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Tutela penale del patrimonio culturale

La contraffazione nell’arte tra percezione e repressione

di Barbara Cortese [*]

Sommario: 1. Premessa. - 2. La legislazione penalistica. - 3. Falsità e contraffazione. - 4. La contraffazione d’opera d’arte. Percezione e realtà. - 5. La contraffazione oggi. - 6. Alcune riflessioni finali.

Counterfeiting in art between perception and repression
The paper points the theme of falsification in art trying to analyze the historical and sociological profiles that have conditioned and still condition not only the common perception of the crime but also the legal response that the Italian legal system has provided over time.

Keywords: false; imitation; creation; common sense; intention; damage.

1. Premessa

La tutela giuridica del bene culturale come fenomeno strutturale è acquisizione abbastanza recente. La storia dell’arte e degli artisti ci mostra una serie costante di episodi che hanno propiziato l’attenzione verso le creazioni artistiche umane che, tuttavia, almeno in Italia - ma la considerazione può estendersi anche a tutte le altre realtà internazionali - prima del XX sec non ha raggiunto neppure lontanamente un livello serio di sistematicità.

Nella lettura di questo dato vanno tenuti in considerazione diversi profili: anzitutto, la storicità di alcuni illeciti che sono tradizionalmente presenti nelle reazioni giuridiche degli ordinamenti a discapito di altri, non percepiti come tali almeno prima dell’epoca moderna, ed è questo il caso della contraffazione; il progresso tecnologico che ha inciso sulle modalità attuative di atti lesivi dei beni culturali, ma anche in senso premiante sulle modalità di accertamento delle condotte lesive; la connessione fra Stati e ordinamenti che hanno sviluppato forme di cooperazione per garantire una tutela sempre più efficace per i vari patrimoni culturali e per una valorizzazione più efficiente in termini di fruizione pubblica nonché di realizzazione economica, bilanciate con le esigenze di conservazione.

La percezione di una condotta come lesiva, e quindi illecita, dipende dal momento e dal contesto, in ragione della sensibilità ad un dato interesse, anche questo variabile in rapporto ad una serie cospicua di fattori.

Se prendiamo [1] in considerazione il Quattrocento l’attenzione dell’Umanesimo e del Classicismo per l’antichità ha fatto sì che venissero adottati provvedimenti, certamente episodici, atti a sanzionare fenomeni come l’asportazione di parti di opere o di materiali, come anche forme di tutela del decoro urbano; ma altresì il fenomeno degli scavi e della conservazione dei reperti archeologici reperiti. Nel Cinquecento il tema centrale divenne quello delle licenze e, in generale, della circolazione delle opere d’arte: Leone X nominò nel 1515 Raffaello Ispettore generale delle belle arti, quale tecnico col compito di amministrare il comparto della cultura, il quale a sua volta nominò un commissario che lo coadiuvasse nelle attività di controllo in specie di rilascio di licenze per le vendite; mentre sotto il pontificato di Paolo III, il delicato compito di sorvegliare in materia di esportazione illecita di opere d’arte e di sovrintendere alla conservazione venne addirittura affidato a Michelangelo [2].

O, ancora, spaziando per alcuni secoli in avanti, pensiamo al tema della distruzione o del trafugamento di opere d’arte durante i conflitti bellici, che andarono all’attenzione dei governi dopo le campagne napoleoniche, ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale.

Se le reazioni dell’ordinamento di norma hanno luogo tendenzialmente, ma non esclusivamente, su input socio-economici, in merito al settore culturale potremmo senz’altro affermare che tali input costituiscano condizioni necessarie e imprescindibili affinché lo Stato intervenga.

2. La legislazione penalistica

È noto che la nostra Costituzione, in gran parte anticipando le istanze moderne e in parte reagendo agli scempi della guerra, all’art. 9, assegna alla Repubblica il compito di promuovere “lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, nonché quello della tutela “del paesaggio” e del “patrimonio storico e artistico nazionale”. Tale tutela è inserita tra i “Principi fondamentali” con il chiaro intento di veicolare un messaggio di valorizzazione del ruolo della cultura e un obbligo di protezione dei beni mediante cui l’essenza culturale si manifesta.

In ottica di attuazione del dettame costituzionale, la legislazione moderna in tema di tutela di beni culturali si articola essenzialmente in leggi e atti normativi di stampo pubblicistico-amministrativistico, per il ruolo di gestione dei beni culturali, e in norme di diritto penale, le quali sono le uniche in grado di assicurare l’effettività dell’intera normativa, tramite il loro fisiologico potere deterrente. L’ordinamento, per il vero solo da due anni, ha innalzato ad un livello superiore la rilevanza pubblica del fenomeno beni culturali attraverso il ricorso al diritto penale in senso strutturale: sono state energiche le spinte negli ultimi anni verso l’adozione della pena come irrinunciabile strumento di prevenzione, repressione, stigmatizzazione e riaffermazione del valore oggetto di protezione. Prima della riforma dei reati contro il patrimonio culturale del 2022 vigeva la disciplina del codice penale di natura essenzialmente residuale [3], rispetto alla parte IV del Codice dei beni culturali e del paesaggio il cui titolo II era dedicato alle sanzioni penali, la quale aveva permesso comunque - seppur in modo frammentario - di sanzionare le forme più gravi di aggressione (la distruzione e la dispersione) dei beni culturali, pur con disposizioni dettate in un’altra ottica (quella meramente patrimoniale) e attraverso dunque un’interpretazione adeguatrice (evolutiva) delle disposizioni stesse.

L’introduzione nel codice penale di un nuovo titolo, il titolo VIII-bis “Dei delitti contro il patrimonio culturale” con la legge n. 22 del 2022 [4], attuata dopo la ratifica nel gennaio del 2022 della Convenzione di Nicosia del 2017, ha comportato la transizione e in una certe misura il raggruppamento delle disposizioni più significative contenute nella legislazione speciale, con una contestuale revisione delle norme in tema di furto e danneggiamento, che, come osserva Demuro, “consente così al codice di svolgere anche in questo ambito la sua funzione pedagogica, come criterio topografico di richiamo dell’importanza delle norme che vi sono contenute” [5].

La legge di riforma segna così il definitivo abbandono di un sistema di tutela penale indiretta, che si basava cioè sul regime privatistico dei beni ed in cui l’elemento valoriale (l’ideale culturale) aveva natura accessoria rispetto alla materialità del bene, per transitare ad un sistema di tutela penale diretta del patrimonio storico-artistico, che assume come base un nuovo bene giuridico, il bene culturale, quale sintesi del valore ideale e dell’elemento materiale, che diviene oggetto di protezione diretta da parte dello Stato indipendentemente dall’appartenenza pubblica o privata del bene e persino nelle ipotesi di potenziale offesa da parte dello stesso titolare. Questa compressione della proprietà rientra nel quadro dell’utilitas publica, che da sempre costituisce limite e forza di quei beni la cui natura e la cui funzione hanno una ricaduta collettiva. Non a caso la storia della legislazione sul patrimonio culturale, nella sua generale accezione comprensiva di beni culturali e di beni paesaggistici è stata piuttosto frammentaria, e la stessa attuale disciplina penalistica della tutela è stata oggetto di un lungo e acceso dibattito politico, che ha visto al centro temi come quello della difesa della proprietà privata, quello della normativizzazione della categoria dei beni comuni [6], quello dei diritti del singolo (libertà di espressione, che è anche espressione artistica; diritti di sfruttamento economico) quello dei diritti collettivi (la fruizione pubblica mediante accesso e/o utilizzo).

