A proposito dell'autorizzazione in sanatoria: spunti da una recente sentenza
Accertamento ex post di compatibilità in tema di conservazione dei beni culturali: la discrezionalità tecnica tra questioni di fatto e di diritto
Sommario: 1. Il tema. - 2. La sentenza del Tribunale di Monza 15 ottobre 2018, n. 2345. - 3. Accertamento ex post di compatibilità culturale: sua inerenza alle previsioni dell'art. 160 del Codice. - 4. Sulla praticabilità di una valutazione ex post di compatibilità per interventi su beni culturali. - 5. Sulla rilevanza della deontologia tecnica ai fini delle valutazioni discrezionali.
Ex post assessment of compatibility related to the conservation of cultural property: technical discretion between questions of fact and questions of law
The article discusses the assessment of compatibility with regard to historical-artistic constraints carried out by the authority in charge of the protection of cultural heritage once interventions have been carried out (ex post assessment).The article discusses the preconditions and the value of this evaluation on the administrative and criminal punishment foreseen for such abuses.
Keywords: Historical-artistic constraints; Ex post assessment of compatibility; Protection of cultural heritage; Technical discretion.
Frequente è la circostanza in cui l'autorità di tutela è chiamata a pronunciarsi in ordine alla compatibilità, rispetto al quadro dei dichiarati valori storico-artistici, di interventi su beni culturali o paesaggistici compiuti in assenza di autorizzazione oppure in difformità dall'autorizzazione rilasciata.
Nel caso dei beni paesaggistici l'intervento, per quanto incisivo, non può cancellare del tutto la scena in cui si inserisce, e si è in grado di percepire direttamente e in scala reale l'eventuale sfregio arrecato al paesaggio. Dunque per gli interventi sottoposti a controllo paesaggistico la effettiva realizzazione dell'intervento non impedisce la valutazione ex post, che anzi può argomentare su una evidenza più chiara di quanto possa fornire qualsiasi pur realistica prefigurazione. Al contrario, nel caso dei beni architettonici e artistici la valutazione ex post è critica, in quanto non confortata dalla presenza del bene non ancora modificato, ma basata sulla irreversibile trasformazione attuata, che sopprime un fondamentale termine di confronto.
Per tale ragione tecnica, oltre che per la obiettiva diversità sussistente fra beni culturali e beni paesaggistici dal punto di vista della consistenza dei relativi abusi e del connesso regime di repressione penale e amministrativa, sarebbe del tutto improprio affrontare le due questioni insieme, e infatti il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. n. 42/2004) menziona la autorizzazione in sanatoria a proposito dei soli beni paesaggistici, mentre per i beni culturali non ne fa cenno.
Si può anzi ritenere che il legislatore non abbia sentito la necessità di dettare, per i beni culturali, una previsione analoga a quella che vieta di autorizzare a posteriori gli interventi compiuti sui beni paesaggistici, proprio in forza dell'implicita e pacifica considerazione che per i beni culturali non possa che procedersi a seguito di preventiva autorizzazione.
Una recente sentenza del giudice penale (Tribunale di Monza, 15 ottobre 2018, n. 2345/2018 Reg. Sentenze) ha suggerito però altre conclusioni, e quindi offre lo spunto per fornire in merito una pur sintetica ma non del tutto imperfetta enumerazione dei fatti.
Obiettivo di questo scritto è dunque esaminare l'evoluzione delle ragioni sostanziali che, a parere di chi scrive, portano a ritenere che giustamente il legislatore abbia voluto escludere la possibilità di autorizzazione postuma per gli interventi abusivi sui beni culturali, argomentando in particolare con riguardo alla non praticabilità delle valutazioni tecniche ex post, e quindi alla difficoltà di assumere queste ultime a fondamento di un diverso regime sanzionatorio.
2. La sentenza del Tribunale di Monza 15 ottobre 2018, n. 2345
La sentenza in questione riguarda un intervento autorizzato con atto del 25 gennaio 2009 e avviato nell'estate del 2011. Nel gennaio 2012 il cantiere fu bloccato a seguito di una ispezione dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Monza, durante la quale essi constatarono una serie di anomalie procedurali e la realizzazione di opere non autorizzate, tra cui la sostituzione delle strutture di copertura del tetto, la rimozione degli intonaci e la distruzione di un manufatto collocato nelle serre, denominato "finte grotte" nel provvedimento di vincolo e "teatrino", nella vulgata locale [1].
