Musei e "altri" beni culturali
Codice etico di ICOM e disciplina dei musei in Italia [*]
Sommario: 1. Il Problema di Antigone. - 1.1. Etica, deontologia. - 1.2. Codici etici e carte etiche. - 1.3. Il Codice ICOM in Italia. - 2. Tipologie giuridiche di musei: il problema del museo pubblico. - 2.1. I musei italiani come organizzazioni: pubblici, privati, qualche misto. - 2.2. I musei pubblici: a) i musei statali; b) musei regionali e degli enti locali. - 2.3. Spunti conclusivi.
The Icom Code and the Museums Italian Regulation
The issue of rules that everyone must follow to give value to life is as old
as thinking man, who will face necessarily, sooner or later, a Deuteronomy,
the multiplicity of rules, all of which - quite rightly - claim to be respected.
This approach could be useful for a correct placement of the "ICOM Code",
and to comment adequately its ambitious name, placing the problem, for example,
if it is an ethical code, or a code of deontological ethics, at least for
the reductive way in which this definition has now entered into use to describe
current principles and standards of proper behaviours related to specific
professional groups. This intervention will be limited to a few brief remarks,
strictly legal, as to the value and functioning of the operating rules and
their treatment in a case like this, where a discipline, supranational, non-institutional,
showing a name with the adjective "ethical" (the ICOM Code) must
be measured by a National regulatory system which clearly has full legal value.
The analysis allows some conclusions. First, it is possible that the ICOM
Code has a good validity in Italy, not because it is adopted, recalled or
incorporated by law, but because the complex and layered current regulations
include provisions for museums in general very consistent or in conformity
with its indications. Even where this is not, its implementation is technically
possible when the museum is equipped with sufficient decision-making autonomy,
as it is quite visible whenever the museum is run by a dedicated legal entity,
either public or private. It is a different story, instead, when the museum
is a department or a part of a public body, as it is for most of the Italian
state museums, in which case the ICOM Code can certainly work as a "soft
law", and in fact this address is shown in the act of Italian ministerial
standards. However, there remains a considerable gap between what the code
assumes - sufficient autonomy of the museum and its makers - and the reality
of most of state museums, offices today - or even segments of office - of
the ministry, even in spite of legislation itself. As for the museums of local
institutions, the legislation offers many possibilities for the adoption of
the ICOM Code, but the reality still presents significant differences. Italian
legislation in recent years has clearly innovated the theme of the mission
of museums, in the sense that now the task required is at least double, because
there is, next to protection of collections, the so-called valorisation
of cultural goods; but the real news, I would say cultural, is elsewhere,
in the sense that protection and valorisation are centred around a key issue:
the legislation in force today tells us that in fact the public functions
are aimed at something that is called, with terminology also questionable,
the fruition, the public use. For the Italian regulatory system, in
short, any decision must value the cultural goods from fixed points of protection,
but it must then navigate to fruition. One wonders if the ICOM Code is set
in that way, if all its principles, and propositions that follow, clearly
bear the ultimate purpose of the public use, or not yet, as in the past it
was common idea, are structured from the mere conservation, considering the
public, its needs, its diverse and complex characteristics, a kind of result,
a margin, in front of the fundamental aspect of protecting.
1.1. Etica, deontologia
La risalente questione delle regole che ognuno deve seguire per dare il proprio valore alla vita è antica quanto l'uomo pensante, che incontra necessariamente, prima o poi, una deuteronomia, una molteplicità di norme che, tutte, pretendono rispetto - a buon diritto -, e nella cultura occidentale è ancora ben viva la straordinaria rappresentazione del dilemma per come riuscì a Sofocle, nel raccontare in scena la vicenda di Antigone e Creonte [1].
Nulla di sorprendente, allora, se il trattamento etico delle scelte umane si muove, ancora oggi, tra orientamenti diversi; solo per menzione, basterà pensare alla contrapposizione tra consequenzialismo [2] e dentologismo [3], che solo banalmente può ricondursi ad un differente approccio, volto l'uno a misurare l'eticità di un comportamento in base alle sue conseguenze, l'altro a considerare il dovere come categoria morale a sé stante.
L'inesausta - e, probabilmente, inesauribile - discussione in termini di filosofia morale potrebbe tornarci utile [4] per una corretta collocazione del documento prodotto dall'ICOM, e per commentare adeguatamente la sua ambiziosa denominazione, ponendoci il problema, ad esempio, se esso non si riveli, più che un codice etico, un codice deontologico, almeno per il modo riduttivo con cui questa definizione è ormai entrata nell'uso corrente per qualificare principi e regole di corretto comportamento riferiti a specifiche categorie professionali [5].
Tuttavia, questo sarebbe programma troppo ambizioso per le mie capacità e conoscenze, e dunque non sorprenderà se giustamente vi rinunzio; mi limiterò, perciò, ad alcune brevi osservazioni, di carattere più propriamente giuridico, in ordine al valore ed al funzionamento delle norme e del loro trattamento operativo, in un caso come questo in cui una disciplina, di origine sovranazionale, non istituzionale, che si presenta con l'aggettivo etico si deve misurare, come si vedrà, con una normativa nazionale che, senz'altro, ha invece pieno valore giuridico.
1.2. Codici etici e carte etiche
I codici etici, ed ancor più quelli deontologici, hanno un particolare valore quando si misurano con comportamenti umani che non sono oggetto di disposizioni propriamente normative, espressione, quest'ultima, con cui provo a riassumere, forse brutalmente, una complessa questione, essenzialmente volta a riconoscere quale sia la sede decisionale più appropriata per stabilire le regole dei comportamenti di un certo gruppo umano, e a rilevarne, e reprimerne, gli scostamenti [6].
