Incontro di studio L'intervento pubblico per la
promozione
delle attività culturali – Cinema e spettacolo dal vivo
(Roma, 9 ottobre 2007)
La tutela dell'opera cinematografica: bene culturale materiale o immateriale?
di Alessandra Untolini e Rita Borioni
Sommario: 1. Generalità. - 2. Croce, Ragghianti e il cinema come "arte figurativa". - 3. Brandi e la figuratività autonoma del cinema. - 4. Benjamin e l'essenza della riproducibilità tecnica del cinema. - 5. Panofsky e il requisito della comunicabilità. - 6. Le problematiche. Le discipline nazionali di tutela fra opera cinematografica e immagini in movimento. - 6.1. Il cinema e la tutela del patrimonio culturale. - 6.2. Il cinema nella disciplina del diritto d'autore. - 7. Considerazioni finali.
La natura della creazione e della produzione cinematografica è da sempre al centro dei dibattiti su questo settore della creatività.
Fin quasi dall'esordio del cinema si sono contrapposte due scuole di pensiero: la prima concentrata sulla natura essenzialmente artistica e creativa del cinema; l'altra tendente a privilegiarne gli aspetti industriali. Le due concezioni hanno avuto riflessi fondamentali sullo sviluppo del cinema in Europa (e qui ci occuperemo solo dell'Italia) e di quello statunitense.
2. Croce, Ragghianti e il cinema come "arte figurativa"
Nel 1933 Carlo Ludovico Ragghianti pubblicò un saggio dal titolo "Cinematografo rigoroso" [1] nel quale, facendo leva sull'estetica crociana, si teorizzava la sostanziale identità tra l'arte cinematografica e le arti figurative "classiche" e ricomprendeva la prima nel novero delle seconde. In sostanza Ragghianti sosteneva - e continuò a sostenere lungo tutto il percorso della sua attività di critico - che la differenza tra cinema e pittura (e più in generale tra le diverse espressioni dell'arte) risiedesse esclusivamente nei mezzi materiali adoperati dall'artista per rendere visibile la propria creazione. La tecnica, d'altra parte, è considerata dal critico elemento ininfluente ai fini dell'opera d'arte in quanto non lede "né l'ispirazione, né la qualità dell'ispirazione" dell'artista. E insiste: "Il problema del mezzo per sé stesso considerato non esiste e non può esistere mai in sede critica".
Come abbiamo già accennato, è l'estetica crociana che informa questa interpretazione, laddove il Croce afferma la necessaria unitarietà e contemporaneità di intuizione e contenuto, il quale "in unità con la 'forma' garantiva (...) la compiuta opera d'arte" [2]. Dunque, l'arte è la manifestazione dell'intuizione con la quale costituisce un tutto inscindibile. Il metodo di analisi è sempre lo stesso per ogni forma d'arte, perché tema e argomento dell'estetica sono tutte le arti a prescindere dalla forma in cui si realizzano [3].
Secondo Ragghianti, quindi, l'arte - che è una sola e che si manifesta attraverso espressioni talvolta pittoriche, talvolta scultoree, talvolta teatrali e anche cinematografiche - è operazione puramente intellettuale e non può essere limitata o condizionata dalla tecnica: l'opera è conclusa nell'idea e nell'intuizione stessa dell'artista che la concepisce finita anche sotto il profilo tecnico realizzativo. Nel nostro caso, dunque, l'artista/regista intuisce "cinematograficamente". Pellicola o digitale, colore o bianco e nero, muto o sonoro, effetti speciali, musiche, tecniche di proiezione e di ripresa sono ridotte ad un dettaglio quasi insignificante.
3. Brandi e la figuratività autonoma del cinema
In una posizione decisamente diversa troviamo Cesare Brandi [4]. Una premessa ci sembra necessaria. Seppure lo studioso senese si dimostrò quanto meno dialetticamente critico rispetto alla costanza dell'interpretazione di Ragghianti del cinema come arte figurativa, egli inserì il suo discorso sul cinema in Carmine o della Pittura [5], opera di esordio nel campo dell'estetica, recensita nella sua prima edizione proprio da Benedetto Croce.