Senz’altro la scelta più adeguata è stata quella della creazione all’interno del codice penale di un titolo appositamente dedicato ai reati contro i beni culturali e ai beni paesaggistici. In tal senso, non mi pare secondario il dato che il titolo VIIIbis segua il titolo VIII dedicato ai “delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”: anche a livello di collocazione sistematica mi pare sia stata evidenziata la specificità del bene giuridico oggetto della tutela, collocandolo nell’alveo degli interessi superindividuali che la legislazione penalistica protegge [7]. E seppur nella riforma manchi una definizione del bene giuridico [8], si può e si deve rinviare al riferimento ex art. 2 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 che sotto il genus “patrimonio culturale” comprende i “beni culturali”, descrivendoli come “le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”, e poi i “beni paesaggistici”, vale a dire la categoria comprendente “gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge”.

Una scelta che, invece, il legislatore avrebbe potuto compiere in occasione della riforma, e che di fatto non ha compiuto, è quella tra tutela del patrimonio culturale “dichiarato” e tutela del patrimonio culturale “reale”, ossia se circoscrivere la tutela ai soli beni il cui valore artistico è oggetto di previa dichiarazione o invece assegnare protezione alle cose in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti.

Tuttavia, la giurisprudenza [9] ha sopperito a tale lacuna, che da tempo la legislazione, peraltro, si trascinava [10], sancendo che: “Trova conferma, dunque, l’indirizzo “sostanzialistico” secondo il quale il riferimento contenuto nell’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alle “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” integra una formula di chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio storico, artistico-ambientale dichiarato, ma anche in quello reale, ovvero in quei beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento da parte della autorità competenti”.

3. Falsità e contraffazione

Preliminare rispetto all’analisi dell’attuale risposta normativa al reato di contraffazione di opere d’arte è la determinazione della nozione di contraffazione e falsificazione e dunque trattare concettualmente la “falsità”.

La falsità non esiste. La falsità, come diceva Cesare Brandi, è nel giudizio e non nell’oggetto. L’opera falsa esiste in contrapposizione all’opera autentica. È autentica l’opera che proviene con certezza da chi ne viene indicato quale autore, ossia l’opera prima e originale risultato del processo creativo dell’artista [11].

Occorre, tuttavia, distinguere concettualmente e funzionalmente la contraffazione dal falso.

È falsa la cosa che non possiede le qualità o caratteristiche apparenti o dichiarate: la res in sé è vera, la falsità deriva da una valutazione comparativa ed è dunque funzionale rispetto alla espressione di un giudizio.

È contraffatto ciò che è realizzato allo specifico fine doloso di produrre un falso. La contraffazione è, dunque, funzionale ad un risultato: anzitutto l’inganno e di conseguenza ciò che ne deriva.

Di talché il contraffatto è sempre falso; ma non tutti i falsi sono contraffatti: un’opera può essere autentica, ma erroneamente ma non necessariamente in male fede attribuita ad un autore ad un’epoca storica, e quindi essere falsa.

Così come non rientrano nell’ipotesi di contraffazione neppure i falsi d’autore se dichiarati: la vendita o la diffusione di copie di opere di pittura, scultura o grafica (ma anche di copie di oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico) riprodotte in modo pressoché fedele da un soggetto che non ne realizza banalmente un duplicato, ma che si esprime come artista, e che vengono dichiarate espressamente non autentiche all’atto dell’esposizione o della vendita. I falsi d’autore, esempio più significativo di siffatta ipotesi, non costituiscono reato.

Altresì, lo stesso autore può produrre più copie di una sua opera che quindi sarebbero non contraffatte, ma al contempo essere “falsi” in quanto non integranti l’unicità dell’opera prima, a meno che lo stesso autore non le abbia realizzate con una finalità soggettiva fraudolenta (ad esempio, venderle a più acquirenti simulando l’unicità).

La contraffazione è tale, dunque, se la riproduzione è specificamente indirizzata ad un’attività fraudolenta: si riproduce un manufatto con l’intento di ingannare rispetto al manufatto autentico. Del resto è ancora altra cosa l’imitazione, più generalmente indirizzata alla riproduzione di un manufatto, quale copia o emulo, laddove non viene dissimulata la sua provenienza da un modello, e la sua operazione di replica è in qualche modo dichiarata tramite la sua stessa natura non fedele al modello o alla creazione imitata.

4. La contraffazione d’opera d’arte. Percezione e realtà

Assunto il profilo strettamente concettuale della contraffazione, altro aspetto del nostro fenomeno che va considerato per intenderne bene la portata è la sua dimensione storica.

Il tema della falsificazione ha una storia millenaria - risalente addirittura all’antica Roma - ma la genesi dell’attuale configurazione come reato, a parte alcune sporadiche tracce nel 1820 con l’Editto Pacca, nella legge Rava-Rosadi del 1909 e, nel 1939, nella legge Bottai, si ha con la legge Pieraccini del 1971 [12], un breve testo di 9 articoli, nella quale venne prevista nel nostro ordinamento giuridico una specifica fattispecie che puniva la contraffazione di opere d’arte.

E questo ritardo così pesante si può spiegare alla luce delle considerazioni svolte sopra, relative ai condizionamenti di varia natura che la legislazione sul patrimonio culturale ha scontato nel corso della sua stessa storia.

Nell’ottica della percezione dell’illecito culturale, del senso comune riguardo a quanto lesivo per la collettività, che dipendono inesorabilmente dalla sensibilità del momento che si sviluppa in un dato contesto territoriale, sociale ed economico, fino all’epoca moderna il falso non era di per sé considerato il prodotto di un’attività fraudolenta, ma anzi era percepito come una forma d’arte: il punto era riprodurre perfettamente o addirittura superare l’opera o lo stile da riprodurre. Ciò si nota in particolare nei falsi antichi: tanti e diversi sono gli artisti che non si sono solo ispirati, ma addirittura hanno riprodotto integralmente opere antiche o classiche.

Se ragioniamo in generale su quanto attenzionato dalle prime forme di intervento normativo in tema di tutela del bene culturale, la contraffazione non era tema da intercettare le “sensibilità” ritenute meritevoli di tutela da parte degli ordinamenti (non foss’altro che quelle di natura strettamente economica), perché non percepita come dannosa, non nell’ottica di un danno di impatto collettivo, perlomeno.

La falsificazione era una pratica riconosciuta, se non come lecita, senza dubbio come tollerabile, in quanto per un verso rispondente ad esigenze commerciali di un mercato come quello dell’arte caratterizzato da dinamiche socio-economiche molto complesse, per altro verso premiante rispetto all’esercizio di creatività, che ha dispetto dello scopo falsificatorio, recava in sé un messaggio artistico.

Molto ben rappresentativa di un simile scenario è la vicenda del Cupido dormiente di Michelangelo [13]: nell’ambito della quale il genio toscano suo malgrado, o forse no, venne coinvolto nei traffici di Baldassarre del Milanese, con la realizzazione di un’opera scultorea che riproduceva perfettamente un amorino e che venne acquistata da un cardinale. Una vicenda che dimostra come anche un artista che certo non aveva il problema del riconoscimento, incorra nella riproduzione di un falso, che trova allocazione presso un soggetto dell’establishment ecclesiastico dell’epoca.

