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I beni culturali nel nuovo codice dei contratti pubblici

La verifica preventiva dell’interesse archeologico

di Silia Gardini [*]

Sommario: 1. La necessità di una tutela anticipatoria del patrimonio archeologico. - 2. La disciplina operativa contenuta nel nuovo Codice dei contratti pubblici. - 3. Il bene archeologico come bene “ambientale”. Spunti di riflessione per una tutela estesa del patrimonio archeologico e lo sviluppo (sostenibile) dei territori. - 4. Una considerazione conclusiva.

The preliminary verification of archaeological interest
The essay analyses the Preliminary verification of archaeological interest, regulated by the new Public Contract Code, D.lg. 31 marzo 2023, n. 36. The regulation safeguards the archaeological heritage, especially regarding the so-called “archaeological risk”, also in order to ensure the speed and certainty of public works.

Keywords: archaeological interest; preventive archaeology; archaeological heritage; public works.

1. La necessità di una tutela anticipatoria del patrimonio archeologico

L’istituto della verifica preventiva dell’interesse archeologico si riconnette alla necessità di valutare - su aree non sottoposte a vincolo culturale ministeriale - il rischio di danneggiamento che la realizzazione di opere pubbliche potrebbe causare a stratificazioni e depositi archeologici. La particolarità del procedimento, trattandosi di uno strumento di natura preventiva e cautelare, sta nell’anticipazione della soglia di tutela ad un momento in cui il bene che ne è oggetto non è stato ancora individuato e qualificato come bene culturale: è, anzi, proprio la programmazione dell’opera pubblica a porsi come occasione di “disvelamento” di beni che, in mancanza di quella ipotizzata attività di trasformazione urbana, potrebbero non essere mai soggetti e tutela [1].

Si tratta di una necessità che era stata espressa dai vertici ministeriali italiani, con grande lungimiranza, già nel 1865. Una circolare inviata quell’anno dal ministro della Pubblica istruzione a tutti i prefetti si era, infatti, preoccupata di dettare alcune regole per il recupero degli eventuali ritrovamenti effettuati nel corso della realizzazione di pubblici lavori, esprimendo la necessità che essi non fossero sottratti e venduti per soddisfare “l’avarizia e l’ignoranza de’ condottori di lavori” [2]. La disciplina della verifica preventiva dell’interesse archeologico ha trovato, tuttavia, formale fondamento giuridico soltanto nella “Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico” del Consiglio d’Europa del 1992 (c.d. Convenzione di Malta) [3], che - nel prevedere la partecipazione diretta dell’archeologo alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione, conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico - stabilisce altresì il dovere per gli stati sottoscrittori di tutelare le “riserve archeologiche”, anche in assenza di evidenze sul territorio (art. 2), di modificare “i progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio archeologico” (art. 5, lett. ii) e di adottare “le disposizioni utili affinché in occasione di grandi lavori di riassetto pubblico o privato sia prevista (...) la copertura completa del costo di ogni necessaria operazione archeologica connessa a questi lavori” (art. 6). In sostanza, partendo dall’assunto che il patrimonio archeologico costituisce una risorsa finita e non rinnovabile, la Convenzione fissa la necessità che ogni scavo, in quanto operazione fisiologicamente distruttiva, sia condotto in modo da conservare la maggior parte delle informazioni potenzialmente custodite nel sottosuolo.

L’Italia ha ratificato la Convenzione di Malta solo nel 2015. Ben prima della ratifica era stato, però, predisposto un impianto regolamentativo della materia, a partire dalla prassi che prevedeva la facoltà per le soprintendenze di prescrivere discrezionalmente indagini archeologiche in fase di progettazione delle opere pubbliche [4]. In generale, in tutti i casi in cui era plausibile il rischio di imbattersi in rinvenimenti archeologici, gli stessi committenti di lavori pubblici - per scongiurare la possibile emanazione di un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori, con conseguente ritardo nella realizzazione delle opere - pur in mancanza di specifiche disposizioni di legge, si rendevano disponibili allo svolgimento di uno scavo archeologico preventivo. Antecedentemente al Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’amministrazione di tutela avrebbe potuto, infatti, formalmente intervenire soltanto se, a lavori iniziati, le fosse pervenuta una segnalazione di rinvenimenti: in tal caso il soprintendente aveva il potere di emanare un provvedimento cautelare di sospensione dei lavori al quale avrebbe dovuto far seguito, entro sessanta giorni, il provvedimento di vincolo [5].

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel 2004 ha regolamentato l’istituto all’art. 28, comma 4, dunque nell’ambito della sezione I del Capo III, dedicata alle misure di protezione dei beni culturali. La norma è stata, poi, ripresa dal Codice degli appalti nel 2006 (d.lg. n. 163, artt. 95 e 96) [6], trasfusa con alcune modifiche non particolarmente rilevanti nel Codice del 2016 (d.lg. n. 50/2016) e attualmente riformulata dal nuovissimo Codice dei contratti pubblici, il d.lg. 31 marzo 2023, n. 36.

Il tema, dunque, risulta affrontato dal legislatore da un duplice punto di vista: uno più propriamente “culturale”, che qualifica l’istituto in esame come azione specifica di tutela (protezione) del patrimonio archeologico; e uno di natura tecnica, focalizzato sulla sua disciplina procedurale, dal punto di vista delle amministrazioni/stazioni appaltanti.

Sotto il primo profilo, l’art. 28, comma 4 Cod. b.c.p., con una norma non particolarmente dettagliata, prevede il potere del soprintendente di richiedere, a spese del committente, l’effettuazione di “saggi archeologici preventivi” - che sono dei sondaggi preliminari del suolo, di solito prodromici allo scavo, effettuati attraverso tecniche differentemente invasive (come le prospezioni geofisiche, quali georadar e geomagnetismo o i carotaggi) - su aree che presentino un interesse archeologico, anche non ancora formalmente accertato.