Si tratta di un tema antico e non del tutto risolto, che probabilmente - per la sua ampiezza - finisce con involgere diverse "categorie del politico" [7], e che tuttavia, nel mondo contemporaneo, può essere trattata in termini, se pragmatici, meno complessi che in passato; o almeno, come proverò a dimostrare, in termini utili per la situazione dei musei in Italia.
L'epoca che viviamo è in effetti estremamente ricca di norme pubbliche [8], con ciò intendendo, atecnicamente e per ciò che riguarda il nostro paese, l'intera produzione normativa degli organi repubblicani dotati del potere di maneggiare fonti giuridiche [9], strumenti cioè di confezione di regole dotate dei caratteri peculiari delle "norme di diritto", che le distinguono dalla innumerevole serie delle discipline che, prodotte nei più vari modi, sono comunque immanenti sulla vita di ciascuno di noi [10].
Vi sono tuttavia aree dell'esperienza umana in cui, per ragioni diverse, le norme giuridiche non ci sono, o non ci sono ancora, o sono molto essenziali; è proprio in tali ambiti che, allora, acquistano particolare importanza, appunto, le regolamentazioni spontaneamente prodotte, e dunque trovano spazio peculiare anche i codici etici, che così riescono ad acquisire pregnante valore normativo, a volte persino statutario, vale a dire una capacità di connotare l'appartenenza al gruppo cui si riferiscono, e la permanenza in esso, e possono inserirsi a completare un quadro complesso, che ben si riassume nella massima "la legge non è tutto il diritto" [11].
Vi sono poi casi nei quali, anche qui per una serie di diverse ragioni, è la stessa "legge pubblica" a limitarsi, lasciando spazio a forme svariate di autoregolazione, o addirittura richiamando esplicitamente la necessità di discipline adottate dai soggetti interessati, spesso accompagnando tale previsione con misure di rafforzamento e tutela dell'efficacia delle norme così prodotte [12].
Molto meno rilevanti si rivelano i codici etici, invece, nelle aree in cui la disciplina pubblica - nei termini anzidetti - è presente, esaustiva, o almeno sufficientemente dettagliata; in tali casi, in effetti, non solo la definizione normativa, e dunque i valori protetti ed i disvalori combattuti, sono dovuti alla scelta politica dell'organo pubblico che vi è competente e ne è autore, ma l'insieme del regime giuridico che ne deriva è connotato in termini tali che il rispetto di quelle norme, la repressione delle loro violazioni, e l'applicazione delle conseguenti sanzioni è integralmente rimesso al complesso apparato pubblico a ciò preposto (legislatore, governo, amministrazione, giudici). E ciò rende molto meno efficaci non solo le eventuali regole etiche o deontologiche spontaneamente aggiunte dai "gruppi" - a dir così - già regolati, ma soprattutto l'eventuale meccanismo repressivo o sanzionatorio, a causa della prevalenza del sistema normativo pubblico, della sua maggior forza coercitiva.
In questi casi, può probabilmente tornare utile, se vi sono principi etici o deontologici "di gruppo" che si intendono rendere espliciti, dettagliando la disciplina "pubblica" vigente, fare ricorso, anziché a codici, a "carte etiche o deontologiche".
Come sempre quando si ha a che fare con questioni terminologiche, il rischio è di perdersi dietro a minuzie; e tuttavia tutti abbiamo consapevolezza di quanto, se una sostanza diverge da un'altra, sia opportuno e normale dare anche denominazioni diverse.
Usando allora il termine "carta etica" in luogo di "codice", si intende utilizzare una tecnica che insiste su una peculiare caratteristica del diritto, l'essere uno di quei complessi "oggetti sociali" [13] sottoposto, per sua natura, ad interpretazione, non solo per mera necessità epistemica, o per voluttà speculativa, ma per necessità di applicazione ed uso.
Questa caratteristica del "giuridico" rende possibile dotare un sistema normativo di strumenti concordati ed espliciti per la loro interpretazione ed applicazione ad un oggetto peculiare, di modo che, ad esempio, di fronte a più di una interpretazione possibile di una norma, la sua applicazione ad un caso concreto venga orientata da quegli strumenti, in modo da scegliere quella più adatta ad esso [14].
Mentre un "codice", normalmente, è costruito con disposizioni, strutture normative di una certa precisione precettiva, le quali, proprio per questa caratteristica, se si scontrano con una "norma pubblica" sono costrette a cederle il passo, una "carta" è normalmente fatta di principi, orientamenti, descrizioni di valori; con la conseguenza che la sua struttura non solo è, di norma, compatibile con l'applicazione di disposizioni giuridiche pubbliche, ma anzi guida l'interprete che deve rispettarle - sia esso il pubblico funzionario, il giudice, o nel nostro caso il direttore del museo, lo studioso o il visitatore - a trarne il significato dispositivo più adeguato fra quelli possibili in via interpretativa.
1.3. Il Codice ICOM in Italia
La premessa sin qui condotta si è resa necessaria (e si tratta di una sintesi, tutt'altro che esaustiva e pacifica), perché il "Codice etico" dell'ICOM, in Italia, forse a differenza che in altri paesi, si inserisce in un quadro normativo piuttosto consistente di "regole pubbliche" rilevanti per il suo contenuto.
Ciò è forse, anzitutto, dovuto alla presenza dell'art. 9 della Carta costituzionale repubblicana, con il quale il nostro Paese, tra i primi nel mondo, ha deciso di porre tra le basi dell'accordo fondamentale di convivenza che, tra le altre cose, è ogni Costituzione, anche una forte attenzione al "patrimonio storico ed artistico della Nazione", facendo di ciò una "missione pubblica".