Brandi sostiene qui che vi sia stata una forzatura nel volere assimilare pittura e cinema laddove "la figuratività del cinematografo si appella a quella della pittura, per analogia con quest'arte e non per una unità di origine, del resto non supposta né finora affermata, delle arti nella figuratività" [6]. Ben lungi dall'operare un processo di assimilazione tra pittura e cinematografo, Brandi tende, quindi, ad affermare che l'artisticità del cinema può risolversi solo nella conquista di una figuratività autonoma, quello che oggi chiamiamo un linguaggio specificamente cinematografico.
Parte essenziale di questa autonomia risiede nel fatto che il cinema è "comunque e sempre, nell'apparenza visiva come in quella acustica, una riproduzione. (...) nel cinema la premessa di costituire sempre una riproduzione di qualcosa che ha un'esistenza fisica è essenziale" [7].
Brandi coglie la duplice natura del cinematografo: quella illusionistica e quella di riproduzione del reale attraverso la complessità dei mezzi tecnici di cui si avvale: "Il film naturalmente si manifesta attraverso l'esistente, e in questo senso, quel che per la pittura è rappresentato dalla tela e dai colori, per il film è dato dalla pellicola, dall'obbiettivo, dalla luce, dalla colonna sonora: ma, mentre nella pittura crea un'immagine a sé, nel film serve solo alla riproduzione, ed in quanto riproduzione è cinematografo" [8].
Il cinema è quindi, perdonerete il paradosso, lo strumento che permette la riproduzione all'infinito di un momento di esistenza irripetibile che viene reso accessibile a tutti.
4. Benjamin e l'essenza della riproducibilità tecnica del cinema
Ma parlare di riproduzione in questo contesto non può che portarci a Walter Benjamin e al suo L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica [9]. Nel 1936, dunque collocandosi cronologicamente tra l'opera di Ragghianti del 1933 e quella di Brandi (iniziata nel 1939 e pubblicata nel 1945), affermava l'autonomia del cinema dalle altre arti in ragione della sua intrinseca e originaria riproducibilità: "Nel caso delle opere cinematografiche la riproducibilità tecnica del prodotto non è, come per esempio nel caso delle opere letterarie o dei dipinti, una condizione di origine esterna della loro diffusione tra le masse. La riproducibilità tecnica dei film si fonda immediatamente nella tecnica della loro produzione. Questa non soltanto permette immediatamente la diffusione in massa delle opere cinematografiche: piuttosto, addirittura la impone" [10].
A valle di ciò vi è la perdita di senso del concetto di originale e quindi di prototipo. D'altro canto se dovessimo stare al significato letterale della parola "prototipo" si dovrebbe intendere che l'opera cinematografica sia un modello originale a cui si ispirano fatti, fenomeni, realizzazioni o personaggi successivi; oppure l'esemplare più originale e significativo di un determinato genere, spec. Letterario; ovvero, quando riferito ad un prodotto industriale, il primo esemplare (in qualche misura sperimentale) che serve da campione per la realizzazione successiva di prodotti in serie [11]. Si tratta di un tema cruciale ai fini della tutela delle pellicole cinematografiche così come concepita nella vigente normativa di tutela dei beni culturali e sul quale ci dilungheremo in seguito.
5. Panofsky e il requisito della comunicabilità
Erwin Panofsky, nacque in Germania dove visse fino al 1933 quando, a causa delle persecuzioni antiebraiche, riparò negli USA dove sicuramente risentì, nella sua analisi sul cinema, dell'influenza del sistema di produzione americano.
Il saggio Style and Medium in the Motion Pictures [12] apparve per la prima volta nel 1934 e in seguito, in una versione ampiamente rivista, nel 1947. Il grande critico tedesco individua la scaturigine del cinema, non nella pittura e nemmeno nel teatro, ma più semplicemente e logicamente in quell'insieme di fenomeni identificati come pre cinema.
Il cinema secondo Panofsky non nasce per un'urgenza artistica, bensì fu l'invenzione tecnologica a promuovere la scoperta e la crescita della nuova arte: la creazione di contenuti era strumentale all'esigenza di allargare il mercato dei fruitori della nuova tecnologia [13]. Non a caso una struttura narrativa autonoma, definita ed evoluta si afferma solo con l'introduzione del sonoro, anche se risale alla fine degli anni Dieci del Novecento.
