A proposito dell'autorizzazione in sanatoria: spunti da una recente sentenza
Accertamento ex post di compatibilità in tema di beni paesaggistici
Sommario: 1. La sentenza del Tribunale di Monza: l'autorizzazione in sanatoria di interventi non autorizzati su un bene culturale. - 2. Un passo indietro: prima del Codice. - 3. Perché il divieto di "ex post" è previsto solo per i beni paesaggistici?. - 4. Divieto di sanatoria per gli abusi paesaggistici: alcuni problemi applicativi. - 4.1. L'eccessivo rigore dell'art. 167, comma 4, del Codice. - 4.2. Divieto di sanatoria paesaggistica: tempus regit actum o factum?. - 4.3. Incertezza applicativa del vincolo e buona fede del privato. - 5. Un auspicio per concludere.
Ex post assessment of compatibility related to landscape property
The paper searches for and sets out the reasons why, in the system of rules and regulations regarding the protection of cultural heritage that is currently summarized in the 2004 Code, while the issuing of an amnesty permit to carry out works on the cultural heritage is allowed, the landscape amnesty permit is instead explicitly banned in part III of the Code (article 146, paragraph 4, and article 167, paragraph 4). Furthermore, the paper considers the application problems that have been encountered due to the excessive rigidity of the limits within which article 167 of the Code allows the evaluation of belated landscape compatibility. In the end the paper provides some suggestions for possible solutions to such problems in order to achieve the simplification and greater efficiency and efficacy of the system of administrative sanctions in this field.
Keywords: Protection of cultural heritage; Landscape authorization; Landscape amnesty; Simplification.
1. La sentenza del Tribunale di Monza: l'autorizzazione in sanatoria di interventi non autorizzati su un bene culturale
La sentenza del Tribunale di Monza 15 ottobre 2018, n. 2345, commentata in questo numero della Rivista nel contributo del Prof. Girolamo Sciullo (cui si rinvia per l'esposizione dei fatti), offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale sulla possibilità e sui limiti di ammissibilità della sanatoria amministrativa in caso di interventi realizzati su beni culturali e beni paesaggistici in mancanza della previa autorizzazione richiesta dagli artt. (rispettivamente) 21 ss. e 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 (d'ora in avanti "Codice" o "Codice di settore").
Il profilo di maggiore interesse è costituto dalla differenza di regime tra i beni culturali e i beni paesaggistici. Come bene evidenziato dal Prof. Sciullo, non sussistono particolari dubbi circa la ammissibilità, secondo i principi generali e pur in mancanza di una disciplina positiva di tale istituto, di una sanatoria ex post dell'autorizzazione culturale riguardo a lavori realizzati senza la prescritta autorizzazione preventiva del soprintendente (sempre che i lavori siano giudicati dall'autorità di tutela compatibili con il valore culturale del bene e dunque "autorizzabili", sia pure a posteriori, con annessa possibilità di dettare prescrizioni mitigative e migliorative dell'intervento) [1].
L'esame dell'opposto regime - di divieto della sanatoria (salvi i ristretti limiti di cui all'art. 167 del Codice) - vigente per gli interventi (non preventivamente autorizzati) sui beni paesaggistici costituisce da questo punto di vista un utile itinerario argomentativo per ulteriormente dimostrare la bontà della suesposta conclusione.
2. Un passo indietro: prima del Codice
Prima del Codice, nella vigenza dell'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 (prima) e (poi) del (quasi identico) art. 164 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 490 del 1999, nulla era previsto espressamente nella legislazione di settore riguardo all'ammissibilità di una sanatoria postuma della mancanza dell'autorizzazione paesaggistica. Per la verità il tenore letterale delle disposizioni ora richiamate [2] lasciava spazio per ipotizzare una scelta alternativa, demandata all'autorità preposta alla gestione del vincolo, tra rimessa in pristino stato e mera sanzione pecuniaria, sicché poteva sostenersi "sanato" ex post l'abuso (formale, consistente nella mancata autorizzazione preventiva) ove tale autorità avesse ritenuto "più opportuno" irrogare la sanzione pecuniaria, anziché dare corso alla demolizione.
Il dubbio interpretativo era alimentato dal fatto che, nella contigua materia edilizia, sin dalla legge n. 47 del 1985 (art. 13), era espressamente previsto e disciplinato l'istituto dell'accertamento di conformità [3] (ora rifluito nell'art. 36 del testo unico dell'edilizia di cui al d.p.r. n. 380 del 2001). Lasciava perplessi, dunque, il fatto che il legislatore avesse ritenuto necessario inserire un'esplicita previsione legislativa di "sanatoria" nella materia edilizia e non, invece, nella più "delicata" materia paesaggistica, nella quale (si supponeva) sarebbe stato auspicabile un maggior rigore sanzionatorio e nella quale, invece, il silenzio del legislatore poteva autorizzare "di fatto" la sanabilità degli abusi in diretta applicazione della lettera della norma, che sembrava ammettere una "scelta" tra sanzione pecuniaria e demolizione, oltre che in applicazione del principio generale della sanabilità postuma della mancanza di autorizzazione preventiva. Era peraltro possibile sostenere che proprio questa differenza di disciplina costituisse la spia della inammissibilità della sanatoria nella materia dei beni culturali e del paesaggio, tenuto conto anche del fatto che la sanatoria edilizia riguardava il rilascio postumo di un atto (ritenuto dall'opinione prevalente) vincolato (non a caso la legge parlava e parla in proposito di "accertamento di conformità"), mentre nel caso dei beni culturali e del paesaggio si aveva a che fare con una valutazione tecnico-discrezionale di compatibilità, rispetto alla quale l'istituto edilizio (tarato su un caso di atto vincolato) non appariva facilmente trapiantabile in via analogica.
Ad ogni buon conto, pur nella discutibilità delle diverse opinioni, fino al 2000 la tesi prevalente sembrava essere quella negativa della possibilità di un'autorizzazione in sanatoria nella materia della tutela del patrimonio culturale [4]. E ciò anche sulla base della semplice e corretta argomentazione per cui quando il legislatore ha voluto una tale possibilità - come nella materia urbanistica edilizia - l'ha espressamente introdotta, quando invece non l'ha voluta - nella materia culturale e paesaggistica - ha taciuto e non ha previsto un simile istituto.
Sennonché intervennero alcune pronunce del giudice amministrativo favorevoli alla sanatoria postuma in materia paesaggistica (pronunce della sez. VI del Consiglio di Stato n. 5373 del 9 ottobre 2000 e n. 5851 del 31 ottobre 2000 [5]).
Il mutamento di giurisprudenza si basava sul richiamo dei principi generali in materia di sanatoria, che si rilevava non essere esclusa dalla legge speciale della materia, e di economia dei mezzi giuridici, principi che prevarrebbero su quello di tipicità degli atti amministrativi (che non si tradurrebbe peraltro in un vincolo di nominatività degli stessi), nonché sul (già considerato) dato testuale dell'articolo 15 della legge 1497 del 1939 che, ammettendo, nel caso di mancanza di danno al paesaggio, la sola sanzione pecuniaria (in luogo della misura demolitoria), indirettamente avrebbe consentito anche l'autorizzazione postuma, in quanto implicita "autorizzazione" al mantenimento dell'opera abusiva.
Il percorso argomentativo è stato ulteriormente messo a fuoco e consolidato dalla nota pronuncia dell'adunanza generale del Consiglio di Stato n. 4 dell'11 aprile 2002 [6], che ha altresì escluso che il fondamento di tale autorizzazione postuma dovesse o potesse rinvenirsi (anche) in un'applicazione analogica dell'istituto dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 13 della legge 47 del 1985 in materia edilizia.
