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Il policentrismo della conservazione [*]

di Maria Grazia Pastura

Il nostro Presidente propone di svolgere, a commento degli argomenti e delle riflessioni scaturiti dalle relazioni della mattinata, alcuni temi, tutti interessanti, sui quali mi accingo a mia volta a soffermarmi.

Ma prima vorrei riprendere il discorso di Mariella Guercio sul deficit culturale dal quale sarebbe affetto il più gran numero di quanti operano con responsabilità istituzionali nel settore dei beni culturali, con una notazione che coinvolge anche la mia personale esperienza.

Il tema della tutela, conservazione e valorizzazione come trinomio inscindibile è posto per la prima volta dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, Testo Unico dei beni culturali, che fece della valorizzazione la punta avanzata dell'opera di tutela e conservazione: conservare per valorizzare e, per contro, conoscere e far conoscere per meglio tutelare. Per la prima volta il testo unico disciplinò, ad esempio, la "catalogazione" e stabilì a carico dello Stato, come pure delle regioni, l'onere della costituzione di reti informative per la valorizzazione del patrimonio culturale.

Il Codice dei beni culturali (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) disciplina il tema della valorizzazione nella prospettiva della separazione delle due funzioni - tutela e valorizzazione - in ossequio ad una norma di rango costituzionale introdotta nell'ordinamento italiano dalla legge di riforma del Titolo V della Carta costituzionale (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), stabilendo anzitutto un collegamento reciproco fra le due funzioni e dedicando un intero libro alla valorizzazione, che deve peraltro essere assolutamente rispettosa delle norme della tutela, ma anche un'occasione di cooperazione interistituzionale e di costruzione, intorno al patrimonio culturale, di una vasta rete informativa.

Negli ultimi cinque anni, l'uso delle tecnologie informatiche per l'inventariazione, introdotto nei primi anni Novanta per fini gestionali, e cioè per la creazione della carta del rischio del patrimonio culturale, in vista dell'apertura delle frontiere dei paesi membri dell'Unione europea, è divenuta la modalità generalmente usata anche per la comunicazione del patrimonio archivistico: siamo la branca dell'amministrazione che ha più siti web e più sistemi di descrizione in rete. Io stessa, che sono un'archivista di lungo corso, sono anche la responsabile di uno di questi, cioè del sistema informativo che descrive in rete il patrimonio archivistico non statale, meglio noto con l'acronimo di Siusa.

Ma, per l'esperienza che ho del nostro ambiente, posso dire che ci vuole tempo ad aggiornare il proprio bagaglio, non tanto di competenze quanto di attitudini, rispetto a una cultura della conservazione fine a se stessa, che ha per lungo tratto accompagnato il nostro cammino di conservatori. Noi eravamo gli angeli custodi di un patrimonio prezioso, la cui valorizzazione era una prospettiva non necessariamente praticata.

Le cose stanno rapidamente cambiando, e si sta avverando il sogno vagheggiato più di 60 anni or sono da un grande storico francese, March Bloch, il quale scriveva nel suo prezioso libretto pubblicato postumo, significativamente intitolato "Apologia della storia", che "la nostra civilizzazione avrà realizzato un immenso progresso il giorno in cui la dissimulazione (qui si riferisce al "segreto" diplomatico, d'affari, di famiglia, che distrugge e tiene nascosti gli archivi) lascerà il posto al gusto per l'informazione, cioè necessariamente al gusto per gli scambi di informazioni".

E questa riflessione mi dà anche il destro per un'altra annotazione, su come mutano nel tempo le prospettive in cui si muovono i vari soggetti coinvolti nell'impresa della conservazione e tradizione del patrimonio culturale.

Nello scorcio degli anni Novanta è stato riorganizzato il ministero per i Beni culturali, divenuto ministero per i Beni e le Attività culturali. Il decreto legislativo 10 ottobre 1998, n. 368 introdusse, come una delle possibili opzioni a disposizione del ministero stesso per il perseguimento dei propri fini istituzionali, l'istituzione di fondazioni o associazioni, oppure la partecipazione a fondazioni e associazioni già costituite per fini statutari compatibili con la missione istituzionale del ministero stesso. La formula ha poi avuto molta fortuna sul piano della previsione normativa, tanto da essere inserita nel codice; non altrettanta sul piano delle realizzazioni concrete. Allora ero vice capo dell'ufficio legislativo del ministro per i Beni e le Attività culturali, e capo dell'ufficio legislativo era Marcello Pacini. Si stava lavorando alla proposta di una bozza di quello che poi divenne il testo unico sopra ricordato, ma si stava anche studiando una modalità per dare corpo a questo nuovo strumento di promozione e di valorizzazione che dovevano essere le fondazioni, stendendone un regolamento. Ci ispirammo alla legge che disciplinava le fondazioni bancarie, nella prospettiva di una sorta di gemellaggio con le fondazioni culturali, in maniera da fare sistema.