Chiaramente, una volta scoperti i falsi, di norma si agiva in restituzione [14], ma erano condotte che si sviluppavano a livello di singoli rapporti: vale a dire che il tutto rimaneva nell’egida di relazioni private in cui rimaneva difficile comprendere chi effettivamente era vittima e chi complice della truffa.

V’è da dire che lo scenario non si limitava ai soli episodi di truffa ai danni dell’acquirente, ma si stendeva a ricomprendere anche episodi, all’inizio molto sporadici, di tutela dell’artista contraffatto se ancora in vita. In tal caso il fenomeno variava in ragione dei singoli personaggi coinvolti, degli ordinamenti ed altresì della natura dell’opera falsificata: per le opere grafiche, ad esempio le condizioni erano diverse. La stampa incise moltissimo sulla pratica della contraffazione.

Prendiamo il caso della serie xilografica del Cinquecento di Albert Dürer, riprodotta alla perfezione dall’artista italiano Marcantonio Raimondi, che ne copiò non solo la firma, ma anche un dettaglio inerente alla stamperia usata dal Dürer [15]. Dürer, ricorrendo alla Repubblica di Venezia, ottenne solo che Raimondi non apponesse più la sua sigla, così come gli altri elementi che in qualche modo riconducessero le opere all’artista di Norimberga; ma dall’Imperatore tedesco ottenne bene di più: ottenne il c.d. privilegio di stampa [16]. È in tal circostanza che riguardo alla falsità e copiatura si inizia a intravedere una nuova prospettiva, quella della tutela dell’autore, e non più dell’acquirente appunto, che si sviluppa lungo il fenomeno del plagio e che poi porterà al moderno diritto d’autore o copyright [17].

Altri episodi più o meno noti accompagnano la storia della contraffazione; storia che, tuttavia, mostra la costante di una mancata percezione della violazione di un valore generale, rimanendo ancorata al pregiudizio subito dall’autore falsificato o dell’acquirente ingannato.

Tuttavia, c’è un elemento che emerge già in questo snodarsi di episodi e che rappresenta un tratto tipico del fenomeno illecito ora perseguito: il collezionismo. Non esiste falso senza collezionismo. La riproduzione delle opere d’arte contraffatte è la risposta alla domanda di mercato e il mercato è governato dal collezionismo, privato o pubblico, come quello museale.

E, difatti, è nel Novecento che il fenomeno assume una connotazione diversa, evolvendo verso una prassi che viene gradualmente sempre più stigmatizzata: certo, ancora nell’ottica della truffa o della frode in commercio perpetrata ai singoli, e non ancora di una fattispecie determinata rivolta a tutelare dall’offesa ad un bene giuridico determinato.

Pensiamo alle vicende che ruotano attorno al celebre Alceo Dossena [18], un artista vissuto tra la fine dell’‘800 e la metà del Novecento che realizzò pregiatissime opere, che risultavano riproduzioni perfette di opere scultoree classiche e che finirono al centro di traffici di falsi di un certo clamore, tutti conclusisi con processi intentati per truffa da cui per una ragione o per l’altra Dossena non solo uscì indenne, ma addirittura esaltato per le sue capacità artistiche.

Ebbene, solo poco dopo tale periodo iniziò ad acuirsi la sensibilità per il problema della contraffazione di opere d’arte che stavano inquinando il mercato dell’arte con sensibili danni non più solo al collezionismo privato, ma anche al collezionismo museale e alla stessa credibilità dell’istituzione museo, oltre che della compagine degli esperti, come critici d’arte e storici dell’arte.

5. La contraffazione oggi

Allo stato attuale il nostro ordinamento prevede un’efficace tutela penale di contrasto alla contraffazione delle opere d’arte, frutto di una maggiore sensibilità dimostrata dal legislatore sovranazionale.

Il nostro codice penale, all’art. 518-quaterdecies, che, come detto, riproduce le disposizioni prima contenute negli artt. 2, 3, 4, 7 [19] della legge 20 novembre 1971, n. 1062 e poi ribadite nell’art. 178 del Codice dei beni culturali e del paesaggio rubricato “Contraffazione di opere d’arte” [20], sanziona con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da € 3.000 a 10.000 una serie di condotte delittuose, che hanno ad oggetto, ovvero presuppongono comportamenti falsificatori di opere d’arte [21], ovvero: “chiunque, al fine di trarne profitto, contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico o archeologico”.

Com’è agevole notare, la disposizione descrive tre precise condotte che possono concretizzarsi: la contraffazione, ossia la materiale e identica riproduzione dell’opera con quella originale; l’alterazione, vale a dire l’esecuzione di interventi sull’opera originale modificandone alcuni elementi, operazione da leggere alla luce della corretta funzione del restauro [22]; la riproduzione, cioè la creazione di una copia che, pur non riproducendo in modo totalmente fedele l’originale, ne propone tratti per lo più identici. A tal proposito, la norma in esame va posta in rapporto a quanto la giurisprudenza ha determinato in riferimento al criterio della rilevanza della contraffazione: affinché il delitto possa concretizzarsi, deve intendersi una falsità rilevante e non grossolana, la quale quest’ultima “si apprezza solo quando il falso sia ictu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza e non si debba far riferimento né alle particolari cognizioni ed alla competenza specifica di soggetti qualificati, né alla straordinaria diligenza di cui alcune persone possono esser dotate” [23].

Non a caso, sotto il profilo soggettivo della condotta, la norma in commento richiede il dolo specifico, ossia il fine di trarne profitto, che non necessariamente deve consistere in un vantaggio economico-patrimoniale. Si immagini, per esempio, il collezionista il quale detiene un’opera pittorica contraffatta attribuita a noto artista per il semplice gusto di tenerla esposta e di goderne la vista.

È evidente che è molto probabile che chi intende perseguire un profitto personale riprodurrà un’opera la cui contraffazione sarà rilevabile solo in presenza di competenza tecniche o comunque di conoscenze di livello elevato; di contro l’imitazione, riconoscibile dall’uomo medio o la dichiarazione espressa di non autenticità nelle riproduzioni identiche, escluderanno, in modo implicitamente soggettivo, che si concretizzi il delitto di contraffazione.

Ed ecco che si ritorna all’aspetto sociologico del fenomeno della falsificazione, che ha ritardato e comunque comprime la repressione del fenomeno: il tema che rimane centrale, infatti, è il ‘perché’ della falsificazione, specie quando non realizzata con uno scopo illecito. Qual è la ragione per cui un’artista riproduce un’opera, che sia propria o altrui?

Una delle questioni interpretative che si è posta e si pone è quella dell’applicabilità della disposizione anche alle opere di arte contemporanea, considerato che secondo l’art. 518-quaterdecies c.p. la condotta materiale dell’agente deve ricadere su opere di pittura, scultura o grafica, ovvero su oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico.

Dal tenore letterale espresso dalla disposizione si potrebbe pensare, e così era stato, che tutte quelle produzioni artistiche di età contemporanea e/o nuova concezione rimangano escluse dalla tutela penale.

Ciò, peraltro, con un notevole danno [24], considerato l’elemento della maggior facilità a riprodurre il contemporaneo o moderno [25], la cui espressione artistica è più frequentemente legata all’idea e/o al concetto espresso che non alla materialità della creazione; oltre al fatto che la contemporaneità esclude la necessità di “anticare” le opere, preparazione le cui tecniche hanno (soprattutto in passato) un alto tasso di incidenza sulla falsificazione in termini di tempo, costi e difficoltà [26].