L’ambito elettivo di applicazione della norma è quello delle aree non assoggettate a vincolo. Nei casi in cui l’area fosse già vincolata, la possibilità di richiedere interventi esplorativi sarebbe, infatti, ricompresa nella generale potestà autorizzatoria disciplinata dall’art. 21 del Codice, finalizzata alla previa valutazione della compatibilità con le esigenze di tutela di qualsivoglia intervento manipolativo sul bene culturale. Di conseguenza, l’“area archeologica” richiamata dall’art. 28 Cod. b.c.p. non può essere né riferita al bene culturale (trattandosi di fasce territoriali non sottoposte a vincolo), né intesa come “sito” in senso tecnico, poiché non ne è neppure richiesto che vi sia traccia materiale di manufatti archeologici. Essa si presenta, piuttosto, come area “comune” su cui - all’esito di un giudizio discrezionale della Soprintendenza Abap - si ravvisa la ragionevole possibilità di rinvenire reperti archeologici e, dunque, un interesse archeologico meramente potenziale. Il livello di rilevanza di tale interesse può intendersi in termini simili e quello che giustifica l’occupazione temporanea del terreno ai sensi dell’art. 88, comma 2 del Codice, che emerge laddove l’esistenza del deposito archeologico non sia supportata da elementi scientifici o sia del tutto ignota la consistenza delle sue dimensioni.

L’ambito di applicazione della norma è molto ampio e non sono mancate in dottrina osservazioni relative alla problematicità che essa pone in un territorio ad altissima densità archeologica, come quello italiano “che non risparmia neanche un metro quadrato al ritrovamento di elementi riconducibili a precedenti civiltà”, dimostrandosi “quale freno notevole delle opere pubbliche ovvero, nella migliore delle ipotesi, quale fattore di lievitazione dei relativi costi a carico della collettività” [7]. Nondimeno, essa - al di là della intrinseca finalità di tutela delle riserve archeologiche - serve a scongiurare il rischio che, a seguito di eventuali rinvenimenti nel corso dell’esecuzione di lavori, si rendano necessarie modifiche significative alle opere in atto o addirittura si determini l’interruzione dei lavori [8]. L’emergere della possibilità che nell’area individuata per la realizzazione dell’opera pubblica possano essere rinvenuti beni archeologici potrebbe, infatti, suggerire alla stessa stazione appaltante una variante di progetto o, addirittura, una diversa localizzazione dell’opera stessa, sia al fine di non vedersi addossate le spese per l’esecuzione della procedura, sia per evitare il successivo rallentamento dei lavori.

In definitiva, la norma esprime una doppia anima, che la pone a tutela non soltanto del patrimonio archeologico sepolto, ma anche della migliore fattibilità dell’opera pubblica programmata.

2. La disciplina operativa contenuta nel nuovo Codice dei contratti pubblici

Il procedimento di svolgimento della verifica preventiva dell’interesse archeologico, comunemente indicata anche come “archeologia preventiva”, è stato riformato dal d.lg. 31 marzo 2023, n. 36, che ha introdotto il nuovo Codice dei contratti pubblici. Coerentemente con l’impianto innovativo ed auto-esecutivo della recente codificazione [9], la disciplina in esame è interamente contenuta - con rinvio operato dall’art. 41, comma 4 - in un apposito allegato (Allegato I.8, rubricato “Verifica preventiva dell’interesse archeologico”) e non necessità di ulteriori regolamenti attuativi.

Leggendo l’art. 28, comma 4 Cod. b.c.p., erroneamente si potrebbe pensare che l’ambito di operatività dell’archeologia preventiva coincida con la sola prescrizione di saggi archeologici. In realtà il terreno applicativo dell’istituto è ben più ampio, poiché contempla anche altre attività (pre e post-intervento) articolate in un procedimento complesso, che può essere sostanzialmente suddiviso in tre fasi, connotate da un progressivo livello di approfondimento dell’indagine svolta.

La prima fase - indicata come “verifica di assoggettabilità” - si condensa nelle indagini archeologiche preliminari volte a verificare la sussistenza del rischio di rinvenimenti archeologici nell’area in cui si prospetta l’intervento infrastrutturale. Tali indagini sono compiute da un dipartimento universitario di archeologia o da un archeologo professionista in possesso di diploma di laurea e specializzazione o di dottorato di ricerca in archeologia [10], nei tempi concordati con la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio.

La fase di studio preventivo è estremamente importante, poiché si traduce nella redazione di una carta del potenziale archeologico dell’area circoscritta che diviene parte integrante della progettazione dell’opera sin dalle sue primissime fasi elaborative, nonché base di partenza per la realizzazione dei successivi accertamenti.

Con il nuovo Codice è stata prevista la semplificazione dei livelli di progettazione delle opere, che diventano due (rispetto ai tre della precedente disciplina): progetto di fattibilità tecnico-economica e progetto esecutivo. L’allegato I.7 definisce i contenuti dei due livelli di progettazione [11] e stabilisce il contenuto minimo del quadro delle necessità e del documento di indirizzo della progettazione che le stazioni appaltanti e gli enti concedenti devono predisporre. La carta della potenzialità archeologica costituisce uno degli elaborati del progetto di fattibilità dell’opera espressamente richiamati dall’art. 12 dell’allegato I.7 del d.lg. 31 marzo 2023, n. 36.

Le evidenze archeologiche del territorio - con la mappa tematica archeologica, ove esistente e i vincoli di settore, ove pertinenti - devono essere preventivamente rappresentate anche nel Documento di fattibilità delle alternative progettuali (Docfap, art. 2, commi 2 e 4, allegato I.7) ed anche la relazione tecnica allegata al progetto di fattibilità tecnico-economica dell’opera, “salvo diversa motivata determinazione della stazione appaltante”, deve essere corredata da un apposito studio sugli aspetti archeologici, con descrizione di sviluppi ed esiti della verifica preventiva dell’interesse archeologico (art. 8, comma 3 allegato I.7).

