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Ai confini del patrimonio culturale e dintorni

Ai confini del patrimonio culturale tra luoghi comuni e processi di produzione della cultura [*]

di Antonio Leo Tarasco

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Tutela e promozione della cultura e del patrimonio culturale nell'art. 9 Cost. - 3. Contenitori e contenuti. - 4. Patrimonio culturale: materiale o immateriale? - 5. Arte contemporanea, design e beni culturali. - 6. I locali storici alla ricerca di un'identità. - 7. La dilatazione del concetto di "cultura" nelle rilevazioni statistiche e nell'economia della cultura. - 8. Imprese culturali e creative: una innovazione a metà.

To borders of cultural heritage between commonplaces and processes of production of culture
The essay analyzes the legal concepts of culture, goods and cultural heritage. In particular it analyzes the concepts of promotion and protection of cultural heritage according to the Article 9 of the Italian Constitution; the process of legal assimilation of design and contemporary art to cultural heritage; in critical terms, both the regulatory process that led to the promotional discipline of historic business premises and the dilatation of the concept of culture (including leisure activity and hobbies) accepted by statistical surveys and cultural economic studies. Finally, the essay it's in favour of the introduction of the concept of "cultural and creative enterprise" as a place of production not only of the material cultural heritage but also of cultural activities that, however, don't still receive definitive dignity or unitary discipline in the Code of Cultural Heritage and Landscape.

Keywords: Culture; Design; Immaterial Cultural Heritage; Cultural and Creative Enterprise.

1. Introduzione

L'ambito culturale può, forse, con giusta ragione, annoverarsi tra i settori in cui la frequenza d'uso dei termini è inversamente proporzionata alla chiarezza giuridica con cui quegli stessi termini vengono impiegati: cultura e creatività, patrimonio culturale, beni culturali e belle arti, ad esempio, oscillano tra definizioni giuridiche e convenzioni sociologiche o massmediatiche talvolta profondamente discordanti tra di loro.

Ciò sembra confermare il fatto che "nel settore culturale (...) non esiste né unità di organizzazione (si pensi alla molteplicità di enti e di competenze amministrative, afferenti a diversi centri di responsabilità politico-amministrativa) né di conoscenza: nonostante che - da un punto di vista intellettuale - si predichi l'unità della cultura, non vi sono strumenti sviluppati per conoscerla adeguatamente ed unitariamente sotto il profilo statistico, economico e strutturale" [1]. Partendo da tale constatazione critica, si cercherà, nel presente scritto, di ricostruire i maggiori punti problematici relativi alle nozioni sopra richiamate, in parte fomentati dalla legislazione e dalle cattive divulgazioni.

2. Tutela e promozione della cultura e del patrimonio culturale nell'art. 9 Cost.

In primo luogo deve osservarsi che a torto il patrimonio culturale viene normalmente rappresentato quale categoria assorbente e ricomprensiva dell'intera sfera culturale fino a costituirne, nel senso comune, la sua massima esemplificazione. Il secondo comma dell'art. 9 Cost., limitato alla sola tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, viene solitamente ingigantito fino ad oscurare ed obliterare il comma precedente che - affidando alla Repubblica il compito di "promuove(re) lo sviluppo della cultura" - costituisce, invece, il necessario antecedente logico e giuridico.

Al di là dell'ampiezza che si voglia riconoscere, nella legislazione ordinaria e, ancor di più, nella prassi amministrativa, al concetto di tutela, vi è da dire - con minore relativismo - che le categorie della "tutela del patrimonio culturale" e della "promozione della cultura" non rappresentano punti necessariamente coincidenti per non dire, talvolta, finanche contrapposti.

Infatti, diversamente dalle tradizionali interpretazioni, il Costituente sembra aver configurato la tutela (dinamica) del patrimonio culturale della Nazione (evoluzione della più angusta nozione di patrimonio storico-artistico e di paesaggio), quale una funzione di "mezzo" (art. 9, comma 2, Cost.) rispetto al "fine" della promozione della cultura (art. 9, comma 1, Cost.). Se è vero che "i beni mobili vanno intesi non più come oggetti da conservare passivamente, ma come strumenti da utilizzare per promuovere lo sviluppo culturale ai sensi del I° comma dell'articolo in esame" [2], deve dedursene che il programma costituzionale è orientato verso la promozione della cultura, qualunque sia la morfologia di questa.

Ciò significa pure che se in alcuni casi la salvaguardia del patrimonio culturale costituirà il mezzo eletto per promuovere lo sviluppo culturale, in altri l'interpretazione statico-conservativa della tutela del patrimonio culturale cozzerà proprio contro il superiore principio della promozione della cultura ove si pretenderà di conservare senza ammettere le trasformazioni dell'esistente [3].

Ciò per dire di come il concetto di tutela possa divenire oppressivo delle nuove forme di espressione artistica ove inteso nel senso di esclusiva ed ossessiva conservazione dell'esistente; e possa, di tal guisa, addirittura porsi in tensione conflittuale con il superiore programma costituzionale della promozione della cultura che certamente si giova delle sperimentazioni, delle nuove creazioni e, talvolta, delle negazioni dell'esistente.

