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Cultura e made in Italy

Cultura e patrimonio culturale nella legge sul made in Italy: una prima lettura

di Girolamo Sciullo [*]

Sommario: 1. Premessa. - 2. Cultura, identità e crescita economica. - 3. Le declinazioni della culturalità. - 4. Finalità specifiche e strumenti di garanzia. - 5. Riflessi della legge sulla disciplina del patrimonio culturale e sul ruolo del Mic.

Culture and cultural heritage in the law on made in Italy: a first reading
In the law n. 206/2023 (on made in Italy) culture and cultural heritage have an important role. The paper investigates the reasons (culture as a factor of national identity and social and economic growth) and illustrates the provisions dictated in this regard. Finally, it considers the effects of the law on the regulation of cultural heritage and the role of the ministry of Culture.

Keywords: law on made in Italy: culture, identity, and socio-economic growth.

1. Premessa

La legge 27 dicembre 2023, n. 206, come indica la sua denominazione, reca “disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy”. Nella legge, i termini “cultura” e “culturale” ricorrono ben settanta volte. Il dato indica senz’altro la centralità nell’economia della legge di quanto sotteso dai due termini. Ma fa sorgere immediatamente tre quesiti: perché il dato culturale viene considerato in questo testo normativo che con la locuzione ‘made in Italy’ parrebbe riferirsi almeno in via di prima approssimazione a merci, agricole, artigianali o industriali prodotte in Italia?

In quale accezione esso poi viene in rilievo? Quali finalità specifiche sono assegnate e quali strumenti, infine, sono previsti per la sua garanzia e promozione?

In questa nota si cercheranno di chiarire e commentare brevemente le risposte che emergono a una prima lettura della legge e trarre alcune conclusioni sui riflessi esercitati.

2. Cultura, identità e crescita economica

Al primo interrogativo rispondono gli artt. 1 e 25, comma 1, l’uno affermando che “le produzioni di eccellenza, il patrimonio culturale e le radici culturali nazionali [sono] fattori da preservare e tramandare non solo per fini identitari, ma anche per la crescita dell’economia nazionale”, l’altro con maggiore incisività dichiarando che “la cultura e la creatività sono elementi costitutivi dell’identità italiana e accrescono il valore sociale ed economico della Nazione”. Dunque, seppure insieme alla produzione di eccellenza e alla creatività, la cultura (in un’accezione comprensiva del patrimonio e delle radici culturali), è fattore che determina l’identità italiana e concorre alla crescita sociale ed economica della nazione.

Si tratta di affermazioni che possono destare sorpresa nella loro perentorietà, ma che trovano un preciso retroterra giuridico come pure in altre ottiche disciplinari. Ad intendere l’identità come l’insieme dei caratteri peculiari che contraddistinguono singoli, territori, comunità e s.m.i. [1], non è da dubitarsi che la cultura, con le espressioni che ad essa si connettono, possa rappresentare un elemento in grado, insieme ad altri, di definire i tratti distintivi, l’identità, anche di una nazione. Tale è considerata nella pubblicistica storiografica e politologica, pure con le necessarie precisazioni da operare in rapporto alla nozione di cultura tenuta presente [2]. In campo giuridico [3] si possono ricordare formule del Codice dei beni culturali quali “espressioni di identità culturale collettiva” (art. 7-bis), “testimonianze dell’identità ... delle istituzioni pubbliche, collettive” (art. 10, comma 3, lett. d)) e in particolare “il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, comma 2).

È però a livello sovranazionale che si rinvengono le formulazioni più significative: “La cultura assume forme diverse nel tempo e nello spazio. Questa diversità si incarna nell’unicità e nella pluralità delle identità dei gruppi e delle società che compongono l’umanità” (Dichiarazione UNESCO 2001 [4], art. 1); “la cultura assume forme diverse nel tempo e nello spazio e ... questa diversità è riflessa nell’originalità e nella pluralità delle identità, così come nelle espressioni culturali delle società e dei popoli umani” (Convenzione UNESCO 2005 [5], preambolo) [6].