Le indagini archeologiche preliminari, così realizzate, devono essere trasmesse, unitamente al progetto di fattibilità tecnico-economica dell’opera - nel quale si deve dare espressamente conto della eventuale interferenza delle azioni in esso contenute con il patrimonio archeologico (art. 6, comma 4, lett. d, allegato I.7) - al soprintendente competente ratione loci, aprendo così la seconda fase della procedura in esame, che consiste nella valutazione da parte della stessa soprintendenza della sussistenza di un interesse archeologico sull’area.

La valutazione tecnico-discrezionale del soprintendente [12] si basa sugli elementi contenuti nella relazione, nonché sulle “ulteriori informazioni disponibili” (art. 1, comma 4, allegato I.8). Si tratta, a ben vedere, della documentazione che già si trova a disposizione del ministero, tra cui rientrano anche le elaborazioni cartografiche (c.d. carte archeologiche) predisposte dagli enti territoriali, nonché le banche dati direttamente gestite dal ministero. La documentazione preventiva sul potenziale archeologico dell’area viene, infatti, redatta per mezzo di un apposito template predisposto dall’Istituto centrale per l’archeologia e confluisce sul Geoportale nazionale per l’archeologia (Gna), in modalità open access.

Una delle principali novità introdotte dalla recente disciplina codicistica sta nel fatto che il soprintendente comunica l’esito della verifica di assoggettabilità in sede di conferenza di servizi [13]. Tra le semplificazioni procedurali introdotte dal nuovo Codice dei contratti pubblici rientra, infatti, la previsione dell’articolo 38, a mente del quale l’approvazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica nonché della localizzazione dell’opera, viene attuata nell’ambito di una conferenza di servizi semplificata (art. 38, comma 3, d.lg. n. 36/2023). Nel corso della stessa conferenza è acquisita e valutata, dunque, anche l’assoggettabilità dell’opera alla verifica preventiva dell’interesse archeologico e alla valutazione di impatto ambientale (art. 38, comma 8, d.lg. n. 36/2023).

Qualora, a seguito della valutazione su base documentale, il soprintendente non ritenga sussistente un interesse rilevante, in ragione di un rischio archeologico basso, molto basso o nullo, all’esito negativo della verifica - comunicato sempre in sede di conferenza di servizi - possono comunque accompagnarsi eventuali ulteriori prescrizioni, in particolare l’obbligo di sorveglianza archeologica dei lavori in corso d’opera (art. 1, comma 5, allegato I.8). In tali casi, a ben vedere, pur non riscontrandosi una rilevanza archeologica tale da proseguire gli accertamenti, è consentito all’amministrazione ministeriale di disporre misure più blande di controllo, ai fini di tutela.

Diversamente, laddove si rilevi la probabile esistenza di un deposito archeologico da tutelare, la soprintendenza richiede - con atto motivato ed entro trenta giorni dal ricevimento del progetto di fattibilità - l’avvio della vera e propria procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico. Il termine può essere esteso a sessanta giorni per le grandi opere infrastrutturali ed è prorogabile per non più di quindici in caso di necessità di approfondimenti istruttori o integrazioni documentali. Dal momento che le indagini preliminari non consentono di pervenire in nessun caso ad una valutazione in grado di escludere con adeguata certezza un rischio archeologico, nella prassi il soprintendente non rinuncia quasi mai alla richiesta di un approfondimento documentale. In dottrina è stata, in proposito, rilevata l’opportunità che la richiesta di proroga sia accompagnata da un’adeguata motivazione, in ossequio al principio di leale collaborazione procedimentale e “quale declinazione del principio generale di buon andamento, per consentire alla stazione appaltante di soddisfare la richiesta in maniera adeguata”, a maggior ragione se la stessa è stata presentata a ridosso della scadenza del termine utile per la decisione [14].

La procedura di verifica preventiva è diretta dalla Soprintendenza e deve concludersi nel termine perentorio di novanta giorni, mentre gli oneri finanziari sono a carico della stazione appaltante, secondo il principio - espresso anche dalla Convenzione di Malta - del developer pays, sulla base dell’equiparazione delle risorse archeologiche a quelle naturali, in particolare nello status comune di “non rinnovabilità”. Il “danno” arrecato dal costruttore alla comunità per la perdita dei beni archeologici è compensato e mitigato dal dovere di pagare quanto necessario per la loro salvaguardia.

La previsione di un esatto termine di legge entro il quale svolgere gli accertamenti è una novità della recente normativa. Precedentemente, infatti, la determinazione del termine era rimessa - con esiti eterogenei - a una valutazione del tutto discrezionale del soprintendente, parametrata sull’estensione dell’area interessata dalla verifica. L’innovazione, sebbene non siano mancate voci critiche in dottrina sulla stessa esistenza, in tale contesto, di un termine “procedimentale” [15], appare molto positiva, poiché circoscrive in un ambito temporale ragionevole la vigenza della “condizione archeologica sospensiva” all’avvio dei lavori, a favore dell’amministrazione committente, della ditta esecutrice e, a valle, della stessa collettività a cui è destinata l’opera da realizzare.

La verifica consiste in concreto nel compimento - in ottica accrescitiva e proporzionalmente al livello di “rischio archeologico” rilevato - di carotaggi, prospezioni geofisiche e geochimiche, saggi archeologici e, ove necessario, di sondaggi e di scavi, in un’estensione tale da assicurare la sufficiente campionatura dell’area interessata dai lavori. Da un punto di vista operativo, per lo svolgimento di tali attività non si ricorre allo strumento della concessione di ricerca. La riserva ministeriale viene, in tal caso, assolta grazie alla presenza di un funzionario archeologo che assume la direzione scientifica dei lavori, mentre l’esecuzione materiale dello scavo viene affidata a operatori variamente inquadrati (liberi professionisti, dipendenti o soci di società specializzate, cooperative archeologiche), in possesso di specifiche qualifiche individuate con decreto ministeriale [16].