Al netto della proposta interpretativa in chiave estensiva [27] del testo della norma già nel Codice dei beni culturali e del paesaggio all’art. 178, e secondo cui, rientrano nelle opere pittoriche tutte quelle produzioni che presentano fattezze “bidimensionali”; “tridimensionali” quelle scultoree e “ogni prodotto riconducibile all’arte del segno e del multiplo” quelle grafiche, il problema di fondo rimane. In tal senso, in stretta osservanza dei principi di legalità e determinatezza la giurisprudenza non può essere chiamata a stravolgere il dettame normativo; sarebbe stato, invece, opportuno non riprodurre testualmente sic et simpliciter una previsione, che, ricordiamo, risale alla legge Pieraccini, quanto piuttosto sfruttare l’occasione per ripensare la disposizione alla luce sia delle nuove realtà criminali sia delle capacità diagnostiche e di accertamento [28].

Rispetto al bene giuridico tutelato, sono ampiamente note le opinioni al centro di un dibattuto che oscilla fra la fede pubblica [29] e l’interesse alla regolarità e all’onestà degli scambi nel mercato artistico e dell’antiquariato, con particolare riferimento pertanto alla tutela dei consumatori. Quest’ultima posizione, condivisa anche dal Demuro [30], si connetterebbe anche al “ruolo assolutamente secondario rivestito dalla tutela del patrimonio storico-artistico”, il quale “è dimostrato dalla presenza di un dolo specifico, che avrebbe indirizzato da sempre l’interpretazione della norma verso una direzione offensiva di stampo patrimoniale”.

Tale dibattito sembra comunque già da tempo superato dalla Suprema Corte, che concepisce il reato in questione di natura plurioffensiva [31] a consumazione anticipata: la repressione del falso artistico tutela sia il mercato delle opere d’arte, sia il patrimonio artistico e sia, infine, la fede pubblica e sanziona di per sé il pericolo di “inquinamenti ed impedire che lo stesso patrimonio artistico e culturale siano compromessi dalla presenza e circolazione di falsi [32].

D’altra parte aggiungerei che la collocazione sistematica del nuovo titolo, a seguire quello sui delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio mi pare ben sostenere la plurioffensività del reato, in una prospettiva di connotazione particolare dei beni giuridici offesi e del tipo di condotta offensiva, rispetto al riferimento ai “Delitti contro il patrimonio”, precedente alveo delle fattispecie spendibili a tutela del patrimonio culturale.

I successivi commi dell’art. 518-quaterdecies contengono previsioni rivolte alle diverse tipologie di soggetti che concorrono quasi fisiologicamente alla realizzazione del delitto di contraffazione. Dalle maglie delle precedenti osservazioni è emerso in più occasioni come si tratti di un fenomeno collettivo, che necessità evidentemente di più attori, ciascuno con un ruolo specifico che tuttavia il legislatore sin dal 1971 ha deciso di ricondurre in modo univoco alla fattispecie. E del resto è più facile che ricada nella falsificazione criminale chi gestisce o partecipa al mercato che non il materiale esecutore dell’opera, il falsario. Mentre costui può muoversi su quella linea sottile che divide l’espressione artistica, magari attuata con la riproduzione di modelli e stili o epoche, e la contraffazione anche quando sa di stare copiando, l’intermediario, il mercante, l’acquirente, l’autenticare, l’esperto connivente è difficile conoscendone la falsità che non abbiano intenti illeciti.

Al n. 2, è sanzionata la condotta di “chiunque, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio, detiene per farne commercio, introduce a questo fine nel territorio dello Stato o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura o grafica ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico o archeologico”.

In questo caso, nello specifico, viene punita l’immissione in commercio [33] o, comunque, la circolazione delle opere contraffatte. Dal fine di “fare commercio” si ricava la necessità del dolo specifico richiesto per la configurazione del reato. In verità, potrebbe benissimo accadere che un soggetto faccia commercio di opere contraffatte senza sapere che siano tali [34]: ne consegue che, dal punto di vista probatorio, è necessario accertare la consapevolezza della natura falsa dell’oggetto [35].

Così come del resto è previsto al n. 3 ancora dell’art. 518-quaterdecies, c.p., che sanziona la condotta di “chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti contraffatti, alterati o riprodotti del tipo indicato nelle precedenti disposizioni.

L’autenticazione è un passaggio fondamentale per la contraffazione e la commercializzazione delle opere [36]: le certificazioni di attestazione di autenticità dell’opera da parte di esperti, che normalmente conoscono l’artista o il periodo a cui l’opera viene attribuita, è necessaria tanto quanto l’opera stessa. E, difatti, la norma in esame, per la sussistenza del reato, richiede, appunto, la sua consapevolezza circa la falsità dell’opera, il che si traduce in un dolo generico - non essendo necessario che il soggetto abbia agito in vista di un suo tornaconto - e, trattandosi di reato che può essere commesso da ‘chiunque’, non è necessario che il soggetto sia qualificato, ovvero che sia un perito.

Altrettanto si richiede la conoscenza della falsità dell’opera al n. 4 dell’art. 518-quaterdecies, c.p., tramite cui si sanziona la condotta di “chiunque, mediante altre dichiarazioni, perizie pubblicazioni, apposizione di timbri o etichette o con qualsiasi altro mezzo, accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati nelle precedenti disposizioni”. In tal modo si puniscono tutti quei comportamenti residuali rispetto alla certificazione con cui vengono accreditate opere false, come nel caso di pubblicazioni scientifiche, di dichiarazioni pubbliche, di comunicazioni divulgative.

Considerato l’elemento soggettivo del dolo generico, i soggetti menzionati dalle disposizioni ex  nn. 3 e 4 potrebbero certamente giustificarsi attraverso l’errore di valutazione, che ne escluderebbe la colpevolezza. Il conseguente profilo probatorio risulta, infatti, il vulnus dell’accertamento delle condotte delittuose.

All’art. 518-quinquiesdecies [37] si prevedono i casi di non punibilità, ovvero le ipotesi in cui l’intento di contraffazione è da escludere per le modalità della condotta, riproducendosi ancora integralmente il testo della legge Pieraccini [38].

A latere della disposizione risultano precisati i contorni della circolazione lecita delle copie di opere d’arte, che rappresenta una amplissima fetta del mercato dell’arte con i suoi falsi d’autore, nonché dell’attività di restauro, in termini di liceità dell’intervento di recupero.

Secondo l’art. 518-quinquiesdecies c.p., quindi, la persona non risponde del reato di contraffazione di opere d’arte quando queste sono espressamente dichiarate non autentiche mediante annotazione scritta sull’opera stessa, ovvero, quando ciò sia impossibile in relazione alle sue dimensioni, attraverso dichiarazione rilasciata all’atto della esposizione o della vendita. D’altronde, perché possa configurarsi il reato, è sufficiente che manchi la dichiarazione di non autenticità, oppure che non sia rilasciata secondo quanto prescritto dalla legge.

Secondo l’ultimo periodo dell’art. 518-quinquiesdecies c.p., ugualmente non sono punibili coloro che hanno eseguito restauri artistici a condizione che non abbiano ricostruito, e quindi alterato, in modo determinante l’opera originale.