Sussiste però una condizione: poiché “la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali implicano il riconoscimento del principio di uguale dignità e del rispetto di tutte le culture” (Convenzione UNESCO 2005, art. 2, comma 3), anche le identità in cui le culture si riflettono hanno uguale dignità e meritano il medesimo rispetto, o in altre parole la “identità [dell’un popolo o nazione] non deve cancellare quella degli altri” [7]. Si tratta di una condizione che nel testo della legge non sembra trovare smentite, non fosse altro perché la “cultura straniera 1 e 2” (insieme alla lingua) è significativamente presente in termini di ore nel piano di studi del previsto “Liceo del made in Italy” (v. allegato).

La connessione fra cultura e identità nazionale spiega l’attenzione prestata dalla legge al patrimonio culturale immateriale, di cui all’art. 21 formula una nozione autonoma rispetto a quella espressa dalla Convenzione UNESCO del 2003 [8] (art. 2, par. 1,), intendendo tale patrimonio come l’“insieme dei beni intangibili espressione dell’identità culturale collettiva del Paese”. Al riguardo un riferimento significativo è nella stessa Convenzione, il cui preambolo considera il “patrimonio immateriale ... fattore principale della diversità culturale” (e conseguentemente della pluralità delle identità nazionali).

Infine, circa il collegamento fra cultura (e patrimonio culturale) e crescita economica (e sociale) sottolineato dalla legge, può rilevarsi che esso era già adombrato nell’art. 112, comma 4, del Codice (integrazione nel processo di valorizzazione culturale dei settori produttivi collegati), e trova un retroterra prezioso nel diritto sovranazionale, dove si parla di “potenziale economico del patrimonio culturale” e del “potenziale del patrimonio culturale come fattore nello sviluppo sostenibile” (Convenzione Consiglio d’Europa 2005 [9], art. 10). La formulazione più chiara è però nel Regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione (in tema di aiuti di Stato), che al considerando 72 sottolinea “la duplice natura della cultura quale bene economico che offre notevoli opportunità per creare ricchezza e occupazione, da un lato, e veicolo di identità, valori e contenuti che rispecchiano e forgiano le nostra società, dall’altro”.

3. Le declinazioni della culturalità

Quanto al secondo interrogativo (le declinazioni della culturalità) due sono i punti da osservare nella legge. Il primo è costituito da alcune disposizioni in tema di patrimonio culturale. L’art. 37, comma 2, lett. f), qualifica le indicazioni geografiche italiane registrate, agricole, alimentari, del vino e delle bevande spiritose (ii.gg.) come “parte del patrimonio culturale ed enogastronomico nazionale”, mentre l’art. 42, comma 1, annovera le “produzioni artigianali e industriali tipiche tradizionalmente legate a metodi di produzione locali radicati in una specifica zona geografica” come “elementi significativi del complessivo patrimonio culturale nazionale”. In questi casi si conferma l’orientamento del nostro Paese a considerare produzioni, sovente connesse al food, come componenti del patrimonio culturale immateriale [10].

L’altro punto è rappresentato dagli oggetti dell’“impresa culturale e creativa”. Tra i requisiti richiesti per la appartenenza alla categoria è indicato lo svolgimento in via esclusiva o prevalente di una delle seguenti attività: “ideazione, creazione, produzione, sviluppo, diffusione, promozione, conservazione, ricerca, valorizzazione e gestione di beni, attività e prodotti culturali” (art. 25, comma 2, lett. b). Per “beni culturali” ai fini della legge il successivo comma 5, lett. a), intende quelli di cui all’art. 2, comma 2, del d.lg. 42/2004 (che a sua volta rimanda alle cose che ai sensi degli artt. 10 e 11 presentano interesse artistico ecc. e a quelle individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianza di civiltà).

Per “attività e prodotti culturali” la lett. b), del medesimo comma indica i “beni, servizi, opere dell’ingegno, nonché i processi ad essi collegati, e altre espressioni creative, individuali e collettive, anche non destinate al mercato, inerenti a musica, audiovisivo e radio, moda, architettura e design, arti visive, spettacolo dal vivo, patrimonio culturale materiale e immateriale, artigianato artistico, editoria, libri e letteratura”.

