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La disciplina giuridica delle attività culturali

La musica tra attività culturali, patrimonio culturale materiale e patrimonio culturale immateriale [*]

di Paolo Carpentieri [**]

Sommario: 1. Premessa. - 2. La musica come attività culturale. - 3. La musica tra beni culturali materiali e patrimonio culturale immateriale. - 4. Un codice (della cultura) o più codici di settore?. - 5. I “beni musicali” (in senso stretto). - 5.1. La discussione sull’autonomia della nozione di “beni musicali”. - 6. Conclusioni.

La relazione tratta dell’inquadramento giuridico della musica tra attività culturali, patrimonio culturale materiale e patrimonio culturale immateriale, contiene alcune notazione sulla musica nella Convenzione Unesco di Parigi del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e sull’adottando codice dello spettacolo e riprende in sintesi il dibattito sulla nozione di “beni musicali”, riflettendo sull’opportunità di un autonomo riconoscimento di tale nozione nel codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004.

Parole chiave: musica; attività culturali; patrimonio culturale materiale; patrimonio culturale immateriale; Convenzione Unesco di Parigi.

Music between cultural activities, tangible cultural heritage and intangible cultural heritage
The report deals with the legal framework of music between cultural activities, tangible cultural heritage and intangible cultural heritage, contains some notations on music in the 2003 Paris Unesco Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage and on the adoption of the performing arts code, and summarises the debate on the notion of “musical heritage”, reflecting on the appropriateness of an autonomous recognition of this notion in the 2004 Code of Cultural Heritage and Landscape.

Keywords: Music; cultural activities; tangible cultural heritage; intangible cultural heritage; Paris Unesco Convention.

1. Premessa

La musica, sicuramente nella cultura occidentale, ma non solo, è al centro originario delle arti e della cultura in generale [1]. Di conseguenza essa si pone come punto di intersezione e di intreccio delle diverse declinazioni possibili della nozione polisemica di “patrimonio culturale”. Si colloca al crocevia tra le nozioni di “patrimonio culturale materiale”, di “patrimonio culturale immateriale” e di “attività culturali” ed evidenzia bene il valore immateriale del patrimonio culturale [2].

La musica esemplifica in modo paradigmatico, dunque, come punto di incontro tra i vari ambiti di rilevanza giuridica della cultura, lo snodo dialettico che lega insieme i primi due commi dell’art. 9 della Costituzione, per cui “la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della Nazione” (di cui al secondo comma) costituisce il deposito, appunto il “patrimonio”, il lascito del passato, da cui attingere risorse, energie e idee per “la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica” (di cui al primo comma).

Dal punto di vista del giurista, pertanto, la cultura musicale offre un punto di vista privilegiato, molto interessante, per una riflessione su questi temi.

Una riflessione che è molto attuale perché, nella materia del diritto dei beni culturali, il dibattito sul rapporto tra patrimonio culturale materiale e immateriale è molto vivo e attuale (si pensi alla discussione sui centri storici o alla recente sentenza della Plenaria n. 5 del 2023 sulla tutela dei locali storici, originata dal caso del ristorante “il vero Alfredo” di Roma [3], dove si tenta di mescolare insieme il valore immateriale identitario e la tutela delle “cose” materiali che lo incorporano e lo esprimono).

Questo breve contributo si ripropone di chiarire in proposito alcuni concetti per una più precisa collocazione della cultura musicale nel sistema giuridico vigente, soprattutto dall’angolo di visuale del diritto amministrativo.

2. La musica come attività culturale

Indubbiamente, la musica viene in rilievo in primo luogo come attività culturale, nel quadro dello spettacolo dal vivo, sia nelle esecuzioni in pubblico di opere musicali, classiche o contemporanee, sia nelle riproduzioni e nella diffusione al pubblico attraverso strumenti tecnici ed elettronici, a fini non solo di intrattenimento e commerciali, ma per il suo intrinseco valore artistico, comunicativo e di ricerca estetica, oltre che per il suo alto valore educativo e sociale.

Già il disegno di legge A.S. 2719 presentato il 4 luglio 1997 dall’allora ministro per i Beni culturali Veltroni affermava il principio per cui “la musica quale mezzo di espressione artistica e di promozione culturale, costituisce, in tutti i suoi generi e manifestazioni, aspetto fondamentale della cultura nazionale ed è bene culturale di insostituibile valore sociale e formativo della persona umana”. Ma il valore culturale della musica trova riconoscimento esplicito anche nella legge 15 luglio 2022, n. 106, recante la delega per l’adozione di un “codice dello spettacolo”, ove se ne afferma il ruolo di fattore indispensabile per lo sviluppo della cultura ed elemento di coesione e di identità nazionale, strumento di diffusione della conoscenza della cultura e dell’arte italiane in Europa e nel mondo, nonché quale componente dell’imprenditoria culturale e creativa e dell’offerta turistica nazionale.

In quanto attività culturale la musica presenta problematiche non dissimili, sul piano giuridico, da quelle che riguardano un po’ tutto il comparto dello spettacolo dal vivo, dagli assetti organizzativi degli enti pubblici e privati che vi provvedono ai profili di finanziamento e sostegno pubblico di tali attività, fino al peculiare e complesso regime giuslavoristico degli artisti e delle varie maestranze tecniche che vi concorrono (nonché riguardo ai diversi profili di controllo pubblicistico sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblici, etc.).

Fondamentale è poi l’apporto della formazione, che costituisce il tema principale di questo importante Convegno, dopo l’entrata in vigore, nel luglio scorso, dei d.p.r. 24 aprile 2024, nn. 82 e 83, recanti (rispettivamente) il “Regolamento concernente modifiche al regolamento recante disciplina per la definizione degli ordinamenti didattici delle Istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica”, a norma dell’articolo 2 della legge 21 dicembre 1999, n. 508, adottato con decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212, e il nuovo “Regolamento recante le procedure e le modalità per la programmazione e il reclutamento del personale docente e del personale amministrativo e tecnico del comparto AFAM”.

Ricordiamo che il nuovo titolo V della Costituzione, riformato nel 2001, attribuisce alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni - nel terzo comma dell’art. 117 - la promozione e organizzazione di attività culturali. Sul tema si sono avuti diversi interventi della Corte costituzionale volti a precisare il riparto di tale competenza legislativa tra Stato e Regioni [4].

Su quest’area dovrebbe intervenire l’emanando “codice dello spettacolo”, di cui alla citata legge delega 15 luglio 2022, n. 106, che riprende sostanzialmente vari disegni di legge precedenti (dalla legge n. 186 del 2004 ai disegni di legge della XVI legislatura, fino alla legge n. 175 del 2017, deleghe tutte non esercitate nel termine stabilito). Il termine di esercizio di quest’ultima delega è stato da ultimo portato da ventiquattro a trentasei mesi dalla legge 8 agosto 2024, n. 119 (con scadenza al 18 agosto 2025).

3. La musica tra beni culturali materiali e patrimonio culturale immateriale

Ma, come anticipato in Premessa, uno dei temi forse più interessanti, almeno dal punto di vista dell’amministrativista, è costituito dalla collocazione della musica nell’ambito delle diverse nozioni a cerchi concentrici o a strati del concetto di “patrimonio culturale” [5].

Ho già rilevato come la musica, nella sua assoluta centralità nella cultura in generale, emerga e sia presente trasversalmente in tutte le aree di possibile rilevanza giuridica dei beni e delle attività culturali [6]. Probabilmente è da condividere l’idea che la tutela dei beni musicali, nell’intreccio inestricabile tra attività culturali, patrimonio culturale materiale e immateriale, tradizioni e storia della cultura, debba”essere dunque intesa come tutela e conservazione di una tradizione musicale”, data la “natura eminentemente performativa del bene musicale”, la cui fruizione è necessariamente intermediata dalla sapienza tecnica degli interpreti musicisti, sicché “oltre alle partiture” è necessario conservare “le condizioni culturali e tecniche per riproporre quelle stesse pagine di musica attraverso concerti o registrazioni”, ragion per cui “la conservazione dell’opera è affidata non tanto alla tutela quanto allo spettacolo (in senso lato)” [7].

Insomma, la cultura musicale è il campo nel quale è più evidente il nesso inscindibile tra beni e saperi culturali.

Parliamo qui ovviamente di patrimonio culturale in senso giuridico e non in senso puramente socio-antropologico. In diritto non è possibile, infatti, pena l’assoluta indeterminazione, confondere il “patrimonio culturale” con la “cultura” tout court.