3. Contenitori e contenuti

Se è vero che la promozione della cultura può non coincidere con la tutela del patrimonio culturale, bisogna ora analizzare nel dettaglio le diverse morfologie del patrimonio culturale (parte, come visto, della ben più ampia sfera culturale, in primis considerata nel primo comma dell'art. 9 Cost.).

Al riguardo, non può non evidenziarsi come i beni culturali (art. 2, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 [4]) siano ordinariamente confusi, come per sineddoche, con i musei e parchi archeologici che invece ne sono i contenitori (e, precisamente, istituti e luoghi della cultura: art. 101, d.lg. n. 42/2004). È vero che talvolta il contenitore costituisce a sua volta un bene di rilevanza culturale (come nel caso, ad esempio, dei palazzi rinascimentali che ospitano collezioni d'arte o delle biblioteche monumentali che costituiscono a loro volta un luogo di interesse culturale a prescindere dalle collezioni librarie che ospitano), ma a volte il rapporto si presenta invertito a favore del solo contenitore (come per la Reggia di Caserta il cui prevalente interesse si presenta quale complesso architettonico e, almeno in misura minore, per gli arredi pur ad esso pertinenziali [5]) o del solo contenuto (è il caso della Biblioteca nazionale centrale di Roma il cui interesse esclusivo è rappresentato dalle collezioni librarie e non dalla struttura architettonica ospitante [6]).

La distinzione giova non solo per ragioni di chiarezza concettuale ma anche come premessa per utili sperimentazioni gestionali dirette ad accorpare collezioni, liberare spazi, ridurre i costi ordinari di determinati istituti e luoghi della cultura ed incrementare la fruizione di collezioni scarsamente visitate in luoghi poco accessibili o comunque dotati di uno scarso appeal.

La necessità di distinguere si impone non solo tra "contenitori" e "contenuti" ma anche tra i "diversi contenuti" posto che, ad esempio, mentre la opinabile "bellezza" costituisce un attributo gratuitamente elargito a tutti i beni culturali (fino a diventarne sinonimo), si dimentica ch'essa non si addice - almeno fino a contraria prova in concreto - ai beni archivistici, librari, demo-etnoantropologici (lo è, poi, e solo eventualmente, dei beni archeologici [7]).

4. Patrimonio culturale: materiale o immateriale?

Ancor maggiore confusione concettuale si ritrova quando si utilizza l'espressione "patrimonio culturale", atteso che per essa cui si scontrano due definizioni antitetiche (egualmente tecnico-giuridiche), a torto ritenute sinonimi nella vulgata dei beni culturali. Mentre, infatti, gli articoli 2, 7-bis e 10, d.lg. n. 42/2004, sono chiarissimi nel limitare l'espressione unicamente alle res qui tangi possunt, con radicale esclusione di tutto ciò che sia privo di un substrato materiale, nell'immaginario comune, invece, il patrimonio culturale non tollera distinzioni includendo tutto quanto attiene all'heritage di una Nazione. Ne consegue che il significato dell'espressione varia enormemente a seconda che ci si riferisca alla nozione tecnico-giuridica interna (patrimonio culturale materiale), internazionale (patrimonio culturale immateriale) [8] ovvero a quanto inteso dagli umanisti (che includono, invece, sia beni che attività culturali); tale ultima nozione, diversa da quella degli articoli 2, 7-bis e 10, d.lg. n. 42/2004, viene, invece, dedotta nell'oggetto dell'attività delle "imprese culturali e creative" disciplinate nell'art. 1, comma 57, legge di Stabilità per l'anno 2018 [9].

Tale molteplicità di definizioni determina per conseguenza la confusione dell'interprete (laddove, prima facie, l'ambito culturale si pretenderebbe essere chiaro quasi per chiunque) e, nel contempo, rivela l'impreparazione del moderno legislatore a mettere a sistema aree distinte ma non scollegate tra di loro.

5. Arte contemporanea, design e beni culturali

Altra necessaria distinzione s'impone con riguardo ai beni di arte contemporanea e agli oggetti di design, cioè beni di uso comune disegnati da architetti di fama e prodotti su scala industriale.

È noto che, per lunga tradizione giuridica risalente almeno all'art. 1, legge n. 364/1909, le cose di interesse storico o artistico di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni non posseggono astratta attitudine a divenire beni culturali: identicamente dispone oggi l'art. 10, comma 5, d.lg. n. 42/2004, fatta salva l'elevazione del limite a 70 anni, in coerenza con quanto generalmente disposto dall'art. 1, comma 175, lett. a), n. 2), legge 4 agosto 2017, n. 124.

Al riguardo, devono svolgersi due ordini di considerazioni.

In primo luogo, vengono in rilievo le disposizioni che conferiscono una limitata rilevanza giuridica delle opere di arte contemporanea, come ad esempio l'art. 64 Codice dei beni culturali e del paesaggio che obbliga a munirle, in commercio, di attestati di autenticità e di provenienza (la violazione è sanzionata negli articoli 178 e 179 Codice).