Era un'idea che noi consideravamo praticabile. Debbo dire che ci un'occasione di incontro con alcuni rappresentanti delle fondazioni bancarie, non ricordo se a Torino o a Milano, e questa nostra idea fu accolta con freddezza. Probabilmente perché, mentre noi eravamo proiettati verso una nuova prospettiva della tutela e della valorizzazione, le fondazioni bancarie ancora non avevano elaborato una propria strategia di intervento integrato sul territorio.

Alcune delle relazioni di questa mattina hanno però evidenziato la maturazione, anche presso le fondazioni bancarie, della consapevolezza che occorre mettere in campo una nuova strategia, aprirsi alla collaborazione con quanti operano nel settore dei beni culturali e dunque anche con l'Amministrazione dei beni culturali, senza trascurare la tradizionale attività di tutela e valorizzazione del proprio patrimonio archivistico e librario, ma anche artistico, che è in qualche modo l'attività primaria.

Fare sistema è a mio avviso essenziale. Non solo perché consente di utilizzare al meglio le risorse finanziarie e strumentali disponibili, ma anche perché fa confluire sui progetti esperienze diverse, saperi diversi, in grado di assicurare respiro alle iniziative cui si dà vita. La progettualità avanzata e di lungo respiro, ancor più che le risorse strumentali, è ciò che ci consente di agganciare il futuro.

Mariella Guercio ha giustamente sottolineato che occorre investire sul futuro ed io condivido, come tutti, questo pensiero. Per questo bisogna, a mio avviso, muovere da una progettualità condivisa.

La Direzione generale per gli Archivi, e in particolare il Servizio che mi onoro di dirigere, che si occupa degli archivi non statali - universo, è inutile dirlo, sterminato e assai articolato e complesso - ha avviato da molto tempo una stagione di cooperazione con quanti, enti istituzionali e privati, sono coinvolti nel progetto di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archivistico nazionale. Nel modello della tutela e valorizzazione adottato dal legislatore italiano fin dalla legge del 1939 vige il principio efficacemente riassunto dall'espressione "policentrismo della conservazione", associato a quello dell'unitarietà dell'azione di tutela svolta dallo Stato. Su ciascun soggetto produttore e dunque detentore di un archivio gravano obblighi di conservazione (ordinamento, inventariazione e restauro delle carte) e di valorizzazione (apertura degli archivi alla consultazione di chi ne fa richiesta, sia per gli archivi pubblici che per quelli privati dichiarati di interesse storico particolarmente importante). Sull'osservanza degli obblighi veglia lo Stato, cioè la Direzione generale per gli archivi e le Soprintendenze archivistiche, con funzioni di sostegno (attraverso la concessione di contributi) e di intervento sostitutivo (anche a totale carico dello Stato ove ne ricorrano le condizioni) in caso di inadempienza.

Questo modello non tiene, perché la frammentazione della conservazione esige un grande impiego di risorse, e dunque occorre pensare ad altri modelli, che aggreghino gli archivi lasciandoli sul territorio.

E qui vengo ai temi messi sul tappeto dal nostro Presidente: quello del legame tra fondazioni bancarie e territorio e quello del rischio della parcellizzazione degli interventi, che potrebbero assumere la funzione di rimedio temporaneo e inefficace, di tappabuchi.

Nel 1998, in occasione della prima (ed ultima, per ora) conferenza nazionale degli archivi, fu lanciato un progetto interessante, modellato sulle esperienze di Francia e Germania: quello degli archivi territoriali. L'idea nasceva per la salvaguardia e la valorizzazione degli archivi d'impresa, e fu presentata allora da Giuseppe Paletta, direttore del Centro per la cultura di impresa di Milano, che, tra l'altro, collabora con la Direzione generale per gli archivi in alcune importanti iniziative, quale quello del censimento degli archivi d'impresa, completato per la Lombardia e in corso in numerose regioni d'Italia. Da allora l'idea è stata presentata in varie sedi. In realtà, nessuna fondazione è decollata, nonostante se ne sia a lungo discusso in regioni, quali il Piemonte e la stessa Lombardia, che vantano, in tema di archivi economici e d'impresa, un primato difficilmente emulabile dalle altre regioni italiane.