La vicenda e la sentenza presenta numerosi profili meritevoli di approfondito esame. Ci si sofferma qui soltanto sul tema della "autorizzazione postuma", rimandando ad altra sede la discussione delle questioni inerenti la coerenza degli atti autorizzativi.
A seguito della interruzione del cantiere la soprintendenza comminò sanzioni per la distruzione degli intonaci, ritenne "autorizzabili" gli interventi sulla copertura e rimandò ogni decisione sulle "finte grotte", trattandosi di un manufatto del tutto insolito, di datazione incerta, anzi ormai "definitivamente" incerta in quanto nessun accertamento materiale era stato svolto prima della distruzione.
In disparte il fatto che per molti dei suddetti fatti il tribunale non abbia potuto procedere a causa dell'intervenuta prescrizione [2], deve essere segnalato, nondimeno, che il tribunale si è comunque soffermato su di essi per la rilevanza che essi presentavano ai fini dell'accertamento dei reati contestati ad altri imputati, osservando che "si controverte del resto, per la gran parte, di interventi - seppur commessi in violazione - successivamente assentiti dalla stessa Soprintendenza. (...) Che i lavori fossero pienamente assentibili anche sotto il profilo culturale lo dimostra l'autorizzazione postuma rilasciata dalla Soprintendenza (...) che ha di fatto regolarizzato gli interventi sui tetti quanto meno a partire dal luglio 2012 e quelli sugli intonaci in data 11/06/2012".
Tale regolarizzazione - l'"autorizzazione postuma" citata dalla sentenza - viene rinvenuta nella nota del 26 luglio 2012 prot. n. 9907 della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano, indirizzata alla direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l'architettura e l'arte contemporanee del ministero nonché alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, ed avente come oggetto "Villa Sottocasa. Ambito tutelato ai sensi della Parte Seconda (DM 27.05.2003) del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (...) Opere illecite artt. 160-169 del DLgs 42/2004".
Essa prende le mosse dagli esiti del ricordato sopralluogo dei Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale nel cantiere relativo alla "Villasottocasa", nel corso del quale era stata accertata l'esecuzione di "opere in difformità dai lavori autorizzati" nel 2009, "in merito alle opere realizzate in difformità dall'autorizzazione rilasciata" (...) per concludere che:
- dalle fotografie attestanti lo stato dei luoghi prima dell'Intervento risulta che le coperture fossero in condizioni di avanzato degrado e che necessitassero di un intervento di sostituzione di gran parte degli elementi strutturali. Si considera pertanto che l'intervento realizzato sia assentibile;
- la rimozione degli intonaci originari, sia interni che esterni, non sia ammissibile, se non per quelle parti che risultavano ammalorate e non recuperabili, per la perdita della consistenza materica e documentale dell'intonaco storico;
- la barriera all'umidità viene ritenuta ammissibile;
(...)
- parte degli infissi rimossi sono stati accatastati in cantiere; dalla visione degli stessi e dalla documentazione fotografica prodotta risulta che le condizioni di degrado degli infissi prima dei lavori fosse avanzato; si ritiene pertanto ammissibile la sostituzione.
(...)
In relazione al teatrino, considerato che i proprietari hanno dichiarato che lo stesso era già andato perso prima del deposito della richiesta di autorizzazione nel 2009 - con questo tralasciando (cosa di non poco conto) che sussisteva l'obbligo di conservazione ex artt. 30 e 160 - e che allo stato non è possibile valutarne l'effettivo stato di degrado prima dell'inizio dei lavori, al fine del calcolo della eventuale sanzione, si ritiene di dover attendere ulteriori accertamenti e determinazioni da parte dell'autorità giudiziaria".
Alla luce delle accennate considerazioni la soprintendenza ha proposto l'adozione di un provvedimento sanzionatorio in relazione ai soli lavori non ritenuti assentibili a posteriori, vale a dire la rimozione degli intonaci [3].