Anche alle opere di arte contemporanea, benché non costituenti beni culturali stricto sensu, si estende una disposizione dettata per la generalità dei beni culturali e cioè il pagamento di imposte mediante cessione di opere d'arte ancorché "di autori viventi o la cui esecuzione risalga anche ad epoca inferiore al cinquantennio, di cui lo Stato sia interessato all'acquisizione" (art. 28-bis, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602). Ed è ragionevole immaginare che il passo successivo rispetto all'acquisizione delle opere d'arte contemporanea (in quanto infracinquantennali o, dal 2017, infrasettantennali) sia l'inserimento in collezioni pubbliche e, dunque, la loro definitiva qualificazione come beni culturali ai sensi dell'art. 10, comma 2, Codice.

Inoltre, anche alle opere dell'architettura contemporanea di particolare valore artistico il ministero dei Beni e della Attività culturali e del Turismo può concedere "contributi in conto interessi sui mutui o altre forme di finanziamento accordati da istituti di credito ai proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni culturali [immobili]" sempre che il soprintendente abbia riconosciuto "il particolare valore artistico" della costruzione architettonica (art. 11, lett. e), Codice, che richiama l'art. 37 Codice ed, in particolare, il 4° comma dello stesso articolo).

Al di là di tali specifiche disposizioni normative, non prive, di per sé, di importanza pratica, va detto che la disposizione dell'art. 10, comma 2, Codice è in grado di attirare nell'universo dei beni culturali anche le opere di arte contemporanea che pur non potrebbero mai essere qualificate come tali: la semplice accoglienza di queste nelle collezioni museali pubbliche (statali e non) è, infatti, in grado di trasformare la creazione di un autore vivente o non defunto da più di 70 anni in un bene culturale sol che, appunto, il direttore museale decida di inserirlo nelle collezioni affidate alle sue cure.

L'esempio non è di scuola essendo, al contrario, realtà quotidiana: a Napoli, ad esempio, buona parte delle collezioni del Museo del Novecento è alimentata da contratti di comodato di artisti viventi in favore della struttura ospitata in Castel Sant'Elmo, con conseguente "trasformazione alchemica" di "cose" in "beni culturali" per effetto non della verifica dell'interesse culturale in concreto (art. 12 Codice) o della dichiarazione di interesse culturale (art. 13 Codice), entrambe presupponenti il trascorrere del tempo (oggi, 70 anni), ma dello stabile inserimento nella struttura espositiva pubblica (art. 10, comma 2, Codice).

Alcune volte, la musealizzazione di oggetti contemporanei (con conseguente loro "mutazione di stato") costituisce la risultante di un atto di valutazione individuale del singolo curatore museale che, appunto, sulla base di proprie concezioni della storia e dell'arte, non necessariamente coincidenti con il senso comune (nobilmente inteso), valuta come opportuna l'acquisizione nelle proprie collezioni di determinate "cose" che, di tal guisa, divengono "beni".

Altre volte, invece, il superamento della barriera temporale dei 70 anni avviene quasi "a furor di popolo", nel senso che l'atto individuale tecnico-discrezionale costituisce espressione di un sentimento collettivo largamente condiviso nella società. Ad esempio, nella mostra "Serie fuori Serie" inaugurata a Pechino, presso il National Museum of China, il 25 aprile 2017 [10], ad eccezione di tre pezzi [11], il ministero dei Beni culturali ha esposto esclusivamente "cose" del Novecento non costituenti "beni culturali" in senso stretto. A fugare ogni dubbio intorno all'insussistenza dei presupposti normativi per il riconoscimento della qualitas di bene culturale si aggiunga pure che quelle cose, pur esposte in una mostra governativa, su suolo straniero, costituivano altresì un prodotto seriale, di origine industriale (l'opposto, dunque, dell'unicità richiesta per le cose che assurgano a divenire beni culturali).

E ciò nonostante, come si è avuto modo di rilevare, in quegli oggetti di design industriale [12] il concetto astratto di "testimonianza avente valore di civiltà" diventa esperienza concreta, quotidiana e diffusa e prescinde da giudizi tecnico-amministrativi, fa a meno di provvedimenti amministrativi. La produzione industriale, gratificata attraverso gli acquisti su vasta scala del pubblico dei clienti e dei collezionisti, costituisce la dimostrazione sul campo che quegli stessi beni 'sono già' dei 'beni culturali' proprio perché esprimono un profilo della civiltà italiana; in essi la società italiana si rispecchia, così convergendo con il giudizio dei c.d. tecnici. Quei beni costituiscono, in altri termini, anche una prova (non astratta ma reale) di democrazia" [13].

In questo caso, dunque, non si può neanche parlare di riconoscimento di bene culturale per stabile incorporazione delle cose nelle collezioni pubbliche (art. 10, comma 2, Codice) ma, forse, per condivisa constatazione del fatto che quelle cose sono divenute, nella società italiana, profili che testimoniano la civiltà raggiunta da questa.