La normativa precedentemente vigente, non confermata dal nuovo Codice, consentiva alla Soprintendenza di stipulare, in tale sede, accordi con la stazione appaltante per disciplinare “forme di coordinamento e di collaborazione” [17]. In particolare, l’accordo poteva essere finalizzato a semplificare la procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico in ogni sua fase, prevedendo la riduzione della documentazione richiesta, l’unificazione delle fasi di ricerca diretta e ogni altra misura di semplificazione ritenuta idonea, nonché a concordare forme di diffusione dei risultati di ricerca. Questa previsione è stata espunta dalla disciplina del d.lg. n. 36/2023, rendendo di fatto inapplicabili anche le linee guida ministeriali adottate con d.p.c.m. 14 febbraio 2022 poco prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice [18], che ne contengono una disciplina più dettagliata.

La terza e ultima fase della procedura riguarda la predisposizione della relazione di verifica preventiva dell’interesse archeologico (nota con l’acronimo Vpia, ex Viarch), contenente i risultati delle indagini e le relative prescrizioni e approvata dal soprintendente.

Dalla Vpia possono emergere tre distinti scenari: 1) lo scavo esaurisce le esigenze di tutela, l’area si può ritenere libera da evidenze archeologiche ed i lavori possono essere avviati; 2) i contesti appaiono non unitari e scarsamente conservati e, al fine di garantire la realizzazione dell’opera in progetto, è necessario che le strutture rinvenute a seguito delle indagini siano rinterrate oppure smontate/rimontate e musealizzate, a condizione dell’assenza di reperti leggibili come complesso strutturale unitario; 3) dagli accertamenti emerge la necessità della messa in sicurezza e dell’integrale mantenimento dei reperti in situ, da cui discende la necessità di varianti, anche sostanziali, al progetto di fattibilità ovvero, in casi di assoluta incompatibilità dell’opera in progetto con il contesto, l’espressione di un parere negativo alla prosecuzione dei lavori.

Nel primo caso, la procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico si considera chiusa con esito negativo e viene accertata l’insussistenza dell’interesse archeologico nell’area interessata dai lavori. Nella seconda ipotesi, la soprintendenza provvede a determinare le misure necessarie ad assicurare la conservazione e la protezione dei rinvenimenti archeologicamente rilevanti, salve le misure specifiche di tutela eventualmente da adottare ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio in relazione a singoli reperti o al loro contesto. Nel terzo caso, il ministero avvia il procedimento di dichiarazione di interesse culturale, di cui agli articoli 12 e 13 del Codice e le prescrizioni sono incluse nei provvedimenti di assoggettamento a tutela dell’area.

In ogni caso in cui l’opera venga portata a compimento, le misure volte ad assicurare la conservazione e la protezione dei rinvenimenti archeologici rilevanti connessi ai lavori (individuate dalla soprintendenza) sono riversate anche nel “Piano di manutenzione” (art. 27, comma 1, allegato I.7), documento complementare al progetto esecutivo che prevede, pianifica e programma l’attività di manutenzione nel tempo di quanto realizzato.

Come sopra accennato, le procedure di archeologia preventiva sono obbligatorie solo nel caso di opere pubbliche. In tutti gli altri casi, rimane operativo - in via residuale - il potere della soprintendenza di inibire o sospendere “a cantiere aperto” i lavori, anche quando non siano ancora intervenute sull’area dichiarazione o verifica dell’interesse culturale (art. 28, comma 2 Cod. b.c.p.) [19]. Per i lavori di scavo previsti da soggetti privati l’unica forma di tutela preventiva deriva dalla virtuosa mediazione delle amministrazioni comunali, che in molti casi hanno utilizzato i poteri autonomi loro conferiti in campo di programmazione urbanistica per disporre che gli interventi di scavo localizzati in aree di presunto interesse archeologico siano sottoposti a visto preventivo da parte della soprintendenza [20]. Si tratta di un “peccato originario” - pressoché unico in Europa.

Tendenzialmente, infatti, le altre normative europee prevedono un sistema in cui le operazioni di archeologia preventiva sono regolate da un rapporto di tipo privatistico fra un developer (il realizzatore dell’opera) ed un archaeological contractor o consultant (il professionista archeologo), mentre compito della Authority (che corrisponde alla soprintendenza italiana) è, da un lato, di porre condizioni e prescrizioni necessarie per l’ottenimento dei permessi (compliance) e, dall’altro, di diffondere standard operativi e verificarne l’adesione da parte del contractor o consultant.

3. Il bene archeologico come bene “ambientale”. Spunti di riflessione per una tutela estesa del patrimonio archeologico e lo sviluppo (sostenibile) dei territori

Gli studi di urbanistica e geografia ci spiegano che esiste sempre una discrepanza temporale fra “territorio” e “territorialità” [21]: il territorio non è mai completamente contemporaneo alla territorialità in azione, poiché esso è il prodotto di configurazioni precedenti e, potenzialmente, anche di configurazioni successive, con cui le attuali si trovano a dialogare.

La tensione tra ciò che il territorio è stato e il suo “divenire” rappresenta il punto di incontro strategico tra gli obiettivi tradizionali della tutela archeologica, le necessità di sviluppo territoriale e i doveri di solidarietà intergenerazionale. Il patrimonio archeologico, che è elemento necessario alla conservazione e trasmissione della memoria collettiva, rappresenta - in tale ottica - un indispensabile passaggio di testimone fra generazioni [22]. Al contempo, però, in quanto risorsa finita, non rinnovabile e suscettibile di rapido esaurimento, diventa elemento “sensibile” del territorio, che non può ridursi nella dimensione di una sua singola territorialità.

Tale condizione, sommata alla connessione necessaria che esiste tra lo sviluppo e la modifica infrastrutturale dei territori e la potenziale distruzione di quanto non ancora rinvenuto (“ogni scavo archeologico è, in sé, un atto di distruzione”), induce a qualificare il bene archeologico alla stregua di un bene ambientale, con tutto ciò che consegue in termini di ampliamento della tutela (anche preventiva) e di applicazione strutturale di principi chiave della materia, come il principio dello sviluppo sostenibile e il principio di precauzione.