Perciò qui mi limiterò solo a menzionare la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del cultural heritage per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, entrata in vigore il 1° giugno 2011, firmata dall’Italia il 27 febbraio 2013 e infine ratificata con la legge 1 ottobre 2020, n. 133, che parla di “un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano ... come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”, nonché di “fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività” e di “ideali, principi e valori ... che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto”.

Mi limiterò a una semplice menzione anche della consimile Convenzione dell’Unesco adottata a Parigi il 20 ottobre 2005 per la protezione e la promozione delle diversità culturali, che pure riguarda le “espressioni culturali”, le “culture”, la “diversità culturale”, il “contenuto culturale”, “attività, beni e servizi culturali”, le “industrie culturali”, le “politiche e misure culturali”, ma non il “patrimonio culturale”.

Mi riferirò soprattutto alla Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, adottata a Parigi il 17 ottobre 2003 e ratificata dall’Italia con la legge 27 settembre 2007, n. 167. Tale convenzione ha ad oggetto (art. 2) “le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.

La Convenzione del 2003 prevede peraltro una sorta di individuazione selettiva dell’oggetto e del suo ambito (reale e giuridico) di applicazione. L’art. 12 (inventari) prevede che, “al fine di provvedere all’individuazione in vista della salvaguardia, ciascun stato contraente compilerà, conformemente alla sua situazione, uno o più inventari del patrimonio culturale immateriale presente sul suo territorio. Questi inventari saranno regolarmente aggiornati”. L’art. 16 (lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità) prevede, poi, che “al fine di garantire una migliore visibilità del patrimonio culturale immateriale, di acquisire la consapevolezza di ciò che esso significa e d’incoraggiare un dialogo che rispetti la diversità culturale, il comitato, su proposta degli stati contraenti interessati, istituirà, aggiornerà e pubblicherà una lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”.

In questa lista vi è un ampio spazio per musiche e danze tradizionali. Se la scorriamo vediamo subito che la gran parte degli elementi sono musicali [8]. Per la tradizione italiana si annoverano il canto a tenore sardo e l’arte musicale dei suonatori di corno da caccia (Torino, Bolzano). Cui si aggiunge “Il saper fare del liutario di Cremona”.

La Convenzione di Parigi del 2003, a differenza di quella del 2005 e a differenza della Convenzione di Faro, non riguarda “il tutto”, la cultura in tutte le sue manifestazioni, ma specifici fenomeni sociali e culturali, per quanto ampi ed eterogenei, particolarmente legati alle tradizioni culturali locali. In ciò il suo ambito di denotazione appare per certi versi più assimilabile alla nozione tradizionale di bene culturale recepita dal codice di settore del 2004, benché riferita, per l’appunto, anche a beni immateriali. E perciò essa appare giuridicamente più rilevante e utile, rispetto alle (piuttosto vacue) declamazioni delle altre due Convenzioni, di Parigi e di Faro, del 2005.

Il secondo decreto correttivo e integrativo del codice di settore (d.lg. n. 62 del 2008) ha provato a mettere un po’ d’ordine nel rapporto (spesso confuso e denso di equivoci) tra questi diversi atti-fonte (e relativi “mondi” di riferimento) ed ha avuto cura di precisare, aggiungendo un apposito art. 7-bis rubricato, significativamente, Espressioni di identità culturale collettiva, che “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle convenzioni Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.

Si è sviluppato un ampio dibattito sulla idoneità di questa nuova disposizione a stabilire un valido regolamento di confini tra il patrimonio culturale in senso tradizionale, fondato sulla nozione reale e materiale di bene culturale (“testimonianza materiale avente valore di civiltà”) e l’universo-mondo dei beni culturali immateriali. Molti Autori hanno lamentato la mancata inclusione del patrimonio culturale immateriale (peraltro nella sua denotazione più ampia, comprensiva delle Convenzioni di Parigi e di Faro del 2005) all’interno del codice del 2004, ma io ho invece sostenuto al contrario la condivisibilità della predetta disposizione, che ha evitato inutili confusioni [9].

4. Un codice (della cultura) o più codici di settore?

Il patrimonio culturale immateriale comprende anche le performingarts, il cinema, lo spettacolo dal vivo, l’arte contemporanea.

Lorenzo Casini [10] ci ricorda che esistono esempi, nella legislazione di altri Paesi (per esempio, in quella giapponese), di un unico codice che riguarda tutta la cultura nel suo insieme, dai beni materiali alle attività culturali (fino a comprendere, nel caso giapponese, addirittura, forme di patrimonio culturale nazionale vivente, costituite da persone in carne ed ossa depositarie di conoscenze e pratiche degne di essere preservate e trasmesse).

Nulla da eccepire circa la opportunità di apprestare forme di sostegno e, se si vuole, di protezione, di antichi mestieri o anche di tradizionali modi di vita in via di sparizione, “incarnati” in persone fisiche costituenti “monumenti” culturali viventi [11]. Ma la domanda per il giurista è se sia o meno opportuno/utile differenziare i regimi giuridici, pur nella comprensione (olistica) dei fenomeni culturali, posto che queste persone non possono certo essere “vincolate”, ma necessitano di sussidi, sostegni economici e commerciali, abbisognano di protezione della denominazione di origine e di un marchio di qualità dei loro prodotti, etc., ossia di un regime giuridico proprio che poco ha a che fare con i tradizionali istituti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale (in senso stretto).

Probabilmente è più saggia, pertanto, la strada intrapresa dal legislatore attuale, che, con il disegno di legge già A.C. nn. 799 e 988, recante “Disposizioni in materia di manifestazioni di rievocazione storica e delega al Governo per l’emanazione del Codice per la salvaguardia dei patrimoni culturali immateriali”, approvato alla Camera come testo unificato il 20 febbraio 2024, poi approvato al Senato - AS 1038 - il 2 ottobre 2024 (legge n. 152 del 7 ottobre 2024, in GU n. 244 del 17 ottobre 2024), sembra puntare a un autonomo codice dedicato alla materia del patrimonio culturale immateriale, che si collocherebbe dunque in un apposito testo distinto rispetto al codice dei beni culturali e del paesaggio.

Il che risponde alla logica della codificazione moderna che, abbandonata l’ambizione (ormai antistorica) di unicità e universalità della codificazione civile napoleonica del XIX sec., è soprattutto ed essenzialmente codificazione di razionalizzazione e di riordino per settori omogenei.

In questa stessa direzione muovono del resto le reiterate, già citate, iniziative volte a costruire un codice dello spettacolo dal vivo.

Ma perché tre “codici” e non un unico testo onnicomprensivo? Perché, come detto, il “bisogno di diritto” del patrimonio culturale “materiale” è completamente diverso da quello delle attività culturali e da quello del patrimonio culturale immateriale di cui alle Convenzioni Unesco di Parigi del 2003 e del 2005 (e di cui alla Convenzione di Faro del 2005). Mentre il patrimonio culturale in senso proprio o tradizionale, cioè quello dei beni culturali reali, materiali, ha bisogno di tutela, nel senso di conoscenza, conservazione e protezione, il patrimonio culturale immateriale, ivi incluso lo spettacolo dal vivo, il cinema, le performingarts, le rievocazioni storiche, i costumi, le tradizioni etc., hanno bisogno sì, di conoscenza, ma non certo di “tutela” (intesa come conservazione e protezione), bensì solo di libertà di espressione e di sostegno economico.

Dunque, meglio tre codici (anzi quattro, se ci mettiamo anche la legge cinema 14 novembre 2016, n. 220) che un unico testo nel quale metterci tutto e il contrario di tutto, senza un minimo di omogeneità non solo per materia, ma soprattutto per regime giuridico.

È evidente che lo spartito originale di un’opera di Mozart, custodito in una biblioteca, in museo o in un archivio, ha bisogno di essere conservato e protetto in base alle norme del codice del 2004, mentre la musica scritta in quello spartito, come “bene culturale immateriale” e/o “attività culturale”, deve poter essere liberamente eseguita, deve essere insegnata, deve essere ricordata, tramandata, deve essere ascoltata, goduta e amata da un pubblico sempre più vasto, ma per fare tutto ciò a nulla serve la normativa vincolistica restrittiva contenuta nel codice del 2004 (che vale per la tutela dello spartito come documento materiale), ma servono ben altri e diversi regimi giuridici, di libertà, di studio, di insegnamento (e qui la riforma e il potenziamento del sistema Afam è fondamentale), nonché incentivi, finanziamenti, capacità di organizzazione e gestione dello spettacolo dal vivo, etc.