In casi del genere ci troviamo a cospetto del superamento di fatto della nozione normativa di bene culturale e, nel contempo, forse, della sua più vera realizzazione atteso il raggiungimento di un punto di unità oggettivo tra giudizio amministrativo tecnico-discrezionale e gusti della società. Paradossalmente, la medesima garanzia di convergenza potrebbe non esservi nel caso di giudizio individuale del singolo curatore museale che accoglie nelle proprie collezioni un determinato bene infra-settantennale, ex art. 10, comma 2, Codice così come, in generale, nel provvedimento dichiarativo dell'interesse culturale ex art. 13 Codice.

Della possibile dissociazione tra giudizio tecnico-discrezionale dell'Amministrazione dei beni culturali e giudizio della collettività è consapevole anche il Consiglio di Stato che, nel parere n. 548/2018 (sez. II, 5 marzo 2018) riconosce che "il giudizio sul rilevante interesse storico-artistico di un'opera d'arte (...) risulta irriducibilmente caratterizzato perfino da un elevato grado di mutevolezza non solo nei diversi periodi storici, in base al cambiamento dei valori estetici dell'epoca, ma, nello stesso periodo, in virtù della estrema soggettività degli stessi - com'è peraltro attestato dal drammatico 'scollamento' delle valutazioni espresse dai critici e dal 'gradimento' delle opere da parte dei cittadini - fruitori delle stesse che ha dato luogo a fatti di cronaca ed al vivace dibattito tra gli stessi studiosi sulla stessa possibilità di qualificare certi 'prodotti artistici' come 'opere d'arte'".

6. I locali storici alla ricerca di un'identità

Alla eterna ricerca di una identità sono anche i locali dove per lunga tradizione, in modo pressoché ininterrotto, si svolgono attività commerciali tipiche: si pensi a storici caffè, a farmacie antiche, a librerie antiquarie, a fiaschetterie, a locali dove si costruiscono e vendono presepi o si riparano ancora bambole. Oltre al valore meta-commerciale dell'attività svolta, la loro rilevanza culturale si ricava anche dal fatto che essi contribuiscono a delineare il volto di un determinato quartiere divenendo, in taluni casi, parte del paesaggio di una città.

Come per talune opere di design, anch'essi, tecnicamente, non sono "beni culturali" ma, analogamente, s'invoca pure per essi una forma di tutela che eviti la definitiva serrata di negozi dove "da sempre" una determinata attività commerciale o di genuino artigianato si svolgono.

Per lunghi anni, tale tutela non è stata individuata nella normativa di tutela dei beni culturali; infatti, in assenza di un interesse storico-artistico intrinseco nell'immobile ove si svolge l'attività commerciale (art. 10, comma 3, lett. a), Codice) ovvero di interesse c.d. relazionale tra il locale e "la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere" ovvero nell'impossibilità di riconoscere l'immobile quale "testimonianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose" (art. 10, comma 3, lett. d), Codice), per essi la giurisprudenza amministrativa costante [14], anche sulla scia dell'insegnamento della Corte costituzionale [15], ha escluso la configurabilità di un bene culturale, con tutto ciò che ne consegue in termini di impossibilità di accordare qualsiasi forma di tutela.

Più sensibili del legislatore nazionale, anche per specifica vocazione istituzionale, le regioni hanno per prime avvertito la necessità di apprestare una forma di tutela, per quanto "atipica".

Al virtuoso esperimento della legge reg. Lazio 6 dicembre 2001, n. 31, recante "Tutela e valorizzazione dei locali storici", avversata dal ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, che temeva una lesione delle prerogative di tutela ex art. 117, comma 2, Cost.) in materia di individuazione di nuove tipologie di beni culturali [16], è finalmente seguito l'art. 2-bis, comma 1, lett. a), d.l. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, che ha introdotto il nuovo comma 1-bis dell'art. 52 Codice.

Sarebbe, però, deluso il lettore che sperasse di vedere enucleata una nuova tipologia di bene culturale. Infatti, il nuovo art. 52, comma 1-bis, Codice, continua a mantenere la distinzione rispetto ai beni culturali tradizionali indicati negli articoli 2 e 10 Codice. Ciò che viene per la prima volta consentita è la semplice individuazione dei "locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell'identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis"; ciò al fine di "assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione".

Come si vede, la nuova disposizione, inserita nel corpo di un articolato tutto dedicato ai beni culturali stricto sensu, non reca l'enucleazione di una nuova tipologia di bene culturale, limitandosi a garantire "forme di promozione e salvaguardia" di quei locali che restano al di fuori dell'area della culturalità. Si tratta, dunque, a rigore, di un non-bene culturale per il quale, eppure, manca uno specifico richiamo all'interno dell'art. 11 Codice dedicato, appunto, alle "cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela". È evidente che la tensione verso il riconoscimento di peculiari forme di tutela di tali "cose" non è esplosa nella individuazione di una nuova categoria di bene culturale, da tutelare, però, non in modo tipicamente vincolistico ma in modo dinamico: non attraverso la garanzia dell'immodificabilità ma attraverso il sostegno attivo dell'azione imprenditoriale.