Almeno sul piano giuridico, ed almeno per l'esperienza del periodo repubblicano, è infatti quella la ragione per la quale una buona parte delle collezioni museali sono pubbliche, e pubblici sono molti musei del nostro Paese. Ma è anche la ragione per una peculiare disciplina giuridica della proprietà che abbia ad oggetto cose di rilevanza culturale, in parte distinta da quella di cose che tale rilevanza non abbiano, e dell'organizzazione pubblica che si occupa di beni culturali, di quel complesso di organi ed uffici cui, per legge, è affidata una missione che vi ha a che fare.
Questa missione, ed il modo con cui va condotta, come esemplificherò subito, è perciò oggetto di una più o meno intensa disciplina di "norme pubbliche", anche a causa di un secondo presupposto costituzionale, il principio di legalità che, in termini tecnici, qui prende anzitutto il volto della "riserva di legge": gli scopi, le modalità essenziali e le strutture organizzative dell'amministrazione pubblica della cultura, dentro alla quale sta anche l'attività dei musei pubblici, sono stabiliti in base a norme giuridiche pubbliche, primarie o secondarie.
Ciò spiega l'assunto di partenza, e rende conto della intensità della trama normativa con la quale il Codice ICOM si trova a misurarsi in Italia. E dovunque, per ipotesi, vi fossero disposizioni del codice che contrastassero o non coincidessero con qualcuna di queste "norme pubbliche", a prescindere da ogni valutazione sulla rispettiva opportunità ed adeguatezza, quelle sono destinate a lasciare il passo a queste, sino a che non vengano abrogate o mutate.
A ben vedere, però, il Codice ICOM presenta alcune disposizioni pienamente coincidenti, o almeno compatibili, con la disciplina giuridica italiana, e dunque, in ciò, esso è pienamente, di fatto, vigente; altre che, invece, come subito si vedrà, presentano qualche antinomia, ed altre ancora, infine, che si riferiscono a tematiche non disciplinate in termini giuridici.
Mentre dunque per una parte delle sua disposizioni il valore del Codice non può che essere quello della "proposta attrezzata", ovvero un suggerimento per una modifica della disciplina vigente proveniente da una riflessione esperta ed affidabile, per tutto il resto il Codice può essere inteso come una "carta", nei termini poc'anzi illustrati, allorché cioè possa essere utilizzato come strumento per l'interpretazione, anche integrativa, della normativa pubblica riguardante i musei.
2. Tipologie giuridiche di musei: il problema del museo pubblico
2.1. I musei italiani come organizzazioni: pubblici, privati, qualche misto
I musei italiani presentano una straordinaria varietà, oltre che, come è normale, nella forma, nelle finalità e nei contenuti, anche sotto il profilo della struttura giuridica.
Senza tirarla per le lunghe, dirò subito che ritengo adeguato al tema di questo intervento trattare questo aspetto con una dicotomia, apparentemente semplificante, dividendo i musei allorché si presentino come strutture pubbliche o private [15], cui va aggiunta una variante, invero tutt'altro che insignificante, che recentemente è andata crescendo, l'ipotesi in cui il museo sia dovuto ad una coalizione tra soggetti pubblici e privati.
Devo subito dire che la distinzione proposta non riguarda la natura dell'attività museale; mi sembra che, almeno nell'attuale momento storico, sia difficile dubitare che, chiunque ne sia proprietario, o vi abbia comunque capacità decisionali, le attività che avviano e gestiscono un museo sono da ritenere di interesse collettivo; senza perdermi in sofisticate speculazioni, posso fondare l'affermazione sulla disposizione dell'art. 101 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che stabilisce che i musei "che appartengono a soggetti pubblici sono destinati alla pubblica fruizione ed espletano un servizio pubblico", e quelli "che appartengono a soggetti privati e sono aperti al pubblico espletano un servizio privato di utilità sociale".
Né la distinzione tra musei pubblici e privati implica conseguenze in ordine ad altre prospettive classificatorie, pure molto importanti, come quella, dirimente, che prende a misura la natura della collezione, a partire dal fatto che riguardi beni culturali in senso giuridico, ovvero altre testimonianze [16].
Non è questa la sede per analizzare le notevoli conseguenze di questo approccio, che è normativo ed epistemico; esso però non smentisce la proposta di usare, sia pure solo ai fini di questa riflessione, la distinzione organizzativa tra musei pubblici e privati.
In effetti, i musei sono, tra l'altro, organizzazioni, e sotto il profilo giuridico possono, perciò, essere soggetti, oppure organi o uffici di persone giuridiche; quando essi sono retti da soggetti privati (è di scuola, almeno a mia conoscenza, l'ipotesi di musei-organi di persone giuridiche private) l'organizzazione, le modalità decisionali, i flussi finanziari, la disciplina della contabilità di un museo privato sono dovuti all'autonoma scelta del soggetto proprietario, entro limiti che probabilmente non sono quelli della cd. autonomia privata, ma di quella che potremmo definire, in linea con la qualificazione normativa, autonomia sociale [17], limiti che, a prescindere dalla loro intensità, rendono comunque possibile una volontaria, se del caso integrale adozione del Codice ICOM nella disciplina del soggetto museale; insomma, un'associazione, una fondazione o un altro tipo di persona giuridica privata che fondi e regga un museo non ha alcun impedimento a trascrivere nel proprio statuto o a recepire negli altri atti che disciplinano la sua organizzazione e la sua attività l'intero dispositivo del Codice.
