere qualificato quale misura sostanzialmente penale anche quando abbia carattere ripristinatorio e cioè quando viene adottato per reagire a un abuso sostanziale.

Quanto sin qui si è sostenuto in merito all’applicazione del criterio della “gravità” consente di rispondere al primo dei quesiti oggetto dell’analisi che stiamo conducendo: ci si è chiesti, in primis, quale sia la natura dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. In questo senso si è dimostrato come, alla luce della giurisprudenza Cedu, l’ordine in parola andrebbe sempre considerato misura amministrativa sostanzialmente penale, indipendentemente dal fatto che venga adottato per reagire a ipotesi di abusivismo formale o sostanziale.

Quanto preme in questa sede specificare è invece la limitata significatività che tali conclusioni rivestono nell’ottica di rispondere al secondo quesito in trattazione e cioè quello riguardante l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Infatti, come si è già evidenziato (cfr. § 4.2), il divieto di autorizzazione postuma modifica il regime amministrativo di reazione al solo abusivismo formale, poiché per quanto concerne l’abusivismo sostanziale, ora come allora, risulta impossibile provvedere con la “sanatoria” e di contro è necessario addivenire alla riduzione in pristino.

Non presentandosi una mutazione di regime per quanto concerne la repressione dell’abusivismo sostanziale, non si pone nemmeno il problema dell’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione postuma e del correlato ordine di riduzione in pristino. Dunque, l’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego di autorizzazione in sanatoria riveste sempre natura sostanzialmente penale, ma ciò incide solo sull’ambito di applicazione temporale del regime amministrativo di reazione all’abusivismo formale.

Per quanto riguarda tali ipotesi, infatti, la stretta connessione che intercorre tra la sopravvenuta introduzione del divieto e l’adozione dell’ordine di riduzione in pristino (cfr. 4.2) consente di predicare la non applicabilità retroattiva di entrambi, garantendo al contrario la sopravvivenza del regime sanzionatorio più mite previgente.

5.3. Il tema è stato affrontato anche dal giudice amministrativo: la granitica giurisprudenza del Consiglio di Stato, a partire dalla sentenza pilota della Sezione VI, n. 5245 del 2018, richiamata anche nelle pronunzie più recenti [100], accoglie una soluzione di segno opposto rispetto a quella appena rappresentata. In tale occasione il Consiglio di Stato non ha riscontrato la sussistenza di alcuno dei tre criteri Engel.

In relazione al primo criterio, quello della qualificazione formale, nulla quaestio.

Per quanto riguarda il secondo indice invece, la natura della sanzione alla luce della sua funzione punitiva/deterrente, il Collegio ha ritenuto che lo scopo dell’ordine di riduzione in pristino fosse “nelle intenzioni del legislatore esclusivamente quello di tutelare la pubblica funzione” ricordando come “occupandosi di sanzioni amministrative, la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha escluso che si configurino come “penali”, nel significato convenzionale del termine, quelle misure che soddisfano generiche pretese risarcitorie o che sono essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità restaurando l'interesse pubblico leso”.

Nemmeno il terzo indice, che valorizza la gravità del sacrificio imposto, avrebbe poi trovato riscontro nel caso concreto, in quanto la controversia concerneva la “demolizione di una porzione assai limitata dell'immobile preesistente”, sicché appariva assente quel connotato di “speciale” gravità, necessario affinché l’ordine di riduzione in pristino risultasse assimilabile, sul piano dell’afflittività, a una sanzione penale.

La posizione del Collegio sembra prestare il fianco a non poche osservazioni critiche. Per quanto concerne l’applicazione del secondo dei criteri Engel deve innanzitutto rilevarsi la non condivisibilità della statuizione del Collegio per cui l’ordine di riduzione in pristino sarebbe misura di scopo eminentemente ripristinatorio, in quanto funzionalizzata alla mera “restaurazione” dell’interesse pubblico particolare tutelato dall’amministrazione.

A questo proposito si è già ampiamente argomentato come, quantomeno in relazione ai casi in cui l’ordine di riduzione in pristino viene adottato a fronte di ipotesi di mero abusivismo formale, se ne debba riconoscere la funzione esclusivamente repressiva/preventiva. Di ciò il giudice amministrativo sembra non avvedersi.

Sotto altro profilo la pronunzia, esponendosi in modo così tranchant sul punto, sembra quasi alludere al fatto che la natura ripristinatoria della misura sia in grado, in linea generale, di escluderne la natura sostanzialmente penale, ciò che, come si è già avuto occasione di rilevare (cfr. § 5.2), è negato dalla costante giurisprudenza Cedu.

Diverse note critiche riguardano anche l’asserita inapplicabilità del terzo dei criteri Engel.

Il Collegio, con la sentenza n. 5245 del 2018, come si è già detto, ha ritenuto che il terzo criterio non potesse trovare applicazione in quanto la misura, nel caso concreto, sarebbe stata priva di connotati di speciale gravità [101].

A questo proposito non può non suscitare qualche riflessione già il fatto che il Consiglio di Stato, in più occasioni, abbia ritenuto inapplicabile il terzo criterio per le medesime ragioni di ordine pratico a suo tempo rilevate nella sentenza n. 5245 del 2018 [102]. Tale operazione di pedissequo richiamo sembrerebbe presupporre una perfetta corrispondenza tra le situazioni di fatto dedotte in giudizio, che però il Consiglio di Stato, nelle pronunzie più recenti, non ha affatto argomentato.