Il parere dell'adunanza generale si originò, come è noto, dalla questione della sorte dei così detti "galassini", ossia di quei decreti ministeriali di vincolo paesaggistico (nella Regione Piemonte, in quella fattispecie) pubblicati dopo la legge "Galasso". Una volta ritenuti tali provvedimenti validi ed efficaci come dichiarazione di notevole interesse paesaggistico (ma non come misura di salvaguardia di inedificabilità assoluta), si pose il problema conseguenziale di quale dovesse essere la sorte degli interventi realizzati senza autorizzazione paesaggistica sulla base delle circolari della regione Piemonte che avevano inizialmente sostenuto la tesi (opposta) della totale inefficacia di quei provvedimenti.
L'adunanza generale optò per la tesi possibilista, sostenendo che "la dottrina e la giurisprudenza da tempo ormai univocamente affermano, facendo leva sull'identità sostanziale del potere esercitato e sul principio di economia dei mezzi giuridici, la possibilità dr autorizzazioni postume, a carattere (totalmente o parzialmente) sanante, con le quali si duplichino, in un tempo successivo, le medesime valutazioni che avrebbero dovuto essere nella fisiologia oggetto di verifica a carattere preventivo".
Il giudice penale per parte sua escludeva senz'altro, invece, la possibilità di riconnettere a tale pretoria "autorizzazione postuma" un effetto estintivo del reato di cui all'articolo 163 del testo unico di cui al d.lg. 490 del 1999, in analogia alla previsione dell'articolo 22 della legge 47 del 1985 [7].
Il giudice amministrativo, peraltro, faceva discendere, in sostanza, dall'autorizzazione postuma il solo effetto di esclusione della demolizione, poiché manteneva fermo il potere dell'amministrazione di irrogare la sanzione pecuniaria di cui all'articolo 15 della legge 1497 del 1939 (poi articolo 164 del d.lg. 490 del 1999) [8]. La nuova ricostruzione giurisprudenziale proposta dal giudice amministrativo si andò dunque consolidando, anche se le diverse pronunce presentavano itinerari logici non sempre convergenti [9].
È appena il caso di evidenziare l'opinabilità della soluzione pretoria della questione. Il principio generale di diritto amministrativo che afferma la possibilità di rilascio dell'autorizzazione a sanatoria riguarda la sanatoria del provvedimento o del procedimento amministrativo carente di un presupposto, ma non implica necessariamente la "sanatoria" dell'attività e dell'opera realizzata in assenza del provvedimento (presupposto) di autorizzazione. La soluzione pretoria appariva peraltro di buon senso, a fronte della peculiare situazione di grave incertezza (che si riproporrà successivamente in vicende per certi versi analoghe, come vedremo nell'ultimo paragrafo di questo scritto) circa il regime giuridico di ampie aree coperte da quei vincoli (così detti "galassini") che per un significativo lasso di tempo erano stati considerati privi di efficacia, con conseguente grave incertezza sulla condizione giuridica degli immobili interessati da interventi realizzati senza autorizzazione paesaggistica.
Non è di ostacolo al rilascio del titolo a sanatoria la eventuale sanzione penale comminata dalla norma per il solo fatto della mancata richiesta preventiva dell'autorizzazione, secondo il tipo di reato (prevalentemente di natura contravvenzionale, ma in alcuni casi anche delittuosa) così detto "formale" o di "pericolo presunto", la cui oggettività giuridica, ossia il bene giuridico protetto, si dice, non è tanto (o non solo) la tutela dell'integrità del bene protetto (ad es., il corretto assetto urbanistico-edilizio dell'area o la tutela del bene culturale oggetto di lavori non autorizzati), ma soprattutto la funzione di controllo autorizzatorio preventivo, come soglia avanzata della tutela penale (che, perciò, prescinde dall'evento di danno: anche un'opera edilizia perfettamente conforme al piano regolatore e agli altri strumenti urbanistici vigenti, realizzata dall'avente titolo nel suo fondo, ma senza previo permesso di costruire, o un restauro necessario e svolto a regola d'arte, che ha meglio tutelato di fatto il bene vincolato, ma che è stato realizzato senza autorizzazione preventiva della soprintendenza, costituiscono dunque reato, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 e 169 del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004). Il reato di pericolo presunto prescinde dall'evento di danno e vuole prevenire anche la sola esposizione del bene protetto al pericolo (presunto) derivante dal fatto che si intervenga su di esso autonomamente, senza la preventiva autorizzazione amministrativa.
In disparte il profilo penale e guardando esclusivamente a quello amministrativo, la regola generale sarebbe dunque quella dell'equivalenza del controllo successivo, che sana ex post l'abuso sul piano amministrativo, fatta salva la sanzione amministrativa e la responsabilità penale (a meno che non vi sia una norma speciale che ricolleghi alla sanatoria amministrativa anche l'estinzione del reato, come avviene nel caso dell'art. 45, comma 3, del testo unico dell'edilizia e nel caso dell'art. 181, commi 1-ter e 1-quinquies, del Codice, relativo ai beni paesaggistici) [10]. Può dunque accadere che la sanatoria amministrativa riguardi solo la condizione giuridica dell'opera realizzata senza previa autorizzazione, che diviene lecita, ma non escluda l'irrogazione della sanzione pecuniaria, comunque riconnessa alla violazione "formale". Naturalmente allorquando manchi nella legge - come avviene nel caso degli illeciti posti in essere su beni culturali - una previsione normativa espressa della sanabilità ex post degli abusi commessi, è inevitabile la perdurante sussistenza, per tale tipologia di abusi, in mancanza di una norma estintiva, delle sanzioni sia amministrative che penali.
La ora detta regola generale della ordinaria sanabilità ex post della mancanza di autorizzazione preventiva può, però, soffrire delle eccezioni. Ma perché ciò accada occorre l'espresso divieto legislativo di sanatoria, come avviene, ad opera dell'art. 146, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, per gli abusi paesaggistici "maggiori" (eccedenti, cioè, i rigorosi limiti quali-quantitativi stabiliti dal già ricordato art. 167).
Consegue da questo principio la conclusione per cui, riguardo alla parte II del predetto Codice, riguardo, cioè, al caso di interventi realizzati sui beni culturali senza la preventiva autorizzazione del soprintendente imposta dagli artt. 20 ss., nulla osta, sul piano generale, all'operatività della sanatoria, ferma restando la sanzione amministrativa e la responsabilità penale ai sensi degli artt. 160 e 169 del Codice.
Che questa sia la risposta giuridica corretta alla domanda se sia possibile un'autorizzazione "culturale" postuma a sanatoria della mancata, previa, autorizzazione del soprintendente, prevista dagli artt. 20 ss. del Codice di settore per ogni intervento sui beni culturali, è comprovato ulteriormente dalla "storia" della nascita, nella parte III del Codice, negli anni 2003-2004, dell'opposto principio del divieto di autorizzazione postuma a sanatoria per gli interventi non autorizzati sui beni paesaggistici, che rappresenta (come detto) l'eccezione che conferma la regola.
3. Perché il divieto di "ex post" è previsto solo per i beni paesaggistici?
La giurisprudenza sopra richiamata si era formata soprattutto (se non esclusivamente) nella materia paesaggistica, che era del resto quella nella quale più frequenti erano gli abusi e maggiore il contenzioso. Questo dato di partenza è importante per comprendere le ragioni della divaricazione, introdotta nel Codice di settore del 2004, tra beni culturali (per i quali nulla si dice in tema nella parte II) e beni paesaggistici (per i quali soltanto, nella parte III, venne introdotto il divieto di ex post). Così come è importante, per comprendere la genesi, nel Codice, del divieto di ex post per i beni paesaggistici, muovere dalla considerazione dell'evoluzione interpretativa (e della persistente dubbiezza delle relative soluzioni) svolta dalla giurisprudenza richiamata nel primo paragrafo, evoluzione avvenuta, deve sottolinearsi, a ridosso dell'avvio dei lavori della commissione per la redazione del Codice, che iniziò la sua attività nell'anno 2003.