Pur con qualche cautela, analogo discorso può proporsi anche in confronto ai soggetti misti, ai quali cioè partecipino strutturalmente soggetti pubblici e privati. Le rare esperienze italiane di tal genere, in effetti, sono strutturate sul modello delle persone giuridiche private, e pur con qualche vincolo in più, è possibile sostenere che anche per esse nulla osta al recepimento, integrale, delle disposizioni del Codice ICOM [18].
2.2. I musei pubblici
Il discorso è più complesso riguardo ai musei pubblici, con tale espressione intendendo quelli retti esclusivamente da soggetti pubblici mediante proprie organizzazioni; definizione la quale, purtroppo (o per fortuna, non saprei dire) è del tutto incapace di rendere la notevole varietà strutturale dei musei pubblici italiani.
Provando a proporre una sorta di rapida panoramica, sembra corretto non solo distinguere musei statali, regionali, degli enti locali, di altri enti pubblici, ma anche tenere conto della identità e dell'origine della collezione, e del rilievo territoriale, comunitario che essa esprime. Ed infine, torna utile tenere in considerazione se il museo sia retto da un organo, da un ufficio o da un apposito soggetto pubblico, costituito cioè esplicitamente con il compito di gestire il museo.
Partendo da quest'ultimo aspetto, assume qui rilievo la complessità poc'anzi segnalata in ordine alla vigenza della riserva di legge organizzativa; i musei pubblici, in quanto organizzazioni pubbliche, possono essere definiti pubblici uffici, ed in quanto tale la loro struttura e le regole del loro funzionamento sono "secondo disposizioni di legge" (art. 97 Cost.). E le disposizioni normative, al riguardo, sono state interessate nell'ultimo ventennio da un rutilante processo riformatore, il cui risultato, al momento, presenta ancora non poche contraddizioni.
a) musei statali
Ne segnalo qui solo una, dirimente. E' noto che, secondo la legge, le attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica sono gestite in forma diretta o indiretta, e la gestione diretta - quella sin'ora, di fatto, utilizzata per i musei statali, al netto dei servizi retail (aggiuntivi o per il pubblico, che dir si voglia) - dovrebbe essere "svolta per mezzo di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. Le amministrazioni medesime possono attuare la gestione diretta anche in forma consortile pubblica" [19].
Queste disposizioni, non hanno trovato sin'ora concreta attuazione per ciò che riguarda la "gestione diretta" dei musei statali. A dispetto, infatti, di quella norma, ma anche della disciplina regolamentare del ministero per i Beni e le Attività culturali [20], con qualche rara eccezione, essi sono strutture organizzative prive di alcuna autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; non hanno un proprio bilancio, né proprie regole di contabilità, raramente hanno documenti che testimoniano il proprio, distinto andamento finanziario, non hanno proprio personale dipendente (quello stabile di cui dispongono è di ruolo presso il ministero), non hanno perciò relazioni industriali, non hanno comitati scientifici, non hanno propri documenti patrimoniali, non hanno propri regolamenti, ed in genere nemmeno sono propriamente organi, poiché sono di massima totalmente dipendenti da altri uffici del ministero, che siano le soprintendenze di settore, le direzioni regionali o quelle centrali.
In questo quadro appare residuo lo spazio per l'utilizzo effettivo di diverse disposizioni del Codice ICOM, almeno per le parti non ricomprese nella disciplina vigente per i musei statali; in particolare, può essere misurato un sensibile scarto sia per il fronte dell'organizzazione, dove la figura del direttore del Museo e del conservatore stentano a trovare una propria dimensione negli organici dei ministero; sia per quello del rapporto con il territorio, anche quando la storia o la natura delle collezioni lo giustificherebbe, soprattutto a causa della difficoltà di avere appositi organismi di confronto o di consulenza scientifica; su quello della contabilità patrimoniale, laddove la disciplina della contabilità pubblica non è sufficientemente adeguata a rilevare i valori propri degli assets di un museo, e le stime, quando ci sono, non provengono da autorità indipendenti.
Più in generale, senza ulteriormente analizzare le singole disposizioni, il tema rilevante, mi sembra, è quello della responsabilità; il Codice ICOM, per sua stessa natura, è sostanzialmente una rassegna delle responsabilità connesse alla gestione museale, e suppone, perciò, che gran parte di essa ricada, in sostanza, sulle persone che il Museo lo reggono.
L'impianto dei musei statali, invece, ad eccezione di quelli gestiti dai Poli museali (eccezione peraltro limitata), suppone la responsabilità ministeriale della gestione, ed è costruito in funzione di tale impostazione, anche sul conseguente fronte dei poteri decisionali.
Una seconda contraddizione, o meglio testimonianza dello stato di trasformazione in cui ancora si trovano i musei statali, è fornito dalla presenza dell'atto di indirizzo ministeriale sugli standard [21], il quale non solo richiama - è noto - alcuni contenuti del Codice ICOM, ma in qualche maniera suppone, come è stato ben notato [22], un museo con caratteristiche tali da essere in grado di definire le proprie regole di funzionamento, oltre che la propria caratteristica missione specifica.
b) musei regionali e degli enti locali
Più agevole si rivela il discorso relativamente ai musei regionali e degli enti locali [23]; gli strumenti organizzativi a loro disposizione per costituire e gestire musei sono infatti tali che, in genere, è possibile costruire un apposito sistema decisionale, dotato di proprie regole e con notevoli capacità di esercizio autonomo sia delle decisioni, che del flusso finanziario; in più, a seguito della riforma costituzionale del 2001, la disciplina che riguarda la loro gestione è, potenzialmente, regionale, con ampli spazi per una regolamentazione di dettaglio, ed organizzativa, dell'ente proprietario [24].