In secondo luogo sembra quantomeno dubbio che si possa escludere la sussistenza di uno degli Engel criteria avendo riguardo al mero atteggiarsi della sanzione nel caso concreto.

Non sembra plausibile che la natura penale della sanzione debba essere verificata “caso per caso”, ciò che parrebbe porsi in radicale contrasto con le fondamentali esigenze di certezza, prevedibilità e conoscibilità proprie del diritto penale.

Merita infine ricordare che in base alla giurisprudenza Cedu il carattere della particolare afflittività consente di qualificare la misura come di natura sostanzialmente penale indipendentemente dalla sua riconducibilità sul piano del diritto interno al novero delle sanzioni amministrative in senso tecnico. Il giudice amministrativo nella sua costante giurisprudenza non nega espressamente il principio, ma nei fatti non ne fa applicazione, per lo più avvalendosi del medesimo schema argomentativo di cui alla sentenza 5245 del 2018.

5.4. Riprendendo le fila del discorso, si deve dunque ritenere che la corretta applicazione degli Engel criteria conduca alla qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino quale misura amministrativa di natura sempre e comunque sostanzialmente penale.

Da tale premessa, a ben vedere, si possono trarre le medesime conclusioni già predicate sul piano del diritto interno in merito al regime intertemporale del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Si è già rilevato come l’analisi puntuale della normativa contenuta agli artt. 146 e 167 del Codice consenta di ricavarne un “combinato disposto a formulazione sintetica”: all’ordine di riduzione in pristino andrebbe riconosciuta una “doppia natura”, sanzionatoria quando consegue a un’ipotesi di abuso formale, prevalentemente ripristinatoria quando viene adottato per fronteggiare ipotesi di abusivismo sostanziale. La corretta qualificazione dell’ordine in parola ha consentito, in forza della stretta connessione che intercorre tra i due istituti (cfr. § 4.1), di risolvere alcune questioni di regime concernenti il divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

A questo proposito si è puntualizzato che l’introduzione del divieto ha modificato la sola sorte degli interventi formalmente abusivi, imponendone la riduzione in pristino, mentre per gli interventi sostanzialmente abusivi la riduzione in pristino è sempre stata inevitabile in quanto non sono mai stati “autorizzabili via postuma”.

Perciò dall’analisi del diritto interno si è ricavato che il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma e il connesso ordine di riduzione in pristino non possono trovare applicazione retroattiva agli interventi formalmente abusivi effettuati prima del 2006 (cfr. § 1.2), mentre per quanto concerne gli interventi sostanzialmente abusivi qualsivoglia considerazione al riguardo risulta un fuor d’opera, in quanto tali opere risultano intrinsecamente insanabili sicché il divieto di autorizzazione in sanatoria non può trovare applicazione e dunque il relativo regime amministrativo non è mutato nel tempo.

Proprio quest’ultima considerazione consente di riconoscere una perfetta simmetria tra i risultati argomentativi raggiunti sul piano del diritto Cedu e interno. È vero infatti che l’ordine di riduzione in pristino, nell’ordinamento interno, riveste carattere senz’altro sanzionatorio solo quando viene adottato a fronte di un abuso formale, mentre in base alla giurisprudenza Cedu riveste sempre natura sostanzialmente penale e quindi non risulterebbe in nessun caso applicabile in via retroattiva, tuttavia, come si è già ricordato, l’introduzione del divieto di autorizzazione in sanatoria ha modificato il solo regime amministrativo di reazione all’abusivismo formale sicché solo in relazione a tali ipotesi si pone un problema di applicabilità retroattiva.

Quindi anche alla luce dei principi Cedu è corretto affermare che il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma non risulta applicabile in senso retroattivo, come non può trovare applicazione retroattiva l’ordine di riduzione in pristino dell’opera formalmente abusiva, che ne è necessaria conseguenza.

 

Note

[*] Federico Margheri Biagi, dottorando di ricerca in studi giuspubblicistici presso l’Università di Roma Tor Vergata, Via Cracovia 50, 00133 Roma, federicomargheri@gmail.com.

[1] Il Cons. St. in sede consultiva (Cons. Stato, Comm. spec., parere n. 5 del 9.5.1977) aveva inizialmente ritenuto, nel tacere della legge, che l’indennità di cui all’art. 15, legge 1497 del 1939, al pari dell’ordine di riduzione in pristino, avesse natura fondamentalmente risarcitoria.

La giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, si è quasi da subito espressa in senso opposto (tra la giurisprudenza minoritaria di segno contrario cfr., ex pluribus, Tar Lazio, II-bis, n. 3370 del 20.4.2002), con un orientamento poi rimasto stabile sino all’entrata in vigore del Codice: il Cons. St. ha a lungo ritenuto che quella prevista dall’art. 15, cit. (e poi dall’art. 164 della legge n. 490 del 1999) fosse una sanzione pecuniaria in senso stretto, posta a presidio della legalità formale e sostanziale in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Di conseguenza, il privato autore dell’abuso sarebbe stato tenuto a versarla anche a fronte del rilascio dell’autorizzazione postuma e cioè anche in caso sanatoria di un mero abuso formale (cfr., ex pluribus, Cons. Stato, VI, n. 5851 del 2000, cit.; Cons. Stato, VI, n. 5373 del 2000, cit.; Cons. Stato, VI, n. 3184 del 2.6.2000).