Perché, dunque, questo divieto? E perché solo per i beni paesaggistici e non per i beni culturali? Come osservato dai primi Commentatori del Codice [11], questa scelta, decisamente "draconiana", che tanti problemi applicativi ha poi generato (come vedremo nel prossimo paragrafo), nacque dalla volontà, di fronte al fallimento della tutela paesaggistica e alle devastazioni provocate dal massiccio abusivismo edilizio, dopo due condoni edilizi e con il "terzo" condono alle porte [12], di affermare una tutela seria ed effettiva del paesaggio e di evitare che continuasse ad operare quella sorta di "condono (amministrativo) tacito" degli abusi paesaggistici innescato da una lettura meno rigorosa dell'art. 15 della legge n. 1497 del 1939 (e del corrispondente art. 164 del testo unico del 1999), che di fatto consentiva, mediante il pagamento della sanzione amministrativa, di ottenere dalla soprintendenza un accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso con esclusione del ripristino dei valori paesaggistici alterati. D'altra parte l'abuso paesaggistico "maggiore", ossia quello che esonda dai limiti quali-quantitativi stabiliti dall'art. 167 del Codice, quello, per intendersi, che realizza volumi nuovi, costituiva (e costituisce) un fenomeno molto più diffuso e maggiormente impattante sul territorio rispetto agli abusi commessi sui beni culturali. Per i beni culturali gli interventi edilizi si risolvono prevalentemente in restauri (manutenzioni ordinarie o straordinarie, risanamenti conservativi o ristrutturazioni). Siffatti abusi - che pure (purtroppo) non mancano - sono meno frequenti e più difficilmente si traducono in danni irreparabili o in stravolgimenti notevoli del bene tutelato. Gli interventi sui beni culturali vincolati sono inoltre più facilmente controllabili dalla soprintendenza. Nelle aree e negli immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, soprattutto (ma non solo) nei beni vincolati di area vasta (bellezze d'insieme, panoramiche e centri storici), il controllo è molto più difficile (in specie in tempi di cronica scarsezza di personale e di mezzi degli organi di tutela) e il rischio di manomissioni e abusi, soprattutto attraverso nuove attività edificatorie non autorizzate, ampliamenti, etc., è molto più alto e presenta un impatto di massa di maggiore incidenza sul valore paesaggistico protetto. L'abuso paesaggistico è inoltre spesso un abuso edilizio e questo mette in gioco i vari condoni che si sono succeduti nell'ultimo trentennio (dal 1985 al 1994, fino al 2003). L'elaborazione del Codice di settore del 2004 è coincisa, come detto, con l'emanazione del terzo condono, quello del 2003 che, non a caso, all'esito di una dura battaglia politica e giuridica, nacque intrinsecamente limitato (l'idea era di escluderlo del tutto dalle aree vincolate) [13]. Era inoltre comune e incontroversa constatazione (allora, ma anche oggi) che è pressoché impossibile demolire gli immobili abusivi. La pressione economico-sociale sugli uffici periferici preposti alla tutela, contro le demolizioni, era (ed è) fortissima. Sarebbe stato velleitario pensare che la valutazione postuma del soprintendente (salvo rari casi gravissimi assurti agli onori della cronaca e per i quali vi fosse una forte mobilitazione di sostegno sul territorio) potesse valere a decidere per la non sanabilità dell'opera e dunque a decretarne l'abbattimento. Da qui la necessità di imprimere una svolta e da qui la scelta politica di derogare al principio della normale sanabilità ex post e di introdurre l'espressa eccezione di legge, l'espresso divieto di rilasciare ex post l'autorizzazione paesaggistica.
4. Divieto di sanatoria per gli abusi paesaggistici: alcuni problemi applicativi
Il meccanismo, forse troppo rigido, ha creato notevoli problemi applicativi. Meritano di essere ricordati i seguenti:
1) eccessiva ristrettezza della deroga al divieto di ex post, come delimitata dall'art. 167;
2) applicabilità del divieto di ex post ai fatti commessi prima della entrata in vigore della nuova norma (fissata dalla giurisprudenza non già all'entrata in vigore del Codice, 1 maggio 2004, ma del primo decreto correttivo e integrativo, d.lg. n. 157 del 2006: 12 maggio 2006);
3) sorte degli immobili e regime degli interventi realizzati "in buona fede" senza autorizzazione paesaggistica in condizioni di incertezza giuridica, in aree e su immobili per i quali, all'epoca degli interventi, era del tutto incerta la soggezione o la non soggezione a vincolo paesaggistico (provvedimentale, si pensi al caso di lacune ed errori cartografici, o ex lege, si pensi al caso di "zone B" di piano denominate negli strumenti urbanistici con criteri e formule diversi da quelli di cui al d.m. n. 1444 del 1968).
4.1. L'eccessivo rigore dell'art. 167, comma 4, del Codice
La norma, come è noto, rende inammissibile la domanda di sanatoria se l'abuso ha determinato la creazione di superfici utili o volumi ovvero un aumento di quelli legittimamente realizzati. Una giurisprudenza particolarmente severa ha peraltro chiarito che anche il volume tecnico "aggiuntivo", non "utile" è di ostacolo all'ammissibilità della sanatoria [14]. In questo modo gli abusi sanabili sono sostanzialmente solo quelli manutentivi (una ristrutturazione, per quanto "leggera", difficilmente non crea almeno un volume "tecnico", per quanto minimo, in più). La severità della previsione, oltre che in evidente contrasto con la disciplina edilizia (il che si spiega agevolmente con il diverso "peso" che deve riconoscersi al valore paesaggistico), si pone oggi, in parte, in contrasto anche con quella del regime semplificato (o "esonerato") degli interventi di minima e di lieve entità, di cui all'art. 146, comma 11, del Codice e annesso regolamento attuativo n. 31 del 2017.
Il particolare rigore del combinato disposto degli artt. 146-167 del Codice di settore si coglie e si avverte appieno ove si consideri, da un lato, la tendenza espansiva degli interventi di efficientamento antisismico ed energetico-ambientale, che solo con notevole difficoltà tecnica possono essere rigorosamente contenuti nei limiti severi del surrichiamato combinato disposto; dall'altro lato ove si consideri che la giurisprudenza prevalente ha affermato che la sanatoria edilizia è in sostanza inapplicabile (o comunque inutile perché inefficace) in caso di illecito paesaggistico e che l'accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 non trova applicazione con riguardo ad aree assoggettate a regime vincolistico [15]. L'applicazione formalistica del ripetuto, suddetto, combinato disposto, spesso comporta nella pratica l'esito (invero incomprensibile per il cittadino) di dover ordinare la rimozione dell'intervento di miglioramento antisismico o di efficientamento ambientale, ancorché giudicato senz'altro paesaggisticamente compatibile o addirittura migliorativo, sol perché non si è chiesta la preventiva autorizzazione paesaggistica (anche nella forma semplificata, di cui al menzionato decreto n. 31 del 2017 [16]). Salvo poi potere (e dovere) autorizzare, successivamente al ripristino dello stato dei luoghi, il rifacimento del medesimo intervento per il quale si era precedentemente ingiunta la demolizione. Pratiche, queste, che certo non aiutano la tutela (non aiutano una corretta percezione, da parte dei cittadini, del valore della sua funzione) [17].
Se ci fossero le condizioni per un dibattito pubblico sereno e razionale su queste tematiche, libero da pregiudizi ideologici, sarebbe possibile (forse) avviare un ragionamento serio e pacato per tentare un allineamento progressivo della disciplina procedurale sulla lieve entità con quella sanzionatotria del limite alla sanabilità ex post degli abusi. Ma persistono irrigidimenti ideologici che escludono l'idea stessa di una "semplificazione" nella materia della tutela del patrimonio culturale e, a maggior ragione, la sola pensabilità di una mitigazione del regime sanzionatorio.