Le formule maggiormente in uso sono infatti quelle del soggetto autonomo (associazioni e fondazioni, su tutti [25]), o del ricorso a strumenti peculiari, previsti dalla disciplina degli enti locali, quali le cd. istituzioni e le aziende autonome [26]. Non è infrequente, poi, l'utilizzo di fenomeni aggregativi tra più soggetti, sia integralmente pubblici che misti, anche con privati, che proprio perciò, in genere, sono dotati di autonomia normativa a sufficienza per poter decidere di utilizzare, anche integralmente, i precetti del Codice ICOM.
Guardando un po' più in dettaglio questi fenomeni organizzativi di gestione diretta, e partendo con l'istituzione, essa è una struttura che ha una notevole capacità auto-organizzativa, ed una certa autonomia nelle regole della propria contabilità, in quanto il suo Statuto, il suo Regolamento organizzativo quindi la sua organizzazione e le modalità con cui disciplina le entrare e le uscite sono definite dal Consiglio o dalla Giunta del comune o della provincia di riferimento, propriamente per essa.
Non è (anche se qualcuno sospetta lo sia) un ente pubblico autonomo, ma ha una certa qual soggettività (ad esempio, ha una propria partita IVA, una propria posizione fiscale); soprattutto ha un bilancio autonomo, cioè le entrate e le uscite, si scusi la banalità dell'approccio, non transitano nel bilancio dell'ente di riferimento cioè in quello del comune o della provincia che lo fa nascere, ma in realtà rimangono tutte allocate a livello dell'istituzione, e questa autonomia di bilancio consente agli organi dell'istituzione di decidere come orientare i propri investimenti, le proprie risorse, e dunque ha un notevole margine decisionale di tipo gestionale.
Non decide le regole della propria contabilità, ma può averne di proprie, e comunque decide autonomamente la propria gestione e lo fa mediante propri organi e propri uffici, un consiglio di amministrazione, un presidente, e nulla vieta, se la sua normativa venga costruita per bene, che abbia anche un direttore, un curatore, organi di consulenza tecnico-scientifica.
Insomma, l'Istituzione è un modello pienamente coerente con l'indicazione del Codice, ha caratteristiche assai simili alle sovrintendenze speciali statali.
Esiste anche una seconda forma di gestione diretta, tutta pubblica, quello della azienda speciale, che è soggetto strumentale dell'ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto, approvato dal Consiglio comunale o provinciale, la cui attività è improntata a criteri di efficacia, efficienza ed economicità.
Non è ontologicamente proteso al perseguimento di utili, ma ha il solo obbligo del pareggio di bilancio da conseguire, peraltro, attraverso l'equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti, che possono servire anche per la copertura degli eventuali costi sociali.
Una caratteristica importante dell'azienda speciale è che, di norma, essa funziona solo in favore di un soggetto, non riuscendo ad adattarsi, se non previa convenzione, ad una gestione integrata, tanto è vero che la sua struttura non prevede un elemento assembleare di composizione, essendo uno strumento operativo (pur dotato di distinta personalità giuridica) di un solo ente territoriale.
Anche in questo caso la struttura e la conformazione giuridica del soggetto lo rendono in grado di adottare volontariamente la disciplina del Codice ICOM, anche sul piano organizzativo.
Se queste sono le potenzialità offerte dalle disposizioni normative, poi la realtà si rivela assai diversa; dall'indagine compiuta dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti - avviata nel 2003, conclusa nel 2005 e presentata nel 2006 [27] - si rileva infatti che nessun museo tra quelli analizzati ha una contabilità distinta rispetto a quella dell'ente locale cui appartengono, solo il 25% ha uno statuto, e la maggioranza (il 51%) è sprovvista di un proprio regolamento, non tutti i musei hanno un direttore (ne è dotato solo il 64%), solo il 39% di essi si è occupato di formazione del personale (non necessariamente specialistica), la massima parte dei musei (ben il 68%) gestisce i servizi museali in via diretta mentre i casi di esternalizzazione sono realizzati mediante convenzione, le cui procedure di scelta del gestore non adottano sempre i sistemi di evidenza pubblica; ridotte (solo il 43%) e non continuative sono le misurazioni del grado di soddisfazione dell'utenza, mentre l'adozione della carta dei servizi rappresenta un orizzonte ancora lontano da raggiungere, essendo adottata solo dal 4,8% dei musei oggetto della rilevazione.
2.3. Spunti conclusivi
L'analisi ci consente di trarre alcune conclusioni. In primo luogo, è possibile sostenere che il Codice ICOM abbia una discreta vigenza in Italia, non perché sia adottato in quanto tale, richiamato o recepito, ma perché la complessa e stratificata normativa vigente per i musei contempla disposizioni in genere compatibili o decisamente conformi alle sue indicazioni.
Anche dove ciò non è, il suo recepimento è tecnicamente possibile allorché il museo sia dotato di sufficiente autonomia decisionale, ed in particolare di autonomia normativa, organizzativa ed economico-contabile, come è abbastanza visibile ogni qual volta che il museo sia retto da un apposito soggetto giuridico, pubblico o privato che sia.
Diverso è il discorso allorché, invece, esso sia un ufficio o un organo di un soggetto pubblico maggiore, in particolare come è visibile per la gran parte dei musei statali; qui il Codice può certo funzionare come una "carta", ed infatti ciò si vede nell'atto di indirizzo ministeriale sugli standard. Tuttavia, resta un notevole scarto tra ciò che il Codice suppone - una sufficiente autonomia del museo e dei suoi decisori - e la realtà della gran parte dei musei statali, ancora oggi uffici - o addirittura segmenti di ufficio - del ministero, anche a dispetto della stessa normativa; ma anche per quelli delle istituzioni locali, s'è detto, la realtà misura tutt'ora differenze rilevanti con le possibilità offerte dalle previsioni normative.