La soluzione ha trovato stabile accoglimento in dottrina e in giurisprudenza, cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, pag. 1448 ss.

[2] Al contrario, tale dibattito non ha la capacità di incidere sui termini della diatriba inerente alla natura dell’ordine di riduzione in pristino.

[3] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 6007 del 8.11.2000; Cons. St., VI, n. 6130 del 16 novembre 2000.

[4] Anche in seguito all’abrogazione della legge n. 497 del 1939 il potere di irrogazione della sanzione pecuniaria è sopravvissuto all’art. 164 della legge n. 490 del 1999 e ciò ha consentito, per un certo periodo di tempo, di ritenere la soluzione esegetica ancora attuale.

[5] Deve invero segnalarsi che peraltro, in termini teoria generale, sembra possibile dubitare che il contrasto tra i due principi realmente sussistesse. In questo senso si veda G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in Atti del LIII convegno di studi di scienza dell’amministrazione. Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Milano, 2008, pag. 239 ss.; in particolare ivi pag. 239: “Sono invece da ascrivere alla categoria [dei poteri impliciti] i provvedimenti a sanatoria di comportamenti realizzati senza titolo, che hanno determinato la realizzazione di una res”; ma cfr. anche M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1453 “l’ammissibilità dell’autorizzazione paesistica “in sanatoria” è stata affermata in ragione della generale compatibilità della “sanatoria” con l’istituto dell’autorizzazione amministrativa”.

[6] In altri termini la giurisprudenza prevalente riservava la misura della riduzione in pristino alle sole ipotesi di abuso c.d. sostanziale, cfr. A. Padalino Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, (a cura di) V. Piergigli e A.L. Maccari, Milano, 2006, pag. 761 ss. L’orientamento è stato accolto con alterna fortuna in dottrina: cfr., per un’aspra quanto autorevole critica, P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, in Urb. app., n. 4 del 2004, pag. 384 ss.; in senso favorevole cfr., in dottrina più recente, A. Calegari, Osservazioni critiche in merito al divieto di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria sancito dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Riv. giur. urb., 2008, 1-2, pag. 192 ss.

[7] Nel senso del complessivo “equilibrio” della precedente disciplina cfr. A. Padalino Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, cit., pag. 766.

[8] Cfr. A. Angiuli, Commento all’articolo 146, in Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) A. Angiuli e V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005, pag. 389.

[9] Salvo quanto si dirà in seguito sull’interessante ma minoritario e superato orientamento giurisprudenziale e dottrinale che sarà meglio analizzato in § 4.4.

[10] Cfr. D. Sandroni, Commento all’art. 146, in Il codice dei beni cultuali e del paesaggio. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Milano, 2005, pag. 669 ss., in particolare pag. 682 ss.

[11] Cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 384 ss.: l’A. argomenta variamente nel senso del danno che sarebbe derivato alla tutela del paesaggio da un intervento legislativo che avesse accolto l’orientamento giurisprudenziale prevalente, nel senso del mantenimento dell’ammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Il tema sarà più attentamente analizzato in § 4.5, dove si evidenzierà come le opposizioni allora avanzate dall’Autore sembrino non risultare più attuali (ciò che peraltro Lui stesso, già allora, prefigurava).

[12] Cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1455.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. P. Cerbo, Commento all’art. 167, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, pag. 691.

[16] Cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1455; S. Rossi, M.V. Lumetti, Le sanzioni amministrative relative ai beni paesaggistici, in T. Autieri, M. De Paolis, M.V. Lumetti, S. Rossi, Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, Santarcangelo di Romagna, 2007, pag. 443; A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 197. Cfr., in giurisprudenza, Tar Puglia, Lecce, I, n. 871 del 24.2.2005.

[17] In merito alla rimozione dell’antinomia, cfr. S. Rossi, M.V. Lumetti, Le sanzioni amministrative relative ai beni paesaggistici, cit., pag. 444: “Il d.lgs. 157/2006 ha risolto queste problematiche ponendo per converso un netto collegamento tra le due norme che quindi non si pongono più in alcun contrato ma anzi si integrano reciprocamente: la sanzione pecuniaria, quindi, viene irrogata solo nei casi in cui sussiste la compatibilità paesaggistica delle opere e proprio in questi stessi e tassativi casi è possibile richiedere l’autorizzazione in sanatoria”. Per quanto concerne la condivisibile introduzione di ipotesi di sanabilità all’art. 167, comma 4, cfr., per un’opinione forse fin troppo ottimistica, P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 692 ss.; come è stato autorevolmente segnalato tuttavia, da parte di altra dottrina, “Non poche sono state le critiche mosse al legislatore nell’aver tipizzato le ipotesi nelle quali può essere accertata, a richiesta del soggetto interessato, la compatibilità paesaggistica ex post degli interventi”, cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1456; ma per un commento alla novella del 2006 cfr. anche M.R. Spasiano, Commento all’art. 146, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, pag. 1323 ss.