Infine, non è senza significato notare che, per curiosa ironia della sorte, se la prima legge regionale sull'argomento fu impugnata dal Governo per temuta lesione delle prerogative statali in materia di tutela (di cui la individuazione dei beni culturali costituisce la principale espressione) [17], correlativamente anche il d.l. n. 91/2013 è stato impugnato davanti alla Corte costituzionale dalle regioni per violazione del principio di leale collaborazione [18]. Paradossalmente, un'analoga formulazione legislativa è stata allo stesso modo impugnata sia dalle Regioni (quando a normare è stato il legislatore statale) che dal Governo (quando la normativa è stata prodotta dalle regioni). Anche se entrambi i soggetti intendevano tutelare lo stesso fenomeno, entrambi hanno cercato di demolire il prodotto dell'altro legislatore.

7. La dilatazione del concetto di "cultura" nelle rilevazioni statistiche e nell'economia della cultura

Vi sono, poi, divulgazioni statistiche e massmediatiche tese a ricomprendere in una categoria amplissima di "cultura" fenomeni eterogenei e lontani da un concetto scientifico (ancorché non normativo) di "cultura" in senso stretto; la riconduzione del "patrimonio culturale" in tale indefinita area è, oltre che inopportuna, anche pericolosa.

Di quanto sia vasto ed eterogeneo il panorama che talvolta superficialmente si riconduce alla sfera della cultura e, quindi, anche del sotto-insieme "patrimonio culturale", si può avere conferma dalle categorie statistiche prese a riferimento dall'Istituto nazionale di statistica per le tradizionali rilevazioni annuali.

Nell'Annuario statistico nazionale 2017 [19] redatto dall'Istat, ad esempio, tra gli oggetti di rilevazione è individuata l'area "Cultura e tempo libero". È interessante notare come le attività esaminate in tale raggruppamento ricomprendano fenomeni e categorie giuridiche assai distanti tra loro e tali da far dubitare della stessa utilità della rilevazione che pur vorrebbero aiutare a comprendere le tendenze del Paese nel settore. Infatti, nell'area "Cultura e tempo libero" si ricomprendono, oltre alle classiche voci tipiche del patrimonio culturale materiale (cioè musei, aree archeologiche, biblioteche), altresì le produzioni editoriali (che costituiscono, invece, attività culturali) e, soprattutto, servizi culturali (che coincidono in minima parte con i servizi di assistenza per il pubblico dei visitatori degli istituti e luoghi della cultura) e ricreazione e cultura (che non lambiscono neanche minimamente l'area del patrimonio culturale materiale presentandosi, invece, come contrapposti a fatti di interesse culturale).

Ne deriva che la propensione al consumo in tale area, mentre sul piano comunicativo viene confezionata come afferente all'indistinta e ampia area "culturale", sul piano sostanziale descrive fenomeni che vanno dal gioco d'azzardo all'ingresso in parchi di divertimento e discoteche, dall'acquisto di attrezzature per giardinaggio e animali da compagnia fino ai concorsi pronostici e ai pacchetti vacanza "tutto compreso" [20]; in questa ampia categoria vengono ricondotti anche gli apparecchi elettronici, inclusi gli strumenti informatici.

Stessa tendenza si registra nell'area dell'Economia della cultura.

Intendendo esporre e dimostrare i benéfici effetti sulla salute umana delle diverse attività culturali, "in grado di prevenire malattie croniche anche gravi, assicurare maggiore longevità e attenuare gli effetti negativi dello stress cronico sullo stato generale di salute" [21], gli economisti della cultura partono, però, da una nozione di cultura "anglosassone, riferit[a] alla visione antropologica e non umanistica", così riferendosi, "in estrema sintesi, [all']uso intelligente del tempo libero per contribuire all'arricchimento interiore, sia esso ottenuto attraverso attività nobili (musica, pittura, teatro, letteratura) o meno nobili, come assistere ad esempio ad una partita di calcio" [22].

Pur non volendo negare i legami tra salute ed attività culturali [23], intuibili e sperabili, è evidente come i risultati della dimostrazione della tesi dipendono dalla definizione dei due concetti posti in dialettica: salute e cultura. Non intendendo affrontare il primo dei termini in questione, per il secondo può osservarsi che il presupposto definitorio da cui si parte è una nozione latissima di cultura che abbraccia non solo i beni e le attività culturali ma finanche lo sport e l'entertainment, cioè lo svago. E da ciò si ragiona cercando di indagare intorno agli effetti di tale "cultura" sulla salute e il benessere dei cittadini. Tuttavia, anche se si parla, genericamente, di "cultura", esaminando nel dettaglio le evidenze scientifiche, si scopre come queste appaiono ricollegabili almeno a tre aree. La prima coincidente con attività passive e di svago ("esiste un'effettiva correlazione tra la partecipazione ad attività di svago nel tempo libero ed un alleggerimento delle situazioni di stress, con un conseguente miglioramento delle condizioni di salute sia fisica che mentale (...). Ad esempio, la partecipazione ad attività rilassanti e passive è risultata essere il più forte fattore predittivo di un buon adattamento alle situazioni di stress" [24]), la seconda relativa ad attività ludico-sociali ("mentre la partecipazione ad attività di tipo sociale a scopo principalmente di divertimento è risultata avere più influenza nel prevedere una buona salute mentale" [25]). Soltanto un terzo tipo di evidenze cliniche dimostra che la "partecipazione ad attività di tipo strettamente culturale" costituisce "il migliore fattore predittivo di una buona salute fisica" [26].