Una cosa è la “parte immateriale” del bene musicale (il “significato” della partitura musicale, ossia il brano musicale rieseguibile), altra cosa è l’antico spartito musicale, che è un bene materiale unico e non riproducibile (se non in copie che però non hanno, come è ovvio, lo stesso valore di testimonianza culturale dell’originale).

Ma questa distinzione, deve rilevarsi, tra oggetto fisico e suo contenuto/significato culturale, è un fenomeno che non ha nulla di originale, poiché lo si può rilevare e predicare identico per un bene archivistico o per un bene librario.

Ad esempio, il testo delle Divina Commedia di Dante: la Divina Commedia è elemento costitutivo del patrimonio culturale italiano; ma lo è in due sensi - sempre sul piano giuridico - del tutto diversi: 1) come prodotto culturale; 2) come bene culturale materiale (ad esempio, le prime, più antiche, rare e preziose, edizioni a stampa o il più antico manoscritto, datato intorno al 1336, manoscritto landiano o codice beccario); come prodotto culturale, essa richiede di essere promossa, valorizzata, proposta e riproposta ai lettori di tutto il mondo, anche con sostegni economici promozionali e nel massimo rispetto della libertà culturale dei lettori e degli interpreti (ponendosi, al limite, solo un marginale problema di riconoscimento dell’Autore e di salvaguardia della dignità e del decoro del testo; ma chi potrebbe mai censurare un fumetto che mettesse in versione erotica il rapporto tra Dante e Beatrice?); come bene culturale materiale - le prime, più antiche, rare e preziose, edizioni a stampa o i più antichi manoscritti -, essa richiede evidentemente la tutela in senso proprio del codice di settore del 2004.

È poi evidente che in tutto questo discorso non c’entra nulla la protezione del copyright. Il sistema della tutela dei beni culturali, quale si è tradizionalmente configurato nella nostra storia giuridica, a partire dalla legge “Nasi” n. 185 del 1902, dalla legge “Rosadi” n. 364 del 1909, dalla legge “Bottai” n. 1497 del 1939, fino all’odierno codice del 2004, riguarda solo il patrimonio “storicizzato”, opera di autore non più vivente e ultracinquantennale (ultrasettantennale a partire da una riforma del 2011-2017), ed in ciò si pone in alternativa (o in continuazione) rispetto al regime del diritto d’autore, nel senso che questo regime di tutela pubblicistica dell’opera d’arte (o dell’oggetto di interesse storico-culturale) in qualche modo “segue” dopo la cessazione dei diritti patrimoniali d’autore ed ha normalmente ad oggetto “opere” che sono ormai (sul piano “contenutistico”) per lo più in libero dominio [12].

Non v’è dubbio sul fatto che per eseguire una partitura musicale sì da renderla ascoltabile e fruibile occorre la mediazione dell’atto performativo di un interprete capace, “che abbia acquisito una tecnica e una prassi esecutiva sedimentatesi in una tradizione musicale continuativa, trasmessa di generazione in generazione per secoli (o ricostruita sulla base di ricognizioni storico-critiche e sperimentazioni esecutive, attraverso le concorrenti specialità di musicologi e musicisti)” [13], mentre la lettura della Divina Commedia di Dante è, sì, anch’essa un’attività performativa, che può richiedere anche un’adeguata interpretazione artistica, ma è di base “più semplice”. Ma la differenza è solo di grado, non di tipo (ancorché la musica - come il diritto - presenti i caratteri delle discipline performative, in primis la natura triadica del rapporto tra compositore, esecutore e pubblico, in luogo del rapporto bilaterale che si verifica nel caso della letteratura [14]).

Peraltro la riproducibilità tecnica dell’esecuzione e il conseguente processo di commercializzazione della musica indotto dall’industria discografica hanno in parte ridotto il possibile iato tra performance esecutiva della musica e “lettura” di testi di letteratura (oppure, se si vuole, fruizione di uno spettacolo teatrale, di una proiezione cinematografica o di una qualsiasi altra rappresentazione, quale ad esempio una rievocazione storica, una festa folkloristico-religiosa, etc.).

Certamente alle esecuzioni musicali costituenti attività culturali e spettacolo dal vivo si applica la tutela dei diritti morali e patrimoniali degli artisti, interpreti ed esecutori, nonché dei produttori, ma questo è un regime di protezione affatto diverso rispetto a quello proprio del patrimonio culturale, materiale e immateriale, che, come tale, si oggettivizza e si distacca dal suo autore o interprete ed esecutore.

Esula poi dalla presente trattazione il tema, spinoso e delicato, dell’equo compenso e della giusta remunerazione degli autori e degli artisti, interpreti ed esecutori per i plurimi usi che le piattaforme social e i vari media fanno sul web dei contenuti culturali prodotti.

Neppure può rilevare in senso contrario (ossia nel senso di una possibile comunanza di regime e di collocazione del testo normativo tra patrimonio culturale materiale e patrimonio culturale immateriale - attività culturali) il fatto che, sia pure in un’astratta e remota ipotesi, l’opera musicale potrebbe essere “distorta”, vilipesa (?), modificata in modo che si possa ritenere una determinata riproduzione o esecuzione non consona o non rispettosa della dignità dell’autore, etc. Osta a una tale ipotesi il nostro ampio liberalismo che, a differenza di altre culture, pratica la massima tolleranza e che, anzi, diciamoci una verità un po’ “contro corrente”, è vittima di un pregiudizio, di un luogo comune ormai vacuo e antiquato, per cui la vera arte contemporanea dovrebbe essere sempre “dissacrante” (se no, non è arte), da Duchamp in avanti (solo che le provocazioni di Duschamp forse avevano un senso, mentre oggi si assiste a un penoso manierismo, per cui il vecchio e stantio épater le bourgeois è diventato addirittura un must dei Festival di Sanremo).

Non credo, dunque, che si potrà mai porre un problema di “usi incompatibili” delle opere musicali, intese come prodotti culturali appartenenti al “patrimonio culturale immateriale”. Il che vieppiù dimostra che non vi è spazio per una “tutela” (nel senso del codice del 2004) delle opere musicali come prodotti culturali.

5. I “beni musicali” (in senso stretto)

Fatte queste necessarie precisazioni preliminari, è possibile gettare ora uno sguardo sul segmento della tutela e valorizzazione dei beni culturali materiali riferiti alla cultura musicale, rientranti dunque, questi sì, appieno nella disciplina del codice del 2004.

Qui mi riferisco ai “beni musicali” in senso stretto, poiché esiste anche un uso più ampio di questo lemma, esteso a ricomprendere anche l’aspetto intellettuale ed estetico della musica, per riprendere la tripartizione proposta da Bianconi [15], o l’idea di “bene musicale” intesa anche come “l’esperienza sonora che pervade la nostra vita quotidiana, intesa in tutte le sue manifestazioni, di ascolto ed esecuzione, pratica domestica o pubblica, compreso il cosiddetto soundscape, il paesaggio sonoro nel quale siamo immersi e che contribuisce in modo significativo alla definizione dell’identità culturale di una comunità” [16]. Ma questa accezione più ampia [17], per le ragioni che ho sopra esposto, è poco utile per il diritto, poiché rischia di creare confusione tra settori che giuridicamente richiedono una trattazione e un regime di salvaguardia e di valorizzazione notevolmente diversi per tipo di strumentazione giuridica messa in campo.

Guardando, dunque, ai beni musicali in senso stretto o materiale, si tratta, evidentemente, ad esempio, di antichi strumenti musicali, dai violini Stradivari agli organi delle chiese, si tratta di antichi spartiti musicali, di raccolte documentarie e archivistiche di musicisti e artisti o delle biblioteche dei Conservatori di musica, che spesso ospitano ingenti fondi storici, ma si tratta anche delle “immagini musicali” (fonti iconografico-musicali) [18], dei dischi e dei nastri magnetici; ma si può trattare, se si vuole, anche di beni immobili, come i teatri storici, vocati per lo più all’attività lirico-sinfonica e alla musica per orchestra, oltre che al teatro e ad altre forme di spettacolo dal vivo.