[18] Cfr., ex multis, Cons. Stato, VI, 21.5.2009, n. 3140; Cons. Stato, VI, 22.6.2007, n. 3483; Cons. Stato, VI, 2.5.2007, n. 1917; Tar Emilia-Romagna, Bologna, n. 951 del 12.6.2009; Tar Emilia-Romagna, Bologna n. 589 del 9.6.2016. Con quest’ultima pronunzia il Tar aderì all’orientamento espresso dal ministero della Cultura in sede consultiva (parere n. 9907 del 29.5.2012) in merito al regime di diritto intertemporale applicabile al divieto in parola: “Il MIBAC osserva che il carattere innovativo delle richiamate modifiche apportate al Codice (che non appaiono strutturate come norme di interpretazione autentica) e la circostanza che il legislatore abbia ritenuto di intervenire espressamente per stabilire la vigenza del divieto durante la fase transitoria, militano nel senso di indurre l'interprete a ritenere che il divieto di autorizzazione paesaggistica ex post sia effettivamente entrato in vigore solo con l'emanazione del c.d. primo correttivo al Codice”.

In dottrina cfr. P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità in tema di beni paesaggistici, in Aedon, 2019, 1, pag. 4; per un’opinione di segno contrario cfr. A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 197 ss.

[19] Cfr. P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 692 ss.

[20] Per un’analisi puntuale della questione si rimanda a E. Boscolo, L’inammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria: riaffermazione del principio e questioni sempre aperte, commento a Tar Campania, Napoli, III, 24 marzo 2015, n. 1718, in Urb. app., 2015, 7, pag. 838 ss.

[21] Le ipotesi, ex art. 167, comma 4, sono: “a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”.

[22] Ex art. 167, comma 5 individuata in “una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione”.

[23] Sorgono “perplessità circa la soluzione legislativa di un’ipotesi in cui è esclusa la sanabilità di un intervento che potrebbe invece essere ritenuto compatibile con il vincolo paesaggistico”, cfr. P. Stella Richter, Dizionario giuridico di urbanistica ed edilizia, Milano, 2018, pag. 23.

[24] Per un’efficace critica cfr. A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 204 ss. Si segnala anche R. Leonardi, I limiti dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit. per un commento alla questione pregiudiziale sollevata dal Tar Sicilia, Palermo ex art. 267 TFUE, con cui è stato ipotizzato il contrasto tra la disciplina codicistica dell’autorizzazione paesaggistica postuma e il principio di proporzionalità.

[25] Per una riflessione intorno alle ragioni che hanno condotto all’attuale sistemazione normativa cfr., P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità, cit., pag. 5 ss.

[26] Cfr. A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 207 ss.: “Se è difficile - come ho detto - dimostrare l’illegittimità costituzionale del (...) divieto introdotto dal Codice del 2004, si può nondimeno osservare che tale divieto non è certamente imposto dalla Costituzione e neppure risponde a particolari esigenze di tutela. Al contrario esso confligge con principi di carattere generale, che imporrebbero, a mio avviso, una pronta ed ulteriore modifica della norma da parte del legislatore statale, perché rispondente ad un assetto degli interessi ingiustificatamente squilibrato a vantaggio di supposte esigenze di tutela che potrebbero altrimenti essere soddisfatte”.

[27] Con ciò aderendo alla tesi già avanzata, pur in forma dubitativa, dal Mibact nel parere n. 9907 del 29.5.2012 e poi ribadita con maggior decisione nel parere n. 30815 del 16.12.2015.

[28] Cfr. Tar Emilia-Romagna, Bologna, II, n. 589 del 2016, cit.; Tar Emilia-Romagna, Bologna, II, n. 680 del 29.6.2016, ma cfr. ancor prima, nel senso dell’irretroattività del divieto, Tar Lazio, II-quater, n. 5638 del 9.6.2008.

[29] Cfr. Cons. St., VI, n. 922 del 28.2.2017.

[30] Nello stesso senso si era già pronunciata parte della giurisprudenza amministrativa, non affrontando tuttavia la questione dell’applicazione dei c.d. criteri Engel, cfr. Cons. St., IV, n. 4943 del 24.11.2016. In ogni modo la giurisprudenza più recente opera costante riferimento alla sola sentenza del Cons. St. n. 5245 del 2018.

[31] Cfr. ex pluribus, tra le più recenti, Cons. St., VI, n. 1573 del 16.2.2024; Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Sardegna Cagliari, II, n. 86 del 5.2.2024; Cons. St., VI, n. 3026 del 21.4.2022; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 5.5.2021 ma cfr. anche Cons. Stato, I, n. 390 del 7.2.2019 (parere). Ma già prima della sentenza pilota cfr., in senso analogo, Cons. St., IV, n. 4943 del 24.11.2016.

[32] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 3026 del 2022, cit.; Tar Toscana, Firenze, III, n. 1732 del 28.10.2020, n. 1732; Tar Toscana, Firenze, III, n. 61 del 19.1.2017; Tar Sicilia, Palermo, I, n. 1963 del 29.7.2016.

[33] Cfr., ex pluribus, Cons. St., n. 1573 del 2024, cit.; Cons. St., n. 3026 del 2022, cit.; Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 5.5.2021.

[34] Cfr. Cons. St., n. 1573 del 2024.

[35] Cfr. Cons. St., n. 1573 del 2024: “Sotto altro profilo, non pare ravvisabile un problema di tutela dell'affidamento, tale non potendosi considerare il fatto che al tempo della realizzazione dell'opera si sarebbe potuto confidare nella sanatoria dell'abuso, essendo invece pacifico che parte appellante ha dato luogo ad una situazione illecita e, senza alcuna giustificazione, ha atteso quasi dieci anni prima di attivarsi per chiederne la sanatoria e la verifica di compatibilità paesaggistica”.