Pur non volendo in alcun modo contestare nel merito le evidenze scientifiche di tali filoni di studi, è però evidente che se è vero che l'organismo umano non è fatto ad immagine e somiglianza dell'organizzazione amministrativa [27], una categoria così dilatata anche se genericamente posta sotto la cornice rassicurante e unificante della "cultura", si presta a spiegare solo l'ovvio, e cioè che le attività non impegnate, ricreative, di diletto, producono effetti positivi sulla salute.

Sotto altro profilo, di nostro maggiore interesse, deve ribadirsi come il concetto di "cultura" accolto negli studi di cui si discute tende a coincidere con quello a-tecnico ed a-scientifico utilizzato dall'Istat durante le rilevazioni annuali: anche qui, come visto, i consumi culturali vengono associati al tempo libero e ad ogni forma di svago e non hanno un esclusivo collegamento con i termini patrimonio culturale (materiale o immateriale che sia) o con le attività culturali tradizionali (teatro, musica, cinema e spettacolo).

Siamo lontanissimi anche dalla tradizionale nozione di cultura, definibile come "l'insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l'esperienza, l'influenza dell'ambiente e, rielaborate in modo soggettivo e autonomo, diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio" [28]. Anche in termini di antropologia culturale, il significato del termine è profondamente diverso dal modo in cui esso viene utilizzato dagli economisti della cultura, riferendosi comunemente, infatti, solo all' "insieme delle conoscenze, valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale" [29] ovvero "ai costumi e tutte le capacità acquisite e trasmesse socialmente" [30] oppure al "complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali" [31].

Da ciò si ricava ulteriore conferma di come la nozione di "cultura" assunta, oltre ad essere lontana da qualsiasi nozione normativa oggettivamente verificabile, è distante anche dalla tradizionale accezione di cultura; in conclusione, appare talmente ampia da risultare di scarsa utilità tanto per indagarne gli effetti sulla salute quanto per misurare i confini reali (e non immaginari) del patrimonio culturale.

8. Imprese culturali e creative: un'innovazione a metà

Recenti disposizioni normative, invece, se ritagliano un'area più ampia rispetto all'angustia della nozione dell'art. 2, d.lg. n. 42/2004, nel far ciò omettono ogni consapevole collegamento rispetto all'elaborazione positiva del concetto di bene e patrimonio culturale accolta (ancorché criticabilmente) nell'ordinamento.

L'art. 1, comma 57, legge di Stabilità per l'anno 2018, stanzia risorse finanziarie in favore delle "imprese culturali e creative" sotto forma di credito d'imposta "nella misura del 30 per cento dei costi sostenuti per attività di sviluppo, produzione e promozione di prodotti e servizi culturali e creativi (...)". Quel che merita rilevare in questa sede ai fini dell'indagine sull'ampiezza della nozione di patrimonio culturale è la definizione delle imprese culturali e creative operata dalla legge n. 205/2017 che coincide solo per minimi frammenti con le tradizionali definizioni di bene e patrimonio culturale (materiale).

Il secondo periodo dello stesso art. 1, comma 57, definisce le imprese culturali e creative come "le imprese o i soggetti che svolgono attività stabile e continuativa (...) che hanno quale oggetto sociale, in via esclusiva o prevalente, l'ideazione, la creazione, la produzione, lo sviluppo, la diffusione, la conservazione, la ricerca e la valorizzazione o la gestione di prodotti culturali, intesi quali beni, servizi e opere dell'ingegno inerenti alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, alle arti applicate, allo spettacolo dal vivo, alla cinematografia e all'audiovisivo, agli archivi, alle biblioteche e ai musei nonché al patrimonio culturale e ai processi di innovazione ad esso collegati" [32].

Tale definizione sembra evidenziare la raggiunta consapevolezza, nel legislatore, della necessità non solo di tutelare il patrimonio culturale esistente ma di incentivare la produzione di nuove forme espressive. Infatti, se è vero che il legislatore non può disciplinare direttamente i processi culturali che consentono la formazione dei beni culturali protetti dal Codice, nel contempo ben può sollecitare l'apporto creativo dei soggetti privati. In tal modo "si promuove indirettamente il processo culturale pur senza giungere a ridurlo a mero procedimento; in altri termini, in luogo dei processi culturali (per definizione non normabili direttamente), se ne promuovono gli attori: i soggetti privati" [33].

Tale azione promozionale avviene, però, nella legge n. 205/2017, senza incidere sulla nozione tradizionale di patrimonio culturale che, restando sempre ferma alle definizioni di cui agli articoli 2, 7-bis e 10 che presuppongono una res qui tangi potest, costituisce soltanto uno dei "prodotti" generabili dalle imprese culturali.