Si tratta di cose materiali, opere di autore non più vivente e aventi più di settant’anni, rientranti nella previsione dell’art. 10 del codice vigente [19].

Trattandosi di cose materiali, possono trovare appropriata e piena applicazione gli istituti giuridici di tutela e valorizzazione contemplati dal codice del 2004 [20].

Tali “cose”, se appartengono allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono sottoposte alle disposizioni di tutela della Parte II del codice fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2 dell’art. 12, indipendentemente, quindi, da una declaratoria formale o da un provvedimento di vincolo ad hoc (art. 10, comma 1, e art. 12, comma 1: così detti beni culturali ope legis).

Se si tratta di “cose” (mobili) facenti parte di raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi (o di archivi, o di raccolte librarie delle biblioteche) dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico, esse sono beni culturali per legge (art. 10, comma 2).

Se si tratta, invece, di cose appartenenti a privati persone fisiche o persone giuridiche aventi scopo di lucro, allora sono “beni culturali”, se presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, solo quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13 (provvedimento di vincolo; art. 10, comma 3).

Possono rinvenirsi “beni musicali” in diverse tra le tipologie di “beni culturali” classificate dai commi 3 e 4 dell’art. 10: oltre agli strumenti musicali, possiamo avere, come detto, beni archivistici (archivi e singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante), raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale, quando riferite alla musicologia, ma anche, come già detto, cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica musicali, dell’industria e della cultura in genere [i beni culturali di tipo “relazionale-esterno” o di interesse “storico-testimoniale”, di cui alla lettera d) dell’art. 10, per i quali non occorre il prerequisito della ultrasettantennalità e della non vivenza dell’autore]; possono rientrarvi inoltre anche le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.

Il comma 4 dell’art. 10 dettaglia poi, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alcune specie rientranti nel genere più ampio, indicato dalla lettera a) del comma 3, e, tra di esse, paiono rilevanti ai fini dell’indagine sui “beni musicali”, le specie indicate nelle lettere c) - i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio -, d) - le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio - ed e) - le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio. Da notare che la considerazione espressa degli spartiti musicali si è avuta solo a partire dal testo unico di cui al d.lg. n. 490 del 1999.

Viene poi in rilievo anche l’art. 11 del codice, che riguarda le Cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela, ossia alcune tipologie di cose assoggettate esclusivamente alle disposizioni espressamente per ciascuna di esse ivi richiamate. Non sono propriamente parlando “beni culturali”, ma cose che di regola presentano un interesse se vogliamo “minore” e parziale, per cui ricevono una tutela limitata a specifici aspetti stabiliti nel medesimo art. 11 (alcuni parlano a tal riguardo di “beni culturali minori”).

Rilevano per la nostra indagine sui “beni musicali” le seguenti tipologie: art. 11, lettera b): gli studi d’artista (studi di musicisti, e non solo studi di pittori o scultori), per i quali è vietato modificare la destinazione d’uso nonché rimuoverne il contenuto, costituito da opere, documenti, cimeli e simili, qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico, ai sensi dell’articolo 13; art. 11, lettera d): “qualsiasi oggetto d’arte di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni”, per il quale chi commercia in oggetti d’antichità o di interesse storico ha l’obbligo di consegnare all’acquirente la documentazione che ne attesti l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza; art. 11, lettera f): “le fotografie, con relativi negativi e matrici, gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, le documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali, comunque realizzate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni”, per le quali cose l’uscita definitiva dal territorio della Repubblica è soggetta ad autorizzazione.

5.1. La discussione sull’autonomia della nozione di “beni musicali”

Si è sviluppato nei primi anni duemila, soprattutto in vista dell’emanazione del codice del 2004, un significativo dibattito intorno ai “beni musicali”, imperniato sul rilievo della mancata considerazione autonoma, nel codice, di tale categoria di beni culturali, nonostante la loro possibile omogeneità tipologica e culturale, categoria di beni culturali che dovrebbe essere maggiormente tutelata dallo Stato italiano al pari del patrimonio archeologico e pittorico.

Si è rilevato criticamente che “il “bene musicale” come oggetto materiale non gode di una definizione autonoma ma è inteso come sottocategoria della tipologia di livello superiore: lo spartito è un bene librario, il bozzetto di scena è un disegno, eccetera; l’aggettivo ‘musicale’ non determina un’autonomia di questi oggetti rispetto alle tipologie di riferimento, sebbene sia a tutti noto che il trattamento biblioteconomico e catalografico di tali materiali richiede competenze specifiche, di solito non possedute da chi non abbia svolto un curriculum formativo specifico” [21].

Si ricorda, in particolare, un’apposita giornata di studio su I beni musicali: una definizione, svoltasi a Bologna il 26 maggio 2004, organizzata(a pochi giorni dall’entrata in vigore del nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio, avvenuta il 2 maggio 2004) per iniziativa del Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, dell’Associazione fra Docenti universitari italiani di Musica, del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e dell’Associazione “Il Saggiatore musicale”.

L’iniziativa riprendeva peraltro i temi sollevati nell’analogo incontro (La musica come bene culturale) indetto sei anni prima dal “Saggiatore musicale” e dal Centro La Soffitta del Dipartimento di Musica e Spettacolo, in collaborazione con la Facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Università di Bologna e svoltasi in Ravenna, palazzo Corradini, 30 marzo 1998 [22].

Né deve dimenticarsi il convegno organizzato da Giuseppe Chiarante, allora Presidente dell’Associazione Bianchi Bandinelli, il 29 maggio 2001 nella Sala dello Stenditoio delComplesso monumentale del San Michele a Roma, intitolato “Il patrimonio culturale musicale nella politica dei Beni culturali” [23], nell’ambito del quale Chiarante illustrò la proposta di creare un Istituto speciale peri Beni musicali.

Tematiche riprese ulteriormente più di recente nel Convegno “Le musiche di tradizione orale come patrimonio culturale (bene musicale)”, promosso dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Giorgio Cini, a Venezia nei giorni 23 e 24 giugno 2022, nel quale è stata nuovamente posta la questione della mancata presenza del lemma “musica” nel codice dei beni culturali e del paesaggio, per cui la musica viene pensata e normata solo in quanto spettacolo dal vivo, mentre la tutela e la salvaguardia dei beni musicali non è prevista nell’ordinamento legislativo italiano, donde la necessità di una riflessione, in particolare da parte dell’etnomusicologia, in quanto nuova disciplina a cavallo tra musicologia e demoetnoantropologia che deve misurarsi con la definizione di bene musicale (materiale e immateriale) anche alla luce della recente normativa emanata dall’Unesco.

In occasione della giornata di studi bolognese del 26 maggio 2004 la Prof.ssa Annalisa Gualdani presentò un’approfondita relazione [24], nella quale si evidenziava l’indispensabilità di un’autonoma nozione di beni musicali e di una loro specifica disciplina distinta dalla normativa generale sui beni culturali, e ciò in ragione dell’ampiezza contenutistica del termine bene musicale comprendente non solo gli spartiti musicali (espressamente disciplinati dall’art. 10, comma 4, lett. d), del codice), ma, altresì, gli stessi strumenti, gli accessori di questi ultimi (archetti, ance, bocchini) e l’altra oggettistica “pertinente” all’attività esecutiva (leggii, metronomi, sgabelli dei pianoforti), aventi i requisiti della rarità e del pregio artistico o storico [25].

In parallelo con la rivendicazione di un’autonoma definizione e disciplina dei beni musicali, si era altresì evidenziata l’esigenza di prevedere appositi organi o istituti ministeriali specificamente deputati (una Direzione generale per i beni musicali o un Istituto speciale per i beni musicali con compiti di studio, ricerca, sperimentazione e documentazione, come già proposto nel 2001 da Giuseppe Chiarante, e per la promozione di un piano organico di interventi relativi al recupero, alla tutela, alla conservazione, al restauro, alla catalogazione, alla valorizzazione ed alla fruizione delle diverse tipologie di beni musicali presenti in Italia, sia nel pubblico, sia nel privato).

Questa proposta, a mio avviso, coglie un elemento di verità ed è condivisibile se guardiamo soprattutto al lato dell’offerta alla pubblica fruizione e alla valorizzazione di questi beni, mentre non appare del tutto convincente se guardiamo al lato della tutela.

