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Editoriale

Carla Barbati, giurista del suo tempo

di Marco Cammelli [*]

Non è facile ricordare chi ci ha lasciato, ma con Carla Barbati (settembre 2023) è diverso perché il pensiero rivolto a lei ci rimanda l’immagine luminosa di un volto sorridente e determinato, di una energia forte, della apertura e disponibilità verso gli altri, di una solidità pronta a raccogliere sfide e impegni: alcune volte con decisione, altre con dolcezza, sempre con serietà e lealtà. Per questo con Carla è diverso ed è bello riandare ai tanti momenti, spesso condivisi, della sua vita di studi, di ricerca, di impegno nelle istituzioni. E questo vale anche per il suo ultimo anno di vita compresa la fase più dura. La parola, la franchezza, il senso di dignità e l’amore per la bellezza sono stati tali fino all’ultimo. Anche dopo, nel rito funebre che aveva scelto di persona precisandone anche i particolari: ricco di fede e di arte, semplice e privo del resto.

Per questo, per quello che è stata e per come ha intensamente vissuto il mondo dell’università, della ricerca e delle istituzioni (cioè, il nostro mondo), vorrei aggiungere qualche parola al ricordo che con grande affetto e garbo ne è stato fatto da altri [1], soffermandomi sulle ragioni per le quali negli anni la sua presenza e il suo apporto sono diventati (per noi e per tanti) sempre più significativi e riconosciuti. Fino a costituire, anche per l’impegno personale e diretto che vi ha profuso, un riferimento importante.

La sua vita professionale è stata particolarmente ricca e all’Università ne ha dedicato la gran parte, come professore ordinario di diritto amministrativo e nella attività didattica e di ricerca svolta presso gli atenei di Modena, Bologna, Venezia, Lecce e Milano, nelle sedi istituzionali in vario modo connesse, come presidente del Consiglio Nazionale Universitario (CUN) e dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo (AIPDA), nei molteplici modi paralleli e preziosi di confronto e dialogo tra colleghi, a partire dagli incontri del San Martino. Nell’autunno del 2021 è stata nominata consigliere di Stato continuando ad occuparsi, in altra sede e con altra veste, dei temi a cui ha dedicato l’intera attività scientifica e professionale.

Ma cominciamo dall’inizio e dalla solida formazione di base maturata come studentessa negli anni che l’hanno portata alla laurea [2] e dall’aver potuto contare su condizioni di contesto e di tempo (e di assenza di immediati e gravosi impegni didattici, oggi invece così anticipati e diffusi...) che le consentono di approfondire le basi del diritto pubblico insieme all’apertura ai colleghi degli altri atenei, ad altri apporti culturali anche non giuridici e a una decisiva (quasi un triennio) esperienza presso l’Università della Virginia in USA.

La sua disponibilità a vivere tutto questo in modo aperto (sensibilità e generosità intellettuale sono sue caratteristiche) e la sua esperienza mettono in evidenza i riferimenti di fondo, costanti e ben riconoscibili, della sua produzione scientifica tanto da farne, indipendentemente dall’ambito affrontato, il filo rosso per l’intensità con cui vi fa riferimento.

Da un lato il quadro dei principi costituzionali e in particolare il pluralismo come elemento costitutivo del principio democratico, del quale non si stancherà mai di declinare le diverse implicazioni: all’interno del sistema istituzionale e amministrativo, in termini di policentrismo; nelle relazioni tra poteri pubblici, privati e realtà socio-economiche, la cui accelerata trasformazione comporta estese innovazioni alle quali l’assetto esistente non sempre risponde in modo adeguato; nei mondi vitali della espressione culturale e artistica, e nella loro difficile convivenza della propria libertà e originalità con gli apparati, le regole e le risorse dei poteri pubblici.