In realtà una sola fondazione è nata: la Fondazione Ansaldo, istituita a Genova nel febbraio 2000 per iniziativa del Comune di Genova, della Provincia di Genova e della Finmeccanica e riconosciuta dal ministero per i Beni e le Attività culturali. Conserva archivi di straordinario interesse, quali i fondi cinematografici della Italia di Navigazione spa e della Italsider e soprattutto gli archivi dell'Ilva, della Elah-Dufour e della Finmare. Un patrimonio straordinario per la storia dell'industria e delle relazioni industriali, del mondo del lavoro: insomma, della società italiana del Novecento. Tra i soci sostenitori figurano l'università di Genova, le locali associazione industriali e Camera di commercio e grandi imprese di rilievo internazionale come Ansaldo energia, Elsag, Fincantieri, e non ad esempio, sia detto senza polemica, la Fondazione Carige.

La Fondazione Ansaldo ha conosciuto anche momenti di difficoltà, ed ha beneficiato di contributi della Direzione generale per gli Archivi, che tuttavia non ha gli strumenti normativi - e di conseguenza finanziari - per intervenire a sostegno della vita ordinaria della Fondazione. Ora i momenti difficili sembrano superati per un nuovo impegno di Finmeccanica, ma il problema di fondo resta ed è il seguente.

Come prima ho detto, i progetti, perché le risorse siano ben spese, devono avere un respiro lungo, debbono coinvolgere più soggetti e più professionalità, debbono poter contare sull'inventiva e sulla capacità di immaginare il futuro, di agganciarlo. Non è difficile reperire risorse straordinarie per dare vita ad un progetto, fosse pure un progetto complesso e ardito quale quello di una fondazione culturale: è difficile mantenerlo in vita, è difficile fronteggiare l'impegno quotidiano della conservazione e della valorizzazione del patrimonio, che deve alimentarsi di entrate stabili.

In questa prospettiva, a mio avviso, il progetto delle Fondazioni bolognesi esposto da Mariella Guercio, pur apprezzabile nel metodo e nell'obbiettivo di fare sistema e di indirizzare gli investimenti alla conoscenza, salvaguardia e valorizzazione del patrimonio archivistico presente su territorio, ha il respiro corto, se è vero che avrà una durata triennale e se non sarà seguito costantemente da un impegno attivo, non necessariamente finanziario, ma anche di assistenza e di idee - come nell'esempio proposto dal professor Guerzoni della Fondazione Cassa di risparmio di Venezia - che generi innovazione, ricchezza, presenza dell'Istituzione nel territorio e nel mondo. Ed altrettanto può dirsi del progetto della Fondazione Cassa di risparmio di Mantova, che ho trovato originale per lo scopo che persegue: quello di censire 13 secoli di archivi conservati nella provincia, a partire da quelli ottocenteschi e novecenteschi, per restituire ai giovani travolti dal mondo globale, che incontrano sul web, il senso dell'appartenenza al territorio. Anche questo è un progetto triennale, che mi auguro possa alimentarsi anche del tanto lavoro già fatto dalla Soprintendenza archivistica per la Lombardia e dall'Archivio di Stato di Mantova e che avrebbe un diverso respiro se fosse portato avanti insieme quanto meno con le Istituzioni preposte alla tutela e conservazione, e con quelle che si occupano istituzionalmente delle politiche del territorio, quali il comune e la provincia. Forse è vero quel che ha detto stamattina il Direttore generale per i beni librari e gli istituti culturali, Luciano Scala. Forse è vero, cioè, che manca un canale per un costante scambio di esperienze e che l'informazione reciproca dovrebbe essere istituzionalizzata, al di là di quel che si può leggere nelle pagine web di cui siamo sufficientemente dotati.