Non è agevole distinguere quanto in tale disposizione sia ascrivibile alle “attività” e quanto invece ai “prodotti” culturali, ma sembra certo che beni, servizi e processi possano riferirsi sia al patrimonio culturale materiale e immateriale, sia agli ambiti menzionati dalla disposizione, quali musica, moda artigianato ecc. A emergere è, in definitiva, una culturalità la cui cifra di identificazione può essere costituita tanto dall’interesse storico, artistico ecc. quanto dalla creatività in una serie di settori (in particolare moda, design) testualmente indicati. È culturale, verrebbe da dire, anche ciò che è creativo, e per il solo fatto di essere tale. Con il che sembra superato anche il confine della culturalità in senso antropologico, risultando di pari rilievo anche la creatività del prodotto, del servizio o del processo.

Ma non basta. Emerge altresì una culturalità “di riflesso” (o per relationem) a proposito delle “attività economiche di supporto ausiliarie o comunque strettamente funzionali alla ideazione ... di beni, attività e prodotti culturali” (art. 25, comma 2) - ovvero alle attività culturali e creative (in senso proprio) - attività economiche che, se svolte “invia esclusiva o prevalente” sono idonee a qualificare i soggetti che le esplicano come imprese culturali e creative. Se poi si considera che il requisito soggettivo per detta qualificazione si riferisce a “qualunque ente [che eserciti impresa cfr. 25, comma 8], indipendentemente dalla sua forma giuridica” e al “lavoratore autonomo” (art. 25, comma 2) appare evidente l’estesa platea dei soggetti potenzialmente idonei a ricevere la qualificazione di impresa culturale e creativa, senza peraltro (almeno per il momento) che da essa consegua un regime giuridico significativamente differenziato.

4. Finalità specifiche e strumenti di garanzia

Quanto all’ultimo quesito (finalità specifiche previste e strumenti apprestati), l’art. 2, comma 1, nel quadro del generale obiettivo di valorizzazione e promozione delle produzioni di eccellenza, del patrimonio culturale e delle radici culturali nazionali (cfr. art. 1), assegna alle amministrazioni territoriali, nell’ambito della rispettiva competenza, il “recupero delle tradizioni, la valorizzazione dei mestieri e il sostegno ai giovani” impegnati o che intendono impegnarsi nei settori di maggior successo del made in Italy, nonché la “promozione del territorio e delle bellezze naturali e artistiche”.

A sua volta l’art. 21 impegna il Mic, e le altre amministrazioni competenti, a promuovere “la valorizzazione e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”. A tale riguardo la stessa disposizione apporta talune modifiche al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, art. 55 s., relativamente alle attribuzioni del ministero, con la specificazione, a proposito dei beni culturali e del patrimonio culturale, della materialità e della immaterialità. Specificazione questa priva di innovatività sostanziale dal momento che la competenza sull’immateriale è già presente nel regolamento di organizzazione di cui al d.p.c.m. 2 dicembre 1999, n. 169 (si vedano l’art. 13, comma 2, lett. m), riguardo ai compiti del Segretario generale, l’art. 14, commi 4, 6 e 6-bis e l’art. 33, comma 2, n. 8), a proposito dell’Istituto centrale del patrimonio immateriale, nonché l’art. 41, comma 2 in tema di aree funzionali delle soprintendenze), e non risulta da taluno contestata.

Degli altri strumenti previsti per il perseguimento delle finalità sopra richiamate, che toccano materie di competenza del Mic, alcuni hanno natura privatistica (possibilità per gli istituti e luoghi della cultura di registrare i marchi che li caratterizzano e di cederne l’uso a terzi, cfr. art. 22, e facoltà per il ministero di stipulare convenzioni volte al rafforzamento della tutela dei domini internet appartenenti a detti istituti e luoghi, cfr. art. 23), altri presentano carattere pubblicistico e concernono le imprese culturali e creative: il Mic, sovente in concorso con altri ministeri, è chiamato in particolare a definire modalità e condizioni per il riconoscimento della relativa qualifica (art. 25, comma 6), a erogare i contributi in conto capitale in loro favore (art. 29), ad adottare ogni triennio il “Piano nazionale strategico” delle stesse imprese (art. 30) e a provvedere alla tenuta dell’albo di quelle di interesse nazionale (art. 26). Sempre al ministero spetta la tenuta di un repertorio dei creatori digitali (art. 27) e la stesura di linee guida per la salvaguardia dell’autenticità storica delle opere musicali, audiovisive e librarie (art. 28).