[36] Il problema dell’imprecisione in cui talvolta incorrono al riguardo dottrina e giurisprudenza non è nuovo, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, 1989, pag. 355: “appare quindi evidente l’imprecisione, non solo terminologica, ma anche concettuale, in cui cadono la giurisprudenza e la dottrina quando propongono di assimilare nel genus “sanzione amministrativa” sia la sanzione amministrativa in senso stretto (cosiddetta ‘sanzione punitiva’) sia la misura amministrativa di esecuzione (cosiddetta ‘sanzione ripristinatoria’)”.

[37] Quale riconosciuto ex art. 1, legge n. 689 del 1981.

[38] Previsto per le sanzioni penali ex art. 25 Cost. ed ex art. 7 Cedu.

[39] Cfr. G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924; più di recente ribadita da autorevole dottrina, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, Milano, 1988.

[40] Cfr. G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, cit., pag. 38; C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, cit., pag. 4.

[41] Ibidem.

[42] Cfr. E. Casetta, Sanzione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., XII, Torino, 1997, pag. 601 ss.: “non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità afflittiva. In queste ipotesi l'uso del termine sanzione - non infrequente in dottrina e in giurisprudenza - deve pertanto reputarsi non appropriato”.

[43] Cfr. ex plurimis, P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, Milano, 1999, pag. 3.

[44] Cfr. C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, cit., pag. 3.

[45] Cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 409: “le misure ripristinatorie e le misure alternative non costituiscono sanzioni amministrative e quindi esorbitano dall’ambito della materia disciplinata nella legge n. 689, cit.”.

[46] Per quanto concerne l’irrilevanza del carattere dell’afflittività al fine di operare una distinzione tra misure ripristinatorie e sanzionatorie, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 354: “non ci pare fruttuosa una ricostruzione sistematica che faccia perno sulla “finalità afflittiva” della sanzione amministrativa per dedurre funzioni e griglia dei principi applicabili: si confonde così con la finalità il contenuto della sanzione, fra l’altro comune a qualsiasi strumento di coazione”.

[47] Cfr. F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Il fatto illecito nel diritto amministrativo e nel diritto penale: la garanzia della prevedibilità, (a cura di) F. Centonze e S. Mancorda, Milano, 2021, p. 33; F. Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Torino, 2017, p. 34.

[48] Cfr. F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 31. Merita ricordare che la reazione alla violazione della legge è uno dei due elementi che valgono a connotare la nozione di sanzione amministrativa in senso ampio.

[49] Cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 354 ss.; cfr. N. Bobbio, Sanzione, in Nov. dig. it., XVI, Torino, 1969, pag. 531 ss.

[50] Cfr. F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., in particolare pag. 31 s.

[51] Cfr., ex pluribus, P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, cit., pag. 4.

[52] Cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 355 ss.

[53] Cfr. F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 31.

[54] Che, in base alla consolidata giurisprudenza amministrativa, come già si è anticipato in § 1, si deve ritenere decorra dal 24 marzo 2006, data di entrata in vigore del d.lg. n. 157 del 2006, correttivo del Codice.

[55] Cfr., ex plurimis, C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 355 ss.; P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, cit., pag. 4.

[56] Cfr., Cons. Stato, VI, n. 3026 del 2022, cit. in tema di divieto di autorizzazione postuma, che peraltro richiama espressamente Cons. Stato, II, n. 4154 del 31 maggio 2021, in tema di abusi edilizi in genere. Il Cons. St. invece nella sent. n. 1573 del 2024, cit. ha espressamente disatteso gli argomenti di parte appellante che negava la possibilità di qualificare l’illecito paesaggistico quale illecito permanente.

[57] Non si tratta infatti di errori bensì di approssimazioni, che conducono a conclusioni non scorrette ma imprecise.

[58] Parte della dottrina ha addirittura ipotizzato che l’attuale disciplina dell’autorizzazione paesaggistica postuma implichi l’operatività di “meccanismi presuntivi, generali e astratti, secondo cui, al di fuori dei casi di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), b) e c), non è possibile un accertamento concreto, tecnico - discrezionale, in ordine alla compatibilità con le norme paesaggistiche di un’opera previamente non autorizzata”, cfr. R. Leonardi, I limiti dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria tra tutela del paesaggio e del diritto di proprietà: applicazione di misure presuntive o accertamento concreto della compatibilità paesaggistica, in Riv. giuridica dell’edilizia, n. 3 del 2013, pag. 476.

La tesi in verità non convince: sembra che il legislatore abbia disegnato una disciplina che opera “come se” ci si trovasse in presenza di un abuso sostanziale, senza però introdurre alcuna presunzione.

[59] La previsione, un tempo contenuta all’art. 13, legge n. 47 del 1985, è poi rifluita nell’art. 36, d.p.r. n. 380 del 2001.

[60] Cfr. S. Scarlatelli, Sulla natura ripristinatoria delle sanzioni per abusi edilizi, in Urb. app., 2003, pag. 346 ss.

[61] Cfr. B. Graziosi, Il divieto di sanatoria paesaggistica tra sopravvenienza del vincolo e sopravvenienza del divieto, in Urb. app., 2019, 6, pag. 768: “La sanzione demolitoria così come è oggi configurata dal sistema vigente non è quindi intrinsecamente, e cioè sostanzialmente, restitutoria. Lo è solo nel senso che pretende - finalisticamente - solo il corretto svolgimento del procedimento autorizzatorio, imponendo la sua rinnovazione, ma prescinde totalmente dalla, per così dire, materialità dello stato dei luoghi”.