Questa considerazione mi dà il destro per introdurre un altro tema sollevato dal Presidente, che ha osservato come le fondazioni bancarie abbiano una vocazione territoriale, non necessariamente ristretta al territorio di competenza, ma certamente interessata prevalentemente al territorio in cui la Fondazione è inserita e ha chiesto una riflessione sulla compatibilità di questa vocazione con la progettualità "di filiera", più congeniale ad una amministrazione pubblica, specialmente ad una amministrazione centrale.

L'analisi delle iniziative culturali delle fondazioni bancarie dà indubbiamente ragione al Presidente. Abbiamo casi di fondazioni totalmente e attivamente dedite al proprio territorio. Conosco ed apprezzo l'opera della Fondazione Cassamarca, presso la quale sono stata ospite qualche volta in occasione di convegni. Si tratta di un'attività importantissima per Treviso: Cassamarca "è" il patrimonio culturale della città, ed il sostegno che la Fondazione fornisce alle istituzioni culturali cittadine, inclusa l'università, è fondamentale. Però a mio avviso non c'è una vera conflittualità tra la progettualità di filiera e la progettualità territoriale, e spiego il perché.

La Direzione generale per gli archivi, e in particolare il Servizio che dirigo, ha sviluppato una progettualità di filiera su numerosi archivi, anche del '900. (E qui mi vien facile dire che non è vero che gli archivi del Novecento siano poco curati, come ho sentito in più di un intervento). Il lavoro ha riguardato anzitutto - giusta la logica di tutela nell'ambito della quale ci muoviamo - gli archivi soggetti a maggiore rischio di dispersione, come ad esempio gli archivi degli architetti del '900 italiano, oggetto di caccia concupiscente da parte di Istituzioni straniere e soprattutto a rischio di smembramento per l'attenzione del mercato alla parte grafica della produzione degli studi di architettura. In tutte le regioni, da parte di tutte le soprintendenze archivistiche, sono stati attivati i censimenti degli archivi degli architetti, che sono stati oggetto di un attento lavoro di descrizione sommaria e, dove possibile, di inventariazione analitica e di digitalizzazione delle immagini dei progetti, che sono state anche - o stanno per essere - pubblicate in rete. Inutile dire che la limitatezza delle risorse ci costringe a scelte dolorose e che tra la digitalizzazione dei disegni e la descrizione sintetica ma completa di un archivio dobbiamo scegliere la seconda, funzionale alle esigenze di tutela del complesso.

Attualmente abbiamo descritti in rete, nel sistema informativo degli archivi non statali al quale ho fatto cenno, circa 300 archivi di architetti e ingegneri del Novecento, per una relativamente modesta percentuale dei quali sono in rete (o stanno per essere messe in rete) anche le immagini dei progetti e la loro descrizione. Orbene: in ognuna delle regioni dove i progetti sono stati attivati il lavoro ha coinvolto gli ordini professionali, i politecnici e le facoltà di architettura interessati e, in qualche caso, le regioni. La regione Piemonte ha contribuito, ad esempio, in modo sostanziale alla realizzazione del progetto piemontese come pure, in Lombardia, il Centro di alti studi sulle arti visive (Casva) del comune di Milano, ha finanziato la pubblicazione dei risultati. Non ho notizia che il progetto lombardo, concluso nel 2004, abbia beneficiato dei contributi della Fondazione Cariplo. Ho però molto apprezzato quanto ha detto la rappresentante della Fondazione sul nuovo corso che si vuole adottare, per evitare che gli investimenti siano utilizzati, come paventa anche il nostro Presidente, per tappare delle falle o - peggio - per dar vita a progetti i cui risultati vengono conosciuti da pochi addetti ai lavori. I bandi aperti, il cofinanziamento e soprattutto la cooperazione fra diversi soggetti, per le ragioni che ho esposto, mi sembrano precondizioni sufficientemente garantiste e aprono larghi spazi a progetti solidi, capaci di sviluppare innovazione e ricerca, sul modello adottato dall'Unione europea.