Si può quindi dire che l'autorità di tutela, una volta che i Carabinieri del NTCP hanno riscontrato la realizzazione di opere realizzate in difformità dall'autorizzazione rilasciata, ha proceduto alla valutazione delle stesse opere e ha distinto quelle che in rapporto alle condizioni presentate dall'immobile tutelato considerava "assentibili" o "ammissibili", mentre per gli interventi "non ritenuti assentibili (rimozione degli intonaci)" ha proposto alla Direzione generale di settore (ai sensi dell'art. 7, comma 2, lett. d), d.p.r. 26 novembre 2007, n. 233) l'adozione di un provvedimento di sanzione.
Diversamente, per le finte grotte - teatrino si è assistito, "considerato ... che allo stato non è possibile valutarne l'effettivo stato di degrado prima dell'inizio dei lavori", a un rimpallo tra soprintendenza e autorità giudiziaria che si è concluso con una mancata pronuncia sul punto, stante che quest'ultima - proprio in base al rinvio operato dalla soprintendenza - ha ritenuto non ci fosse in merito un reale interesse pubblico da tutelare.
3. Accertamento ex post di compatibilità culturale: sua inerenza alle previsioni dell'art. 160 del Codice
Si rende ora necessario comprendere, prendendo spunto dalla vicenda sopra richiamata, se in assenza di un dato normativo espresso in proposito, si possa effettivamente ritenere che vi siano interventi conservativi assentibili a posteriori.
È opportuno premettere che l'accertamento ex post di compatibilità inerisce alla repressione esclusivamente amministrativa degli interventi abusivi su beni culturali. Recita, infatti, l'art. 160, comma 1, del Codice: "Se per effetto della violazione degli obblighi di protezione e conservazione stabiliti dalle disposizioni del Capo III del Titolo I della Parte Seconda il bene culturale subisce un danno, il ministero ordina al responsabile l'esecuzione a sue spese delle opere necessarie alla reintegrazione". La misura ripristinatoria prevista (oppure nel caso di impossibilità di sua esecuzione quella, alternativa e subordinata, di natura pecuniaria), presuppone sia la "violazione degli obblighi di protezione e conservazione" (nella specie consistenti nello svolgimento di interventi sul bene vincolato in assenza della, o in difformità dalla, autorizzazione richiesta dall'art. 21, comma 4), sia la circostanza che il bene abbia per effetto di detta violazione subito "un danno", nel senso di una perdita o diminuzione con riguardo all'interesse storico artistico insito e riconosciuto nella cosa, e che lo rende giuridicamente bene culturale.
Tale diversità di esiti riguarda la opportunità e fattibilità del ripristino dello status quo ante. Si possono avere infatti diverse fattispecie: l'intervento potrebbe essere stato opportuno, inopportuno ma non irreversibile (semplice aggiunta rimovibile), oppure aver comportato una rimozione o demolizione, nel qual caso il ripristino potrebbe essere illusorio, e quindi inopportuno.
Sarebbe dunque improprio ritenere che l'art. 160 implicitamente affermi che ove il danno non sia stato prodotto, vi sia per ciò stesso compatibilità - e quindi assentibilità - dell'intervento non autorizzato. Al limite potrebbe verificarsi il caso che il proprietario disattenda l'autorizzazione o proceda in sua assenza ma non faccia in tempo a produrre dei danni perché le autorità vigilanti (Comune, soprintendenza o autorità giudiziaria) interviene prima. In questi casi non avrebbe senso pretendere il ripristino o il risarcimento del danno, ma l'intervento non dannoso, in quanto non eseguito, non diviene per questo compatibile.
L'art. 169 del Codice dei beni culturali annovera tra le opere illecite, come tali rilevanti sul piano penale, quelle compiute da "chiunque senza autorizzazione demolisce, rimuove, modifica, restaura ovvero esegue opere di qualunque genere sui beni culturali indicati nell'articolo 10". Il reato rimane a prescindere dal fatto che esso abbia prodotto o meno danni al bene culturale: sarebbe quindi incoerente, dal punto di vista sistematico, ipotizzare di sanzionare penalmente colui che realizza un intervento che, sul piano amministrativo, viene considerato pienamente assentibile, per quanto a posteriori: ma la presenza di una norma penale che punisce il comportamento "pericoloso" (cd. reato di pericolo), a prescindere dal danno effettivo che si sia prodotto, conferma che nel disegno generale del Codice dei beni culturali la verifica preventiva dell'assentibilità degli interventi è l'unica vera possibilità di valutare se gli interventi siano compatibili.