[62] Si potrebbe semmai svolgere una riflessione intorno alla funzione (ripristinatoria, sanzionatoria o mista) dell’ordine di riduzione in pristino per quanto concerne quelle ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 36, d.p.r. n. 380 del 2001, il diniego di permesso in sanatoria derivi esclusivamente dalla difformità rispetto alla disciplina edilizia sostanziale vigente al momento della realizzazione dell’intervento abusivo. Non pare tuttavia questa la sede opportuna per dare compiuto sviluppo al discorso.

[63] Ivi, pag. 766 ss.

[64] Cfr. E. Boscolo, L’inammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 839 ove peraltro cita espressamente la sentenza in commento: Tar Campania, Napoli, III, 24.3.2015, n. 1718. Sia l’A. che la pronunzia, pur riconoscendo “un indubbio carattere restrittivo e di rigore sanzionatorio” alla disciplina di cui all’art. 167, cit., hanno ritenuto comunque corretto predicare l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

[65] Si tratta d’altronde di un errore non nuovo, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 355.

[66] D’altronde la dottrina anteriore all’entrata in vigore del Codice dava per scontato che l’ordine di riduzione in pristino non fosse adottabile in caso di sanatoria, proprio perché in tali ipotesi l’intervento è “compatibile con il bene protetto”, cfr. A. Mansi, La tutela dei beni culturali e del paesaggio, Padova, 2004, pag. 603.

Deve peraltro segnalarsi come parte della giurisprudenza, nel ritenere applicabile l’ordine di riduzione in pristino alle ipotesi di abusivismo formale, ne abbia però riconosciuto la natura di misura sanzionatoria, cfr., ex pluribus, Tar Napoli, Campania, VIII, n. 1645 del 27 marzo 2017: “La necessità di difendere al massimo livello il paesaggio impone una soluzione legislativa che, nei con fronti degli interventi edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente dissuasivo se non punitivo - sanzionatorio”.

[67] Quando ricorre un intervento riconducibile al novero del 167, comma 4, cit. l’eventuale diniego di autorizzazione postuma non discende dall’applicazione del divieto di cui agli artt. 146, comma 4 e 167, comma 1 cit., bensì da una valutazione dell’amministrazione che ritiene sussistere un abuso sostanziale e cioè un effettivo contrasto tra l’intervento e la normativa posta a tutela del bene paesaggio.

[68] Cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, n. 589 del 2016, cit.; Tar Emilia Romagna, Bologna, n. 680 del 2016, cit.

[69] Richiamata anche nell’obiter dictum della sentenza del Cons. St. n. 1573 del 2024.

[70] Cfr., ex plurimis, Cons. St., IV, n. 4943 del 24.11.2016; Cons. St., VI, n. 5245 del 6.9.2018; Cons. St., VI, n. 3026 del 21 aprile 2022; Cons. St., II, n. 5568 del 6 giugno 2023; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 5 maggio 2021; Tar Sardegna Cagliari, II, n. 86 del 5 febbraio 2024.

[71] Cfr., ex multis, R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo. Parte generale e speciale, Molfetta, 2023, pag. 1152: “L’adozione della sanzione è in ogni caso doverosa: accertato l’abuso, la Pubblica Amministrazione è tenuta ad emanare la relativa misura repressiva”.

[72] Vietato ex art. 34, comma 2, c.p.a.

[73] Cfr., ex pluribus, Tar Puglia, Lecce, I, n. 871 del 2005, cit. Cfr., al riguardo, tra i molti che si sono occupati del tema, S. Rossi., M.V. Lumetti, Le sanzioni amministrative relative ai beni paesaggistici, cit., pag. 443: “Il giudice amministrativo aveva ritenuto che l’eventuale applicazione della sola sanzione pecuniaria avrebbe dovuto comunque presupporre l’accertamento da parte dell’amministrazione preposta di una violazione rispetto alla tutela paesaggistica ancorché evidentemente di consistenza minore (...). Pertanto, e soprattutto, proprio in considerazione di tale diverso giudizio di fondo, la sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 - diversamente dall’intervento autorizzatorio - non ne elide il carattere illecito, per cui le conseguenze giuridiche della illegittimità delle opere non vengono sanate compromettendone la sorte giuridica”.

[74] Cfr. P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 691.

[75] In merito all’orientamento giurisprudenziale che ammetteva tale soluzione cfr. § 1.2.

[76] In dottrina vi è stato chi, subito dopo l’introduzione del Codice, ha definito l’applicazione della misura ripristinatoria alle ipotesi di abuso formale “prima ancora che ingiust[a], irrazional[e]”, auspicando e addirittura prevedendo la correzione giurisprudenziale per via interpretativa dell’eccessivo rigore normativo, cfr. A. Padalino Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, cit., pag. 767.

In questo senso pare possano richiamarsi anche le considerazioni svolte in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Introduzione al diritto dell’ambiente, Bari, 2018, pag. 314 s. ove, in relazione alla qualificazione delle misure amministrative previste ex art. 167, cit. si sostiene che “se si tratta di sanzioni amministrative, volte a punire una regola di condotta è possibile che il pagamento sia imposto anche per illeciti meramente formali (che non hanno prodotto alcun danno al bene tutelato); se, invece, si tratta di una misura ripristinatoria e di una misura pecuniaria alternativa alla prima, il presupposto di entrambe è la sussistenza di un danno materiale al bene vincolato”.