Sta di fatto che, secondo Panofsky, gli esordi del cinema non ebbero alcuna ambizione artistica o culturale e, anzi, la programmazione cinematografica era rivolta ad un pubblico popolare e i suoi artefici erano estranei all'ambiente del teatro colto ed in genere dell'arte. Il piano, dunque, non è più quello del cinema come arte figurativa ma quello ben diverso del cinema come medium di contenuti espressi attraverso un linguaggio che si basa su una tecnica complessa e peculiare.
Lo sviluppo del cinema avviene, nella realtà dei fatti, secondo uno stile ed un linguaggio completamente autonomi rispetto a quelli utilizzati nelle altre arti. La necessità di diffusione, e quindi di conquistare fette sempre più ampie di pubblico, impone la creazione di un sistema iconografico di semplice interpretazione per gli spettatori e non dissimile da quello che oggi è utilizzato dalla televisione: la valletta ingenua, l'intellettuale litigioso, il bravo presentatore, l'ospite commosso e così via.
Dunque per il cinema ieri, come per la televisione oggi, "il requisito della comunicabilità" [14]è essenziale, sia ai fini della commerciabilità che a quelli dell'efficacia della rappresentazione: "il cinema e soltanto il cinema, rende giustizia a quella interpretazione materialistica dell'universo che, ci piaccia o no, pervade la civiltà contemporanea" [15].
6. Le problematiche. Le discipline nazionali di tutela fra opera cinematografica e immagini in movimento
6.1. Il cinema e la tutela del patrimonio culturale
Da questo breve e certo non esaustivo excursus tra alcune tendenze della critica, emergono due posizioni polarizzate (alle quali fanno da contrappunto una serie di orientamenti intermedi): la prima, di ascendenza crociana, interpreta l'opera cinematografica come unicum di forma e contenuto e quindi di invenzione e supporto; la seconda, quella di Benjamin, smaterializza il fenomeno visivo scindendolo dal suo supporto. La prima è quella che potremmo definire dell'opera cinematografica e la seconda è quella delle immagini in movimento.
Ma in che modo la concezione crociana e ragghiantiana ha influito nella nostra cultura giuridica in tema di tutela dell'essenza materiale e immateriale del cinema?
Uno dei temi cruciali, come abbiamo accennato in precedenza, è quello del prototipo e dell'originale. Come è noto le leggi di tutela dei beni culturali dal 1939 ad oggi si sono rivolte ai prototipi, agli originali, ai beni infungibili, ai beni rari e di pregio che rivestono uno degli interessi previsti dalla legge a seconda del regime proprietario.
E' noto che le pellicole cinematografiche sono state introdotte a pieno titolo nel novero dei beni tutelabili solo nel 1999 con l'entrata in vigore del Testo Unico (decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) e sono state di fatto equiparate ad ogni altro bene culturale. In continuità con la concezione del cinema come arte figurativa, la pellicola è diventata un bene culturale tutelato alla stregua di una tavola di Simone Martini.
La differenza tra le due cose dovrebbe essere, tuttavia, evidente per diverse ragioni: innanzi tutto perché la fruizione dello spettacolo cinematografico, e quindi dell'opera, è indipendente dall'originarietà del supporto, mentre lo stesso non può dirsi di un'opera pittorica o scultorea. Ciò discende dalla connaturata riproducibilità dell'opera cinematografica e dalla infungibilità dell'opera pittorica.
Se Benjamin aveva affermato la marginalità del prototipo, più recentemente Michele Cordaro, comparando il film con l'incisione, afferma che in quest'ultima ogni copia è un'originale [16].
Viene da domandarsi, a questo punto, quale delle copie originali possibili debba essere sottoposta alle norme di tutela.
La lettera della legge recita: "Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): (...) e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio". La norma, dunque, non ci offre alcuna specifica, ma dovendo individuare l'oggetto per analogia con gli altri beni culturali dovremmo considerare che materia della tutela debba essere il negativo o la prima copia positiva, a prescindere dallo stato di conservazione ed escludendo la possibilità di porre sotto tutela qualunque altra copia, ancorché meglio conservata o in uno "stato" [17] diverso e non per questo meno autentica [18]. La questione si aggrava in relazione ai richiesti caratteri di pregio e rarità (che rispetto ad un prototipo o alla copia negativa sarebbe da ritenersi carattere intrinseco) laddove sembrerebbe che la rarità debba essere qualità del supporto ed il pregio qualità del contenuto creativo. Senza considerare che le due caratteristiche non necessariamente devono coesistere nel medesimo oggetto/opera cinematografica.