Dal lato della fruizione-valorizzazione non vi è dubbio sulla opportunità (se non sulla necessità) di un’offerta alla conoscenza e al godimento pubblici che assicuri la giusta contestualizzazione organica di queste tipologie di beni: ha molto senso, infatti, proporre, negli allestimenti museali di beni musicali (ad esempio, di strumenti musicali), la possibilità di esecuzioni e interpretazioni di opere musicali, utilizzando (ove e per quanto possibile) anche gli strumenti antichi, così come ha un senso ricostruire, ove possibile, a mo’ di studio di artista, la dimora storica dell’artista con i sui strumenti musicali insieme agli oggetti accessori e agli spartiti musicali, ai documenti di archivio e ad eventuali sue raccolte librarie.

In questo senso sono noti i numerosi esempi virtuosi di musei di strumenti musicali (come il Museo nazionale di strumenti musicali del MIC in Roma, piazza Santa Croce in Gerusalemme, il Civico Museo degli Strumenti Musicali di Milano, nel Castello sforzesco, il Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna, il Museo della Musica nella Chiesa di San Maurizio a Venezia, il Museo degli strumenti musicali ubicato nella galleria dell’Accademia di Firenze, etc.).

Più in generale, se si pensa al settore dell’iconografia musicale, si tocca con mano l’intreccio tra beni materiali e beni immateriali, tradizioni, prassi, eredità culturali in senso ampio: “nel corpus delle immagini musicali rientrano le più svariate tipologie di raffigurazioni, senza limitazioni di tipo cronologico, stilistico, tecnico o funzionale: dai reperti archeologici ai dipinti, sculture e manufatti medievali e moderni, alle scene, bozzetti e figurini teatrali, alle illustrazioni di libri manoscritti o a stampa, alle decorazioni di strumenti, alle foto” [26].

Dal lato della tutela può tuttavia obiettarsi che è la natura e la tipologia del supporto materiale (il legno e i metalli degli strumenti musicali, le carte e i diversi materiali dei documenti archivistici e librari, etc.) a “guidare” e governare le tecniche di conservazione programmata e di restauro, attraverso le quali si fa in concreto la tutela. Tant’è vero che l’elenco nazionale dei restauratori di beni culturali, consultabile sulla piattaforma “Professionisti di beni culturali”, è suddiviso in 12 settori di competenza professionale [27].

È vero - ed è da sottolineare - che sia l’elenco nazionale dei restauratori di beni culturali, sia i corrispondenti Percorsi formativi professionalizzanti ex d.m. n. 87 del 2009 contemplano espressamente il settore di competenza e il Pfp degli “Strumenti musicali”, ma è altresì vero che questo settore riguarda solo gli strumenti musicali di pregio artistico o storico, riconducibili all’art. 10, comma 3, del codice, mentre il materiale librario e archivistico e i manufatti cartacei (ad esempio, gli spartiti musicali), così come il materiale fotografico, cinematografico, digitale, audiovisivo, ricadono in altri settori e percorsi professionali, abbisognando di diverse tecniche.

Alla stessa stregua, se guardiamo ai teatri storici (nonché agli edifici dedicati alla musica in generale, quali gli auditorium, le sale di ascolto, le sale di incisione, etc.), non v’è dubbio, sul lato della fruizione-valorizzazione, che essi ben potrebbero costituire la sede elettiva di apposite raccolte museali e archivistiche di “beni museali” (archivi musicali, biblioteche musicali, raccolte di manoscritti e stampe musicali, archivi sonori e audiovisivi, collezioni di strumenti musicali, organi storici, testimonianze iconografico-musicali e documentazione di interesse etnomusicologico), ma è altrettanto evidente, dal lato della tutela, che essi presentano natura ed esigenze di conservazione e protezione affatto peculiari e diverse da quelle dei beni musicali mobili.

In correlazione alla sforzo definitorio della nozione unitaria di “beni musicali”, è negli anni emersa la proposta di istituire un profilo professionale specifico di “funzionario per i beni musicali” [28], che avrebbe trovato anche una parziale ricezione normativa nel decreto interministeriale (Mibact/Miur) del 31 gennaio 2006 di “Riassetto delle Scuole di specializzazione nelsettore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale”, con l’istituzione della “Scuola di specializzazione in Beni musicali”, profilo tuttavia mai attuato.

Sicuramente apprezzabile e da condividere è infine la proposta di aggiungere espressamente, nella sopra citata tipologia dei beni culturali di interesse “storico-estrinseco” o “relazionale-esterno”, il riferimento alla storia della musica.

6. Conclusioni

Al centro del dibattito si impone in ogni caso il pieno riconoscimento della funzione della musica come componente essenziale dello sviluppo culturale e sociale della comunità nazionale, quale fattore indispensabile per lo sviluppo della cultura ed elemento di coesione e di identità nazionale, strumento di diffusione della conoscenza della cultura e dell’arte italiane in Europa e nel mondo, nonché quale componente dell’imprenditoria culturale e creativa e dell’offerta turistica nazionale.

La cultura musicale italiana, inoltre, rappresenta un asset costitutivo essenziale del soft power che il nostro Paese può esprimere, anche a livello internazionale, e costituisce una componente fondamentale del brand Italia, con tutte le ricadute positive soprattutto in termini di riconoscimento della nostra identità, di orgoglio e senso di appartenenza, ma anche in termini economici, di lavoro e sviluppo per le giovani generazioni.

La musica, infine, unisce. Ha sempre svolto nella cultura dei Sapiens, come dimostra l’antropologia, una funzione edificante della coesione del gruppo organizzato e di ausilio, nel suo legame con i riti, nello scioglimento e nell’appianamento dei conflitti. C’è dunque un estremo bisogno, oggi, di cultura musicale, in un mondo che appare sempre più dilaniato da conflitti irrisolvibili e da un ritorno alla violenza della guerra, che è l’opposto dell’armonia della musica.

Il rafforzamento e la razionalizzazione del sistema dell’educazione e della formazione nel campo della musica riveste un ruolo di primissimo piano in questo quadro. Per cui mi sembra che questo Convegno colga un tema di centrale importanza, a valle dell’entrata in vigore della riforma del sistema dell’Afam introdotta con i d.p.r. 24 aprile 2024, nn. 82 e 83.

 

Note

[*] Sintesi della relazione tenuta in occasione del Convegno internazionale di studi dal titolo “La riforma della istruzione musicale e AFAM. I giovani e la musica classica”, organizzato il 3 e 4 ottobre 2024 a Napoli dall’Arciconfraternita dei Pellegrini.

[**] Paolo Carpentieri è Presidente del Tar Emilia-Romagna, p.carpentieri@giustizia-amministrativa.it.