Ma la problematicità del punto è stata rilevata anche dalla più risalente giurisprudenza che, nell’argomentare la natura sanzionatoria dell’indennità dovuta ex art. 164, legge n. 164 del 1999, giungeva a tali conclusioni anche osservando che tale indennità doveva essere pagata in “ogni ipotesi di inottemperanza agli obblighi e ordini in materia di tutela del paesaggio stabiliti dalla legge n. 1497, senza alcuna distinzione fra violazioni sostanziali (produttive di un danno ambientale effettivo) e violazioni formali, sicché si tratta di misure non solo ripristinatorie, ma anche deterrenti” cfr. Cons. St., VI, n. 6130 del 2000 e Cons. St., VI, n. 3184 del 2 giugno 2000.

[77] Cfr. ex pluribus, Tar Lombardia, Brescia, I, n. 3555 del 22 settembre 2010, che prosegue: “La soluzione opposta sarebbe irragionevolmente gravosa per il privato e inutile (o controproducente) per l’interesse pubblico”; Tar Lombardia, Brescia, I, n. 317 del 19 marzo 2008: “Se non ci si ferma a un’interpretazione letterale dell’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 e si integra la norma col principio di proporzionalità, si può osservare come il divieto si sanatoria paesistica abbia in realtà la funzione di impedire all’amministrazione di trasformare ordinariamente, attraverso il giudizio di compatibilità paesaggistica, il danno ambientale in equivalente in denaro”; Tar Lombardia, Brescia, I, n. 2139 del 25 maggio 2010.

Dottrina minoritaria sembrava caldeggiare da tempo tale soluzione, cfr. A. Gentile, L’autorizzazione paesaggistica nel d.l.vo. n. 42/2004, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, n. 1 del 2005, pag. 738 s.

[78] Cfr. N. Pignatelli, L’autorizzazione paesaggistica. Profili costituzionali e procedimentali, Napoli, 2024, pag. 161, che correttamente evidenzia il contrasto di tale orientamento con il principio di legalità.

[79] In via del tutto ipotetica, in quanto la premessa non sembra condivisibile e il citato orientamento giurisprudenziale pare criticabile.

[80] Merita rammentare che la natura “maggiore” o “minore” dell’abuso dipende dal tipo di intervento, non dalla gravità della lesione al bene paesaggio o dalla sussistenza stessa della lesione. Quanto si intende dire risulterà forse più chiaro ove si ricordi che anche per le ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit. è necessario verificare se l’autorizzazione in sanatoria sia rilasciabile in concreto: in altri termini, è necessario verificare se l’abuso, oltre che “minore” sia anche “formale”.

[81] Il che si ricava dalla piana applicazione dell’art. 1, legge 689 del 1981 ed è pacificamente riconosciuto in dottrina e giurisprudenza, cfr., ex plurimis, A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm., 2014, n. 4, pag. 630.

Non sembra peraltro possibile aggirare l’ostacolo sostenendo che sarebbe possibile addivenire all’applicazione del 167, comma 5 per via di mera interpretazione estensiva: per espressa previsione legislativa infatti la norma da ultimo citata trova applicazione alle sole ipotesi di abusivismo “minore”.

[82] La soluzione, di per sé già irragionevole, non si discosta però molto da quanto in passato affermato giurisprudenza nell’interpretazione del Codice prima del correttivo del 2006. Ci si riferisce all’orientamento espresso da Tar, Puglia, Lecce n. 4943 del 2005, che consentiva l’applicazione della sola sanzione pecuniaria senza però ammettere la sanatoria dell’intervento.

[83] Cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 384 ss., la tesi ha trovato peraltro condivisione in dottrina, cfr., ex pluribus, A. Padalino Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, cit., pag. 762.

[84] Le ragioni sono numerose, cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 389 che sottolinea in particolare come in tali situazioni “la logica del fatto compiuto comporta, di regola, la sostanziale soccombenza e l’irrimediabile pregiudizio del bene protetto. (...) In realtà ben potrebbe avvenire che un intervento, che non si sarebbe autorizzato ex ante, nondimeno possa giudicarsi ex post meritevole della sola sanzione pecuniaria, o di questa e di una solo parziale demolizione”, e ancora che “l’esame preventivo del progetto può condurre a misure prescrittive o modali - poste a condizione dell’atto di assenso - capaci di compatibilizzare l’intervento col vincolo”. Cfr., in senso contrario, A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 200: “L’esperimento di una valutazione in un momento successivo rispetto alla realizzazione dell’intervento non elimina il fatto che il giudizio di compatibilità è comunque un giudizio ex ante, nel quale, cioè, l’amministrazione è chiamata ad effettuare la sua valutazione rispetto alla situazione precedente all’esecuzione delle opere, fermo restando che rappresenta un preciso onere per il richiedente dimostrare la compatibilità di quanto nel frattempo realizzato con la situazione anteriore, che egli stesso deve innanzitutto ricostruire e documentare”; cfr., per un’interessante soluzione de iure condendo, ivi, pag. 206: “I timori che stanno alla base dell’introduzione del divieto possono essere, tuttavia a mio avviso superati (ed in parte già lo sono) sul piano del procedimento, con la semplice introduzione nella sequenza procedimentale tipica della sanatoria, di aggravamenti che non sono presenti nel procedimento di autorizzazione preventiva”.

[85] Cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 391.