Come si è visto, l’archeologia preventiva viene disciplinata fugacemente dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, mentre il Codice dei contratti pubblici se ne occupa esclusivamente da un punto di vista tecnico-procedurale. L’associazione ai beni ambientali non appare, tuttavia, azzardata, poiché trova riscontro, oltreché in ragioni di logica giuridica, anche sul piano del diritto positivo attraverso un doppio canale, internazionale e comunitario [23].

Innanzitutto, a seguito della ratifica della Convenzione di Malta, avvenuta nel 2015, è stato introdotto nel nostro ordinamento il principio - poi recepito dallo stesso Codice dei contratti pubblici, anche nella sua più recente versione - per il quale il “committente” dei lavori che incidono sul territorio (in Italia esclusivamente la stazione appaltante; in ambito internazionale, qualsiasi soggetto che svolga dei lavori di rimaneggiamento del suolo, indicato con il termine “developer”) deve considerarsi responsabile (economicamente) dell’attività di tutela. Così facendo è stata, di fatto, posta in essere l’estensione al settore in esame del polluter pays principle, ovvero del principio del “chi inquina paga”, ponendo sullo stesso piano i due livelli di tutela.

Il concetto del polluter pays principleè stato elaborato in seno all’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse) nel 1972 ed è considerato uno dei pilastri della legislazione internazionale in materia ambientale, ribadito nel 1992 nella Dichiarazione di Rio de Janeiro e accolto in seno allo stesso Trattato costitutivo dell’Unione Europea. Se la legge obbliga i committenti a finanziare la tutela archeologica, i costi relativi rientrano automaticamente nel computo economico delle opere e diventano elemento costitutivo della stessa documentazione progettuale, al pari di quelli ambientali. Il quadro economico, con riferimento al costo complessivo dell’opera o dell’intervento, è infatti articolato anche nelle somme che devono essere poste a disposizione della stazione appaltante al fine delle “spese per la verifica preventiva dell’interesse archeologico, di cui all’articolo 41, comma 4, del codice” (art. 5, comma 1, allegato I.7).

Un ruolo essenziale è giocato, poi, a livello europeo dalla direttiva 2014/52/UE che - all’allegato IV, punto 4 - ricomprende espressamente le preesistenze archeologiche tra gli aspetti da includere nelle valutazioni di impatto ambientale dei progetti pubblici e privati [24].

Questa previsione trova conforto nell’articolo 38 del nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lg. n. 36/2023, laddove si prevede che l’assoggettabilità dell’opera alla verifica preventiva dell’interesse archeologico (Vipia) e alla valutazione di impatto ambientale (Via) viene valutata contestualmente, in seno alla conferenza di servizi volta all’approvazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica e della localizzazione dell’opera stessa. In maniera ancor più incisiva, l’allegato I.7 del Codice, nel disciplinare nel dettaglio l’articolazione del Progetto di fattibilità tecnico-economica dell’opera, prevede la necessità che esso individui “misure di mitigazione e compensazione dell’impatto ambientale e sui contesti archeologici”, associando ulteriormente i due ambiti. Sulla stessa linea, il nuovo Codice dei contratti pubblici prevede che lo Studio di impatto ambientale (Sia) dell’opera pubblica progettata debba necessariamente contemplare anche la stima dei costi per la realizzazione degli interventi di conservazione, protezione e restauro del patrimonio archeologico (art. 10, comma 3, lett. h, allegato I.7, d.lg., n. 36/2023).

D’altro canto, l’approccio alla questione ambientale è necessariamente di natura olistica. La stessa declinazione del principio dello sviluppo sostenibile - all’insegna dei principi di precauzione, di prevenzione e di integrazione - implica che, tanto nella fase programmatoria, quanto in quella di attuazione, le azioni volte alla tutela dell’ambiente in senso stretto debbano integrarsi con quelle intraprese allo scopo di conseguire altre rilevanti utilità che emergono in ambiti differenti, ma ad esso in vario modo connessi [25].

Anche alla luce di tale considerazione, si comprende il ruolo strategico che, nel settore dei lavori (esclusivamente pubblici, per quanto riguarda l’Italia), deve essere riconosciuto a quella che in ambiente anglosassone viene definita developement-led archaeology [26], ovvero un’archeologia che si esercita non con il solo scopo primario di ricerca, ma che si proietta - in ottemperanza ad un obbligo di legge - nell’alveo delle azioni di sviluppo territoriale e urbanistico. Sviluppo che, alla luce delle riflessioni sopra esposte, non può che essere inteso in chiave sostenibile, favorendo la predisposizione delle opere in modo tale da ridurre il più possibile il consumo di suolo archeologico.

Quello del “consumo di suolo” è un tema di grande attualità e interesse [27] e, in ragione delle sue implicazioni pluriprospettiche, cristallizzate anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), può essere qualificato come “superinteresse”, associato alla soddisfazione di interessi eterogenei che insistono sul territorio, da tutelare a beneficio delle generazioni presenti e future [28]. La Missione 2 del Pnrr, dedicata a “Rivoluzione verde e transizione ecologica” - che concentra in sé le principali linee di intervento con implicazioni ambientali, anche con riferimento alla tutela del territorio - menziona espressamente e più volte il tema del contrasto al consumo del suolo, indicando tra le misura da intraprendere l’adozione di un’apposita legge nazionale, che ponga le basi per l’azione pubblica in materia [29].

L’occasione potrebbe essere propizia per la previsione di una disciplina dedicata, nello specifico, al consumo di suolo archeologico, attraverso cui inserire - come richiesto dalla comunità internazionale - una regolamentazione del settore che meglio garantisca, in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, il bilanciamento tra sviluppo territoriale e rispetto della risorsa archeologica, in uno scenario di equità intergenerazionale. Una soluzione in tal senso potrebbe essere la previsione dell’intervento - in maniera stabile e organica - di figure professionali specializzate nella cabina di regia della pianificazione territoriale e della programmazione delle opere [30]. Ciò anche al fine di mediare fra due esigenze - progettazione e tutela - che legittimamente si fronteggiano, spesso determinando scelte e selezioni oppositive.