4.2. Divieto di sanatoria paesaggistica: tempus regit actum o factum?
Un secondo problema applicativo ha riguardato profili di diritto intertemporale.
Il divieto di sanatoria ex post è stato introdotto dalla versione originaria del Codice [18], ma la giurisprudenza ne ha fatto decorrere l'applicabilità solo a partire dall'entrata in vigore del primo decreto correttivo e integrativo, introdotto con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 [19].
Ora, tale primo decreto correttivo, aggiungendo i commi 3-bis e 3-ter all'art. 182 del Codice, aveva risolto, sì, il (minore) problema interpretativo di quale dovesse essere la sorte delle domande di "sanatoria" presentate prima dell'entrata in vigore del Codice, ma esaminate dopo la riforma (allargando tale chiarificazione fino a comprendere anche le domande presentate fino alla data del così detto "mini-condono paesaggistico" introdotto dalle norme di immediata applicazione contenute nella legge di delega ambientale n. 308 del 2004), ma non si era posto e non aveva risolto il diverso (e maggiore) problema della sorte delle domande presentate nell'intervallo di tempo tra l'entrata in vigore del Codice (1° maggio 2004) e la data di operatività del divieto di ex post (invero stabilito solo dalla giurisprudenza successiva proprio in coincidenza con la data di entrata in vigore del decreto correttivo), nonché (tema ancor più ampio) di quelle che sarebbero state presentate dopo la sua entrata in vigore, ma con riguardo ad abusi commessi prima di quella data, a partire dalla quale era divenuto operativo il divieto di esame ex post.
Se - da un lato - è ovvio (ciò che è stato chiarito dal predetto comma 2-bis aggiunto all'art. 182 del Codice) che il ritardo dell'amministrazione nell'esaminare domande presentate in un tempo in cui la sanatoria era ammissibile non poteva e non può ritorcersi contro il richiedente, non è affatto ovvio, né scontato - dall'altro lato - (ciò che, invece, non ha chiarito la nuova norma transitoria) che la sanzione "più severa", entrata in vigore nel maggio del 2006, debba e possa trovare applicazione anche per i fatti commessi quando il regime giuridico dell'abuso era più "favorevole".
Il tema è reso complicato dalla duplice natura della sanzione demolitoria, che non è solo "sanzione" contro l'incolpato, ma anche "ripristino" del valore paesaggistico alterato, a fronte della perdurante dubbiezza circa l'applicabilità ai rimedi amministrativi ripristinatori (ancorché particolarmente afflittivi) del regime "penale" della irretroattività (riferibile alle sanzioni amministrative in senso stretto o proprio). Talune aperture interpretative si sono scontrate con la persistente difficoltà di trasferire alle misure ripristinatorie il regime proprio delle sanzioni afflittive (ossia delle sanzioni amministrative in senso stretto e proprio), atteso che la demolizione è tuttora ricondotta dall'opinione prevalente nel novero dei rimedi di amministrazione attiva, di ripristino del bene-interesse giuridico tutelato, di cura attuale dell'interesse pubblico protetto, piuttosto che nell'ambito delle sanzioni amministrative propriamente dette, nelle quali il fine è corrispettivo di prevenzione generale e speciale, e non di ricostituzione del bene giuridico tutelato.
La tesi più possibilista sosteneva che poiché anteriormente all'entrata in vigore del Codice, a partire dall'anno 2000, con le sopra richiamate pronunce del Consiglio di Stato, si era ormai ammesso il potere dell'amministrazione di rilasciare ex post l'autorizzazione paesaggistica, l'espresso divieto innovativamente introdotto per la prima volta con la norma del Codice del 2004 (entrata in vigore nel 2006) non avrebbe dovuto riguardare anche le fattispecie verificatesi antecedentemente all'operatività del divieto stesso, che avrebbero dovuto essere invece definite sulla base della disciplina sostanziale (più favorevole) ad esse pro tempore applicabile, che includeva la possibilità di valutare in via postuma la compatibilità paesaggistica dell'intervento dopo la sua realizzazione e di "sanare" l'abuso, indipendentemente dalle sue dimensioni e tipologie, senza, dunque, i limiti dell'art. 167, comma 4, con il pagamento di una sola sanzione pecuniaria. Il divieto di ex post era considerato dunque un aggravamento del regime sanzionatorio e come tale era ritenuto non retroattivo, ma applicabile solo agli abusi commessi dopo la sua entrata in vigore.
Tesi, questa, che sembrava poter trovare un valido supporto anche nella più recente elaborazione di fonte Cedu in tema di regime applicativo delle sanzioni, in attuazione dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (ormai incorporata, in uno alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea di Nizza del 7 dicembre 2000, nel Trattato UE, art. 6, comma 1 e considerata dalla Corte costituzionale, dal 2007, norma interposta ai fini del giudizio di costituzionalità ai sensi dell'articolo 117, comma 1, Costituzione). È noto, infatti, che la Cedu si va attestando su una nozione sempre più ampia, sostanziale e dilatata di "pena" e di "processo penale", comprensiva, dunque, di molte sanzioni amministrative, in tutti i casi in cui ricorrano i così detti Engel criteria [20], che si riassumono nella qualificazione formale, nella natura intrinseca dell'illecito (ci si riferisce, in particolare, allo scopo afflittivo-deterrente e al carattere generale) e nel grado di severità della sanzione. La rilevanza di questa giurisprudenza consiste nella conseguenza che la qualificazione di una sanzione amministrativa in termini "penali" determina l'applicazione della disciplina degli articoli 6 e 7 della Cedu, anche sotto il profilo della sua irretroattività [21].
Ora, la misura amministrativa introdotta dal Codice del 2004 (e divenuta applicabile a partire dal 2006) sembrerebbe presentare sicuramente il secondo e il terzo degli Engel criteria: essa non è formalmente qualificata "penale", ma sicuramente cura la tutela di interessi generali e si applica indistintamente a tutti i consociati, oltre a presentare un elevato grado di "severità", poiché aggrava notevolmente la posizione dell'incolpato, che deve necessariamente demolire quanto realizzato e non può più (come prima) risolvere il problema pagando una somma di danaro.
Tuttavia la circostanza che la sanzione demolitoria sia "doppiata" da quella penale, se da un lato (come rilevato nella nota 20) sembra confermare la natura "penale" della misura (alla stregua degli Engel criteria), dall'altro lato potrebbe militare a favore della tesi opposta, ossia della tesi della natura non penale della sanzione amministrativa demolitoria, proprio perché è la legge stessa che distingue e assomma la sanzione penale (predisposta e somministrata autonomamente dall'art. 181 del Codice) a quella amministrativa demolitoria (prevista dagli artt. 146 e 167 stesso Codice).
L'orientamento favorevole alla tesi della natura afflittiva della sanzione demolitoria (e, quindi del criterio di giudizio del tempus regit "factum"), ha trovato anche alcune, recenti conferme giurisprudenziali [22].
E tuttavia non è stato possibile risolvere questi dubbi applicativi in via amministrativa (ad es., mediante circolari o pareri interpretativi del ministero) anche per l'assenza di condizioni di adeguata serenità nella discussione su questi temi, politicamente molto "sensibili" e continuamente esposti al rischio di polemiche pretestuose e strumentali (oltre che al rischio di libere "disapplicazioni" da parte del giudice penale, che spesso, oltre ad abusare dello strumento della disapplicazione [23], non ha la cultura adeguata, sia nel personale di magistratura, sia in quello addetto alla polizia giudiziaria, per cogliere siffatte sottigliezze interpretative). Occorrerà se del caso un intervento del legislatore.