È notorio il fatto che l’attività di restauro sia diretta essenzialmente a mantenere l’opera integra nella sua veste originale, senza alterarla, sebbene possano emergere alcune perplessità in merito [39]. A quest’ultimo proposito, è più che mai valevole il principio secondo cui “il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo” [40].

Al netto delle evidenti incertezze in ordine alla possibilità di non riuscire ad accertare in modo incontrovertibile quando gli interventi di restauro debbano ritenersi non determinanti ai fini della non punibilità, ciò che depone a favore della sussistenza della causa di non punibilità è l’accertamento del profilo soggettivo-psicologico (dolo) del soggetto restauratore attraverso la complessiva disamina dei fatti.

Infine [41], al comma 2, dell’art. 518-quaterdieces, c.p., il legislatore ha previsto che “È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere ... salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato. Delle cose confiscate è vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reati”.

La confisca, generalmente considerata una misura di sicurezza accessoria alla sentenza, mira a privare l’autore del reato dei vantaggi economici che da esso derivano. Il giudice la dispone anche in presenza di assoluzione dell’autore del reato o archiviazione del procedimento penale [42], purché si sia accertata la sussistenza del fatto-reato [43]. Ovviamente lo scopo è di evitare che nel mercato dell’arte entrino o restino in circolazione opere contraffatte, di cui non è stato possibile accertare la responsabilità penale. La deroga prevista in caso di appartenenza dei beni contraffatti ad un terzo estraneo al reato è oggetto di interpretazione piuttosto restrittiva, nel senso che “il soggetto non deve aver tratto in alcun modo profitto dal reato sia in via diretta sia in via indiretta e non abbia alcun collegamento con la fattispecie illecita, giacché il concetto di estraneità al reato non va inteso con riferimento al processo penale e neppure alla punibilità” [44].

6. Alcune riflessioni finali

Il reato di contraffazione mostra forse più degli altri delitti contro il patrimonio culturale quanto l’illiceità delle condotte dannose sia legata essenzialmente ad un fatto culturale, laddove cultura in questo caso è da intendersi come generale sensibilità e conoscenza di un fenomeno. La scarsa percezione della gravità della falsificazione nel corso del tempo ha determinato una soglia molto alta di tolleranza da parte dell’ordinamento le cui reazioni, abbiamo visto, sono piuttosto tardive.

La contraffazione a livello di senso comune non è avvertita propriamente come un “male”: poter accedere a copie di manufatti, prodotti, oggetti (pensiamo alla produzione della moda o delle aziende del lusso), che siano il più possibile fedeli agli autentici, nella percezione generale è quanto di più auspicabile [45]: non se ne coglie, in effetti, la dannosità, neppure in relazione alla sofferenza economica arrecata all’autore della creazione o all’industria produttiva [46].

Restringendo tale quadro alla contraffazione nel mondo dell’arte [47], subentrano ulteriori dinamiche che alterano una percezione, per l’appunto, già piuttosto compromessa e che in parte sono state già menzionate: l’elemento artistico, che è la forma di espressione che il falsario adotta; la premialità delle capacità di riproduzione, considerato che più l’opera si avvicina all’autentica più è considerata pregevole proprio in rapporto alle capacità artistiche del falsario; la bramosia del collezionismo [48], con tutti i profili “psicosociali” legati alla necessità di detenere e/o esporre opere d’arte; l’utilità economica, considerato che l’acquisto di opere d’arte è frequentemente una proficua forma di investimento a lungo termine.

Non va neppure trascurato il fattore della coralità della attuazione del delitto, che raramente vede non coinvolta una pluralità di soggetti con ruoli e posizioni diverse, e che tende a favorire la struttura dell’associazioni a delinquere, quando non specificamente quella della criminalità organizzatale. Gli interpreti che ruotano attorno al falso si muovono sempre sul filo della liceità - l’artista si esprime; l’intermediario vende magari senza sapere; l’esperto autentica per errore, l’acquirente compra magari senza sapere: sono tutte condotte borderline. E ciò, a differenza di altri traffici criminali, impedisce di cogliere la reale gravità del fenomeno.

Quando la commissione Franceschini redasse le sue 84 conclusioni [49], quel che emerse a livello di costume e di interesse generale era una totale assenza di attenzione, a tutti i livelli, verso il comparto della cultura, segnatamente dei beni di interesse storico-artistico, e stiamo parlando del 1964, quindi con il dettame costituzionale che aveva già indicato la via.

Il problema era, dunque, anzitutto un problema di “cultura della cultura”, e subito dopo di politica del diritto. Lo è sempre stato.

Ad oggi, considerati una serie di elementi nuovi che vanno da una acuita sensibilità collettiva verso il valore identitario del patrimonio culturale (sensibilità che si manifesta con azioni e partecipazione concrete del singolo sia sul piano della tutela che su quello della valorizzazione), alle nuove tecnologie che supportano entrambi i piani costituzionalmente individuati (peraltro, aprendo anche a nuove forme di fruizione, come quella virtuale, che in parte attutiscono quell'atavica esigenza di possesso dell’opera) si è potenzialmente in grado di contrastare più efficacemente il fenomeno della contraffazione.

Forse quel che in punto di riforma dei reati si sarebbe potuto e dovuto fare è non limitarsi a riprodurre testualmente in modo acritico un impianto normativo, modificando esclusivamente sotto l’aspetto sanzionatorio, ed intendere che gli elementi concreti che avevano giustificato il pregresso approccio sono oggi in gran parte mutati, e ciò al fine di sciogliere a livello preliminare quei nodi che vengono, invece, affidati ancora all’interprete e che si sommano al già piuttosto complesso lavoro di accertamento del “fenomeno del contraffatto”, con riferimento ai profili oggettivi e soggettivi richiesti per la configurazione della fattispecie.

 

Note

[*] Barbara Cortese, professore associato in Diritto romano presso l’Università degli studi Roma Tre, via Ostiense 161, 00154 Roma, barbara.cortese@uniroma3.it.

[1] G. Volpe, Manuale di diritto dei beni culturali, Padova, 20073, pag. 17 ss.

[2] Attraverso l’istituzione del “Breve” del 28 novembre 1534. Pensiamo anche all’istituto del vincolo sui beni privati di interesse storico-artistico, istituito da Gregorio XIII nel 1574, con la bolla papale “Quae publicae utilia”.

[3] Art. 635 danneggiamento n. 3, inserito nel titolo relativo ai delitti contro il patrimonio mediante violenza a cose o persone; art. 639 comma 2 deturpamento imbrattamento anch’esso inserito nel medesimo titolo; art. 733 danneggiamento al parco archeologico, storico, o artistico nazionale, inserito nel titolo relativo alle contravvenzioni contro la p.a. Previsione di aggravanti ex art. 625 n. 7: “se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinata a pubblico servizio o pubblica utilità, difesa o reverenza. Per esposizione alla pubblica fede si intende l’esistenza della cosa in un luogo necessitato dalla natura dalla cosa” (ad es. bicicletta parcheggiata all’esterno o autovettura parcheggiata negli appositi spazi).

[4] A. Visconti, Problemi e prospettive della tutela penale del patrimonio culturale, Torino, 2023.

[5] G.P. Demuro, La riforma dei reati contro il patrimonio culturale: per un sistema progressivo di tutela, in Sistema penale, 2022, 2, pag. 5.