Sin qui si è discusso della compatibilità della situazione interna italiana rispetto al Codice ICOM. Un cenno finale, tuttavia, vorrei dedicarlo anche ad una riflessione invertita, ovvero a qualche considerazione su aspetti della disciplina vigente in Italia che non trova, forse, analoga considerazione nel Codice.
La legislazione italiana degli ultimi anni ha chiaramente innovato il tema della missione dei musei, nel senso che oggi il compito richiesto a chi se ne occupa è quantomeno duplice, poiché accanto alla tutela vi è la cosiddetta valorizzazione; ma la vera novità, starei a dire culturale, è altrove, poiché tutela e valorizzazione sono imperniate attorno ad un nodo centrale: la legislazione oggi vigente ci dice che in realtà le funzioni pubbliche sono finalizzate a qualcosa che viene chiamata, con una terminologia anch'essa discutibile, la fruizione. Insomma, il vero compito di ciascuno che si occupa di beni culturali non è né solo quello di conservare, né solo quello di valorizzare, ma di fare tutto ciò con una impegnativa e difficile finalità: lasciar fruire, fare in modo, cioè, che questo patrimonio riesca a produrre il miglior contatto con le cose di valore culturale, nel supposto che più ciò avverrà bene, e più si renderà migliore la convivenza, lo stare insieme, persino semplificato il governo del conflitto [28].
E' in ciò che la valorizzazione può essere definita come la missione nuova dei soggetti pubblici, attività la cui definizione normativa è assai prudente, poiché "consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale" (art. 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Se l'accento, come si vede, è posto sulla "fruizione pubblica", la valorizzazione non può però pregiudicare la sostanza culturale di ogni bene, e dunque attentare alla sua identità; ecco perché, per un verso, "la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze" (art. 6, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio), ma, per altro, essa non può essere orientata a partire da considerazioni estranee alla essenza culturale del patrimonio culturale messo a valore.
E ciò non solo per ragioni apoditticamente culturali (che pure, avendo valore assiale, potrebbero essere di per sé sufficienti), ma anche per banalissime considerazioni pratiche: in breve, e in termini semplici ed atecnici, se si vuole valorizzare una cosa, per prima cosa occorre averla questa cosa, e non si avrà cosa fare se la si sciupa, la si deteriora, le si cambiano i connotati a mezzo della valorizzazione. Perdere il valore originario della cosa, che solo la tutela può assicurare, inoltre, significa anche banalizzarla, renderla più riproducibile, e dunque meno valida anche dal punto di vista attrattivo e, infine, economico.
Insomma, ogni decisione di valorizzazione deve partire da punti fermi di tutela. Ma deve poi orientarsi alla fruizione.
Mi viene da chiedere se, sia pure in sostanza, anche il Codice ICOM sia impostato così, ovvero se l'insieme dei suoi principi e delle proposizioni che ne conseguono rechino con chiarezza la finalità ultima della fruizione, o non sia ancora, come in passato era comune idea, strutturato in vista della sola conservazione, considerando il pubblico, le sue esigenze, i suoi diversi e complessi connotati, una sorta di conseguenza, una marginalità, un risvolto della più importante missione della tutela.
Note
[*] Intervento all'Assemblea nazionale ICOM Italia, Pescara, 19 aprile 2010.
[1] Per una recente riflessione, di grande levatura, si può vedere G. Zagrebelsky, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in I. Dionigi (a cura di), La legge sovrana, Milano, 2006, 19 ss.
[2] Il termine è stato introdotto nel dibattito etico da G.E.M. Anscombe, Modern Moral Philosophy (1958, in Id, Ethics, Religion and Politics, Ofxord 1981); per comprenderne il significato, e per il suo difficile rapporto con l'utilitarismo, si vedano, ad esempio, A. Sen - B. Williams, Utilitarianism and Beyond, Cambridge 1982; S. Scheffler (a cura di), Consequentialism and its critics, Oxford 1988; A. Corradini, Cos'è il consequenzialismo? Proposta per una classificazione sistematica, in Id., Studi sul formalismo nell'etica analitica, Milano, 1996, 8 ss.
[3] Gli approcci deontologici si fanno in genere risalire al pensiero di I. Kant (cfr. ad es. Grundlegung der Metaphysik der Sitten, 1785; trad. it., Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari, 20107), ma sono ancora molto presenti nel dibattito contemporaneo; senza pretese di impossibile esaustività, si vedano W.D. Ross, The Right and the Good, Oxford 1930, trad. it. Il giusto e il bene, Milano, 2004; J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge - Mass., 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, in ed. riveduta, Milano, 2008; J. Habermas, Erläuterungen zur Diskursethik, Frankfurt a.M., 1991, trad. it. Etica del discorso, Roma-Bari, 20095.
[4] La dimostrazione di "quanto la filosofia morale sia vicina alla vita" è ben svolta da H.A. Prichard, Does Moral Philosophy Rest on a Mistake?, in Id., Moral Obligation. Essays and Lectures, Clarendon, Oxford, 1949, 1, 12.