In tal modo, sarebbe possibile trasformare la tutela dei “materiali” archeologici da istituto posto a valle dell’azione pubblica o demandato alla sensibilità dei pianificatori locali, in un’azione essenzialmente programmatica e di ampio raggio. La stessa tutela sarebbe percepita, in tal modo, come ingranaggio necessario - e non più come limite, anche solo temporale - del meccanismo di trasformazione (sostenibile) del territorio.

4. Una considerazione conclusiva

Si ritiene, in conclusione, che l’archeologia debba essere considerata una questione “ambientale”, poiché la documentazione della storia umana è una risorsa non rinnovabile e la sua distruzione rappresenta un danno grave per le generazioni presenti e future.

Il principio dello sviluppo sostenibile conferisce rilevanza centrale, in senso protezionista, al concetto di “limite”: i beni disponibili devono, così, essere utilizzati a condizione che non venga compromesso il diritto delle generazioni future di avvalersi di altrettante risorse [31]. Questo profilo che risulta ancor più rilevante se si considera che una corretta strategia di gestione e tutela del patrimonio archeologico può diventare, a lungo termine, motore propulsivo di sviluppo dell’intero territorio.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, uno dei più insigni studiosi di archeologia classica, richiamando il noto principio codificato da Wheeler [32] ha scritto che “ogni scavo distrugge una documentazione accumulatasi in millenni. Perciò questa documentazione deve esser rilevata, via via che viene alla luce e che viene asportata, con estrema esattezza, in modo che la situazione originaria di ogni minimo oggetto reperito possa essere in qualunque momento ricostruita a tavolino e interpretata, anche a distanza di anni, da altri studiosi, sotto nuovi punti di vista” [33]. Ogni intervento sul territorio determina potenzialmente la compromissione di un insieme unico, consolidato dal tempo. La stessa politica di tutela può comportare, dunque, delle perdite e tale particolare condizione richiede la massima cautela nella gestione di tutte le attività che incidono direttamente o indirettamente sul patrimonio archeologico.

A tal fine non basta più agire in risposta all’evento, ovvero a seguito della “minaccia” rappresentata dal potenziale avvio di un’opera pubblica: l’archeologia preventiva non può ridursi, in altre parole, ad archeologia dell’emergenza, ma richiede di focalizzare l’attenzione sulla conoscenza strutturata dell’ambiente archeologico, già in fase di pianificazione e programmazione. Ciò non vuol dire tutelare indistintamente tutto ciò che si trova nel sottosuolo. Come è stato correttamente affermato, in nome di una conoscenza sterile e fine a sé stessa non si può fermare il mondo; al contempo, però, in nome di uno sviluppo “senza idee e senza cuore” non si può rubare la memoria agli abitanti del pianeta [34]. In mezzo c’è un negoziato sociale, che è culturale ed economico al tempo stesso, quindi efficace quando non realizza la contrapposizione di due campi che potrebbero trovare a monte un punto di equilibrio.

La matrice di doverosità e il sostrato di tutela intergenerazionale che condividono patrimonio archeologico e ambiente, impongono, allora, la necessità di prediligere scelte che - sia a livello legislativo che in ambito esecutivo - restituiscano una visione d’insieme del contesto e siano in grado di assicurare un uso realmente sostenibile e precauzionale delle risorse, senza per questo penalizzare lo sviluppo territoriale.

In questa direzione, due azioni risultano fondamentali. La prima consiste nella qualificazione formale del bene archeologico alla stregua di un bene ambientale, con la sua conseguente sottoposizione ai precetti dello sviluppo sostenibile [35]. In tal senso, la centralizzazione di una “sostenibilità archeologica”, richiederebbe azioni calibrate non soltanto sul riconoscimento strategico dell’importanza della risorsa, ma anche e soprattutto sulla considerazione della sua limitatezza e non riproducibilità.

La seconda, corollario della prima, richiede la migliore implementazione tanto della pianificazione archeologica (articolata, in particolar modo, nella predisposizione accurata di una cartografia del “rischio”), quanto degli strumenti che oggi rientrano nella sfera della c.d. archeologia preventiva, al punto da considerare entrambi gli istituti come elementi essenziali di qualsivoglia politica strategica posta in chiave di sviluppo del territorio.

 

Note

[*] Silia Gardini, ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università degli studi “Magna Græcia” di Catanzaro, Viale Europa, 88100 Catanzaro (CZ), silia.gardini@unicz.it.

[1] Per un inquadramento dottrinale dell’istituto, cfr. A.L. Tarasco, Art. 28, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, pag. 363 ss.; A. Roccella, Art. 28, La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2000, pag. 126 ss. Dal punto di vista della dottrina archeologica, si veda P. Güll, Archeologia preventiva. Il Codice appalti e la gestione del rischio archeologico, Palermo, 2015, passim.

[2] Cfr. P.G. Guzzo, Ostacoli per una legislazione nazionale della tutela dell’archeologia dopo l’Unità, in Mélanges de l'École française de Rome, 2001, pagg. 539 ss. Fu questo un passaggio cruciale per la regolamentazione giuridica dell’archeologia, poiché diede avvio ad un inquadramento “ambientale” dell’attività di scavo, che si manifestava anche nella sua stretta connessione - tutt’oggi centrale - con l’attività urbanistica.

[3] Consiglio d’Europa, Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico, La Valletta, 16 gennaio 1992, ratificata con legge 29 aprile 2015, n. 57. Cfr. A. Roccella, L’adesione dell’Italia alla Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico (La Valletta, 1992), in Archeologia classica e post-classica tra Italia e Mediterraneo. Scritti in ricordo di Maria Pia Rossignani, (a cura di) S. Lusuardi Siena, C. Perassi, F. Sacchi, M. Sannazaro, Milano, 2016, pag. 561 ss.

[4] Cfr. M.C. Spena, Art. 28 - Misure cautelari e preventive, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone e A.L. Tarasco, Padova, 2006, pag. 295 ss.

[5] Cfr. A. Roccella, La verifica preventiva dell’interesse archeologico nella normativa vigente, in Riv. trim. app., 3/2019, pag. 789 ss.