Anche l'esperienza pratica conduce ai medesimi risultati. Rimanendo alla sentenza da cui si è preso spunto, basti considerare l'opinabilità delle valutazioni di compatibilità che la soprintendenza potrebbe aver fatto a posteriori. A titolo esemplificativo, mentre per i serramenti la soprintendenza dice di aver potuto vedere quelli rimossi, per le coperture, come si è visto, essa ha fatto discendere l'approvazione da una valutazione discrezionale di non recuperabilità che, non essendo suffragata da elementi tecnici, si fonda su una mera presunzione, in sé molto labile ed incerta. Nel caso delle coperture, infatti, questa presunzione si è basata su un'immagine: "dalle fotografie attestanti lo stato dei luoghi prima dell'Intervento risulta che le coperture fossero in condizioni di avanzato degrado e che necessitassero di un intervento di sostituzione di gran parte degli elementi strutturali. Si considera pertanto che l'intervento realizzato sia assentibile".
L'accertamento dello stato di deterioramento delle coperture è un fatto complesso, che non può certo essere acclarato in base a una semplice fotografia, riferita genericamente a un ampio complesso di travature da considerare nei suoi singoli elementi, e andrebbe corredata di numerose altre informazioni fondamentali, quali la sezione delle travi, lo stato di conservazione del legno, l'esito di una prova penetrometrica, la raccolta di campioni conservati a comprova...
La questione è ovviamente duplice: se la sostituzione fosse necessaria; se la sostituzione abbia arrecato un pregiudizio al valore culturale dell'immobile.
Sul primo punto, occorre innanzitutto considerare lo stato dell'arte della tecnica: la discrezionalità delle valutazioni tecniche presuppone il ricorso a tecnologie aggiornate. Se decenni or sono una valutazione a occhio era praticata, proprio l'evoluzione dottrinale che ha portato a maggiore attenzione conservativa ha spinto una ricerca scientifica che oggi mette a disposizione efficaci e affidabili metodologie diagnostiche, oltre che tecniche d'intervento minimale, anche grazie al recupero di saperi tradizionali.
Peraltro, proprio i progressi della tecnica consentono di affermare che l'ammaloramento avrebbe potuto probabilmente essere risanato, dal momento che nello stesso edificio, in anni precedenti, sotto la sorveglianza del competente ispettore di zona, una parte di copertura di consistenza analoga è stata scrupolosamente restaurata.
Quanto al secondo punto, la sanior et maior pars della dottrina ritiene oggi che il valore culturale di un edificio storico risieda complessivamente nella sua autenticità, o come dice il terzo comma dell'art. 29 del 42/2004, nella sua identità. Tale attributo non inerisce valutazioni di natura estetica o storico artistica, ma il valore testimoniale legato alla cultura materiale che ha prodotto il bene e la significanza delle sue vicende storiche, intendendosi il termine "storico" nel senso più ampio della ricerca.
Alla luce di questa considerazione è difficile negare che la sostituzione delle travi storiche con altre nuove non abbia compromesso tale valore culturale dell'edificio.
Ancor più emblematico il caso del teatrino-"finte grotte", laddove la soprintendenza ha affermato di non disporre di elementi per valutare l'effettivo stato di degrado prima dell'inizio dei lavori, dando credito alla dichiarazione del privato proprietario del bene secondo cui questo era già andato perso prima del deposito della richiesta di autorizzazione nel 2009. Tale circostanza è di per sé priva di riscontri, quindi incerta: che il bene non sia stato rappresentato negli elaborati progettuali [4] o che fosse all'epoca effettivamente distrutto, rimane il fatto che l'autorità di tutela qui ha tralasciato di stigmatizzare la violazione da parte del proprietario dell'obbligo di conservazione ex artt. 30 e 160, dichiarandosi nell'impossibilità di valutare la compatibilità dell'intervento eseguito.
Il ribaltamento del paradigma normativo è paradossale: anziché affermare la responsabilità del proprietario a causa della distruzione del bene di cui questi avrebbe dovuto curare la conservazione, la distruzione del bene è stata assunta come presupposto - non sanzionato - legittimante gli interventi successivi che, essendo ormai inesistente il bene culturale poiché distrutto, sono divenuti "compatibili" con ... l'inesistenza del bene.