[5] In sede teorica si è diffusa l'idea che l'etica professionale possa avere tratti propri, distinti da quelli dell'etica "generale", perché nell'esercizio di talune attività vi sarebbero doveri additivi, deroghe ammesse dalla condizione professionale, imperativi morali specifici dovuti alla "coscienza professionale": così J. Jackson, Duties and Conscience in Professional Practices, in G. De Stexhe e J. Verstraeten (a cura di), Matter of Breath.Foundations for Professional Ethics, Leuven, 2000, 241 ss.; il problema ha recentemente conosciuto una nuova spinta, anche a causa delle necessità di uniformità derivanti dal consolidamento dell'Unione europea, la cui disciplina, a mente di S. Cassese, La disciplina delle professioni tecniche, in corso di pubblicazione in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Palma, "si è sviluppata in due direzioni, quella della uniformazione dei diplomi di istruzione superiore e quella della introduzione della concorrenza nei servizi professionali". In effetti, l'art. 26 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 206, recante "Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, nonché della direttiva 2006/100/CE che adegua determinate direttive sulla libera circolazione delle persone a seguito dell'adesione di Bulgaria e Romania", stabilisce che "al fine della valutazione in ordine alla rappresentatività a livello nazionale delle professioni non regolamentate si tiene conto", tra l'altro, di "un sistema di deontologia professionale con possibilità di sanzioni".
[6] La tematica fu proposta e sistemata per primo da Santi Romano, L'ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Pisa, 1918.
[7] Prendo integralmente in prestito il titolo della celeberrima raccolta di saggi di C. Schmitt, Le categorie del politico, trad. it., Bologna, 1972.
[8] Secondo quanto si legge nel sito della "struttura di supporto al Ministro per la semplificazione normativa" presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il numero degli atti normativi vigenti ammonterebbe a 430.000; in realtà, nella Relazione al decreto legislativo 1 dicembre 2009, n. 179, del medesimo Ministro per la semplificazione normativa concernente l'impatto delle abrogazioni effettuate, si legge che "le leggi risultano 33.490, i decreti-legge 5.403, mentre i regi decreti-legge poco più di 10.091. A livello secondario abbiamo i 71.457 regi decreti (molti di dubbia natura, forse primaria) e i 46.692 decreti del Presidente della Repubblica"; il decreto-legge "taglia-leggi" 27 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 ha prodotto l'abrogazione di circa 7.000 leggi, di cui 3.370 espressamente e le altre in modo implicito; l'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9, ha disposto l'abrogazione di circa 28.500 atti normativi di rango primario emanati tra il 1861 e il 1947.
[9] La definizione, qui usata in termini semplificati, è sorprendentemente usata in termini tecnici anche nella manualistica: in E. Russo et al., Istituzioni delle leggi civili, Padova, 2001, 6, vi è la seguente definizione di legge: "ogni documento normativo (che pone regole di comportamento), proveniente dagli organi dello Stato ai quali la Costituzione attribuisce una competenza normativa (e così, ad esempio, il Parlamento)".
[10] Nel linguaggio di Santi Romano, L'ordinamento giuridico cit., 18, la distinzione era proposta così: "un precetto o un insieme di precetti (...) che per distinguerli da quelli non giuridici, diciamo istituzionali, mettendo così in evidenza la connessione che essi hanno con l'ordinamento intero, ossia con l'istituzione di cui sono elementi, connessione che è necessaria e sufficiente per attribuire loro carattere giuridico" (corsivo mio).
[11] L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, 1982, 27
[12] Per illustrare queste tecniche, efficacemente definite dalla dottrina giuspubblicistica tedesca "autoregolazione regolata" (Regulierte Selbstregulierung), mentre quella anglosassone preferisce l'espressione soft law, la casistica è numerosa; giusto ad esempio, si può ricorrere alle norme di codici deontologici degli ordini professionali che, secondo la Corte di cassazione, sono "norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all'albo ma che integrano il diritto soggettivo ai fini della configurazione dell'illecito disciplinare" (Cass. SS.UU. 12 marzo 2004, n. 5576); ma si veda anche l'art. 12 del d.lg. 30 giugno 2003, n. 196, recante il "Codice in materia di protezione dei dati personali", che stabilisce che "Il Garante promuove nell'ambito delle categorie interessate, nell'osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sul trattamento di dati personali, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, ne verifica la conformità alle leggi e ai regolamenti anche attraverso l'esame di osservazioni di soggetti interessati e contribuisce a garantirne la diffusione e il rispetto"; i successivi artt. 133 e 139 prevedono poi, rispettivamente, "la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato da fornitori di servizi di comunicazione e informazione offerti mediante reti di comunicazione elettronica", ed un "Codice di deontologia relativo ad attività giornalistiche". A sua volta, l'art. 11-quater della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (aggiunto dalla legge 6 novembre 2003, n. 313) prevede un "codice di autoregolamentazione" con "disposizioni che, dalla data di convocazione dei comizi elettorali, consentano la comunicazione politica secondo una effettiva parità di condizioni tra i soggetti competitori, anche con riferimento alle fasce orarie e al tempo di trasmissione". Su tutto ciò, solo di recente ed in Italia, si veda, ad esempio, G. De Minico, Regole - Comando e consenso, Torino, 2005; G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori, Roma-Bari, 20082; L. Franzese, Ordine economico e ordinamento giuridico, Padova, 2004. Del tutto diverso si presenta il caso del Codice di Comportamento dei Dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, varato con decreto del Ministro della Funzione Pubblica del 31 marzo 1994, e poi esplicitamente previsto per legge (da ultimo, dall'art. 54 del d.lg. 30 marzo 2001, n. 165), ed oggi recato dal decreto del Ministro della Funzione Pubblica del 28 novembre 2000.
[13] Uso l'espressione nel modo con cui è eccellentemente descritta e dimostrata da M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, 2009.