Per passare ad un altro esempio, l'attenzione della Direzione generale per gli archivi si è rivolta anche ai complessi fondi degli ospedali psichiatrici - forse meno attraenti di quelli degli architetti, ma non per gli storici della medicina e della psichiatria, piuttosto che dell'emarginazione e della povertà. Anche in questo caso, la scelta è stata guidata dalla funzione fondamentale svolta dalla Direzione generale per gli archivi, che è quella della tutela; infatti, gli archivi degli ospedali psichiatrici, dopo la chiusura dei manicomi negli anni Ottanta - Novanta del secolo scorso, erano terra di nessuno, affidati a strutture non sempre adeguate. Ne abbiamo fatto un censimento completo, con un'analisi accurata del contenuto, ed in alcuni casi un inventario analitico, che descrive anche la documentazione sanitaria, interessante palestra per una riflessione sulle reali ragioni della cosiddetta legge Basaglia e del dibattito appassionato che ne accompagnò l'approvazione. Abbiamo curato, per alcuni, anche un sistema informativo, denominato Arcanamente, per la schedatura delle cartelle cliniche a partire dall'epoca in cui sono conservate (inizi del secolo XIX). Un esempio per tutti: l'archivio del Santa Maria della Pietà di Roma, che ha una sua continuità storico istituzionale dal '500 ai nostri giorni, è stato intieramente schedato, riordinato e ne è stato p pubblicato l'inventario, con un finanziamento della provincia di Roma. Basaglia ha lavorato a lungo al Santa Maria della Pietà ed un gruppo degli psichiatri che sono rimasti a prestare la loro opera nel manicomio fino alla chiusura sono suoi seguaci, ed hanno scritto con lui un brano importante della storia della cura della malattia mentale del nostro Paese. Non è, ancora una volta, in contraddizione la scelta territoriale con la scelta "di filiera". Posso aggiungere che un brano importante della storia della psichiatria è scritto anche nelle carte del manicomio di Napoli, ma anche di Aversa, di Caserta, o di Collegno e delle tante istituzioni che hanno celato negli anni la forma estrema di sofferenza che è la malattia mentale. Non vedo come questi temi possano non avere, nel complesso quadro nazionale, una loro dimensione che valga ad arricchire la conoscenza del territorio nel secolo appena trascorso, e dunque non possano essere interessanti anche nella prospettiva di una vocazione territoriale dell'attività di valorizzazione.

Infine, per non approfittare della pazienza di chi mi ascolta, voglio citare un'altra iniziativa di filiera che riguarda istituzioni profondamente radicate sul territorio, quali le Università, immensi giacimenti culturali, potrei chiamarli, perché conservano non solo gli archivi delle strutture universitarie, ma spesso anche gli archivi dei docenti che vi hanno lavorato, di grandissima ricchezza per il '900 soprattutto.

E potrei continuare l'elenco, ma mi fermo qui per aggiungere soltanto che questa progettualità si è espressa in maniera modulare, e quindi ha consentito l'aggancio, a questi nostri progetti nazionali, di risorse che venivano dalle regioni, dai comuni, dagli stessi ospedali, ma non dalle fondazioni bancarie, con l'eccezione della Fondazione Cassa di risparmio di Perugia che ha finanziato la pubblicazione dell'inventario dell'Ateneo perugino. Manca la comunicazione, come ha detto Luciano Scala, oppure la comprensione reciproca?

Certo, lo ripeto, il contenuto e il taglio problematico di alcune relazioni della mattina mi sembra diano da sperare che qualcosa si muova, che gli obbiettivi non siano più tanto divergenti come lo erano appena qualche anno fa. Si tratta di fare il passo successivo: di unire le risorse - ripeto, non soltanto finanziarie - per aumentare le possibilità di successo. La Direzione generale per gli archivi è investita dell'obbligo della tutela e la conoscenza ne è uno strumento: censire e descrivere è anzitutto il nostro compito, il primo che il Codice dei beni culturali ci assegna. Usiamo le tecniche della società dell'informazione per far sì che la conoscenza acquisita diventi patrimonio di tutti e strumento di approccio al patrimonio nazionale che fonda, come si è detto anche stamane, le nostre radici. La valorizzazione ulteriore, pure doverosa, non è il nostro compito principale, e comunque non abbiamo i mezzi per farla. Ma in un coro a più voci ciascuno può cantare sul proprio registro dando vita ad una melodia sicuramente più complessa e più bella. Nel nostro caso, anche più efficace. Per raggiungere questo obbiettivo occorre che quanti più soggetti possibile entrino a far parte del coro.

Non c'è a mio avviso contraddizione tra filiera e territorio nemmeno rispetto all'altro tema che ho sollevato per primo, che è quello della conservazione degli archivi per la loro salvaguardia e valorizzazione.

Il progetto delle Fondazioni bolognesi sopra ricordato sembra accettare questo principio nel momento in cui si interroga sul cosa conservare, tema non meno interessante degli altri: dove e come.