[1] La m?sik? (tékhn?), l’“arte delle Muse”, ricomprendeva in origine tutte le manifestazioni artistiche. Le Muse erano legate a Dioniso ed erano soprattutto divinità del canto e delle danze. La nascita del mito, con gli aedi, è strettamente legata alla musica e al canto (A. Pagliaro, voce Aedo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1929, al sito b://www.treccani.it/enciclopedia/aedo). Le Muse erano pensate in origine come cantatrici e danzatrici, come dimostrano le loro più antiche raffigurazioni nelle pitture vascolari e solo in epoca successiva si andò affermando la “specializzazione” nei diversi campi più specifici. La stessa poesia era essenzialmente canto. Per i pitagorici i numeri e la musica erano strettamente intrecciati e costituivano la trama profonda della natura (cfr. A. Oddeninno, Standardizzazione, musica e diritto internazionale economico, in L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, (a cura di) G. Resta, Roma, 2020, pagg. 281-282). La danza e il canto rituali hanno a che fare, d’altra parte, con le prime forme di socializzazione e di rappresentazione simbolica dei Sapiens, ed è da lì che probabilmente è nato e si è sviluppato il linguaggio (cfr. JürgenHabermas, Una storia della filosofia. I. Per una genealogia del pensiero postmetafisico, Feltrinelli, Milano, 2022, pag. 184, che vede nei miti le prime forme di verbalizzazione dei contenuti sacrali dei riti e li riconnette all’origine del linguaggio, pag. 202 ss.; in tema cfr. anche V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024, pag. 208, che sottolineano la centralità del rito nello sviluppo della capacità simbolica dell’uomo). I Proff.ri Picozza e Resta, cui si devono i più approfonditi contributi in tema di diritto e musica degli ultimi anni, hanno peraltro ricordato come tra i vari significati che il termine nomos aveva nella cultura greca “v’era, com’è noto, oltre a quello di “legge”, anche quello di “canto”; e non a caso la pratica dei nomoi cantati rappresenta uno dei primi e più noti esempi di fusione tra pratiche giuridiche e forme artistico-musicali” (G. Resta, Introduzione. Itinerari per una ricerca su diritto e musica, in L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, cit., pag. 13; E. Picozza, Il nomos nella musica e nel diritto, ivi, pag. 251 ss.). Acutamente osserva in proposito G. Severini (Su diritto e musica: considerazioni di un uomo in toga senza strumenti di musica, ivi, pagg. 343-344 ed. cartacea, pagg. 349-350 pdf web): “Nel mondo greco arcaico fino all’VIII secolo a.C. circa, prima della diffusione della scrittura che segnò gli inizi dell’epoca classica, era la tradizione del custodire oralmente nel tempo il testo del canto, come quello omerico. La stabilità e la ripetibilità erano assicurati dalla reiterazione fedele e anonima dell’esecuzione secondo tipi e contenitori metrici. Il che avveniva in modi musicali per il canto come per il diritto, assai più vicini tra loro di quanto non lo siano oggi, finanche nell’esemplarità delle narrazioni: entrambe protese a definire modelli comportamentali etici. Nómos, del resto, significava anche melodia prestabilita perché, ricorda Aristotele, prima della scrittura le leggi stesse erano cantate. E la giuridicità stessa dei modelli cantati era ancora essenzialmente rituale e procedimentale ... Nell’antichità arcaica la continuità di poesia e di diritto poggiavano sui parametri della metrica e sulla tradizione del canto che, mediante la reiterazione e la trasmissione orale, ne assicurava la durevolezza”. La musica è dunque strettamente legata a molte aree del sapere umano. Sul legame tra musica e diritto, che ha dato vita a un’autonoma branca della ricerca denominata Law and Music, oltre al citato volume L’armonia nel diritto a cura di G. Resta, si veda l’esaustivo contributo di E. Picozza, Scritti vari su musica e diritto, (raccolta a cura di) D. Siclari, Napoli, Editoriale scientifica, 2022, nonché A. Ripepi, L’interpretazione al crocevia tra diritto e musica. Un processo circolare, in Rass. Avv. Stato, 2023, 2, pag. 224 ss. Sul legame tra diritto e poesia si veda la recente traduzione dello scritto di Jacob Grimm del 1816 La poesia nel diritto, (a cura di) L. Garofalo e F. Valagussa, Marsilio, 2024, recensito dal Prof. S. Cassese sulla Domenica del Sole 24 Ore del 18 agosto 2024, II, Crudeltà e integrità accomunano diritto e poesia.

[2] G. Severini, Immaterialità dei beni culturali?, in Aedon, 2014, 1, ora I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche (Atti del convegno svoltosi ad Assisi, 25-27 ottobre 2012), (a cura di) A. Bartolini, D. Brunelli e G. Caforio, Napoli, Jovene, 2014, pag. 119 ss., nonché Id., L’immateriale economico nei beni culturali, ivi, 2015, 3.

[3] Sulla pronuncia della plenaria si vedano i contributi di Marco Cammelli, Girolamo Sciullo, Giuseppe Severini, Fulvio Cortese, Patrizia Marzaro, Antonio Bartolini, Clemente Pio Santacroce, Giuseppe Morbidelli e Nicola Aicardi pubblicati nel n. 1 del 2023 di Aedon. In tema si veda poi la successiva pronuncia della Cassazione, sez. terza civile, n. 19350 del 15 luglio 2024. Da ultimo, a proposito della tutela e valorizzazione dei locali storici come componente essenziale del valore immateriale, del genius loci, dell’identità immateriale dei centri storici, soprattutto delle città d’arte, si veda anche il recente parere reso dalla Sezione Atti normativi del Consiglio di Stato (parere n. 1125 del 28 agosto 2024) sullo schema di decreto legislativo recante “costituzione dell’Albo nazionale delle attività commerciali, delle botteghe artigiane e degli esercizi pubblici, tipizzati sotto il profilo storico-culturale o commerciale, ai fini della valorizzazione turistica e commerciale di dette attività, in attuazione dell’art. 27, comma 1, lettera l-bis) della legge 5 agosto 2022, n. 118”.

[4] Corte cost., sentenze 21 aprile 2011, n. 153 (sulla riorganizzazione delle fondazioni lirico-sinfoniche) e 21 luglio 2004, nn. 255 e 256 (di rigetto, la prima, la n. 255, del ricorso della Regione Toscana avverso l’articolo 1 del decreto-legge 18 febbraio 2003, n. 24, recante Disposizioni urgenti in materia di contributi in favore delle attività dello spettacolo, convertito, con modificazioni, in legge 17 aprile 2003, n. 82, nella parte in cui disciplinava i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo, affidandone la determinazione a “decreti del Ministero per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare”; di rigetto, la seconda, la n. 256, del ricorso per conflitto di attribuzione proposto sempre dalla Regione Toscana in relazione ai decreti ministeriali dell’8 febbraio 2002, n. 47, e del 21 maggio 2002, n. 188, di disciplina dei criteri e delle modalità di erogazione di contributi in favore delle attività musicali e delle attività di danza). Da ultimo sul tema è nuovamente intervenuta la Consulta (Corte cost. 27 ottobre 2023, n. 193) per esaminare i ricorsi in via di azione proposti da diverse Regioni avverso la legge n. 106 del 2022 (esaminando, in particolare, il profilo - della “composizione” e “modalità di funzionamento” dell’Osservatorio dello spettacolo, per il quale la Corte ha affermato la necessità dell’intesa Stato-Regioni, e il profilo del Sistema nazionale a rete, di cui fanno parte gli osservatori regionali (contestazione, peraltro proposta solo in via ipotetica, invece respinta).

[5] Per la tale configurazione “a cerchi concentrici” del patrimonio culturale cfr. L. Covatta, Introduzione, in I beni culturali tra tutela, mercato e territorio, (a cura di) Id., Passigli Editore, Bagno a Ripoli (FI), 2012, pag. 25 (richiamato anche da L. Casini, Ereditare il futuro, Il Mulino, Bologna, 2016, pag. 56). In realtà il richiamo di Covatta a un cerchio più largo e a cerchi più stretti era riferito non già al rapporto tra gli ambiti di denotazione e i significati del termine (rispetto alla nozione “propria” contenuta nel codice di settore del 2004, in raffronto alle Convenzioni di Parigi del 2003 e del 2005), bensì al rapporto tra il piano della conservazione e della tutela in senso stretto e il piano (più ampio) della gestione economico-aziendale, con le differenti forme di regolazione e di organizzazione, finalizzate anche all’acquisizione di risorse esterne. In tema cfr. M. Cammelli e G. Piperata, Patrimoni culturali: innovazioni da completare; tensioni da evitare, in Aedon, 2022, 1, L.M. Guzzo, Il patrimonio culturale, in particolare quello di rilevanza religiosa, e la Convenzione di Faro, ivi, il quale evidenzia come esistano due concezioni di patrimonio culturale, una riferibile all’eredità culturale della Convenzione di Faro, ed un’altra, ovvero quella contemplata dal Codice dei beni culturali; A. Bartolini, Patrimoni culturali e limitazioni urbanistiche, in Dir. amm. 2022, 4, pag. 995 ss., che parla di patrimonio culturale in senso ampio ed una in senso stretto, pag. 996, che richiama in nota 4). Anche M. Brocca, Cibo e cultura: nuove prospettive giuridiche, in federalismi.it, 19, 11 ottobre 2017, richiama il modello dei cerchi concentrici (per cui quello più grande comprenderebbe il patrimonio culturale come “prodotto” della cultura intesa in senso antropologico, che avrebbe ormai acquisito piena rilevanza giuridica, e quello più ristretto, coinciderebbe invece con la nozione codicistica), attribuendola a C. Vitale, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in La globalizzazione dei beni culturali, (a cura di) L. Casini, Il Mulino, Bologna, 2010, 176. In tema sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in federalismi.it, 2017, 4, 22 febbraio 2017, § 4.