[6] Invero, la disciplina procedimentale fu originariamente prevista dal d.l. 26 aprile 2005, n. 63, convertito in legge 25 giugno 2005, n. 109, recante “Disposizioni urgenti per lo sviluppo e la coesione territoriale, nonché per la tutela del diritto d’autore”.

[7] Così., A.L. Tarasco, Art. 28, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., pag. 366.

[8] Cfr. P. Carpentieri, Appalti nel settore dei beni culturali (e archeologia preventiva), in Urb. app., 2016, pag. 1014 ss.

[9] Il nuovo Codice è “auto-esecutivo”, ovvero non necessita di ulteriori atti e provvedimenti che ne assicurino l’esecuzione, ma ricomprende nel suo corpus normativo 35 allegati che racchiudono tutte le disposizioni necessarie per il completamento della disciplina. Cfr. F. Vetrò, G. Lombardo, M. Petrachi, L’avvio del nuovo Codice tra concorrenza, legalità e istanze di semplificazione: l’equilibrio instabile dei contratti pubblici, in Il Diritto dell’economia, 2023, pag. 31 ss.; M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del Nuovo Codice dei contratti pubblici, in Giustizia Insieme, 21 dicembre 2022.

[10] Cfr. art. 1, comma 2, allegato I.8 - Verifica preventiva dell’interesse archeologico del d.lg. 31 marzo 2023, n. 36. Il successivo comma 3 precisa altresì che: “[p]resso il Ministero della cultura è istituito un apposito elenco, reso accessibile a tutti gli interessati, degli istituti archeologici universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione. Con decreto del Ministro della cultura, sentita una rappresentanza dei dipartimenti archeologici universitari, si provvede a disciplinare i criteri per la tenuta di detto elenco, comunque prevedendo modalità di partecipazione di tutti i soggetti interessati. Fino alla data di entrata in vigore di detto decreto, resta valido l'elenco degli istituti archeologici universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione esistente e continuano ad applicarsi i criteri per la sua tenuta adottati con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali 20 marzo 2009, n. 60”.

[11] Le disposizioni di cui all’art. 23 d.lg. 50/2016 (Livelli della progettazione per gli appalti, per le concessioni di lavori nonché per i servizi) continueranno, tuttavia, ad applicarsi fino al 31 dicembre 2023 per la redazione o l’acquisizione degli atti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, pubblicazione, affidamento ed esecuzione dei contratti (art. art. 225 d.lg. n. 36/2023).

[12] A seguito dell’accorpamento delle funzioni amministrative sotto la Soprintendenza unica archeologia, belle arti e paesaggio, non è detto che il soprintendente abbia competenza specialistica in materia archeologica. Al fine di esercitare la spiccata discrezionalità tecnica richiesta dal procedimento in esame, esso deve, dunque, rifarsi alle risultanze delle istruttorie tecniche affidate ai responsabili di area funzionale. Cfr. A. Bondini, Riforme e Mibac: alcune note in tema di archeologia, in Aedon, 2019, 1, 57 ss.

[13] Sul ruolo dell’istituto della conferenza di servizi nell’ambito dell’amministrazione del patrimonio culturale, cfr. P. Forte, La conferenza di servizi come strumento di tutela olistica e attiva del patrimonio culturale della Nazione, in Il capitale culturale, Supplementi, 2020, pag. 375 ss.

[14] Cfr. A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità, in Aedon, 2017, 1.

[15] In dottrina è stato rilevato che la stessa previsione di un termine, in tale fase, non risulta del tutto necessaria, poiché le indagini da svolgere “non sono un procedimento amministrativo, ma operazioni, cioè attività materiali i cui tempi dipendono non soltanto dall’estensione dell’area interessata, unico fattore previsto dalla disposizione, bensì anche dalla complessità dalla stratigrafia, dalle condizioni meteorologiche stagionali, dalla disponibilità del personale necessario, da altre variabili circostanze di fatto e, in larga misura, dalla sollecitudine del responsabile dello svolgimento delle indagini stesse, quindi da comportamenti della stazione appaltante, non della Soprintendenza la quale ha soltanto compiti di direzione della procedura, non di suo diretto svolgimento che oltre tutto avviene con oneri a carico della stazione appaltante”. Così, A. Roccella, La verifica preventiva dell’interesse archeologico nella normativa vigente, cit., pag. 802.

[16] Cfr. art. 1, comma 3, allegato I.8 - Verifica preventiva dell’interesse archeologico del d.lg. 31 marzo 2023, n. 36.

[17] Cfr. art. 25, comma 14, d.lg. n. 50/2016.

[18] D.p.c.m. 14 febbraio 2022 “Approvazione delle linee guida per la procedura di verifica dell’interesse archeologico e individuazione di procedimenti semplificati”, spec. punto 5.2. Le linee guida, benché formalmente ancora vigenti, sono di fatto inapplicabili a seguito dell’abrogazione della normativa a cui sono riferite. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Cultura, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, entro il 31 dicembre 2023, dovranno, infatti, essere adottate nuove linee guida finalizzate ad assicurare speditezza, efficienza ed efficacia alla procedura di verifica, nonché ad individuare procedimenti semplificati, con termini certi, che garantiscano la tutela del patrimonio archeologico tenendo conto dell’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera (art. 1, comma 11, allegato I.8).

[19] Cfr. A. Bondini, Archeologia e lavori pubblici, in Beni culturali. Programmazione, sponsorizzazione e valorizzazione, (a cura di) M.A. Cabiddu, M.C. Colombo, Collana Appalti pubblici, vol. 5, Milano, 2018, pagg. 61-83; C. Vitale, Sospensione di pubblici lavori a tutela di beni culturali (in margine alla determinazione 19 maggio 2004, n. 9 dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici), in Aedon, 2004, 3.

[20] Cfr. L. Malnati, La verifica preventiva di interesse archeologico, in Aedon, 2005, 3.