L'istituzione per eccellenza destinata alla conservazione è l'Archivio di Stato, che ha come missione fondamentale la conservazione del patrimonio archivistico statale, ma è aperta anche all'accoglimento di altri archivi, pubblici e privati, conservati in condizioni di precarietà o che meritano di essere particolarmente protetti e valorizzati. Ma è un fatto noto che gli Archivi di Stato sono delle strutture in crisi: in crisi di spazi, in crisi di personale e in crisi di risorse finanziarie.

Quindi sarebbe apprezzabile una progettualità delle fondazioni bancarie, che, anche in partecipazione con altri soggetti, desse vita ad una attività di accoglienza degli archivi. Non soltanto con la partecipazione a fondazioni, specializzate come l'Ansaldo - sopra ricordata - o non, ma anche con una attività diretta. Sono rimasta stupita nel sapere che la Fondazione del Banco di Napoli conserva il proprio patrimonio archivistico in 330 stanze, e accoglie duemila studiosi l'anno, in aggiunta ad un cospicuo numero di ricercatori utenti abituali: i numeri di un Archivio di Stato. Sono consapevole della straordinaria importanza dell'archivio della Fondazione e sono anche a conoscenza della cura riservata alle carte. Come pure so quale sforzo organizzativo sta dietro a queste cifre. Allora, mi dico che una struttura del genere è certamente capace di accogliere altri archivi, per esempio archivi economici, complementari alla documentazione bancaria conservata. Un'apertura di questo genere, da parte delle grandi Fondazioni (penso alla San Paolo, o anche alla Fondazione veneziana, con il suo progetto di valorizzare la documentazione del Novecento).

Consideratela un suggerimento o una provocazione, stimolatami dall'atmosfera nuova e propositiva che ho colto nelle relazioni di questa giornata.

Un'ultima cosa mi rimaneva da dire a proposito del problema sollevato dalla rappresentante della Fondazione del Banco di Sicilia, sul software di inventariazione da utilizzare per l'archivio del Monte di Pietà di Santa Rosalia, conservato presso l'istituto.

Voglio rammentare, a questo proposito, che, a mente di due diverse compilazioni normative - il Codice dei beni culturali e del paesaggio già citato e il codice dell'Amministrazione digitale (decreto legislativo n. 82 del 2005) - è compito della Direzione generale per gli Archivi definire gli standard di descrizione del patrimonio documentario, nonché di formazione, archiviazione e conservazione della documentazione nata in formato digitale. Per il Codice dei beni culturali gli standard descrittivi sono emanati dal ministero per i Beni e le Attività culturali - del quale la Direzione generale per gli archivi fa parte - d'intesa con le regioni; quelli di formazione, archiviazione e conservazione dei documenti digitali sono, per il Codice dell'amministrazione digitale, emanati dal ministero dell'Innovazione d'intesa con quello dei Beni culturali.

Mi occuperò prima di questo secondo profilo, anche a commento delle iniziative e dei progetti illustrati dal rappresentante della Fondazione Rinascimento digitale promossa dall'ente Cassa di risparmio di Firenze.

Il problema della conservazione degli archivi in formato digitale va di pari passo con il tema della conservazione dei risultati anche dell'attività di digitalizzazione e di descrizione on line, frutto dell'opera di valorizzazione che tutte le istituzioni stanno compiendo. Ma per gli archivi di nuova formazione, cioè per quelli che nascono in formato digitale, occorre garantire qualcosa in più della qualità del dato per la ricerca: occorre cioè garantire che i documenti siano conservati nella loro integrità e legalità, concetto che comporta la conservazione di tutti gli elementi che connotano il documento, ivi incluse le informazioni di contesto, che associano il singolo documento ad una provenienza certa, e agli altri documenti che concorrono, con esso, a sancire la volontà del soggetto che lo ha formato. Il tema è un po' distante da quello oggetto della giornata odierna. Lo richiamo soltanto per continuare un discorso iniziato da Mariella Guercio e sarò breve. Ma occorre fare chiarezza, e cioè occorre precisare che quando parliamo di archivi non basta riflettere soltanto sui formati da utilizzare e sull'hardware da adibire allo scopo, per garantire la qualità dei dati e la loro longevità, anche a salvaguardia dei non indifferenti investimenti finanziari. Occorre ragionare sui profili legali, giuridici e archivistici implicati nel tema della conservazione dei documenti e degli archivi digitali in condizioni di legalità, oltre che di leggibilità e accessibilità.