Altro esempio di come, a posteriori, non sapendo se il bene ancora sussisteva all'atto dell'intervento, sia impossibile a posteriori valutare quanto realizzato.
Ritengo che le due questioni apparentemente distinte, abbiano in comune un aspetto qualificante, ovvero la impraticabilità della valutazione di ammissibilità di un intervento di restauro o riutilizzo ove lo stato dei luoghi sia stato alterato. Inoltre è chiaro come, se il giudice penale deve basarsi sull'operato della soprintendenza, e quindi sulla discrezionalità delle valutazioni ad essa demandate, la coerenza di tali valutazioni nell'ambito dello stesso procedimento divenga dirimente, non potendosi invocare il dogma dell'infallibilità.
4. Sulla praticabilità di una valutazione ex post di compatibilità per interventi su beni culturali
La questione sollevata nel precedente paragrafo può essere generalizzata. Esiste la possibilità che un intervento abusivo (non autorizzato o difforme) non determini un detrimento dei valori culturali? Può in proposito essere opportuno introdurre, nell'impianto normativo che ha per finalità la tutela, la possibilità di una autorizzazione successiva all'intervento?
Le ragioni che inducono a rispondere negativamente a questa ipotesi sono di diverso ordine.
Sotto il profilo sostanziale, poiché la dottrina porta il tema dei valori sul piano della conservazione dell'autenticità materiale, e vige il principio del minimo intervento, l'intervento stesso è ritenuto un evento indesiderato, e da attuare soltanto se inquadrato nella logica che il legislatore ha assunto, sia con l'art. 29 del Codice (42/2004), sia più recentemente, pur con effetto limitato ai lavori pubblici sui beni culturali, con l'art. 3 del DM 154/2017. Secondo tale logica, la conservazione (obbligo per il possessore o detentore di un bene culturale) si ottiene attraverso una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro. Il criterio indicato univocamente è quello di eseguire gli interventi sui beni culturali "secondo i tempi, le priorità e le altre indicazioni derivanti dal criterio della conservazione programmata".
Questa logica non sostituisce l'autorizzazione, ma ne aggiorna il quadro logico: sui beni culturali non si interviene ex abrupto, ma nel quadro di una gestione responsabile che precostituisce un quadro di conoscenza a supporto delle decisioni. Ogni circostanza di opere non autorizzate o difformi potrà quindi essere letta sulla base della coerenza delle azioni con le finalità conservative. Ove tali presupposti esistano, in quanto la proprietà si è dotata di un piano di conservazione e di adeguati approfondimenti conoscitivi, è possibile per la soprintendenza valutare se e quale danno sia intervenuto a seguito di interventi "abusivi". Viceversa, in mancanza della produzione di un adeguato quadro conoscitivo formatosi prima e/o durante l'intervento, la valutazione a posteriori non può che propendere per l'ipotesi peggiore, ovvero che il danno sia avvenuto. La valutazione di assentibilità in assenza di elementi di prova configura anzi un favor nei confronti del reo, essendo il dubbio causato dalla mancanza di elementi probanti che il reo stesso avrebbe dovuto essere in grado di produrre.
Del resto l'obbligo di autorizzazione mira a scongiurare un rischio anche solo potenziale, legato alla incompatibilità chimico-fisica o meccanica delle aggiunte o dei trattamenti. Aggiunte incompatibili sono quelle che manifestano effetti indesiderati, potenzialmente distruttivi, a seguito di variazioni, spesso prevedibili, delle condizioni al contorno. Per questa ragione l'esame dei progetti ai fini dell'autorizzazione non si limita ai disegni, ma entra nell'analisi delle lavorazioni, al fine di non autorizzare, o di porre prescrizioni, laddove il progettista non abbia prestato attenzione a questi aspetti. Per l'approvazione dei progetti la soprintendenza ha facoltà, anche interrompendo i termini del procedimento, di chiedere gli opportuni approfondimenti diagnostici che giustifichino le scelte e confortino l'approvazione. Una volta che l'opera è eseguita, invece, non è facile risalire ai materiali usati, se non a prezzo di indagini complesse: ma sarebbe paradossale su questo punto invertire l'onere della prova.