Ad ogni modo, ove si dovesse optare per la tesi della natura sostanzialmente "penale" dell'aggravamento della sanzione demolitoria introdotto nel 2004-2006, si porrà "a valle", poi, il problema di quale regime procedurale applicare per la valutazione postuma di compatibilità paesaggistica. Come già chiarito in vari pareri ministeriali e poi stabilito anche dal giudice amministrativo [24], deve ritenersi applicabile, anche agli abusi commessi precedentemente all'entrata in vigore del decreto legislativo del 2006, per il completamento del procedimento relativo al rilascio del titolo edilizio con l'acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, il nuovo regime procedurale vigente all'atto dell'esame della domanda, ossia quello del Codice, che si articola nel parere vincolante del soprintendente ex art. 146 (in luogo dell'annullamento ministeriale ex lege "Galasso", pur vigente al tempo dell'abuso commesso).
Sempre ove si dovesse ammettere la sanabilità ex post degli illeciti paesaggistici consumati prima dell'operatività del nuovo e più severo regime, si pone l'ulteriore problema applicativo della possibilità per l'amministrazione di tutela, che esercitata "ora per allora" il controllo delle opere, di dettare eventuali prescrizioni che consentano di mitigare l'impatto paesaggistico dell'intervento e di migliorarne l'inserimento nel contesto, quali condizioni del giudizio di compatibilità postumo. La risposta al quesito sembra possa essere affermativa, e ciò per ragioni che attengono alla logica interna dei procedimenti amministrativi a istanza di parte, quale è quello preordinato alla sanatoria di un abuso: la domanda del privato, infatti, attiva la discrezionalità tecnica dell'ufficio decidente (il parere vincolante costituisce, giova evidenziare anche in questa sede, una co-decisione: Cons. St., sez. VI, 4 giugno 2015, n. 2751), che può condurre agli esiti più vari del procedimento, ossia a un accoglimento pieno della domanda (totale compatibilità paesaggistica dell'intervento), a un suo rigetto totale (totale non compatibilità paesaggistica), ma anche a soluzioni intermedie (di parziale accoglimento/rigetto della domanda), per cui l'intervento può risultare solo in parte compatibile, nella logica propria dei provvedimenti favorevoli condizionati, per cui la compatibilità paesaggistica potrà essere assentita a condizione che siano realizzati taluni interventi (invero minimali e non macroscopici, secondo un principio di proporzionalità e ragionevolezza) di mitigazione e miglioramento dell'impatto paesaggistico [25].
Un riflesso applicativo "problematico" del regime intertemporale si è poi registrato a proposito della confusione che molti uffici periferici operano con il condono edilizio: si è assistito ad alcuni casi pratici in cui gli uffici di tutela hanno dichiarato inammissibili ex artt. 146 e 167 del Codice di settore (ossia per il divieto di sanatoria) domande di condono (condoni del 1985 e del 1994) di cui erano stati investiti (dopo il 2006) per rendere il parere di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 32 della legge n. 47 del 1985. È appena il caso di evidenziare che la natura speciale del condono edilizio, che deroga per definizione al regime ordinario, rende del tutto inapplicabili, per quelle fattispecie, i divieti e i limiti di cui agli artt. 146 e 167 del Codice, che valgono solo, evidentemente, "a regime", al di fuori delle ipotesi eccezionali di condono, che rinvengono, invece, nella legge speciale (n. 47 del 1985 e successive modificazioni) la loro esaustiva disciplina [26].
4.3. Incertezza applicativa del vincolo e buona fede del privato
Una terza area problematica si è avuta in relazione all'incertezza che spesso si registra nella pratica riguardo all'ambito applicativo di efficacia del vincolo paesaggistico, sia esso di tipo provvedimentale, sia ex lege.
Queste difficoltà sono anch'esse una conseguenza della "rigidità" del divieto di sanatoria, di cui si è trattato nei paragrafi precedenti, poiché è proprio nei casi di incertezza sul se e sul dove insista il vincolo che sarebbe stato di grande utilità l'istituto della sanatoria: l'eccessiva rigidità del combinato disposto degli artt. 146, comma 4, e 167, comma 4, del Codice di settore determina la conseguente difficoltà, verificatasi in numerosi casi nella pratica, di risolvere in modo equo fattispecie di interventi realizzati in perfetta buona fede su immobili che solo successivamente al completamento degli interventi sono risultati (essere con certezza) sottoposti a vincolo paesaggistico.
Il ministero ha tentato, in diverse occasioni, di prospettare soluzioni ragionevoli [27], sviluppando la tesi secondo la quale la soluzione fosse rinvenibile non già in una (impossibile) deroga estensiva dell'ambito di applicabilità della sanatoria postuma, bensì ragionando sulla non operatività del vincolo che si fosse dimostrato "incompleto" e perciò in parte inefficace.
Relativamente a tali fattispecie, si era dunque ritenuto di poter concludere che il dispositivo di vincolo fosse divenuto operante, opponibile ed efficace solo dal momento della successiva puntualizzazione - con atto formale, amministrativo o giurisdizionale, di data certa - degli ambiti spaziali di efficacia del provvedimento, ambiti per l'innanzi non correttamente definiti, ricorrendo una condizione di grave e oggettiva incertezza applicativa determinata da una carenza o da un vizio interno originari del vincolo stesso. Tale condizione di oggettiva e grave incertezza poteva riguardare, come detto, sia i vincoli ex lege "Galasso", di tipo geografico o di tipo ubicazionale [28], anche per un vizio "indiretto", contenuto nell'elemento normativo della fattispecie cui la delimitazione del vincolo rinvia (ad esempio, incertezza o carenza dell'atto amministrativo di delimitazione delle zone a) o b) di p.r.g., per le quali il vincolo è escluso [29]), sia i vincoli provvedimentali, per una carente o errata o dubbia perimetrazione (per carenza e errore cartografici, per l'avvio, poi non adeguatamente definito con atti conclusivi certi, di procedure di revisione, per le diverse e alterne e contraddittorie vicende che hanno caratterizzato le procedure di compilazione e di integrazione - o di revisione - degli elenchi, o della diversa perimetrazione introdotta dal piano urbanistico rispetto a quella stabilita dal provvedimento istitutivo del vincolo, etc.).
Tale mancata operatività del vincolo troverebbe il suo fondamento in una sorta di carenza originaria strutturale del provvedimento di dichiarazione, quanto alla sua delimitazione spaziale, tale da renderlo inidoneo a produrre gli effetti suoi propri. Si tratterebbe, in quest'ottica, di un rilievo successivo di un vizio originario intrinseco del vincolo, che si risolve nella mancata operatività dell'atto, almeno per quelle aree e per quegli immobili direttamente interessati dal vizio di perimetrazione. La patologia intrinseca dell'atto di vincolo, ancorché non sanzionata in sede di annullamento o di declaratoria di nullità parziale (in autotutela o in sede contenziosa e giurisdizionale), si manifesterebbe nella rilevazione di un profilo di inefficacia originaria dell'atto. La successiva chiarificazione o precisazione di tali ambiti spaziali, prima non correttamente definiti, opererebbe alla stregua di una sorta di riforma in sanatoria dell'atto originariamente carente e viziato.
Naturalmente, siffatti spazi interpretativi postulano che la condizione di incertezza non sia imputabile alla mera inerzia delle amministrazioni a vario titolo competenti.
In altri termini, la condizione oggettiva di incertezza può rilevare agli effetti della prospettata soluzione interpretativa solo in presenza di tutti (cumulativamente) i seguenti presupposti: l'aver determinato una condizione di apparenza giuridica rilevante, per un periodo di tempo consistente, sorretta anche da specifici atti e provvedimenti delle amministrazioni competenti, dai quali fosse possibile pianamente e in modo evidente ricavare il pacifico e continuato trattamento di determinate aree come prive di qualsivoglia vincolo paesaggistico; la conseguente riconoscibilità di una condizione di buona fede oggettiva nei cittadini nel non essersi dotati, conseguentemente, di titoli paesaggistici, indotti a tale comportamento dall'univoco, costante e reiterato atteggiamento delle competenti autorità preposte alla gestione del vincolo; la assoluta irrilevanza e inidoneità ai suddetti effetti della mera inerzia o della mancata o insufficiente vigilanza e repressione sanzionatoria degli abusi.