Su questi argomenti la Direzione generale per gli archivi sta lavorando con il Centro nazionale per l'informatica della pubblica amministrazione (Cnipa), e all'interno di una Commissione della quale fanno parte i rappresentanti di tutti i dicasteri centrali e del Consiglio nazionale del notariato. Nella scorsa legislatura, un tavolo tecnico da me coordinato, del quale sono stati chiamati a far parte docenti di archivistica informatica, come Mariella Guercio, Stefano Pigliapoco e Federico Valacchi, ha svolto un approfondito lavoro sui profili più propriamente giuridico/amministrativi ed archivistici, ed ha prodotto cospicui materiali, analizzando i risultati del lavoro di gruppi internazionali e le best practice attivate all'estero ma anche nel nostro Paese. Questi materiali saranno oggetto di rielaborazione al fine di proporre uno standard nazionale per la conservazione di lungo periodo degli archivi in formato digitale e di quelli nati su supporto analogico, poi riversati su supporto digitale, come contributo alla stesura del regolamento di attuazione del Codice dell'amministrazione digitale, previsto dall'art. 71 del Codice stesso.

Quanto alla descrizione degli archivi storici, che è il caso sollevato dalla rappresentante della Fondazione Banco di Sicilia, la Direzione generale per gli Archivi non ha prodotto un software di inventariazione, ma, d'intesa con le regioni, ha costruito uno standard per la descrizione in rete degli archivi, che risponde alle regole in cui si riconosce la comunità scientifica internazionale. Ne è scaturito un tracciato molto articolato ed un software che lo traduce in linguaggio informatico. Il progetto, nel suo complesso, si denomina Sistema informativo unificato per le Soprintendenze archivistiche (noto con l'acronimo Siusa) ed è utilizzato dalle Soprintendenze per descrivere il patrimonio archivistico non statale da loro controllato. E' stato anche oggetto di accordo tra la Direzione generale e alcune regioni, che lo hanno adottato per i sistemi regionali, ricevendolo gratuitamente.

Lo descrivo brevemente.

Il Sistema informativo unificato per le Soprintendenze archivistiche (Siusa), sviluppato dal Servizio III della Direzione generale per gli Archivi, in collaborazione con la Scuola normale superiore di Pisa, è frutto della decisione di reingegnerizzare - senza perdere le banche dati - il progetto Anagrafe degli archivi, varato negli anni Novanta nell'ambito della realizzazione della mappa del rischio dei beni culturali. Il progetto è stato realizzato sulla scorta delle riflessioni condotte, in fase preliminare, da due gruppi di lavoro, uno composto da archivisti dell'amministrazione centrale - per gli aspetti gestionali - e l'altro da archivisti che operano nelle Soprintendenze e negli Archivi di Stato - per gli aspetti descrittivi e di diffusione delle informazioni - e successivamente, in fase di studio dei tracciati, da un terzo gruppo costituito da archivisti di Stato e da archivisti designati dal coordinamento delle regioni, onde dar vita ad un fattivo scambio di esperienze e riflessioni su progetti realizzati o in corso, e verificare la possibilità di un accordo sugli standard, premessa necessaria per l'interoperabilità dei sistemi. A quest'ultimo gruppo hanno partecipato anche rappresentanti della Scuola normale.

Il modello che ne è scaturito, e che ha avuto una sua realizzazione nel Sistema informativo unificato per le Soprintendenze archivistiche, si articola in due aree informative, fisicamente e logicamente distinte, ma tra loro collegate: un'area dedicata alla descrizione dell'archivio ("descrittivo"), destinata ad essere utilizzata e consultata on line anche dall'utenza esterna e un'area "gestionale", finalizzata all'uso interno delle Soprintendenze, a supporto della loro opera sul territorio e per lo scambio delle informazioni con la Direzione generale.

Nella definizione della struttura dell'ambito descrittivo la rappresentazione delle informazioni è basata sugli standard internazionali Isad (G) e Isaar (Cpf).

La parte descrittiva del sistema si articola in tre principali "oggetti complessi": il Complesso archivistico (cioè l'archivio, con tutte le sue partizione interne), il soggetto produttore (cioè l'ente, famiglia o persona che lo ha creato) e il soggetto conservatore (cioè l'ente, famiglia o persona che lo conserva).