[6] Cfr. AA.VV., Patrimonio culturale: profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro, Roma, 2017, pag. 3 ss.

[7] In senso contrario N. Recchia, Una prima lettura della recente riforma della tutela penalistica dei beni culturali, in Aedon, 2022, 2, pag. 90 ss.

[8] Cass. pen, II, 27 settembre 2023, n. 41131: “Tanto premesso, va rilevato che l’art. 518-ter cod. pen. è stato inserito nel codice penale dalla legge n. 22 del 2022 che, come è noto, rappresenta lo strumento attuativo interno della Convenzione del Consiglio d’Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali sottoscritta a Nicosia il 19 maggio 2017 (che ha sostituito la precedente Convenzione di Delfi mai entrata in vigore) avendo il nostro paese, già in seno al Consiglio d’Europa, assunto l’impegno ad emanare (e far rispettare, con pene “effettive, proporzionate e dissuasive”) orme che attribuissero una gravità specifica ai reati commessi in danno dei beni culturali ed adottare una normativa “volta a prevenire e combattere il traffico illecito e la distruzione di beni culturali”, nel quadro dell’azione dell’organizzazione per la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata. Ed è proprio la Convenzione, all’art. 2, ad offrire una propria definizione di “beni culturali”, mutuata dalla Convenzione UNESCO del 1970, di cui occorre tener conto nella applicazione nuove fattispecie incriminatrici e che comprende, tra l’altro, i “prodotti di scavi archeologici (sia quelli che regolari che clandestini) o di scoperte archeologiche”, gli “elementi di monumenti artistici o storici o siti archeologici che sono stati smembrati”, le “antichità che hanno più di cento anni, come le iscrizioni, le monete e le incisioni”. Il legislatore interno, nel dare attuazione agli impegni internazionali introducendo le nuove fattispecie incriminatrici, non ha d’altra parte colto l’occasione per formulare una definizione specifica di “beni culturali” preferendo rimettere all’interprete il compito di “perimetrare” il bene culturale penalisticamente rilevante, quale elemento costitutivo delle incriminazioni ricomprese nel Titolo VIII-bis, tutte punite a titolo doloso. Di qui, allora, la persistente necessità di far riferimento alla nozione di bene culturale fissata “a fini amministrativi” dall’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, da sempre utilizzata sul terreno penale.

[9] Ancora Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2023, n. 41131: “Del pari rimasta irrisolta è la questione della natura “formale” o “sostanziale” della nozione di bene culturale non essendo stata operata una scelta di sistema tra la tutela penale del (solo) patrimonio culturale dichiarato, circoscritta cioè ai beni il cui valore culturale sia stato oggetto di previa dichiarazione, e la tutela penale (anche) del patrimonio culturale reale, che si estende ai beni dotati di “intrinseco” valore culturale e che prescinde da un accertamento dello stesso ad opera delle autorità competenti. Al riguardo, occorre ricordare come la giurisprudenza di legittimità, specie con riferimento al reato di impossessamento illecito di beni culturali (già art. 176 cod. beni cult., ora art. 518-bis, comma primo, seconda parte, cod. pen.), abbia da sempre adottato un approccio sostanziale affermando che non è richiesto, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l’accertamento dell’interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, reputando sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni (cfr., ex plurimis, sez. III, n. 24988 del 16/7/2020, Quercetti, Rv. 279756-01; conf. sez. III, n. 24344 del 15/5/2014, Rapisarda, Rv. 259305-01; sez. II, n. 36111 del 18/7/2014, Medda, Rv. 260366-01; sez. III, n. 41070 del 7/7/2011, Saccone e altro, Rv. 251295-01), quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria (cfr., ancora, sez. III, n. 35226 del 28/6/2007, Signorella, Rv. 237403-01). Analogamente si è sostenuto con riguardo alla fattispecie di illecita esportazione di cose di interesse artistico (art. 174 cod. beni cult., ora rifluito nell’art. 518-undecies cod. pen.), che è stata applicata non solo al patrimonio culturale “dichiarato”, ma anche a quello “reale”, essendo sufficiente che il bene stesso presenti un oggettivo interesse culturale (cfr. sez. III, n. 10468 del 17/10/2017, Lo Giudice, Rv. 272623-01). Trova conferma, dunque, l’indirizzo “sostanzialistico” secondo il quale il riferimento contenuto nell’art. 2 cod. beni cult. alle “altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà” integra una formula di chiusura che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle disposizioni sui beni culturali ed ambientali non soltanto nel patrimonio storico artistico-ambientale dichiarato, ma anche in quello reale, ovvero in quei beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento da parte della autorità competenti (cfr. sez. III, n. 21400 del 15/2/2005, Pavoncelli, Rv. 231638-01, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 25, comma secondo, e 27, comma primo, Cost.; conf. sez. III, n. 45841 del 18/10/2012, Diamanti, Rv. 253998-01)”. Sul punto cfr. D. Colombo, La ‘culturalità’ del bene nei reati contro il patrimonio culturale. Anche dopo la riforma la cassazione accoglie la tesi ‘sostanzialistica, in Sistema Penale, 2023, 11, pag. 1 ss.

[10] Cfr. ex plurimis, F. Di Bonito, Il problema definitorio del bene culturale tra reale e dichiarato. Consapevolezza della culturalità e ricadute penalistiche, in Il diritto dei beni culturali. Atti del convegno in memoria di Paolo Giorgio Ferri (Roma 27 maggio 2021), (a cura di) B. Cortese, Roma, 2021, pag. 51 ss.

[11] S. Hecker-M. Vanzetti, L’originale nell’arte come concetto mutevole nel tempo e nell’ambito della attuale tutela, in Arte e diritto, 2022, 1, pag. 30 ss.

[12] Art. 2. “Chiunque esercita una delle attività previste all’articolo 1 deve porre a disposizione dell’acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza delle opere e degli oggetti ivi indicati, che comunque si trovino nell’esercizio o nell’esposizione. All’atto della vendita il titolare dell’impresa o l’organizzatore dell’esposizione è tenuto a rilasciare all’acquirente copia fotografica dell’opera o dell’oggetto con retroscritta dichiarazione di autenticità e indicazione della provenienza, recanti la sua firma”.

Art. 3. “Chiunque, al fine di trarne illecito profitto, contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica, od un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico è punito con la reclusione da tre mesi fino a quattro anni e con la multa da lire centomila fino a lire tre milioni. Alla stessa pena soggiace chi, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio, o detiene per farne commercio, o introduce a questo fine nel territorio dello Stato, o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o di oggetti di antichità, o di oggetti di interesse storico od archeologico”.

Art. 4. “Alle stesse pene indicate nell’articolo precedente soggiace: 1) chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati nei precedenti articoli, contraffatti, alterati o riprodotti; 2) chiunque mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri od etichette o con qualsiasi altro mezzo accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti, indicati nei precedenti articoli, contraffatti, alterati o riprodotti”.

Art. 5. “Se i fatti indicati nei due articoli precedenti sono commessi nell’esercizio di un’attività commerciale le pene sono aumentate. Alla sentenza di condanna consegue inoltre la sospensione dell’autorizzazione amministrativa all’esercizio, per una durata massima di sei mesi. L’iscrizione di cui all’articolo 1 è revocata se il condannato è incorso nella recidiva aggravata prevista dai numeri 1 e 2 del secondo comma dell’articolo 99 del codice penale”.