Che un intervento non autorizzato sia accompagnato da esaustiva documentazione tecnica, nonché dalla raccolta in corso d'opera dei dati necessari a una opportuna consuntivazione scientifica, è ipotesi teoricamente ammissibile. Ma solo teoricamente: l'autorizzazione della soprintendenza non ha costi, mentre le indagini diagnostiche sono costose, e anche una conduzione del cantiere attenta a documentare e rendicontare quanto si esegue può essere vista come un costo, se impresa e direttore dei lavori non sono adeguatamente preparati. Nel caso che abbiamo preso come pretesto per questa discussione accademica, l'interesse alla consuntivazione scientifica dell'intervento era così scarso, che chi conduceva i lavori non ha raccolto alcun campione dei materiali rimossi a supporto della propria tesi, limitandosi a produrre una fotografia e una perizia firmata da un ingegnere ma non comprovata da alcuna misura o calcolo.
A supporto di queste argomentazioni, si pensi ancora alla distruzione delle finte grotte, che peraltro non sono oggetto della sentenza in commento. Il valore culturale di questo manufatto, riconosciuto nel decreto di vincolo come meritevole di menzione, era noto anche in forza della particolare attenzione ad esso tributata nella pubblicistica locale. Tuttavia nessun accertamento scientifico è stato possibile su di esso, e le fonti indirette consentono di attribuire il progetto delle serre al celebre architetto neoclassico Luigi Canonica e di datarlo tra il 1829 e il 1831, ma non di decidere se questo arricchimento delle serre facesse parte del progetto iniziale, o fosse stato aggiunto in un secondo tempo. Si trattava comunque di una significativa testimonianza dell'uso nobiliare del ricco giardino, e per gli esperti di un apax legomenon, neppure facilmente databile per via tipologica.
Tale testimonianza è stata distrutta senza alcuna documentazione, anzi la sua esistenza è stata negata in fase di progetto attraverso una descrizione parziale dello stato dei luoghi. Nel dubbio, la Soprintendenza, che già non si era accorta dell'omissione, ha lasciato in sospeso la valutazione del danno, e infine scelto in sede processuale un profilo basso, dando adito al giudice nel concludere che il manufatto non avesse alcun valore, nonostante la citazione nella dichiarazione di vincolo, e di non attribuire alla imbarazzante falsificazione del rilievo alcuna rilevanza penale. E si spera che su questo punto la sentenza non faccia stato.
Ma senza entrare ulteriormente in una questione che qui è solo un pretesto di discussione, mi sembra che il caso dia chiarissima dimostrazione di quanto la valutazione in assenza del testimone materiale sia imbarazzante, e ogni modificazione del quadro normativo rischi di tradursi in una inversione dell'onere della prova, per cui non chi esegue un lavoro ne deve dimostrare la compatibilità e la coerenza con le finalità conservative, ma la soprintendenza deve dimostrare l'incompatibilità, o il valore di ciò che è stato distrutto.
Dunque la sostanziale impraticabilità delle valutazioni ex post suggerisce di non mutare l'interpretazione consolidata che fino ad oggi è stata data di un quadro normativo rispondente alle finalità delle leggi di tutela - prova ne sia che non si rinvengono in giurisprudenza precedenti casi di riconosciuta assentibilità a posteriori di interventi concernenti i beni culturali - in quanto l'estensione della rilevanza di tali valutazioni oltre le finalità amministrative loro proprie potrebbe indebolire l'azione delle soprintendenze, contro le finalità stesse della legge di tutela.
La ricordata permanenza del reato laddove non si sia un danno acclarato conferma il convincimento della fondamentale importanza del controllo preventivo al fine di valutare la compatibilità degli interventi proposti e di raccogliere documentazione preziosa nella logica della conservazione programmata cara al legislatore.
Ritengo peraltro che il ragionamento alla base di questa conclusione meriti di essere approfondito.
5. Sulla rilevanza della deontologia tecnica ai fini delle valutazioni discrezionali
Le difficoltà della valutazione ex post sopra illustrate sono connesse, come si è detto, sia alla criticità della assenza (o presenza parziale) del testimone materiale, sia alla evoluzione dello strumentario critico e tecnologico che supporta i giudizi di valore culturale. In un quadro che negli ultimi decenni ha visto una evoluzione molto rapida, il tema dell'aggiornamento professionale diviene fondamentale: le valutazioni devono far riferimento allo stato dell'arte delle discipline, e questo non è sempre praticato.