[14] In ciò potrebbe trovare concretezza una osservazione, altrimenti un po' astratta e discutibile, secondo cui "è più facile fare la cosa giusta se si sa con precisione qual è": C.W. Lewis, Ethics codes and ethics agencies: current practises and emerging trends, in H.G. Frederickson (a cura di), Ethics and public administration, New York, 1993, 136. Un esempio noto di questa tecnica riguarda il codice di autodisciplina pubblicitaria, le cui disposizioni, è stato affermato, quali espressione dell'etica professionale e commerciale, costituiscono "parametro di valutazione della correttezza professionale" che è prescritta in termini molto generici, dall'art. 2598, n. 3, del codice civile: Cass., Sez. I civile, 15 febbraio 1999, n. 1259.
[15] Il tema è stato affrontato, sia pure non completamente, e con riguardo alla normativa precedente l'approvazione del codice dei beni culturali e del paesaggio, da G. Severini, Musei pubblici e musei privati: un genere, due specie, in Aedon, n. 2/2003.
[16] Il riferimento è ai "musei etnografici e antropologici, i musei agricoli e di arte contadina, i musei di interesse prevalentemente scientifico e tecnico, i musei del territorio ed anche i musei dell'arte contemporanea o, meglio ancora, dell'arte esistente", come suggerisce, testualmente, C. Barbati, L'impresa museale (a proposito di una possibile dimensione economica della cultura), in corso di pubblicazione in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Palma.
[17] Ho provato a dimostrare l'assunto, in relazione alle fondazioni, in P. Forte, Le fondazioni come autonomie amministrative sociali, in G. Palma, P. Forte (a cura di), Fondazioni. Tra problematiche pubblicistiche e tematiche privatistiche, Torino, 2008, 33 ss.
[18] Ad esempio, nel sito della Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, si legge che essa "si propone esplicitamente di accogliere gli standard internazionali dell'ICOM", e "di adottare come guida del suo operato verso il Museo Egizio la definizione ICOM del museo". Su tale soggetto, si vedano M. Turerta, La Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, in Ministero per i beni e le attività culturali, Notiziario n. 74/76, 102 ss.; L. Dal Pozzolo, L. Zan, Studio per la riorganizzazione e lo sviluppo del nuovo Museo egizio di Torino. Assetto organizzativo e risorse umane. Analisi, valutazione e sostenibilità dei costi di gestione. Modelli di governance, in Ires Piemonte, Progetto di ricerca finalizzato al rinnovamento del Museo egizio di Torino, Torino, 2003; G. Franchi Scarselli, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, in Aedon, n. 1/2002.
[19] Il riferimento è all'art. 115 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156.
[20] L'art. 16, comma 1, lett. f), del decreto del Presidente della Repubblica 26 novembre 2007, n. 233, recante "Regolamento di riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali, a norma dell'articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296" (non modificato, in ciò, dal d.p.r. 2 luglio 2009, n. 91), espressamente definisce i musei "organi periferici del ministero".
[21] Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, adottato con decreto del Ministro per i Beni e le Attività culturali del 10 maggio 2001.
[22] Cfr. D. Lupo Jallà, Un sistema di regole per il museo, in A. Maresca Compagna (a cura di), Strumenti di valutazione per i musei italiani, Roma, 2005, 49 ss.
[23] Fenomeno di grande rilievo, se l'Istat ha recentemente censito negli enti locali ben 4.340 tra musei, aree archeologiche o parchi archeologici, monumenti, ed ogni altro istituto di antichità e d'arte o luogo della cultura (ad esempio: centri scientifici e culturali, planetari e osservatori astronomici, ecc.) che abbia la stessa natura e le caratteristiche dei musei, in quanto acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali di interesse storico, artistico, archeologico, naturalistico e/o scientifico per finalità di educazione e di studio: cfr. Istat, Indagine sugli istituti di antichità e d'arte e i luoghi della cultura non statali, in www.istat.it; la ricerca Istat Il patrimonio museale non statale (2009), inoltre, segnala che i visitatori dei musei e degli istituti similari non statali (comprendenti, però, anche i privati) nel 2006 sono stati oltre 62 milioni e 700 mila, cifra che tende, per altro, a "sottostimare per difetto la domanda di fruizione del patrimonio museale, dal momento che spesso le strutture espositive non dispongono di strumenti o modalità organizzative che consentono la registrazione sistematica degli ingressi e che gli ingressi a titolo gratuito generalmente sfuggono ad un'esatta quantificazione, tanto che circa l'8 per cento degli intervistati non è stato in grado di quantificare le visite non a pagamento".
[24] Si rammenta la ricognizione circa il riparto delle competenze normative in tema di valorizzazione dei beni culturali fornita dalla Corte costituzionale con la sent. 26 del 2004, recepita dal Codice che, agli artt. 7 e 112, stabilisce che la valorizzazione dei soli beni culturali appartenenti allo Stato è oggetto di potestà legislativa e regolamentare statale. Su ciò si veda G. Sciullo, I beni, in C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali, Mulino, Bologna, 20062, 11 ss.
[25] Sempre "cum judicio", poiché, a stare alla menzionata Indagine sugli istituti di antichità e d'arte e i luoghi della cultura non statali dell'Istat, riferita al 2006, il ricorso a forme di gestione indiretta tramite concessione a terzi o affidamento ad un soggetto autonomo appare molto contenuto (il 19.2% dei casi rilevati).
[26] C. Barbati, Le forme di gestione, in C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il diritto dei beni culturali cit., 210 ss.
[27] La relazione finale è stata approvata dalla Sezione delle Autonomie con Deliberazione n. 8/2005.
[28] Alcune riflessioni sugli effetti di apprendimento che tale trasformazione comporta si possono rinvenire in M. De Luca, Comunicazione ed educazione museale, inF. Severino (a cura di), Comunicare la cultura, Milano, 2007, 97 ss.