Sembra essersi persa, così, l'occasione per ampliare simultaneamente la nozione di patrimonio culturale fino ad estenderla ad ogni forma di produzione culturale indipendentemente dalla presenza di un substrato materiale ed a prescindere dal riferimento alla nozione di bene o attività culturale. In questo modo, solo dal lato dei soggetti può dedursi l'unità del fenomeno culturale e creativo mentre viene escluso, almeno espressamente, (quel che sarebbe stato) il coerente ampliamento della nozione di patrimonio culturale.

L'innovazione legislativa, anche se segna un passo in avanti nella direzione auspicata da chi scrive, si presta ad ingenerare non poca confusione terminologica attesa la contemporanea permanenza di una nozione normativa di patrimonio culturale (criticabilmente) ristretta ed intesa nella sua più tradizionale materialità e staticità.

In altri termini, anche se il concetto di impresa culturale e creativa, in quanto orientato alla generazione di ogni espressione creativa, è condivisibilmente slegato dalla nozione di patrimonio culturale come definito nell'art. 2 Codice, in assenza di una modifica di questo, l'espressione "impresa culturale e creativa" rischia di creare confusione attesa la varietà di significati che continuano a riconnettersi alla categoria della "cultura" e del "patrimonio culturale".

 

Note

[*] Le opinioni espresse impegnano solo l'Autore e non esprimono la posizione dell'Amministrazione di appartenenza.

[1] A.L. Tarasco, La redditività del patrimonio culturale. Efficienza aziendale e promozione culturale, Giappichelli, Torino, 2006, 1-2.

[2] F. Merusi, Articolo 9, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca. Principi fondamentali. Art. 1-12, Zanichelli-Foro italiano, Bologna-Roma, 1975, pag. 434 ss., qui pag. 446.

[3] In questi sensi, sia consentito rinviare al nostro Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Editoriale scientifica, Napoli, 2017.

[4] D'ora in avanti anche Codice.

[5] Diversamente dalla Reggia, pure borbonica, di Capodimonte, oggi sede della magnifica pinacoteca.

[6] Per una rassegna delle maggiori e più antiche biblioteche nel mondo, M. Listri, Biblioteche, Edizioni Sabinae, Roma, 2012.

[7] Posto che l'area archeologica si caratterizza per la presenza di resti di natura fossile o di manufatti o strutture preistoriche o di età antica.

[8] Come noto, ai sensi dell'art. 2, comma 1, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003, per "patrimonio culturale immateriale" s'intendono "le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale".

[9] Legge 27 dicembre 2017, n. 205 recante "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020".

[10] Organizzata dal Governo italiano in attuazione del Memorandum d'intesa "Italia-Cina" sottoscritto il 7 ottobre 2010; al Memorandum è poi seguito il Forum culturale Italia-Cina il cui statuto - dopo il primo colloquio italo-cinese svoltosi a Roma il 4 giugno 2014 - è stato adottato il 20 luglio 2016 tra il Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo e il Ministro della Cultura della Repubblica popolare cinese.

[11] Due porcellane - del 1925 e del 1935 - provenienti dalla collezione Ginori-Richard, e La sedia per l'ingresso della casa di Fiammetta Sarfatti, disegnata dall'architetto Marcello Piacentini nel 1933, proveniente dalla collezione Wolfosoniana di Genova.

[12] Si pensi alla scarpa Superga risalente al 1934; alla bottiglietta Campari Soda disegnata nel 1932 dall'artista Fortunato Depero; alla Moka Express della Bialetti prodotta dal 1933; al cappello maschile Borsalino, del 1932; al televisore della Brionvega, Algol 11, disegnato da Zanuso e Sapper nel 1964; alla mitica Lambretta 125 c.c. della Piaggio, del 1951.

[13] A.L. Tarasco, Il design quale testimonianza della civiltà italiana nel mondo, in Aedon, 2017, 2.

[14] Nulla è cambiato da Tar Campania, Napoli, sez. I, 21 aprile 1999, n. 8556, con nota di A.L. Tarasco, Attività culturali e vincoli storico-artistici a Napoli: da "Gay Odin" alla "Libreria internazionale Treves", in Urb. App., 2000, 2, pag. 189 ss.

[15] Corte cost. 9 marzo 1990, n. 118, in Giur. Cost., 1990, 660, con nota di F. Rigano, Tutela dei valori culturali e vincoli di destinazione d'uso dei beni materiali, pag. 665 ss.

[16] Come noto, la Corte costituzionale (C. Cost. 28 marzo 2003, n. 94, commentata, tra gli altri, da S. Cavalieri, Oscillazioni in senso centralistico della giurisprudenza costituzionale in tema di altri beni culturali diversi da quelli identificati tali ai sensi della normativa statale; A.M. Poggi, Verso una definizione aperta di "bene culturale"?, in Aedon, 2003, 1) ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale proposta nei confronti dell'intera legge della regione Lazio, 6 dicembre 2001, n. 31 sul presupposto che questa "non pretende quindi di determinare una nuova categoria di beni culturali ai sensi del d.lg. n. 490 del 1999, ma prevede semplicemente una disciplina per la salvaguardia degli "esercizi commerciali ed artigianali del Lazio aperti al pubblico che hanno valore storico, artistico, ambientale e la cui attività costituisce testimonianza storica, culturale, tradizionale, anche con riferimento agli antichi mestieri". La qualificazione regionale di locali storici "rende semplicemente ad essi applicabile la speciale disciplina della legge regionale in tema di finanziamenti per la loro valorizzazione e per il sostegno delle spese connesse all'aumento dei canoni di locazione, senza produrre alcuno dei vincoli tipici della speciale tutela dei beni culturali di cui al d.lg. n. 490 del 1999".