Dall’altro i nuovi centri, sia le sedi sovranazionali come spazio autonomo e insieme necessario per le realtà nazionali sia i sistemi locali con l’inevitabile necessità di ripensare il centro statale, investito da profonde torsioni che ne fanno in più di un caso una dimensione troppo grande per i problemi piccoli e troppo limitata per quelli grandi. Un profilo questo ormai irrinunciabile per decifrare sia i problemi di sistema che le basi delle politiche pubbliche di settore (università compresa).

Infine, e di pari importanza, nel riflettere e nell’operare sulle istituzioni con la costante attenzione dedicata a quello che c’è “fuori”, vale a dire il contesto in cui operano, gli interessi pubblici e privati in campo e le aspettative dei singoli e dei soggetti sociali ed economici che ne fruiscono e vi si rivolgono, e a ciò che sta “sotto” al dato strettamente normativo, cioè il decisivo profilo dell’organizzazione, del personale pubblico, delle risorse. Elementi determinanti anche in termini giuridici nella valutazione dell’esistente e della solidità delle innovazioni introdotte o auspicate.

Una linea che Carla Barbati seguirà sempre ma che è applicata con particolare cura anche nell’ambito della cultura e dei poteri pubblici che vi operano, dal volume Istituzioni e spettacolo. Pubblico e privato nelle prospettive di riforma, Padova, Cedam, 1996 al capitolo Organizzazione e soggetti del Diritto del patrimonio culturale (Bologna, Il Mulino, 2020, II ed.), nella direzione della rivista Aedon (della cui nascita, nel 1998, è determinante madrina) insieme al gruppo composto oltre che da chi scrive, da Girolamo Sciullo, Lorenzo Casini e Giuseppe Piperata. Infine e con particolare evidenza nelle monografie, di cui ora seguiamo il filo conduttore.

Nella prima (Inerzia e pluralismo amministrativo. Caratteri, sanzioni, rimedi, Milano, Giuffrè, 1992) affronta il tema dei rimedi all’inattività degli apparati, cogliendone la particolare delicatezza dovuta al passaggio dalla dimensione interorganica propria degli apparati ministeriali, provvisti dai rimedi tradizionali riferibili al rapporto di gerarchia, a quella intersoggettiva tra autonomi livelli di governo, che di tali rimedi sono (e continuano a essere) sostanzialmente sprovvisti. Un tema quasi insolubile, se preso frontalmente e nelle modalità tradizionali, che Carla Barbati affronta dal lato più adeguato precisando l’accezione di inerzia rilevante, considerando gli elementi di contesto e la loro possibile utilizzazione a questo riguardo, articolando i rimedi in funzione del momento (precedente, concomitante o successivo rispetto all’inattività) nel quale farvi ricorso.

Nella seconda (L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, Il Mulino, 2002) sono ancora una volta i dati del contesto a risultare decisivi. In un sistema istituzionale avviato alla semplificazione, alle privatizzazioni, all’articolazione di centri decisionali aperti a più istanze e per questo chiamati alla differenziazione e diversificazione, risulta chiara la necessità di ricollocare in modalità nuove gli elementi funzionali e procedimentali dell’attività consultiva rispetto ai quali, più che l’atto, andranno privilegiati i temi connessi alla natura dei procedimenti cui l’attività consultiva afferisce e alle relazioni tra i soggetti a vario titolo coinvolti.

È così possibile porsi gli interrogativi più attinenti e attuali (a che cosa serve l’attività consultiva? cosa aggiunge e cosa toglie ai processi decisionali?) specie dopo decenni di semplificatoria banalizzazione di pareri e procedimenti senza distinzione tra atti di indirizzo o di gestione, e interrogarsi sul perdurante attualità della “neutralità” come carattere tipico della funzione consultiva.