Va specificato inoltre che la valutazione sulla rarità ed il pregio - e più in generale il riconoscimento di culturalità - dei beni (e quindi nel nostro caso delle pellicole) è affidata al soprintendente competente per territorio e per materia. Tuttavia non risulta sia stata introdotta, nella amministrazione statale dei beni culturali, una competenza tecnico-professionale specifica in questa materia.
Per altro, con l'evoluzione delle tecniche e con la diffusione del digitale, lo stesso concetto di prima copia o prototipo, così come la intendiamo oggi e così come la intende la legge, potrebbe smettere di esistere.
Ma le aporie non finiscono qui. Come è noto l'articolo 10 del Codice stabilisce che i beni (tutti i beni e non solo fotografie e pellicole) siano soggetti alla disciplina della legge solo qualora non siano opera di autore vivente e siano state eseguite da almeno 50 anni.
Questa regola generale viene però parzialmente derogata (stabilendo peraltro una contraddizione non sanata altrove) nel successivo articolo 11 dove è stabilito che: "fatta salva l'applicazione dell'articolo 10, qualora ne ricorrano presupposti e condizioni, sono beni culturali, in quanto oggetto di specifiche disposizioni del presente titolo [omissis] f) le fotografie, con relativi negativi e matrici, gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze in movimento, la documentazione di manifestazioni, sonore o verbali, comunque realizzate, la cui produzione risalga al oltre 25 anni, di cui all'articolo 65".
Il riferimento all'articolo 65 determina che su questi beni, purché siano stati eseguiti da almeno 25 anni, gravi esclusivamente il divieto, in assenza di preventiva autorizzazione da parte del ministero dei Beni e delle Attività culturali, di uscita definitiva dal territorio della Repubblica.
Il combinato disposto tra articolo 10 e articolo 11 del Codice fa quindi supporre che il proprietario di una pellicola cinematografica che sia stata impressa da più di 25 ma da meno di 50 anni ed il cui autore (che nel caso dell'opera cinematografica non è mai uno solo [19]) non sia più vivente, dovrà necessariamente richiedere la licenza per far uscire definitivamente l'opera dal territorio della Repubblica pur potendo, senza temere sanzioni, bruciarla o distruggerla in qualunque modo preferisca! Senza considerare i problemi che concernono il restauro delle opere cinematografiche sottoposte a tutela e a dichiarazione di interesse...
6.2. Il cinema nella disciplina del diritto d'autore
Un certo grado di contraddizione è rintracciabile anche nella disciplina nazionale del diritto d'autore. La legge 22 aprile 1941, n. 633 tratta le opere cinematografiche a partire dall'articolo 1, dove vengono individuate tutte le opere oggetto della protezione.
Secondo il dettato di legge contenuto poi nell'articolo 2, sono comprese nella protezione " le opere dell'arte cinematografica, muta o sonora, sempreché non si tratti di semplice documentazione protetta ai sensi delle norme del capo quinto del titolo secondo".
Si noti la distinzione operata dal legislatore tra forme di protezione a seconda che ci si trovi di fronte a opere dell'arte cinematografica, piuttosto che a semplice documentazione.
In termini generali, ed alla luce dell'analisi fin qui svolta, si può affermare che la cinematografia è un linguaggio che l'autore utilizza per comunicare idee, o una propria visione della realtà; oppure per documentare fatti storici e sociali; o, ancora, per divulgare conoscenze. Tale appare almeno la semantica delle parole che utilizziamo più frequentemente: cinematografia e opera cinematografica. Il lavoro intellettuale degli autori di un film si compie nel momento dell'incontro con il pubblico che avviene con la rappresentazione su uno schermo (sia esso quello della sala cinematografica, piuttosto che il monitor di una TV o di un personal computer). La fruizione del film da parte del pubblico non comporta la necessità che esso entri in contatto con il supporto materiale che contiene l'opera. Un film non si fruisce guardando la pellicola, bensì attraverso la sua proiezione su uno schermo. Ed è proprio questo che fa la differenza con le altre forme dell'arte e dell'espressione ammesse alle norme di tutela.