Questi sforzi interpretativi non hanno sortito effetti utili nella pratica. E ciò soprattutto, anche in questo caso, per la ritrosia dei funzionari ad assumersi responsabilità sulla base di pareri non vincolanti, esposti alla mutevolezza della giurisprudenza e all'imponderabile rischio penale (anche a fronte dell'aprioristica ostilità di taluni movimenti che rifiutano in partenza qualsiasi discorso che possa anche solo adombrare un allentamento della tutela).
Intanto vaste aree del Paese, in questo caso e per una volta equamente distribuite in tutte le aree geografiche, dal Veneto alla Toscana, dalla Campania alla Calabria, alla Sardegna, presentano numerosissimi casi simili, in qualche modo riconducibili (sia pur in diverse declinazioni e con diverse caratteristiche locali) alle problematiche sopra illustrate, e attendono risposte e soluzioni, che non si intravedono, né sul piano amministrativo, né su quello normativo.
I problemi applicativi sopra passati in rapida rassegna sono dunque rimasti tutti aperti nei territori e costituiscono, a ben vedere, altrettante crepe che mano a mano si allargano nella "diga" del sistema di tutela, la cui eccessiva rigidità (in mancanza di ragionevoli valvole di sfogo) contribuisce ad alimentare l'attesa di un quarto condono e la pressione politico-sociale verso una "normalizzazione" degli uffici di tutela e un ridimensionamento dei loro poteri, anche dietro il paravento della "semplificazione" e della "sburocratizzazione" finalizzate alla "crescita e allo sviluppo".
Sarebbe dunque auspicabile che la dottrina e la giurisprudenza si adoperassero per costruire e proporre una logica soluzione a queste tematiche, indicando la strada al legislatore per un intervento mirato, di tipo chirurgico, capace di dare delle risposte efficaci ed equilibrate, così da evitare che la sommatoria della miriade di problemi incancrenitisi sul territorio possa mettere in crisi l'intero impianto della disciplina della tutela.
Note
[1] Come desumibile anche dal tenore letterale dell'art. 160 del Codice, che subordina l'ordine di reintegrazione al verificarsi di un danno al bene culturale per effetto della violazione degli obblighi di protezione e conservazione.
[2] In base all'art. 15, primo comma, della legge n. 1497 del 1939 "Indipendentemente dalle sanzioni comminate dal codice penale, chi non ottempera agli obblighi e agli ordini di cui alla presente legge è tenuto, secondo che il Ministero dell'educazione nazionale ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche, alla demolizione a proprie spese delle opere abusivamente eseguite o al pagamento di una indennità equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione". In base all'art. 164, comma 1, del testo unico del 1999, analogamente, "In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti da questo Titolo, il trasgressore è tenuto, secondo che la Regione ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione dei beni indicati nell'articolo 138, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima".
[3] Per le origini pretorie anche di questo istituto si veda Cons. St., sez. V, 14 marzo 1972, n. 168, in Giur. It., 1972, III, 484, con nota di A. M. Sandulli, In tema di licenza edilizia "ora per allora".
[4] Cons. St., sez. II, parere 15 febbraio 1989, n. 28; parere dell'Avvocatura Generale dello Stato 1 dicembre 1990, n. 89775; circolare ministeriale n. 1795 dell'8 luglio1991.
[5] La due decisioni recano una motivazione quasi identica e confermano Tar Lazio, sez. II, 17 marzo 1995, n. 464 e 20 marzo 1995, n. 476 che avevano annullato i provvedimenti di annullamento ministeriale di nulla osta paesaggistici postumi rilasciati dalla regione Molise. Sono consultabili nella rassegna Il Consiglio di Stato, Italedi, 2000, I, 2178 e 2355, nonché in Urban. app., 2000, pag. 1311, con nota di R. Damonte, Il "punto" del Consiglio di Stato su autorizzazione paesistica in sanatoria e sanzione pecuniaria ex art. 15 l. 1497/39 (Nota a C. Stato, sez. VI, 31 ottobre 2000, n. 5851). Sul tema cfr. F. Abeniacar, Autorizzazione paesaggistica in sanatoria: un equivoco da superare, in Riv. giur. urb., 1995, pag. 107; V. Giuffrè, L'autorizzazione paesaggistica negata in sanatoria, in Corriere giur., 1993, 1120 (le sentenze del Giudice amministrativo successive al 2000 sono reperibili nel sito istituzionale della giustizia amministrativa, sul sito http://www.giustizia-amministrativa.it).
[6] Nella rassegna Il Consiglio di Stato, Italedi, n. 10 del 2003, II, 2367 (oltre che nel sito della Giustizia amministrativa).
[7] Ad es., Cass., sez. III pen., 17 gennaio 2003, n. 2109, imp. Caruso.
[8] Al riguardo cfr. P. Milocco, Legge "Galasso": il reato di pericolo prescinde dall'effettivo pregiudizio all'ambiente, nota a Cass., sez. III pen., 26 novembre 2002, n. 1871, in Ambiente, 2003, 9, pagg. 874-875. L'autorizzazione in sanatoria poteva altresì rilevare come momento della cessazione della permanenza dell'illecito, ai fini del decorso della prescrizione quinquennale del potere sanzionatorio, giusta la previsione dell'articolo 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ove ritenuta applicabile - come fa Cons. St., sez. IV, 3 novembre 2003, n. 7025 - alla fattispecie de qua. Cfr., nello stesso senso Cons. St., sez. IV, 5 agosto 2003, n. 4481, nonché id., 6 ottobre 2003, n. 5875. Cons. St., sez. IV, 25 novembre 2003, n. 7765 aveva peraltro negato che il dies a quo del quinquennio prescrizionale possa decorrere dalla data del rilascio del nulla osta in sanatoria, finendo per affermare che solo il ripristino dello status quo ante (o il pagamento della sanzione pecuniaria) consente la cessazione della permanenza dell'illecito. Un approfondimento del regime della sanzione pecuniaria - anche con riferimento ai criteri di quantificazione della sanzione ex d.m. 26 settembre 1997 - in Cons. St., sez. IV, 15 novembre 2004, n. 7405 (in rassegna Il Consiglio di Stato, Italedi, 2004, I, 2400 ss.).
[9] Cons. St., sez. VI, 27 marzo 2003, nn. 1590 e 1592; 15 maggio 2003, n. 380; 21 luglio 2003, n. 4192, che si segnala per la completezza della ricostruzione dell'istituto; ancora Cons. St., sez. VI, 14 febbraio 2005, n. 474.