[21] Cfr. C. Raffestin, S.A. Butler, Space, territory and territoriality, in Environment and Planning D: Society and Space, vol. 30/2012, pagg. 121-141.

[22] Cfr. P. Güll, Archeologia preventiva. Il Codice appalti e la gestione del rischio archeologico, cit., pag. 24 ss. Il concetto è ribadito dalla Convenzione di Faro, fortemente orientata al problema della gestione sostenibile del patrimonio culturale, anche in chiave intergenerazionale.

[23] In via generale, con riferimento al legame tra sviluppo sostenibile e patrimonio culturale, si vedano, tra i documenti della Commissione europea: la Comunicazione della Commissione: Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l’Europa del 2014, nella quale si afferma che “i siti culturali generano innovazione e contribuiscono a una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” e che “una saggia gestione del patrimonio culturale può essere sostenibile e coronata da successo, ad esempio mediante il riutilizzo di edifici storici”, con la precisazione che “le politiche a favore del mantenimento, del recupero, dell’accessibilità e della valorizzazione del patrimonio culturale rientrano principalmente nella sfera di responsabilità nazionale o locale”; i documenti Towards a circular economy: A zero waste programme for Europe del 2014 e Getting cultural heritage to work for Europe. Report of the Horizon 2020 expert group on cultural heritage del 2015; lo studio Cultural Heritage Counts for Europe del 2015 che, nell’individuare quattro “dimensioni” dello sviluppo sostenibile (economica, sociale, ambientale e culturale), ha evidenziato come la conservazione del patrimonio culturale possa contribuire a generare impatti positivi su piani diversi, secondo un approccio multidimensionale (tutti consultabili su www.eur-lex.europa.eu). In ambito internazionale, estremamente importante è la Dichiarazione di Hangzhou sulla cultura quale fattore chiave per lo sviluppo sostenibile: adottata dall’Unesco il 17 maggio 2013, in occasione del Congresso Internazionale “La cultura: chiave dello sviluppo sostenibile”, costituisce un vero e proprio appello ai vari paesi del mondo affinché pongano la cultura al centro delle politiche sullo sviluppo sostenibile, al pari dei diritti dell’uomo. Il ruolo strategico del patrimonio culturale è riconosciuto, poi, nell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite ed in particolare nei goal 11 (sviluppo di città e insediamenti urbani inclusivi, sostenibili, sicuri e resilienti), 4 (educazione), 8 (crescita economica sostenibile, incluso il turismo culturale) e 12 (modelli di produzione e consumo sostenibili). In ambito internazionale, il tema è affrontato anche nella Convenzione UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (ratificata con legge 19 febbraio 2007, n. 19), laddove si legge che “la protezione, la promozione e la conservazione della diversità culturale sono una condizione essenziale per uno sviluppo sostenibile a beneficio delle generazioni presenti e future”. In dottrina, cfr. C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV Pilastro, Torino, 2018.

[24] Direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, Allegato IV, Informazioni per il rapporto di valutazione dell’impatto ambientale. “Descrizione del progetto, comprese in particolare: (...) La descrizione dei fattori specificati all’articolo 3, paragrafo 1, potenzialmente soggetti a effetti significativi derivanti dal progetto: (...) beni materiali e patrimonio culturale, ivi compresi gli aspetti architettonici e archeologici, e paesaggio”.

[25] Cfr. F. Cimbali, Tutela preventiva degli interessi ambientali e valutazione sopraggiunta degli impatti, in Riv. giur. ed., 2019, 3, pag. 241 ss.; R. Dipace, La logica della prevenzione nella disciplina dei valori pubblici, in Impatto ambientale e bilanciamento di interessi. La nuova disciplina della valutazione di impatto ambientale, (a cura di) R. Dipace, A. Rallo, A. Scognamiglio, Napoli, 2018, pag. 273 ss.

[26] Cfr. H. Fredheim, S. Watson, Understanding Public Benefit from Development-led Archaeology, Londra, 2023.

[27] Cfr. G. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana. La salvaguardia di una matrice ambientale mediante uno strumento di sviluppo sostenibile, Napoli, 2022.

[28] Cfr. E. Buoso, Il principio di proporzionalità ambientale e il superinteresse al contenimento del consumo di suolo, in Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, (a cura di) G.C. Feroni, T.E. Frosini, L. Mezzetti, P.L. Petrillo, Vol. I, 2016, pag. 325 ss.

[29] Anche il Piano per la transizione ecologica (Pte) - approvato dal Comitato nazionale per la transizione ecologica (Cite) con delibera 8 marzo 2022, con il fine di coordinare le politiche ecologiche, tra Green Deal europeo e Pnrr - nel fissare l’obiettivo di arrivare a un consumo netto di suolo pari a zero entro il 2030, ha previsto come strumento operativo l’emanazione di un’apposita legge in materia.

[30] Cfr. P. Güll, Archeologia preventiva. Il Codice appalti e la gestione del rischio archeologico, cit., pag. 127 ss.

[31] Cfr. F. Fracchia, S. Vernile, Lo sviluppo sostenibile oltre il diritto ambientale, in Le Regioni, 2022, 1-2 pagg. 15-45; F. Fracchia, Environmental Law. Principles, Definitions and Protection Models, Napoli, 2018.

[32] Secondo cui “ogni scavo archeologico è, in sé, un atto di distruzione”. Cfr. M. Wheeler, Archaeology from the Earth, 1954.

[33] Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, Bari-Roma, 1976.

[34] Così, D. Manacorda, A proposito di archeologia preventiva: una riflessione di cornice, in Archeologia preventiva, infrastrutture e pianificazione, Atti e rassegna tecnica della Società degli ingegneri e degli architetti in Torino, 2020, 2-3, pag. 14.

[35] Cfr. F. Fracchia, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Napoli, 2010. Sull’estensibilità del principio dello sviluppo sostenibile ad ambiti ulteriori e diversi rispetto al diritto ambientale, si veda F. Fracchia, S. Vernile, Lo sviluppo sostenibile oltre il diritto ambientale, in Le Regioni, 2022, 1-2, pagg. 15-45.

 

 

 



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