Da sottolineare la ricchezza dell’angolo visuale prescelto e le implicazioni generate dal nuovo quadro istituzionale e amministrativo che Carla Barbati (il volume è del 2002, appena un anno dopo il varo della riforma del titolo V Cost.) immagina destinato a evolvere in modo profondo verso nuovi orizzonti: da unitario, monistico e centralizzato a fortemente articolato e basato su un ruolo centrale di indirizzo e di governo per ampi settori, affidati per il resto alla attuazione e messa in opera delle istituzioni rappresentative decentrate e agli attori sociali e economici locali. Il che impone di chiedersi, come in effetti viene fatto, quali siano le nuove modalità per assicurare al sistema (in questo caso, alla funzione consultiva) l’irrinunciabile unitarietà.

A Carla bastano pochi anni per accorgersi che queste prospettive di profondo mutamento, pur necessarie, spesso non trovano lo spazio prefigurato e le forze necessarie a sostenerne la realizzazione. Questo è chiaro già nel volume scritto a quattro mani con Giovanna Endrici (Territorialità positiva. Mercato, ambiente e poteri subnazionali, Bologna, Il Mulino, 2005), che pure parte dall’evidenza del ruolo giocato nelle dinamiche economiche dai sistemi locali e dalla reciproca loro competizione nello spazio europeo, di cui le disposizioni in materia del titolo V Cost. sono espressione e base su cui costruire un regime tutto da definire, per indicare l’utilità di un passo ulteriore ormai richiesto dalla presenza di nuovi soggetti sopra e sotto il livello statale centrale. Il che comporterebbe più centri in gioco e in particolare un centro statale diverso, senza omettere di considerare che il ruolo regionale potrà essere significativo anche per rivedere in meglio (cioè, in senso ampliativo) le condizioni minime di concorrenza fissate dallo Stato per le politiche pro-concorrenziali.

Le cose non sono andate così e del resto Carla Barbati ne era pienamente avvertita perché non aveva sottovalutato i segnali in senso contrario emersi già prima del 2001 e in particolare le resistenze regionali alle liberalizzazioni varate dal centro con il d.lg. 114/1998.

Ma aveva ragione nel denunciare da subito la torsione che stava portando a declinare il tema della concorrenza, di per sé esteso per dimensioni (mercato rilevante), ambito e varietà degli attori coinvolti (compresi gli enti pubblici locali, questi ultimi significativi non tanto nelle forme dirette, ma per essere decisivi in settori cruciali della competizione tra imprese europee come formazione professionale, mobilità, ambiente, sanità e altro), nella assai più limitata accezione di “tutela della concorrenza”. Una scelta dubbia per assolutezza del binomio presupposto (prossimità dei regolatori = pratiche protezionistiche), mancata comprensione degli strumenti indiretti appena ricordati e soprattutto poco convincente per l’incerta fermezza in materia proprio del centro (teoria della cattura?) e per la pluralità di nuovi centri: quelli potenziali, consentiti dalle soluzioni possibili (la differenziazione tra regioni, gli strumenti affidati agli accordi o alle altre forme di cooperazione) e quelli già in atto (Corte di giustizia dell’Unione europea, Antitrust), ma funzionale a fare della questione un gioco chiuso garantito dalla riserva allo Stato della tutela della concorrenza.

È l’avvio di un lungo cammino segnato dal disincanto rispetto alle possibilità intraviste all’inizio del secolo e dalla vigorosa sterzata centralizzatrice e conservatrice che, imposta dalle turbolenze economico-finanziarie sorte nel 2008 poi dalle crisi di ogni sorta dell’ultimo decennio, riduce significativamente le prospettive di innovazione nelle quali Carla Barbati e la sua generazione erano cresciute. Questo però non la scoraggia e la spinge a raddoppiare il proprio impegno all’interno del centro istituzionale, università e ministeri compresi, (Università, Cultura), per non lasciare inutilizzato nessuno spazio di possibile miglioramento e per acquisire ulteriori elementi di studio e di analisi. Forse è anche questa una delle ragioni che la portano negli ultimi anni al Consiglio di Stato.

In ogni caso, il volume dedicato all’università (Il sistema delle autonomie universitarie, Torino, Giappichelli, 2019) è la nitida e completa rappresentazione della parabola appena richiamata.