[10] La duplicazione, nell'art. 181, del procedimento di sanatoria amministrativa di cui all'art. 167, comma 4, deriva dall'aggiunta del comma 1-ter da parte dell'art. 1, comma 36, lett. c), della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (quella del così detto "mini-condono paesaggistico"), aggiunta che non fu poi possibile correggere con i successici decreti correttivi e integrativi per mancanza di delega per la parte penale nella legge di delega originaria n. 137 del 2002. Occorre in proposito ricordare che la Consulta ha provveduto successivamente a correggere, con una sentenza additiva, il mancato coordinamento tra i commi 1-ter e 1-bis dell'art. 181, mancanza di coordinamento in base alla quale una (troppo severa) giurisprudenza della Cassazione penale era pervenuta a ritenere che la sanatoria penale ex post non operasse per le medesime tipologie di abusi "minori", come identicamente descritti negli artt. 167, comma 4, e 181, comma 1-ter, ove commessi in aree sottoposte a vincolo provvedimentale e perciò ricadenti nella previsione delittuosa di cui al comma 1-bis dell'art. 181, anziché in quella contravvenzionale, prevista dal comma 1, ove i medesimi abusi fossero stati invece commessi in area sottoposta a vincolo ex lege "Galasso" (Corte cost., 23 marzo 2016, n. 56, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 1-bis nella parte in cui prevede ": a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142", così riconducendo alla più proporzionata figura contravvenzionale, di cui al comma 1, le tipologie di abusi "minori", lasciando l'inasprimento - con ipotesi delittuosa punita con la reclusione da uno a quattro anni - solo per gli abusi "maggiori", consistenti nei casi che "abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi").
[11] D. Sandroni, sub art. 146, in AA.VV., Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, commento coordinato da R. Tamiozzo, Milano, 2005, pag. 683.
[12] Poi introdotto, come è noto, con il d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 329 del 2003, alla fine dell'anno 2003, quando i lavori preparatori del Codice erano in dirittura d'arrivo.
[13] Sono noti i rigorosi limiti di applicabilità del terzo condono alle aree vincolate. La giurisprudenza si è consolidata nel ritenere che "Ai sensi dell'art. 32 comma 27 lett. d) d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, sono sanabili le opere edilizie abusivamente realizzate in aeree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, purché ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) che si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo, anche se questo non comporta l'inedificabilità assoluta dell'area; b) che, seppur realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) che siano opere di minore rilevanza, corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del cit. d.l. n. 269 del 2003 (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), senza quindi aumento di superficie; d) che vi sia il previo parere favorevole dell'Autorità preposta al vincolo" (Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2010, n. 1200; Id., sez. IV, 19 maggio 2010, n. 3174, nonché ad. plen., 23 aprile 2009, n. 4; sez. VI, 2 maggio 2016, n. 1664, 23 febbraio 2016, n. 735, 18 maggio 2015, n. 2518, 6 febbraio 2018, n. 755). Ma questa lettura ha ricevuto l'autorevole, ripetuto avallo anche del Giudice delle leggi (Corte cost., 27 febbraio 2009, n. 54, 6 novembre 2009, n. 290, 8 maggio 2009, n. 150, 11 ottobre 2012, n. 225 e 25 giugno 2015, n. 117). Da ultimo il governo, come è noto, ha derogato a questi limiti (rendendo applicabili i soli limiti dei condoni del 1985 e del 1994 e non anche quelli del condono del 2003) per la ricostruzione degli immobili danneggiati dal terremoto dell'isola di Ischia dell'agosto 2016 (art. 25 del d.l. "Genova" 28 settembre 2018, n. 109, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2018, n. 130).
[14] Alcuni Tar (Tar Campania, Napoli, sez. VII, 3 novembre 2009, n. 6827 e 15 dicembre 2010, n. 27380; sez. IV, 21 settembre 2010, n. 17491; Tar Emilia Romagna, Parma, 15 settembre 2010, n. 435; Tar Puglia, sez. III, 11 gennaio 2013, n. 35 e 30 ottobre 2012, n. 1859) avevano cercato di allargare le maglie troppo strette di questo divieto, equiparando alle superfici non utili, in tesi sanabili, i volumi non utili, stante la eadem ratio sottesa alle due ipotesi (si tratta di volumi tecnici non abitabili). Osta tuttavia a questa soluzione ragionevole la lettera della norma, che distingue tra superfici e volumi e predica l'attributo "utile" con riferimento alle sole superfici e non anche ai volumi (in senso restrittivo, infatti, cfr. Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2012, n. 5066; Cass. pen., sez. III, 13 gennaio 2012, n. 889; Tar Umbria, sez. I, 29 novembre 2011, n. 388; si vedano più di recente Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1945, 5 luglio 2017, n. 3317 e 6 marzo 2018, n. 1427).
[15] Cons. St., sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5007; Cons. St., sez. II, par. 16 aprile 2008, 94/2008 (che richiama Cons. St., sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2892). Secondo questa impostazione l'accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 non è suscettibile di applicazione in caso di opere costruite in violazione di un vincolo paesaggistico, in quanto tale istituto costituisce una modalità di regolarizzazione formale dell'abuso (mediante rilascio di permesso di costruire in sanatoria, qualora l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda) espressamente limitata alle sole violazioni della disciplina urbanistica ed edilizia.
[16] Il quale regolamento, peraltro, esonera dalla previa autorizzazione paesaggistica ben 31 tipologie di interventi "minori", spesso di tipo conservativo, ma eccettua (quasi sempre) da questa "liberalizzazione" i beni vincolati ai sensi del Codice, art. 136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest'ultima tipologia, agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l'edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici.
[17] Testimonia di questa eccessiva rigidità del sistema l'ordinanza con la quale il Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 10 aprile 2013, n. 802, rimise alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione della conformità del divieto di ex post in materia paesaggistica rispetto alla Carta europea dei diritti fondamentali incorporata nel diritto dell'Unione, sotto il profilo della tutela del diritto di proprietà ("se l'art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., ed il principio di proporzionalità come principio generale del diritto dell'U.E., ostino all'applicazione di una normativa nazionale che, come l'art. 167, comma 4, lett. a), del d.lg. n. 42 del 2004, esclude la possibilità del rilascio di una autorizzazione paesaggistica in sanatoria per tutti gli interventi umani comportanti l'incremento di superfici e volumi, indipendentemente dall'accertamento concreto della compatibilità di tali interventi con i valori di tutela paesaggistica dello specifico sito considerato"). La Corte (sez. decima, 6 marzo 2014, causa C-206/13) ha correttamente declinato la sua competenza, bene distinguendo la materia del "paesaggio" da quella afferente all'"ambiente" (si consenta, per un commento adesivo, il rinvio a P. Carpentieri, Paesaggio e Corti europee (in margine a Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), in Giustamm.it (http://www.giustamm.it), 3 maggio 2013), ma non v'è dubbio che il Tar Palermo aveva colto un punto critico sostanziale ed effettivo del sistema di tutela (che ben avrebbe meritato di essere sottoposto alla Consulta, piuttosto che al Giudice dell'Unione).
[18] Il divieto era posto originariamente nella lettera c) del comma 10 dell'art. 146 del Codice. Poi il secondo decreto correttivo e integrativo (d.lg. 26 marzo 1008, n. 63) ha spostato nel comma 4 del medesimo art. 146 la norma di divieto.
[19] Cons. St., sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1917; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 12 giugno 2009, n. 951; Cons. St., sez. V, 21 maggio 2009, n. 3140. Il d.lg. n. 157 del 2006 è stato pubblicato in G.U. il 27 aprile 2006 ed è dunque entrato in vigore 12 maggio 2006.
[20] Definiti nella sentenza Cedu 8 agosto 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi; poi ripresi nelle sentenze sez. II, 27 settembre 2011, Menarini c. Italia e 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia. La possibilità di valutare la sanzione demolitoria alla luce degli Engel criteria, al fine di qualificare la sanzione amministrativa in termini "penali", sembra trovare un ulteriore sostegno nella sentenza 20 luglio 2016, n. 193 della Corte costituzionale. Un problema di conformità della sanzione demolitoria rispetto all'art. 6 Cedu si potrebbe peraltro porre anche sotto il diverso, ma concorrente profilo che essa è "doppiata" da quella (anche formalmente) penale, di cui all'art. 81 stesso Codice: la stessa condotta e lo stesso evento sono puniti sia con la sanzione amministrativa demolitoria, sia con quella penale (che assurge a delitto, nei casi "maggiori" di cui all'art. 181 del Codice, e in ogni caso comporta la pena congiunta, detentiva e pecuniaria). Su queste tematiche si veda, per una recente sintesi, V. Pampanin, Retroattività delle sanzioni amministrative, successione di leggi nel tempo e tutela del destinatario, in Dir. amm., 2018, 1, pag. 141 ss.