Il cinema, inoltre, non può prescindere dalla messa in opera di un processo di sviluppo e di realizzazione collettivo e complesso che si avvale di una struttura produttiva organizzata, di professionalità specializzate nonché di strumenti che ne rendono possibile il godimento.
L'interdipendenza tra la fase strettamente creativa e quella di carattere tecnico - professionale - produttivo di realizzazione dell'opera può spingere a pensare che essa esista effettivamente solo nel momento in cui acquista una materialità, rappresentata dalla pellicola.
Tant'è che la disciplina di protezione, viene indotta (o induce?) a considerare il singolo fotogramma di una pellicola - qualora esso risulti disgiunto dal complesso narrativo in cui era inserito - come semplice documento (testimonianza o strumento?) e ad assimilarlo alla fotografia.
Ma sorge spontanea la domanda: è proprio vero che la pubblicazione o l'uso di un singolo fotogramma di un film si possa disgiungere dal contesto generale dell'opera dalla quale proviene; oppure esso conserva comunque una capacità evocativa di quell'opera (unica) nel pubblico e nei fruitori?
Se così fosse, non sarebbe più corretto che il singolo fotogramma di un film venisse considerato dalla disciplina come una citazione dell'opera nella sua interezza?
E, perciò, che cosa si sta effettivamente utilizzando (e altresì proteggendo), la porzione di una pellicola - sic et simpliciter - un'immagine fissa, oppure le idee, la storia, il complesso narrativo e tecnico e tutti quegli elementi di un film che non hanno, al contrario della pellicola, materialità?
In altre parole quando pronunciamo la frase: "Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare" [20] possiamo darle un significato indipendente dal contesto narrativo di Blade Runner?
Vero è che diverse sono le parti della disciplina italiana del diritto d'autore in cui le tutele di legge riconosciute alle opere cinematografiche insorgono nel momento in cui esse acquisiscono materialità con la loro fissazione in pellicola non senza, talvolta, entrare in contrasto con i principi fondamentali affermati dalla stessa disciplina.
Come è noto, la protezione dei diritti scaturenti dalle opere cinematografiche è regolata dalla Sezione III (Opere cinematografiche), Capo IV (Norme particolari ai diritti di utilizzazione economica di talune categorie di opere), della legge 633/1941.
L'articolo 44 della legge 633/41 si occupa di individuare i soggetti riconosciuti quali autori dell'opera cinematografica. Essi sono l'autore del soggetto, l'autore della sceneggiatura, l'autore della musica, il direttore artistico. E' forse utile ricordare che l'articolo 10 della stessa legge stabilisce che si considerano coautori coloro che hanno partecipato "alla creazione di un'opera rispetto alla quale il contributo di ciascuno è indistinguibile e inscindibile". In questo caso i coautori sono i soggetti delle norme di tutela in comunione, anche se la difesa del diritto morale può essere sempre esercitata da ciascuno di essi individualmente.
L'articolo 44 prevede, perciò, che l'opera cinematografica sia frutto del lavoro creativo e intellettuale di coautori ai quali è riconosciuta la capacità di difesa dei diritti morali d'autore e le relative tutele di legge, ai sensi degli articoli 6 e 20.
Fin qui le norme di tutela si concentrano sul profilo creativo delle opere, e cioè sulla parte immateriale della creazione che, nel caso del cinema, non può che coincidere con il contenuto narrativo o documentaristico, fruibile da parte del pubblico indipendentemente dal supporto.
Un primo contrasto interno alla disciplina dettata dalla legge 633 emerge dall'esame di questi articoli: se, infatti, l'opera cinematografica è il frutto del lavoro di coautori, ciascuno dei quali contribuisce in maniera inseparabile e indistinguibile alla creazione di un'opera, si deve intendere che l'opera così creata debba, a sua volta, essere un corpo creativo unico e inseparabile. Perciò la tutela dei diritti scaturenti dall'utilizzo di un singolo fotogramma di una pellicola dovrebbe ricadere comunque nello stesso ambito normativo. Invece, come abbiamo visto, il singolo fotogramma di un film viene espunto dalle norme sulle opere cinematografiche e fatto ricadere in quelle che riguardano la fotografia. Quasi che il singolo fotogramma sfugga alla coautorialità per essere riportato alla responsabilità di un unico artefice.