[6] Profilo bene sottolineato, tra i tanti contributi, da A. Pompilio, A. Iannucci, Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale (in I beni musicali. Salvaguardia e valorizzazione, Atti della giornata nazionale di studi in Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, (a cura di) A. Caroccia, 29 novembre 2016, Associazione culturale “Il Saggiatore musicale”, Fondazione Istituto Italiano per la Storia della Musica, Società Italiana di Musicologia, Cover snc, Ariccia (Roma), 2018, pag. 79 ss.), i quali parlano di “natura anfibia del ‘bene musicale’” e di “doppia natura” del “bene musicale”, di “entità materiale e immateriale”. Degli stessi AA. si veda anche Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale, in Il Saggiatore Musicale, Anno XXIV, 2017, 2, Leo Olschki Editore, Firenze, pag. 263 ss. L. Bianconi, nei Saluti, ivi, pag. XI ss., parla di “triforme fattispecie, materiale, intellettuale ed estetica” del patrimonio storico della musica in Italia e, ricordando le origini del dibattito, nell’anno 1998, “alla vigilia della discussione parlamentare sul disegno di legge Veltroni recante la nuova “disciplina generale dell’attività musicale”, osserva come “tali concetti [“bene culturale” e “patrimonio storico”], in quel disegno di legge, non erano in alcun modo definiti: non traspariva se per “patrimonio storico della musica” si dovesse intendere - e qui cito le parole da me pronunciate allora (Il Saggiatore musicale, IV, 1997, pagg. 499-506; anche in Economia della cultura, VIII, 1998, pagg. 273-283) - “un patrimonio materiale, fatto di oggetti (partiture, strumenti, dischi e nastri, teatri) oppure un patrimonio intellettuale, fatto di testi musicali, di tecniche esecutive e di saperi teorico-pratici, ovvero infine un patrimonio estetico, fatto di eventi artistici, ossia di opere d’arte eseguite e godute”“.

[7] A. Pompilio, A. Iannucci, Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale, cit., pagg. 83-84.

[8] Lingua, danza e la musica del Garifuna dell’America centrale; l’opera Kun Qu cinese, i Gbofe di Afounkaha, la musica dei corni della comunità Tagbana, il canto polifonico georgiano, i canti hudhud degli Ifugao delle Filippine, la musica rituale del tempio di Jongmyo della Corea del Sud, la musica classica mugham dell’Azerbaigian, la Tumba francesa di Cuba, il guqin e la sua musica tradizionale (Cina), la tradizione del canto Veda indiano, la musica tradizionale del morinkhuur della Mongolia, la musica di corte vietnamita NhaNhac, Il Maqam iracheno (tradizione musicale), i canti di Sana’a (Yemen), etc. Fra le novità figurano lo Zaouli, una musica e danza popolare delle comunità Guro della Costa d’Avorio, il Punto, la poesia musicale dei contadini cubani, il tamburo Sega dell’Isola Rodrigues nell’arcipelago delle Mauritius, una forma che combina musica, canti e danze, il rito Kushtdepdi, un insieme di canti e danze beneaugurali diffuso nel Turkmenistan, la vietnamita arte del BàiChói, e la musica khaen del Laos suonata con un’armonica a bocca. L’Europa è anche ben rappresentata dalla tradizione irlandese delle UilleannPipes, la tipica cornamusa della musica popolare, dalla tradizione greca del Rebetiko, dalla danza collettiva serba del Kolo, dagli sloveni girotondi porta a porta per il Mercoledì delle Ceneri di Kurenti, e dai canti polifonici della regione slovacca di Horehronie. Un posto particolare occupano anche gli strumenti musicali. Fra i nuovi ingressi figura il kamantcheh o kamancha dell’Azerbaijan, strumento principe della tradizione classica e folclorica del paese e del vicino Iran. E entra anche l’antica arte della costruzione dell’organo, che riconosce alla Germania il primato non solo nella costruzione dello strumento ma anche il posto particolare che tale strumento occupa nello sviluppo musicale del paese. 4. Il codice dello spettacolo.

[9] Temi approfonditi in P. Carpentieri, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), cit., nonché in La Convenzione di Faro sul valore del Cultural Heritage per la società. Un esame giuridico, in Riv. giur. urb., 2021, 2, pag. 274 ss. e in La ratifica della Convenzione di Faro «sul valore del patrimonio culturale per la società»: politically correct vs. tutela dei beni culturali? (a firma congiunta con il Pres. G. Severini), in federalismi.it, 2021, 8, 24 marzo 2021 e nel sito della giustizia amministrativa, 14 maggio 2021.

[10] L. Casini, Advanced Introduction to Cultural Haritage Law, Edward ElgarPublisching, Cheltenham, UK - Northampton, MA, USA, 2024, pag. 9 ss., cap. 1.2, From archaeology to performingarts: Definingcultralheritage and cultural property. Id., voce Patrimonio culturale, in Enc. dir., I tematici, III, Funzioni amministrative, Milano, 2022, pag. 817 ss.

[11] Un esempio stimolante tratto dalla cronaca attuale lo si rinviene in un racconto della scrittrice di origine bulgara KapkaKassabova, pubblicato sul n. 670 del 28 settembre 2024 dell’inserto La Lettura del Corriere della Sera, pag. 61 ss., La terra dei liberi cavalli, tratto dal libro Anima. Una pastorale selvaggia, trad. di A. Lovisolo, Crocetti, 2024, dove si racconta dei pochi pastori superstiti che sulle montagne della Bulgaria allevano ancora una antica razza equina autoctona, i cavalli Karakachan. Discorso, questo, che vale naturalmente per i tanti popoli indigeni che lottano per conservare il proprio habitat e la propria identità, ad esempio, nell’Amazzonia minacciata dalla deforestazione. Il crescente numero di riconoscimenti nella lista Unesco a favore di queste popolazioni, spesso per manifestazioni culturali tradizionali musicali, esprime del resto anche il lodevole intento di fornire uno strumento in più per la difesa dei loro valori.

[12] Non è possibile esaminare qui le complesse tematiche relative alla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, che riguardano parimenti la riproducibilità tecnica dell’esecuzione musicale, con il conseguente processo di commercializzazione della musica indotto dall’industria discografica. In tale ambito si pone sicuramente un problema di autenticità della riproduzione, ma anche da questo punto di vista non sembra che possano venire in rilievo in modo utile gli istituti di tutela apprestati dal codice dei beni culturali del 2004. In tema, a partire dalle note considerazioni di Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936 (trad. it. Torino, 1991), si vedano P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato. Note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, 2, pag. 288, L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3 (con ivi ampi richiami bibliografici), nonché, ivi, G. Liberati Buccianti, Recenti questioni in tema di diritto privato dell’arte, par. 4. Considera le ricadute sull’attività musicale e sulla sua fruizione indotte dalla sua riproducibilità tecnica “amplificate e moltiplicate dalla diffusione via web (nuova, grande rivoluzione dell’ascolto, dopo quella che si verificò al momento dell’introduzione della fruibilità di musica registrata e indefinitamente riproducibile)” F. Rimoli, Interpretazione, forma, funzione: sulle presunte affinità tra l’agire giuridico e l’agire musicale, in L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, cit., pag. 311 ed. cartacea, pag. 317 pdf.

[13] A. Pompilio, A. Iannucci, Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale, cit., 82. G Resta, Introduzione. Itinerari per una ricerca su diritto e musica, cit., pag. 23, ricorda l’osservazione di Daniel Baremboim per cui la peculiarità della musica sta nel fatto che essa esiste “soltanto quando viene creato il suono”.

[14] G. Resta, Introduzione. Itinerari per una ricerca su diritto e musica, cit., pag. 31.

[15] L. Bianconi, in I beni musicali. Salvaguardia e valorizzazione, Atti della giornata nazionale di studi in Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, (a cura di) A. Caroccia, 29 novembre 2016, qui già richiamato sub nota 6.

[16] Così A. Pompilio, A. Iannucci, Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale, cit., pag. 79.

[17] Si veda, ad esempio, F. Passadore, Presidente della Società Italiana di Musicologia, il quale, nel suo intervento anteposto al citato volume I beni musicali. Salvaguardia e valorizzazione, Atti della giornata nazionale di studi in Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, 29 novembre 2016, XV, nel richiamare la missione di studio e tutela dei beni musicali della Società Italiana di Musicologia, cita lo “Statuto della sua progenitrice Associazione dei Musicologi Italiani, fondata nel 1908, nel quale sono formulati gli intenti: a) di promuovere e compiere la ricognizione e la catalogazione delle opere formanti il patrimonio musicale della nazione e giacenti negli Archivi e nelle Biblioteche pubbliche e private, per servire di base ad una edizione critica delle composizioni dei nostri maggiori autori; b) di provvedere stabilmente alla conservazione dei tesori musicali italiani e di facilitare le ricerche degli studiosi; c) di esumare e pubblicare i Monumenti dell’arte musicale italiana; d) di esercitare la sua azione nel campo dell’arte e della scienza musicale, in favore dello sviluppo della cultura artistica nazionale e con tutti quei mezzi che saranno reputati convenienti sia dal Consiglio direttivo e sia dalle singole Sezioni”, dove, come è evidente, ad alcune attività di tutela e valorizzazione del patrimonio archivistico e bibliotecario, si affiancano altre attività di promozione delle attività culturali e della cultura musicale.