[21] Anche talune, recenti, posizioni dottrinarie (A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm. 2014, 4, pag. 627 ss.) sembrerebbero offrire argomenti a sostegno di questa apertura: l'esclusione della natura afflittiva non comporterebbe necessariamente l'inapplicabilità alla misura amministrativa "sfavorevole" del principio di irretroattività tipico delle sanzioni amministrative in senso tecnico (disciplinate dalla legge n. 689 del 1981). Ciò in quanto, accanto alle misure ripristinatorie e a quelle sanzionatorie, sarebbe possibile individuare un "tertium genus" costituito da misure che, pur non avendo natura afflittiva vera e propria, comporterebbero comunque - a seguito della violazione di una regola - conseguenze gravemente negative nella sfera giuridica del destinatario. Riguardando tali vicende alla luce del principio generale di "certezza delle regole", sarebbe dunque possibile estendere taluni corollari applicativi riferiti alle sanzioni amministrative in senso tecnico anche ai provvedimenti aventi, comunque, carattere sanzionatorio (arg. ex art. 21-bis della legge n. 241 del 1990, ove è stabilito - terzo periodo del comma 1 - il carattere inderogabilmente recettizio dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere sanzionatorio: "Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia"). A tale terzo genere di misure amministrative sfavorevoli conseguenti a infrazioni di regole (provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere sanzionatorio) potrebbero ragionevolmente estendersi taluni effetti o corollari applicativi propri delle sanzioni amministrative in senso tecnico o proprio, quali la inammissibilità di far derivare effetti giuridici sfavorevoli da regole oggettivamente incerte e oscure e, quindi, la non retroattività del trattamento giuridico deteriore.
[22] Tar Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 9 giugno 2016, n. 589 (che, nel punto 4.2. della motivazione, afferma che "la preclusione tout court al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria non operi per interventi realizzati anteriormente all'entrata in vigore delle suddette disposizioni ma debba essere applicata soltanto alle opere realizzate successivamente") e Cons. St., sez. VI, 28 febbraio 2017, n. 922 (che ha accolto il ricorso di un'impresa che si era vista negare l'accertamento di compatibilità paesistica in seguito alla entrata in vigore della nuova, più restrittiva, disciplina normativa ed ha accolto il ricorso proprio sul rilievo - punto 5.2.2.della motivazione in diritto - "della sopravvenuta introduzione di un trattamento sanzionatorio "più afflittivo" rispetto a quello anteriore ... e sulla applicabilità, nella specie, del principio della irretroattività della disciplina più severa, considerando operativa la sopravvenuta disciplina più severa esclusivamente per le opere realizzate dopo la sua entrata in vigore"). Ma già Tar Lazio, sez. II-quater, 9 giugno 2008, n. 5638, aveva ammesso l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria per fatti anteriori all'entrata in vigore del Codice del 2004.
[23] Nonostante gli insegnamenti ripetuti della Cassazione penale (Cass. pen., sez. IV, 17 dicembre 2015, n. 2598; Id., 17 settembre 2008, n. 38824; Cass. pen., sez. III, 18 dicembre 2014, n. 7423), che ne hanno correttamente perimetrato l'ambito applicativo. Emblematica di tali "rischi" è la vicenda esaminata da Cons. St., sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1427 (di conferma di Tar Toscana, sez. III, n. 945 del 2016).
[24] Cons. St., sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4899.
[25] Come di regola ammesso dalla giurisprudenza: Cons. St., sez. VI, 22 giugno 2005, n. 3306 (che ha ammesso l'apposizione di condizioni e prescrizioni nel parere soprintendentizio reso in una pratica di condono edilizio); Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2009, n. 3806; Id., 1 luglio 2009, n. 4238, Id., sez. II, par. 4 giugno 2008, n. 1249/2007; Id, sez. II, par. 30 gennaio 2008, n. 3491/2007; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 1 aprile 2009, n. 609 (che ammettono la possibilità di prescrizione di interventi migliorativi).
[26] Per la soluzione corretta si veda Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4492. Il problema riveste un suo notevole rilievo nella pratica applicativa: molti Comuni - non solo in Campania e in Calabria - hanno rilasciato condoni edilizi, in base alle leggi del 1985 e del 1994, per abusi commessi su aree sottoposte a vincolo paesaggistico, omettendo la pronuncia del parere di compatibilità paesaggistica ex art. 32 della legge n. 47 del 1985; hanno, quindi, avviato procedimenti di autoannullamento di tali concessioni in sanatoria per riesercitare il potere in modo corretto, procedendo, dunque, a richiedere il parere della soprintendenza sulla compatibilità paesaggistica dell'intervento abusivo, ma si sono scontrati con le pronunce di "inammissibilità" di alcuni uffici periferici ministeriali, che hanno erratamente opposto il divieto di sanatoria ex post introdotto dal Codice.
[27] Pareri dell'Ufficio legislativo n. 9907 del 29 maggio 2012, n. 19922 del 14 novembre 2012, n. 4157 del 13 marzo 2013 e n. 30815 del 16 dicembre 2015. Questa impostazione interpretativa si collocava nel quadro del principio di "certezza delle regole", valorizzato anche in giurisprudenza (cfr. ad es. Cons. St., sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4759, che ha deciso - in senso favorevole alla parte - un caso di "incertezza" per la successione delle norme del tempo dovuto all'inclusione, tra le aree non sottratte al vincolo di legge ex art. 142 del Codice, avvenuta solo con il secondo decreto correttivo n. 63 del 2008, delle zone "B" di p.r.g. ricadenti in un parco nazionale o in un'area naturale protetta).
[28] Si pensi all'incertezza della nozione di "bosco", alla mancata perimetrazione delle zone di interesse archeologico di cui alla lettera m) del comma 1 dell'attuale art. 142; si pensi all'introduzione, da parte di piani paesaggistici adottati nel vigore della prima versione del Codice, di nuove e atipiche tipologie di beni paesaggistici (estensione anche alle aree umide della fascia di tutela prevista per il mare e i laghi in Sardegna, beni archeologici puntuali o lineari nel Lazio, etc.).
[29] È emblematica sotto questo profilo la nota vicenda che ha interessato il Comune di Jesolo, nel quale si era per lungo tempo ritenuta l'equivalenza delle zone (denominate) di "ricomposizione spaziale" del locale p.r.g. alle zone "B" ex d.m. n. 1444 del 1968, anche agli effetti della esclusione del vincolo di legge Galasso; interpretazione poi ribaltata dalla soprintendenza sul finire del primo decennio del 2000 con l'effetto di rendere "abusivi" tutti gli interventi posti in essere negli anni precedenti, senza autorizzazione paesaggistica, sulla fascia costiera in questione (su tale vicenda si vedano Cons. St., sez. VI, 13 aprile 2010, n. 2056, di conferma di Tar Veneto, sez. II, 26 giugno 2009, nn. 1950, 1951 e 1952, nonché Corte cost., sentenza n. 66 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge della regione Veneto 26 maggio 2011, n. 10, con la quale era stata sostanzialmente sancita normativamente la sopra riferita equivalenza tra le zone di ricomposizione spaziale - o altrimenti denominate - e le zone "B", agli effetti dell'esclusione del vincolo ex lege). Emblematica anche la vicenda del vincolo "Galasso" nell'area della laguna di Venezia, riguardo alla discussa riconducibilità dei canali industriali alla nozione di "battigia" cui la legge "Galasso" lega il vincolo di rispetto, nell'incertezza dei documenti comunali relativi alla perimetrazione del centro edificato ai sensi dell'articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.