Accanto a queste entità principali, nell'ambito descrittivo sono presenti delle schede che costituiscono banche dati "accessorie", a completamento delle informazioni riguardanti i complessi documentali e gli enti produttori. Al Complesso archivistico e al soggetto produttore è possibile infatti collegare una scheda Bibliografia e una scheda Fonti, dove sono descritte, per l'appunto, le fonti non pubblicate dalle quali sono tratte le informazioni; il Complesso archivistico può essere collegato ad una banca dati Strumenti di corredo, che descrive gli strumenti di descrizione delle carte, quali inventari, repertori, ma anche gli elenchi di consistenza ecc., e alla scheda Profilo documentario generale, ove si ha la possibilità di descrivere in maniera esaustiva specifiche tipologie di documenti.

Al soggetto produttore si riferiscono tre ulteriori banche dati: una predisposta alla descrizione dei Contesti politico-statuali di appartenenza, una finalizzata alla descrizione degli Ambiti territoriali in cui il soggetto ha operato, l'ultima per la formazione di un Profilo istituzionale generale, ovvero di una sorta di scheda "genere" ove inserire informazioni in merito a particolari tipologie di soggetti produttori, con la possibilità di creare collegamenti fra tale scheda e gli enti produttori che appartengono alla tipologia descritta, senza ripetere ogni volta le informazioni di contesto.

Siusa fa proprio il modello della descrizione separata di entità concettualmente diverse proposto dagli standard internazionali e lo estende a tutte le entità che concorrono a tracciare il quadro che descrive l'archivio in tutte le sue componenti di contenuto e di contesto, prevedendone rappresentazioni separate, ma tra loro correlate. Questa soluzione conferisce al sistema particolare duttilità, oltre che una pluralità di chiavi di ricerca e di accesso.

Pur essendo prevista la possibilità di descrizioni analitiche dei singoli fondi, fino all'unità, Siusa non si propone come una banca dati inventariale: si propone invece, coerentemente con le premesse progettuali dalle quali scaturisce, come punto di accesso primario per la ricerca generale su tutto il patrimonio archivistico non statale, a livello nazionale e, con maggiori approfondimenti, a livello regionale, secondo le strategie di sistemi informativi correlati disegnate dalla legislazione di tutela e valorizzazione del patrimonio documentale del nostro Paese. Si pone, dunque, come punto di raccordo di una articolazione di sistemi informativi locali: sistema aperto dal quale e verso il quale è possibile esportare e/o importare informazioni raccolte con altri sistemi, che presentino con esso uniformità e compatibilità di tracciati.

Nel sistema è previsto un collegamento che consente l'accesso ad un sistema locale di riferimento per poter consultare in rete - locale o remota - la descrizione analitica della documentazione archivistica. Siusa è anche un ambiente dove è possibile accogliere progetti sviluppati con la cooperazione di diversi soggetti istituzionali.

Attualmente sono descritti nel web, all'indirizzo http://siusa.signum.sns.it, 6.426 archivi (per un totale di 38.396 schede tra archivi e loro partizioni interne), con i loro soggetti produttori e conservatori. Ma il sistema si incrementa continuamente di nuove descrizioni. Sono attualmente in corso di elaborazione schede di descrizione in numero doppio di quello oggi pubblicato.

Questo sistema è uno standard sancito dalla Conferenza Stato, regioni e autonomie locali nel marzo del 2003. Un software di inventariazione prodotto dalla regione Lombardia e utilizzato dalle Soprintendenze - nonché da loro distribuito gratuitamente a chi ne faccia richiesta, per un accordo tra la Direzione generale per gli archivi e la regione Lombardia - è Sesamo, perfettamente compatibile con Siusa. E' stato infatti messo a punto dalla regione Lombardia un software che consente il riversamento automatico dei dati inventariali in Siusa, fino all'unità. Il programma potrà essere utilizzato eventualmente per inventariare e riordinare anche l'archivio del Monte di Pietà di Santa Rosalia di Palermo. La Soprintendente archivistica per la Sicilia, dottoressa Giordano, sarà certamente in grado di fornire ogni assistenza.

Chiudo qui, ringraziando i presenti per l'attenzione.

 

Note

[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri su Archivi e biblioteche, tenutosi a Roma il 7 giugno 2007.

 



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