5. Riflessi della legge sulla disciplina del patrimonio culturale e sul ruolo del Mic

Per concludere appare utile considerare la relazione della legge con la disciplina del patrimonio culturale e il ruolo del Mic.

Ancorché faccia un largo riferimento al patrimonio culturale, in particolare ‘enfatizzando’ la componente immateriale intesa come fattore di identità e al contempo di sviluppo sociale ed economico, la legge non tocca la disciplina dettata dal d.lg. 42/2004. E questo, se per un verso si spiega perché altri erano, come si è visto, gli obiettivi perseguiti, per altro verso evidenza una carenza significativa attualmente esistente: la mancanza di una disciplina del patrimonio culturale immateriale - che la legge si preoccupa di definire- in grado di inquadrare in un disegno organico i principi contenuti nelle convenzioni internazionali recepite dal legislatore italiano e di disegnare al contempo l’indispensabile regolamentazione attuativa in termini di competenze, organizzazione e procedure.

Invero, con quali adeguati strumenti giuridici è al momento possibile promuovere la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale alle quali l’art. 21, comma 1, impegna anzitutto il Mic? Al riguardo non può non salutarsi come fortuita coincidenza il fatto che di recente abbia compiuto un passo significativo la proposta di legge di iniziativa parlamentare (ora atto Senato n. 1038) in materia di rievocazioni storiche e (in particolare) di delega al Governo per l’adozione di norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Obiettivo questo che si auspica possa essere raggiunto in tempi ravvicinati.

Il ruolo del Mic trova nella legge un rafforzamento, non certo per l’intervento (invero “di facciata”) sulle attribuzioni ex d.lg. 300/1999, quanto in particolare per i compiti assegnati connessi all’implementazione e alla gestione della disciplina delle imprese culturali e creative.

Al riguardo possono formularsi alcune osservazioni. La legge determina un effetto di spostamento di risorse personali e materiali del ministero verso la nuova missione, dal momento che non risulta disposta l’assegnazione di nuove (salvo che per l’erogazione di contributi in conto capitale, peraltro con l’utilizzo anche di un accantonamento intestato al ministero previsto in apposito fondo del bilancio statale, cfr. art. 29, comma 3).

Emerge, poi, il dubbio se, considerata l’ampia platea dei soggetti formalmente in grado di rientrare nel novero delle imprese culturali e creative, sarebbe risultata più adeguata l’assegnazione della competenza, quanto meno come autorità concertante, al ministero per il Made in Italy. In effetti la legge non tiene conto delle indicazioni emerse dal risalente dibattito sull’impresa culturale volte a distinguere e differenziare le imprese in cui la cultura è l’oggetto principale e diretto dell’attività svolta da quelle in cui essa costituisce un profilo sia pure importante dell’azione esercitata in campo commerciale, industriale ecc. (ma anzi considera, come si è detto, anche le imprese dalla culturalità/creatività solo ‘di riflesso’) [11]. Pertanto, in particolare nelle finalità assegnate al Piano nazionale per la promozione e lo sviluppo delle imprese culturali e creative (art. 30), non emerge con sufficiente chiarezza quel ruolo specifico che dalla distinzione sarebbe potuto derivare per il Mic, in termini svolgimento di servizi di supporto e sostegno a favore delle imprese (in senso stretto) culturali, specie nel campo della formazione del personale tecnico impiegato.

Da ultimo, l’attribuzione dei compiti al ministero sembra doversi inquadrare nello schema della ‘chiamata in sussidiarietà’ (cfr. Corte Cost. n. 303/2003), ma risulta priva della garanzia di un adeguato ruolo regionale in una materia di competenza concorrente (valorizzazione di beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali). Invero solo l’individuazione dei presupposti, termini e modalità per la concessione di contributi in conto capitale è sottoposta alla “previa intesa” in sede di Conferenza unificata (art. 29, comma 2), mentre per l’adozione del Piano strategico nazionale è sufficiente il mero parere (“sentita”) di quella Stato-Regioni (art. 30, comma 1) e per la definizione delle condizioni del riconoscimento della qualifica di impresa culturale e creativa nulla è previsto (cfr. art. 25, comma 6). Insomma, un ruolo complessivamente “debole” delle Regioni, che si rintraccia peraltro anche in altre previsioni della legge (cfr. ad esempio, art. 8, comma 2, art. 33, comma 2, 39, comma 5, 40, comma 3).