Ancora una volta il processo in esame fornisce un quadro preoccupante sui potenziali cedimenti deontologici nell'operato di professionisti, proprietari, imprese, funzionari.
Carenze deontologiche e carenze di aggiornamento professionale possono dar luogo sia a colposi o dolosi abusi, sia ad applicazioni inadeguate e non aggiornate della discrezionalità.
Che la discrezionalità, per essere qualificata come tecnica, debba far riferimento al più aggiornato quadro culturale e disciplinare può essere ovvio, ma è difficile darlo per scontato. Da anni si va dicendo che gli interventi sui beni culturali hanno bisogno di linee guida metodologiche, come esplicitamente dettato dal comma 5 dell'art. 29 del Codice. Che di queste linee guida finora poco si sia prodotto è anche il frutto di resistenze che vanno superate.
Affidare non a una circolare interna, ma a solidi documenti condivisi i requisiti minimi (tecnologie di rilievo e diagnostica, coerenza e completezza dei contenuti informativi, ecc.) perché un progetto venga esaminato potrebbe prevenire situazioni come quella presa a pretesto per la discussione, e indirizzare i funzionari ad applicazioni non arbitrarie e meno discutibili della loro irrinunciabilità discrezionalità.
Note
[1] Tra i capi di imputazione indicati nella sentenza figurava a carico di R.I.: "A) (...) reato di cui agli artt. 81 c.p. e all'art. 169 lettere a) e b) D. Lgs. 42/2004, perché, con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, quale legale rappresentante della società L.S. senza la prescritta autorizzazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici demoliva, modificava e restaurava ovvero eseguiva opere sulla porzione di 'Villasottocasa', immobile vincolato ai sensi del D.L. 490/99 dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici di Milano con Decreto Ministeriale di vincolo del 27.5.2003, di proprietà della predetta società, in particolare: - sostituiva le coperture in corrispondenza del corpo della villa denominato 'limonaia' e del corpo di fàbbrica prospiciente a via Vittorio Emanuele;
- rimuoveva la copertura del corpo della villa denominato 'galoppatoio';
- rimuoveva fino al vivo della muratura gran parte degli intonaci. ad eccezione di quelli della limonaia e della serra:
- rimuoveva tutti gli infissi:
- realizzava una barriera contro l'umidità di risalita con carotaggi nelle pareti perimetrali:
- distaccava e rimuoveva un antico teatrino costituito da 'finte grotte' e tutte le statue di pertinenza del predetto immobile".
[2] Al punto 5.1 della motivazione viene rilevato che "Le condotte enucleate nei capi richiamati sono relative ad ipotesi contravvenzionali. (...) Le stesse sono ormai estinte a seguito di prescrizione".
[3] Nella misura di seguito quantificata in circa 23 mila euro.
[4] In effetti il manufatto non era stato rappresentato nel rilievo presentato con il progetto sottoposto ad approvazione, e nel rilievo fotografico era stata inserita una fotografia presa guardando il lato opposto del locale. Di più, la relazione descrittiva trascurava di trattare il teatrino e il giardino all'italiana: entrambi elementi citati nel decreto di vincolo, così falsando i presupposti della valutazione. Si spiega così il fatto che la proprietà possa essere stata autorizzata a realizzare al posto delle "finte grotte" citate nel decreto di vincolo dei servizi igienici, "opere del tutto incompatibili con la sussistenza dell'ipotizzato manufatto", scrive il Giudice. Il reato di distruzione di bene culturale non è quindi stato riscontrato proprio in quanto il bene non è stato rappresentato nelle tavole, né è stato mai citato nelle relazioni scritte: la realizzazione dei servizi al posto del teatrino e del giardino presupponeva proprio tale distruzione.
Sul punto però la sentenza è stata influenzata dal mancato intervento della soprintendenza: "la Soprintendenza, qualora avesse avuto anche solo il sentore dell'esistenza di un elemento così pregevole, ben si sarebbe guardata dal consentire opere inconciliabili con la sua sopravvivenza". La soprintendenza in realtà aveva a disposizione la relazione storico-artistica del vincolo che cita i beni in oggetto, ed in effetti la stessa sentenza non esclude che "il dato di tutela della Soprintendenza in riferimento ad alcuni particolari decorativi non sia stato adeguatamente approfondito".