[18] N. Guidobaldi, Le immagini della musica: progetti e prospettive per lo studio e la valorizzazione dei beni iconografico-musicali, in I beni musicali. Salvaguardia e valorizzazione, cit., pag. 65 ss., che cita, come periodico di riferimento, Imago musicae, The International Yearbook of musical iconography, fondata da TilmanSeebass nel 1984 e pubblicata dalla LIM e diretta dal 2010 da un comitato editoriale internazionale che oltre a Vienna, Lucerna, Madrid, Minneapolis e Tours, ha una delle sue sedi nel dipartimento di Beni culturali dell’università di Bologna. E. Picozza, Il nomos nella musica e nel diritto, cit., pag. 263, nel rilevare che “Fino al Settecento, infatti, non esisteva una coscienza della “interpretazione” musicale né come fenomeno, né come disciplina musicale autonoma”, osserva come “In una certa misura è ricostruibile la «prassi esecutiva» dell’epoca mediante la iconografia, lo studio e l’analisi degli strumenti o delle scenografie sopravvissute, e ancora una volta le cronache degli eventi. A volte sono di aiuto anche le leggi soprattutto locali, gli Statuti e le Raccolte di Usi e Consuetudini”.

[19] Vi possono peraltro essere cose, mobili o immobili, che sono vincolate con apposito provvedimento ministeriale pur non avendo ancora maturato i predetti pre-requisiti di “storicizzazione”, allorquando il vincolo sia di tipo “storico” o “relazionale-esterno”, sia cioè apposto per l’interesse particolarmente importante a causa del riferimento di tali cose con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose, ai sensi della lettera d) del comma 3 dell’art. 10 del codice del 2004.

[20] Verifica e dichiarazione dell’interesse culturale, notificazione, catalogazione, vigilanza, ispezione, interventi vietati, interventi soggetti ad autorizzazione, misure cautelari e preventive, obblighi conservativi, interventi conservativi volontari e imposti, obblighi di versamento agli Archivi di Stato, custodia coattiva, autorizzazione per mostre ed esposizioni, alienazione e altri modi di trasmissione, beni inalienabili, denuncia di trasferimento, prelazione, obbligo di denuncia dell’attività commerciale e di tenuta del registro, attestati di autenticità e di provenienza, uscita temporanea per manifestazioni, attestato di libera circolazione, espropriazione di beni culturali, fruizione e valorizzazione di istituti e luoghi della cultura, accesso agli istituti ed ai luoghi della cultura, diritti di uso e godimento pubblico, uso dei beni culturali (uso individuale, uso strumentale e precario di beni culturali), uso e riproduzione di beni culturali, canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, principi della valorizzazione dei beni culturali, attività di valorizzazione, livelli di qualità della valorizzazione, forme di gestione, tutela dei beni culturali conferiti o concessi in uso, servizi per il pubblico, promozione di attività di studio e ricerca, diffusione della conoscenza del patrimonio culturale, sponsorizzazione di beni culturali... etc.

[21] A. Pompilio, A. Iannucci, Il patrimonio musicale: entità materiale e immateriale, cit., pag. 80.

[22] I cui Atti sono pubblicati ne Il Saggiatore musicale, IV, 1997, pagg. 499-509, nonché in Economia della cultura, VIII, 1998.

[23] I cui Atti sono pubblicati negli “Annali dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli” 14 del 2003, Roma, Graffiti editore, 2003.

[24] Poi trasfusa nel contributo I beni musicali: una categoria in cerca di autonomia, in Aedon, 2003, 3.

[25] La Prof.ssa Gualdani ricorda a sua volta il (qui già richiamato sub nota 6 da L. Bianconi) disegno di legge A.S. 2719, presentato il 4 luglio 1997 dall’allora ministro per i Beni culturali Veltroni, che però “non favorì ... una definizione di patrimonio storico della musica, suscitando una serie di interrogativi che indussero a chiedersi se oggetto di tutela fossero i beni materiali, gli spartiti, gli strumenti, i dischi, o il patrimonio intellettuale (edizione critica di una partitura) o il patrimonio estetico (l’opera lirica cantata in teatro) ... avendo, senz’altro, il progetto di legge riguardo specifico alla musica come bene culturale attività, piuttosto che alla tutela dei supporti contenenti quest’ultima”.

[26] N. Guidobaldi, Le immagini della musica: progetti e prospettive per lo studio e la valorizzazione dei beni iconografico-musicali, cit., pagg. 66-67. L’A. osserva inoltre come siano “Altrettanto variegati i possibili approcci di studio alle fonti iconografico-musicali che, opportunamente analizzate, possono fornire informazioni preziose per la ricostruzione di strumenti, prassi esecutive, tradizioni teoriche e orientamenti estetici, ma anche per approfondimenti sui rapporti fra tradizioni testuali e iconografiche, fra iconografia e teatro musicale, o sui parallelismi fra strutture musicali e figurative”, ed aggiunge che “oltre che per lo studio dei più diversi aspetti della musica colta, l’iconografia musicale può essere impiegata nella ricerca etnomusicologica applicata sia alle tradizioni popolari europee che alla produzione musicale extraeuropea”, sicché “Lo studio delle fonti iconografico-musicali, in breve, non solo può contribuire ad accrescere la nostra conoscenza dei più svariati aspetti della storia materiale, sociale e istituzionale della musica, ma anche a far luce sulle diverse maniere in cui, in epoche e ambienti culturali diversi, la musica è stata concepita, caricata di valori allegorici, emblematici e simbolici, trasposta in immagini”.

[27] Materiali lapidei, musivi e derivati; Superfici decorate dell’architettura; Manufatti dipinti su supporto ligneo o tessile; Manufatti scolpiti in legno, arredi e strutture lignee; Manufatti in materiali sintetici lavorati, assemblati e/o dipinti; Materiali e manufatti tessili organici e pelle; Materiali e manufatti ceramici e vitrei; Materiali e manufatti in metallo e leghe; Materiale librario e archivistico e manufatti cartacei e pergamenacei; Materiale fotografico, cinematografico e digitale; Strumenti musicali; Strumentazioni e strumenti scientifici e tecnici (settori di competenza che trovano poi corrispondenza nei sei Percorsi formativi professionalizzanti: 1 Materiali lapidei e derivati; superfici decorate dell’architettura; Pfp 2 Manufatti dipinti su supporto ligneo e tessile. Manufatti scolpiti in legno. Arredi e strutture lignee. Manufatti in materiali sintetici lavorati, assemblati e/o dipinti. Pfp 3 Materiali e manufatti tessili e in pelle. Pfp 4 Materiali e manufatti ceramici, vitrei e organici. Materiali e manufatti in metallo e leghe. Pfp 5 Materiale librario e archivistico. Manufatti cartacei e pergamenacei. Materiale fotografico, cinematografico e digitale. Pfp 6 Strumenti musicali. Strumentazioni e strumenti scientifici e tecnici).

[28] Si veda la “Proposta per il profilo del Funzionario per i Beni musicali”, sottoscritta nel novembre 2015 e poi, nel gennaio 2016, dai convenuti nell’assemblea dell’AduIM, l’Associazione fra docenti universitari italiani di Musica, riprodotta in Appendice al citato volume a cura di A. Caroccia, I beni musicali. Salvaguardia e valorizzazione, Atti della giornata nazionale di studi in Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, 29 novembre 2016, cit., alle pagg. 88-89). Sembra che la mancata attuazione di tale previsione sia dipesa dalla sua omissione in sede di concertazione sindacale per la definizione della pianta organica dei funzionari del ministero, sicché il nuovo percorso formativo introdotto nel decreto del 31 gennaio 2006 sarebbe rimasto privo di sbocchi pratici.

 

 

 



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