Il dato è tanto più da segnalare perché l’identità (anche) culturale italiana - che costituisce il filo rosso della legge - è un’identità plurale, a “struttura di rete”, costruitasi sì su un “terreno comune” (il retaggio romano e quello cristiano-cattolico) e risultante alla fine di “un accento solo”, ma questo per effetto di “combinazioni, prestiti, contaminazioni” delle “tante Italie” che reciprocamente hanno trasmesso e assorbito influssi e intrecciato rapporti più intensi di quelli intrattenuti con l’Europa e il Mediterraneo, come con appassionate e convincenti pagine segnala lo storico [12]. È pur vero che la legge impegna per la sua attuazione anche le “amministrazioni... regionali e locali, per quanto di rispettiva competenza” (art. 2, comma 1), riconoscendone implicitamente il ruolo, ma l’impressione complessiva che resta al lettore è che talora lo Stato lasci in ombra la Repubblica.

 

Note

[*] Girolamo Sciullo, già ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Bologna, Via Zamboni 22, 40126 Bologna, g.sciullo@studiogam.it.

[1] Cfr. Internazionale. Il nuovo De Mauro, in https://dizionario.internazionale.it.

[2] Cfr. ad es., L Salvatorelli, Pensiero e azione nel Risorgimento, Torino, Einaudi, 1963, pag. 19; F. Chabod, L’idea di nazione, Bari, Laterza, 1979, pag. 25 ss., pag. 46 ss., pag. 53 ss., pag. 175 ss.; S.P. Huntington, Who Are We?, 2004 (trad. it., La Nuova America, Milano, Garzanti, 2010, pag. 23 ss., pag. 46 ss. e passim; E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna, Il Mulino, 2010, spec. pag. 161 ss.

[3] Cfr. per un esempio, V. Crisafulli, D. Nocita, voce Nazione, in Enc. dir., XXVII, Milano, Giuffrè, 1977, pag. 798 ss. Sul rapporto, in termini di storia del diritto, fra cultura e identità di un popolo cfr. l’analisi di B. Cortese, Patrimonio culturale, diritto e storia, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) A. Gemma, A. Massaro, E. Bettelli, B. Cortese, Roma, Roma Tre-Press, 2017, pag. 12 ss.

[4] Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale, Parigi 2 novembre 2001.

[5] Convenzione UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, Parigi 20 ottobre 2005.

[6] Può ricordarsi altresì l’art. 3 della convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro 27 ottobre 2005, secondo il quale “tutte le forme di patrimonio culturale in Europa ... costituiscono nel loro insieme una fonte condivisa di ricordo, di comprensione, di identità, di coesione e creatività”.

[7] Così G. Amato, La centralità dell’istruzione e della cultura nell’architettura dei principi costituzionali, in Forum Quad. cost., 3/2023, con riferimento agli individui, ma senz’altro estensibile (è da pensare) ai gruppi sociali. In proposito cfr. anche l’art. 3, lett. a) e b), della Dichiarazione di Friburgo, 7 maggio 2007.

[8] Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, Parigi 17 ottobre 2003.

[9] Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro 27 ottobre 2005 [Legge di ratifica].

[10] Si pensi come esempi, a: Dieta mediterranea, Pratica agricola tradizionale della coltivazione della “vite ad alberello” di Pantelleria, Arte tradizionale del pizzaiolo napoletano, Saper fare liutario di Cremona, tutti presenti nell’elenco del patrimonio culturale immateriale UNESCO cfr. https://www.unesco.it/it/iniziative-dellunesco/patrimonio-culturale-immateriale.

[11] Cfr. in particolare M. Cammelli, Qualche appunto in tema di impresa culturale, in Aedon, 2017, 2.

[12] E. Galli della Loggia, L’identità italiana, cit., pagg. 160-163, da cui sono tratte le espressioni virgolettate.

 

 

 



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