[17] Vicenda poi conclusa vittoriosamente per la regione Lazio (Corte Cost. n. 94/2003, cit.).

[18] Come noto, la Corte costituzionale, con sentenza 9 luglio 2015, n. 140 (annotata da G. Sciullo, Corte costituzionale e nuovi scenari per la disciplina del patrimonio culturale, in Aedon, 2017, 1), ha dichiarato, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 2-bis, d.l. n. 91/2013, nella parte in cui non prevede l'intesa fra Stato e regioni.

[19] Roma, 2017.

[20] Precisamente, nell'ambito della classificazione internazionale utilizzata per la spesa per consumi finali delle famiglie (Coicop) ed utilizzata dall'Istat per alimentare la sezione "cultura e tempo libero" oggetto delle rilevazioni annuali, la voce "Servizi culturali" comprende le spese per i servizi forniti da sale cinematografiche, attività radio televisive e da altre attività dello spettacolo (discoteche, sale giochi, fiere e parchi divertimento); per i servizi forniti da biblioteche, archivi, musei ed altre attività culturali e sportive; per i compensi del servizio dei giochi d'azzardo (inclusi lotto, lotterie e sale bingo). Analogamente, secondo la stessa classificazione internazionale utilizzata dall'Istat, la voce "Ricreazione e cultura" ricompresa in "Cultura e tempo libero" include attrezzature audiovisive, fotografiche e di elaborazione delle informazioni e loro manutenzione e riparazione; beni durevoli per attività ricreative all'aperto; strumenti musicali e beni durevoli per attività ricreative al coperto e loro manutenzione e riparazione; altri articoli e attrezzature per attività ricreative, giardinaggio e animali da compagnia; giochi, giocattoli e passatempi; articoli sportivi, da campeggio e per attività ricreative all'aperto; giardini, fiori e piante; animali da compagnia e relativi prodotti, servizi ricreativi e sportivi; servizi culturali; concorsi pronostici; giornali, libri e articoli di cancelleria; pacchetti vacanza "tutto compreso".

[21] E. Grossi, Evidenze cliniche dei rapporti tra cultura e salute, in Economia della cultura, 2017, 2, pag. 175 ss.

[22] E. Grossi, Evidenze cliniche, cit., pag. 176.

[23] Si vedano, al riguardo, oltre agli studi di A. Lampis (da ultimo Verso un'idea di welfare allargato. Il welfare culturale nelle iniziative della Provincia Autonoma di Bolzano, in Economia della cultura, n. 1/2017, 131 ss.), gli scritti (di P.L. Sacco, R. Fisher, D. Fujiwara - R. N. Lawton - S. Mourato, K. V. Mulcahy, J. Erkkila-Hill) pubblicati nel numero monografico n. 2 del 2017 della rivista Economia della cultura dedicato al tema "Cultura, salute, benessere".

[24] E. Grossi, Evidenze cliniche, cit., pag. 177.

[25] E. Grossi, op. loc. ult. cit.

[26] E. Grossi, op. loc. ult. cit.

[27] A sua volta, non esiste neanche un'unica tipologia di organizzazione amministrativa sul piano planetario.

[28] Voce Cultura, in La piccola Treccani. Dizionario enciclopedico, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1995, pag. 579. Analogamente la voce Cultura in Grande dizionario italiano dell'uso ideato e diretto da Tullio de Mauro, Utet, Torino, 1999.

[29] Voce Cultura, in La piccola Treccani, cit., pag. 579.

[30] Voce Cultura, in La piccola Treccani, cit., pag. 580.

[31] Voce Cultura, in G. Devoto - G. C. Oli, Nuovo Vocabolario illustrato della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1992.

[32] Il comma 58 dell'art. 1, legge n. 205/2017, affida ad un decreto del ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, di concerto con il ministro dello Sviluppo economico la disciplina della "procedura per il riconoscimento della qualifica di impresa culturale e creativa e per la definizione di prodotti e servizi culturali e creativi e sono previste adeguate forme di pubblicità".

[33] Sia consentito il richiamo a A.L. Tarasco, Beni, patrimonio e attività culturali. Attori privati e autonomie territoriali, Editoriale scientifica, Napoli, 2004, soprattutto cap. 1, nonché, più di recente, Il Patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, cit., spec. capitoli 1 e 2. In precedenza, negli stessi sensi, S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rass. Arch. St., 1975, pag. 116 ss. (anche in Id., L'Amministrazione dello Stato, Milano, 1976, pag. 152 ss.).

 

 

 



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