[86] Cfr. P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 687, che riconosceva come già nella formulazione dell’articolo 167 successiva al 2006 “rispetto alla precedente formulazione della disposizione la verifica circa la compatibilità dell’intervento non autorizzato con il paesaggio non è basata più su scelte discrezionali, bensì su valutazioni tecniche.” e ancora “in definitiva, dunque, il giudizio di compatibilità paesaggistica di un’opera realizzata in violazione degli obblighi posti a tutela del paesaggio non è più discrezionale; è invece - nell’ambito di ipotesi normativamente previste - esclusivamente tecnico”.

[87] Cfr. G. Zborowski, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, in Trattato di diritto del territorio, (a cura di) F.G. Scoca, P. Stella Richter e P. Urbani, Milano, 2018, vol. II, pag. 1132.

[88] D’altronde lo stesso A. dimostra una posizione già più aperta nelle sue più recenti pubblicazioni, cfr. P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità, cit., pag. 6 ss.

[89] Cfr. A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 199.

[90] Cfr. M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in Federalismi.it, 2017, 4, pag. 3: “Seguendo un approccio marcatamente sostanziale la giurisprudenza di Strasburgo ha dunque superato anche la distinzione, classica nel nostro ordinamento, tra sanzioni in senso stretto e provvedimenti ablatori-ripristinatori”.

[91] A. Travi, Incertezza delle regole, cit., pag. 634: “Negli scritti di matrice amministrativistica a cavallo della legge del 1981, emergeva peraltro anche l’insufficienza della concezione meno drastica che considerava le sanzioni amministrative come species di un genus costituito insieme con le sanzioni penali, secondo uno schema che invece oggi sembra affermarsi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

[92] Cfr. F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 27.

[93] I criteri, elaborati a partire dal caso Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 8.6.1976, Engel and others v. the Netherlands, sono stati ribaditi e meglio precisati nella successiva giurisprudenza Cedu, si veda in particolare la sentenza del 4.3.2014, Grande Stevens and others v. Italy.

[94] Cfr., ex plurimis, R. Giovagnoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Torino, 2023, pag. 1433; A. Cosentino, Sanzioni amministrative e a carattere punitivo, in Le fonti del diritto, il ruolo della giurisprudenza e il principio di legalità, (a cura di) G. Grasso e.a., pag. 243.

[95] Autorevole dottrina ha ritenuto plausibile che la fattispecie in esame soddisfi gli Engel criteria, cfr. P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità, cit., pag. 7. La tesi è stata storicamente sostenuta dal ministero della Cultura, cfr. parere Mibact n. 30185 del 2015.

[96] Cfr. A. Cosentino, Sanzioni amministrative e a carattere punitivo, cit., pag. 243.

[97] Cfr. B. Graziosi, Il divieto di sanatoria paesaggistica tra sopravvenienza del vincolo e sopravvenienza del divieto, cit., pag. 761. Sembra necessario rimarcare come il riferimento all’afflittività quale criterio per determinare la natura penale (e in questo senso “punitiva”) della sanzione, assuma senso solo con riferimento alla nozione autonoma di “sanzione penale” elaborata dalla giurisprudenza europea. Nell’ordinamento interno, come si è ampiamente esposto, la sussistenza di connotati di afflittività non permette di per sé di qualificare la misura quale sanzione amministrativa, ciò che invece è consentito dalla funzione general e special preventiva della norma.

[98] Ciò che risulta fondamentale per determinare l’applicabilità dei principi di cui alla legge n. 689 del 1981, cfr., ex plurimis, C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 409: “Le misure ripristinatorie e le ‘misure alternative’, invece, contrariamente a quanto concluso rispetto ai ‘tipi’ sanzionatori fin qui esaminati, non pongono, sensatamente, a nostro giudizio, il problema dell’estensione nei loro confronti dei principi fissati nella legge n. 689, cit. (...) Un tale problema non ha senso perché le misure ripristinatorie e alternative non costituiscono sanzioni amministrative e quindi esorbitano dall’ambito della materia disciplinata nella legge n. 689, cit.”; F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 40.

[99] Cfr. F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2015, pag. 7; in senso conforme cfr. M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU, cit., pag. 3: “Sono state ricondotte alla “materia penale” non solo misure chiaramente connotate da un carattere punitivo/afflittivo (quali le sanzioni amministrative pecuniare disciplinate nel nostro paese dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, comprese quelle irrogate dalle Autorità amministrative indipendenti), ma altresì tutta una serie di provvedimenti nei quali è ben percepibile un elemento di cura in concreto dell’interesse pubblico”.

[100] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 1573 del 2024, cit.; Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Sardegna Cagliari, II, n. 86 del 2024, cit.; Cons. St., VI, n. 3026 del 2022, cit.; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 2021, cit.

[101] Cfr. Cons. St., n. 5245 del 2018, cit.:”vertendosi qui in ordine alla demolizione di un porzione assai limitata dell'immobile preesistente (il quale conserverebbe per il resto la sua funzionalità abitativa), appare assente quel connotato di “speciale” gravità, necessario perché la misura che non presenta finalità deterrente e punitiva possa essere assimilata, sul piano della sua afflittività, a una sanzione penale o a una sanzione amministrativa”.

[102] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 1573 del 2024; Cons. St., n. 3026 del 2023, cit., ma cfr. anche Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit., in cui il Collegio richiama genericamente l’orientamento espresso nella sentenza del Cons. St., n. 5245 del 2018 con riguardo ai criteri Engel.

 

 

 



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