Art. 6. “La sentenza di condanna per i reati previsti agli articoli precedenti è pubblicata su tre quotidiani con diffusione nazionale designati dal giudice ed editi in tre diverse località. Il giudice nel dispositivo della sentenza stabilisce se questa deve essere pubblicata per intero o per estratto. La pubblicazione è eseguita di ufficio a spese del condannato”.

[13] L’opera dell’artista del 1496 che venne, invece, venduta con l’intento fraudolento.

[14] Il cardinale Raffele Riario di San Giorgio del Velabro che scoperta la truffa, restituì l’amorino di Michelangelo a del Milanese. Cfr. P. Preto, Falsi e falsari nella Storia. Dal mondo antico a oggi, Roma, 2020.

[15] S. Rinaldi, Marcantonio Raimondi e la firma di Dürer. Alle origini della ‘stampa di riproduzione’?, in “Opera. Nomina. Historiae” 2009, 1, pagg. 263-306.

[16] Il privilegio concessogli da Massimiliano I impediva di ristampare le sue opere entro i confini dell’Impero, affermando che chiunque non seguisse tale dettame si esponeva ad un grande rischio, nonché alla possibilità di avere la propria merce confiscata. La novità per il tempo non fu tanto la richiesta di Dürer di vedersi garantito il riconoscimento quale autore delle opere, ma di aver utilizzato il privilegio su quattro opere nel tentativo di proteggerle: cfr. J.L. Koerner, Albrecht Dürer: A Sixteenth-Century Influenza, in Albrecht Dürer and his Legacy: The Graphic Work of a Renaissance Artist by G. Bartrum, Princeton University Press, 2002, pagg. 18-38.

[17] F. Gattillo, Appropriazione artistica tra plagio e parodia: analisi in diritto comparato, in Arte e diritto, 2022, 2, pag. 243 ss.

[18] M. Horak, Alceo Dossena fra mito e realtà vita e opera di un genio, Piacenza, 2016, passim.

[19] Art. 7. “È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nei precedenti articoli, salvo che si tratti di cose appartenenti a persona estranea al reato. Delle cose confiscate ai sensi del comma precedente e vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reato”.

[20] G.P. Demuro, D.lg. 22.1.2004, n. 42 - Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 - Premessa e commento alla Parte quarta, in Leg. pen., 2004, pag. 466; R. Tamiozzo, La legislazione dei Beni Culturali e Paesaggistici, Milano, 2004, pag. 344 ss.; P. Cipolla, La repressione penale della falsificazione di opere d’arte, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, (a cura di) A. Manna, Milano, 2005, pagg. 284-287; V. Manes, La tutela penale, in Diritto e gestione dei beni culturali, (a cura di) C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2011, pagg. 302-303; A. Massaro, Diritto penale e beni culturali: aporie e prospettive, in Patrimonio culturale: profili giuridici e tecniche di tutela, cit., pag. 179; G. Mari, Artt. 178 e 179, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 20193, pagg. 1514-1515.

[21] Art. 518-quaterdecies (Contraffazione di opere d’arte) - “È punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 10.000: 1) chiunque, al fine di trarne profitto, contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico o archeologico; 2) chiunque, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio, detiene per farne commercio, introduce a questo fine nel territorio dello Stato o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura o grafica, di oggetti di antichità o di oggetti di interesse storico o archeologico; 3) chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti indicati ai numeri 1) e 2) contraffatti, alterati o riprodotti; 4) chiunque, mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri o etichette o con qualsiasi altro mezzo, accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati ai numeri 1) e 2) contraffatti, alterati o riprodotti. È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel primo comma, salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato. Delle cose confiscate è vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reato”.

[22] Stabilire l’eccesso di restauro, tenuto anche conto che in ogni caso questo è punibile se non è realizzato dolosamente (art. 518-quinquiesdecies c.p., su cui cfr. infra.), non è un’operazione agevole, anche e soprattutto in rapporto alla mutevolezza nel tempo dei giudizi degli esperti: cfr. F. Lemme, La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale, Padova, 20012, pagg. 51-54; P. Cipolla, La repressione penale della falsificazione di opere d’arte, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, (a cura di) A. Manna, Milano, 2005, pag. 293; A. Visconti, Contraffazione di opere d’arte e posizione del curatore d’archivio, in Aedon, 1/2020. La funzione del restauro deve essere comunque di natura essenzialmente conservativa, lo diceva Brandi in quella che è diventata la carta del restauro per antonomasia. C. Brandi, Teoria del restauro, Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963. Il punto, tuttavia, a mio avviso è determinare il parametro temporale rispetto al quale la conservazione dell’opera deve attuarsi: com’era in origine? Com’era nel momento del suo reperimento? O rispetto alla sua dimensione espositiva? È evidente che questo incide in modo preponderante sulla distinzione fra “conservazione” e “integrazione/correzione” e all’interno della conservazione fra “eccesso di restauro” e “restauro razionale”.

[23] Così Cass. pen., III, 7 giugno 2021, n. 27059.

[24] Riguardo alla tutela penale delle opere d’arte contemporanea, già Mantovani, soprattutto nell’ottica della tutela del patrimonio culturale “reale”, sosteneva l’illegittimità dell’esclusione di opere di riconosciuto valore artistico e culturale solo perché l’autore è vivente o non è decorso il termine di 50 anni dall’esecuzione delle opere: F. Mantovani, Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, pag. 67 s.

[25] È dato fornito dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale quello relativo al sequestro di 1.547 opere d’arte contraffatte, di cui oltre l’87% riferite ad arte contemporanea solo nel 2021, con la pandemia da Covid-19 in corso. Nel corso dell’anno 2022 state, invece, sequestrate 1.241 opere contraffatte, di cui 951 di arte contemporanea e per la restante quota di reperti archeologici/paleontologici (258), beni antiquariali/archivistici e librari (32). L’insieme delle opere e dei beni contraffatti e sequestrati è stato valorizzato in 86.024.350 euro qualora immessi sul mercato come autentici.

[26] G. Ludwig, Storia dei materiali e delle tecniche artistiche: le analisi scientifiche per lo studio di falsi e contraffazioni, in AA.VV., L’arte non vera non può essere arte, Roma, 2018, pag. 217 ss.

[27] F. Lemme, La contraffazione, cit., pagg. 91-96.

[28] Sul punto, A. Visconti, Contraffazione, cit., in particolare pag. 13 nt. 78.

[29] V. Manes, La tutela penale, cit., 303; G. Mari, Artt. 178 e 179, cit., pagg. 1514-1515.

[30] G. Demuro, La riforma dei reati, cit., pag. 23.

[31] Cass. pen., III, 17 novembre 1995, n. 11253; Cass. pen., III, 31 marzo 2000, n. 4084; Cass. pen., III, 1 giugno 2006, n. 19249, Cass. pen., VI, 21 ottobre 2008, n. 39474; Cass. pen., 25 marzo 2014, n. 13966.

[32] Così Cass. pen. 19249/2006.

[33] A. Barenghi, Considerazioni sulla tutela dell’opera d’arte nel mercato, in Riv. dir. comm., 2019, pag. 433 ss.