Qui il disincanto è pieno e dichiarato sia nella premessa che nelle conclusioni del volume, con particolare riguardo alla “grande riforma” della legge 240/2010 di cui vengono impietosamente messi in evidenza i limiti. Da un lato un legislatore “non sempre avvertito” delle implicazioni delle proprie scelte anche perché “impegnato a correggere le proprie azioni” finisce “con l’essere attento più a sé stesso che all’oggetto dei propri interventi”, oltretutto mettendo mano a riforme “per aggiunzione e per correttivi” così numerosi e continui da fare dell’Università “uno degli ambiti a più elevata e instabile regolazione”.

Dall’altro il capitolo delle timidezze degli atenei, dell’atteggiamento difensivo delle categorie accademiche e il loro intreccio ben poco virtuoso con l’horror vacui normativo e ministeriale di cui la griglia sempre più stretta dei gruppi disciplinari o le modalità di valutazione sono testimonianze esemplari. Il tutto aggravato da incertezze concettuali e di metodo: norme nuove aggiunte senza avvedutezza alle vecchie, strumenti e virtù gestionali (qualità, efficienza) trasformati da strumenti in obbiettivi, una accezione di autonomia che pur partendo dalla connessione tra formazione e ricerca non ne sviluppa le implicazioni (l’autonomia è differenziazione, ed è necessaria proprio per la necessità di assicurare il collegamento degli atenei con le realtà esterne, inevitabilmente diverse), perdendo così di vista il decisivo versante relazionale del concetto stesso di autonomia.

Con il risultato che organizzazione amministrativa e gestione contabile e del personale, valutazione della ricerca e della didattica, reperimento risorse finiscono irrigiditi nella morsa tra difesa di interessi settoriali e immutate logiche ministeriali. Ecco perché le ultime parole del volume, e di Carla Barbati su questo argomento, sono nel senso che occorre un centro capace di rinunciare ad intervenire con norme e invece “provvisto della forza di farsi sede di governo per politiche...atte a promuovere le autonomie nella loro soggettività relazionale, riconoscendone e valorizzandone le differenze...”, fino a concludere “È la grande sfida proposta da ogni decentramento, quella sovente persa per l’incapacità delle autonomie di farsi tali (la lunga storia delle autonomie non giocate..., N.d.A.) e del centro di aiutarle e sollecitarle ad essere tali” (p. 174).

Pur lasciando aperto qualche spazio a possibili recuperi e scelte più adeguate, non può esserci conclusione diversa né parole più severe, specie considerando la profonda conoscenza del sistema nazionale al centro e nelle realtà locali di cui Carla Barbati disponeva in base alla propria ricca esperienza in materia.

Ma non è la storia delle riforme tentate o mancate quello che qui interessa, ma il lungo percorso di una giurista di grandi capacità e di altrettanta grande generosità personale che fin dall’inizio ha scelto l’Università e le istituzioni della cultura e della ricerca dedicando a queste l’impegno di un’intera vita professionale vivendone senza incertezze le stagioni, le speranze e le difficoltà.

Non è mai mancata la luce. Per questo sentiamo Carla Barbati così vicina.

Per questo non smetterà di mancarci.

 

Note

[*] Marco Cammelli, emerito di Diritto amministrativo dell’Università di Bologna, Via Zamboni 33, 40126 Bologna, marco.cammelli@gmail.com.

[1] Aldo Sandulli, in Rassegna Astrid, 9/9/2023; Franco Bassanini, in astrid news@astridnews, 6/9/2023; Giuseppe Piperata, in Aedon, 2023, 2.

[2] Ne posso parlare liberamente perché l’ho conosciuta subito dopo: Carla Barbati si laurea a Modena in diritto ecclesiastico con Luciano Guerzoni nel 1983, mentre chi scrive viene chiamato qualche mese dopo.

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