[34] G. Frezza Autenticazione e accertamento dell’opera d’arte: un problema ancora aperto in Diritto e nuove tecnologie. in Atti del convegno (Roma, 15 ottobre 2021), (a cura di) M. Cenini, F. Dell’Aversana, F. Ferrara, G. Magri, Milano, 2023, pag. 32 ss.; R. Donzelli, Sull’azione di mero accertamento dell’autenticità dell’opera d’arte, ivi, pag. 41 ss.

[35] P. Cipolla, La prova del falso d’arte, tra il principio del libero convincimento e l’obbligo di motivazione razionale, in GM, 2010, pag. 2201.

[36] A. Crippa-N. Pierantoni, Autenticità, provenienza e proprietà delle opere d’arte delle collezioni corporate in relazione alla recente riforma della legge 22/2022, in Arte e diritto, 2022, 2, pag. 329 ss.

[37] Art. 518-quinquiesdecies (Casi di non punibilità) - “Le disposizioni dell’articolo 518-quaterdecies non si applicano a chi riproduce, detiene, pone in vendita o altrimenti diffonde copie di opere di pittura, di scultura o di grafica, ovvero copie o imitazioni di oggetti di antichità o di interesse storico o archeologico, dichiarate espressamente non autentiche, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto o, quando ciò non sia possibile per la natura o le dimensioni della copia o dell’imitazione, mediante dichiarazione rilasciata all’atto dell’esposizione o della vendita. Non si applicano del pari ai restauri artistici che non abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale”.

[38] Art. 8. “Le disposizioni penali previste ai precedenti articoli non si applicano a chi riproduce, detiene, pone in vendita o altrimenti diffonde copie di opere di pittura, di scultura o di grafica, ovvero copie od imitazioni di oggetti di antichità o di interesse storico od archeologico, dichiarati espressamente non autentici, all’atto della esposizione o della vendita, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto o, quando ciò non è possibile per la natura o le dimensioni della copia o dell’imitazione, mediante dichiarazione rilasciata all’atto della esposizione o della vendita.

Non si applicano del pari ai restauri artistici che non abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale.

Nelle vendite alle aste dei corpi di reato, è fatto obbligo all’ufficio procedente di provvedere alle forme di pubblicità, alle annotazioni e alle dichiarazioni indicate nel primo comma e relative alla non autenticità delle opere ed oggetti confiscati”.

[39] L. Mensi, Arte e restauro. Restauratori, artisti e diritto d’autore, in Arte e diritto, 2022, 1, pag. 155 ss.

[40] C. Brandi, Teoria del restauro, cit., pag. 123.

[41] Nel quadro delle circostanze aggravanti, previsto all’art. 518-sexiedecies c.p. si prevede l’aumento della pena fino a un terzo per ogni reato, nei confronti di soggetto che cagiona un danno di rilevante entità; oppure quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale, commerciale, bancaria o finanziaria; ancora se commesso da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali mobili o immobili; e infine quando è commesso nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.

Nel caso dell’attività professionale, pensiamo al classico esempio dell’antiquario, è prevista la pena accessoria della interdizione dalla professione e la pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 518-sexiesdecies c.p.).

Relativamente alle circostanze attenuanti, previste all’art. 518-septiesdecies c.p., il legislatore ha previsto la riduzione di un terzo della pena quando il danno, o l’evento o ancora il lucro risultino di “speciale tenuità”. La pena è inoltre diminuita da uno a due terzi nei confronti di chi abbia consentito l’individuazione dei correi o abbia fatto assicurare le prove del reato o si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o abbia recuperato o fatto recuperare i beni culturali oggetto del delitto.

[42] Cass. pen., sez. II, 25 maggio 2010, n. 32273. Più recentemente Cass. pen., sez. III, 4 maggio 2021, n. 30687; Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2023, n. 36878.

[43] Cass. pen., sez. III, ud. 4 maggio 2021 (dep. 5 agosto 2021), n. 30687: “Come infatti già affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza De Maio a proposito della confisca, sia pur riferita all’immediata declaratoria di estinzione del reato, la circostanza che il giudice possa procedere ad accertamenti ai fini dell’applicabilità della misura non può affatto considerarsi anomala (sez. U, sentenza n. 38834 del 10/07/2008 - dep. 15/10/2008, Rv. 240565), affermazione questa ripresa e sviluppata dalla giurisprudenza più recente che ha sottolineato come gli ampi poteri di verifica di cui dispone il giudice gli consentono di procedere ad un accertamento incidentale, analogo a quello contenuto in una sentenza di condanna, della responsabilità dell’imputato e del nesso pertinenziale fra l’oggetto della confisca ed il reato (sez. VI, Sentenza n. 31957 del 25/01/2013 - dep. 23/07/2013, Cordaro, Rv. 255596; sez. III, sentenza n. 53692 del 13/07/2017 - dep. 29/11/2017, Martino Rv. 272791” ... “Pertanto, l’accertamento del fatto di reato, e dunque la non autenticità del quadro di proprietà degli istanti, quand’anche potesse essere superfluo ai fini del proscioglimento stante la ritenuta mancanza di dolo da parte di costoro, si configura, invece, necessario ai fini della confisca. È chiaro, infatti, che a fronte di due contrapposte consulenze, integranti entrambe un accertamento di parte, quali l’attestazione prodotta dalla difesa in ordine all’autenticità del dipinto e la relazione predisposta dall’ausiliario incaricato dalla Polizia Giudiziaria che ha ritenuto trattarsi invece di un falso, non può ritenersi accertata, in assenza di una perizia disposta nel contraddittorio fra le parti - che gli istanti non avevano altro modo di richiedere se non in sede esecutiva, non beneficiando costoro di alcuna forma di impugnazione del decreto di archiviazione pronunciato nei loro confronti all’infuori dell’opposizione all’esecuzione (sez. III, n. 842 del 15/11/2019 - dep. 13/01/2020, Pugliese, Rv. 278280) -, la non autenticità dell’opera, costituente l’indefettibile presupposto della disposta confisca”.

[44] Così già Cass. pen., sez. III, 12 febbraio 2003, n. 22038. Cfr. G. Mari, Artt. 178-179, cit., pagg. 1520-1521.

[45] S. Izzi, Lotta alla contraffazione. Analisi del fenomeno, sistemi e strumenti di contrasto, 2010, Milano.

[46] In merito da segnalarsi il profilo della contraffazione del “made in Italy”, a cui la legge 27 dicembre 2023, n. 206 Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy ha dedicato il III capo, nell’ottica di salvaguardare il titolo di proprietà industriale che identifica come prodotti in Italia merci provenienti dai comparti dell’artigianato, dell’agricoltura e dall’industri. Sul punto cfr. G. Sciullo, Cultura e patrimonio culturale nella legge sul made in Italy: una prima lettura, in Aedon, 2024, 1, pag. 1 ss.; A. Bartolini, La nuova disciplina made in Italy sui marchi dei luoghi e istituti di cultura, in Aedon, 2024, 1, pag. 5 ss.

[47] Si vedano le riflessioni in chiave multidisciplinare contenute nel volume Verità e menzogna nel falso. Truth and lies in fakes and forgeries, (a cura di) G. Garzia, C. Matteucci, M. Vandini, Bologna, 2018.

[48] G. Rossi, Perché collezionismo: una confessione, in Quei maniaci chiamati collezionisti, (a cura di) P.L. Pizzi e G. Rossi, Milano, 2010, pag. 31 ss.

[49] Relazione della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e paesaggistico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, pag. 143 ss.

 

 

 



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