Proseguendo nella lettura della sezione III della disciplina, giungiamo agli articoli 45 e 46 sull'attribuzione di titolarità e l'esercizio dei diritti di sfruttamento economico.
Si conferma qui, al secondo comma dell'art. 45, la filosofia seguita dalla nostra disciplina che fa coincidere l'opera ideata (bene intangibile) con il supporto materiale che la contiene. Le disposizioni, infatti, stabiliscono che "Si presume produttore dell'opera cinematografica chi è indicato come tale sulla pellicola cinematografica", pur prescrivendo, immediatamente dopo, che l'individuazione del produttore si possa compiere attraverso i dati risultanti dalla registrazione dell'opera cinematografica nel registro speciale tenuto dalla SIAE, ai sensi dell'articolo 103 della stessa disciplina di protezione.
Soffermiamoci per un attimo sull'articolo 103: il comma 5 stabilisce che la registrazione dell'opera cinematografica fa fede, fino a prova contraria, della esistenza dell'opera, attribuendo così all'azione della registrazione un valore sostanzialmente costitutivo dell'opera stessa. Emerge qui una nuova aporia tra le disposizioni dell'articolo appena esaminato e quelle dell'articolo 6, laddove, in quest'ultimo, si stabilisce che il diritto d'autore nasce contemporaneamente alla creazione dell'opera, in quanto frutto di un lavoro intellettuale; perciò l'opera esiste nel momento stesso del suo concepimento da parte dell'autore [21].
Quello che emerge è che uno dei peccati originali di cui soffre il nostro cinema è la sua primigenia assimilazione alle forme "tradizionali" dell'arte figurativa, alla pittura e alla scultura. Averlo attratto in quella sfera di influenza, filosofica prima che giuridica, ha fatto sì che la sua natura "illusionistica" fosse emarginata dalla elaborazione legislativa di tutela che si è concentrata quasi esclusivamente sugli aspetti materiali, sulla pellicola, sui supporti piuttosto che sul suo farsi e sul suo essere essenzialmente linguaggio e sequenza di immagini in movimento.
Se questa situazione ha mostrato i suoi limiti (in termini di contraddittorietà interna, di difficile applicabilità, di incompletezza delle norme e di messa in valore del suo essere prodotto coautoriale), i recenti (e non più recentissimi) sviluppi tecnologici preannunciano il rischio di una vera e propria implosione del sistema normativo in questo ambito.
Come potrà una normativa tutta preoccupata di tutelare le pellicole piuttosto che lo "spettacolo cinematografico" interagire con la smaterializzazione dei supporti?
Quale oggetto può tutelare il Codice dei beni culturali se il "prototipo" risiede unicamente in un codice binario letto da un computer?
Lo sviluppo e l'evoluzione della tecnologia non solo comportano il rischio di perdita di mezzi di riproduzione in rapida obsolescenza. Essi realizzano la possibilità di cambiare radicalmente i sistemi di produzione del cinema, di renderli disponibili a molti più soggetti e, di conseguenza, di sperimentare una infinità di nuovi linguaggi e di contaminazioni, oltre che di nuove e inedite modalità di fruizione attiva tali che il principio di originalità e quello di autorialità si dilatano per lasciare il posto alla pluralità delle originalità e alla sovrapposizione sincretica degli autori.
Questo sul piano della creazione di prodotti culturali. Ma il mutamento è almeno altrettanto dirompente sul piano dell'economia dell'industria cine-audiovisiva. E' evidente, e se ne dibatte ormai da alcuni anni, che le nuove tecnologie possano cambiare le modalità della creazione tanto quanto la struttura industriale della produzione e della distribuzione cine-audiovisiva. Fenomeno già accaduto con l'arrivo sul mercato della distribuzione dei contenuti da parte delle televisioni commerciali al quale, come è noto, il nostro sistema normativo, non è stato in grado di rispondere con la necessaria prontezza.
Nel caso del cinema, ritardare i necessari aggiornamenti legislativi, significherebbe soffocare quella sua peculiare natura che gli impone di essere riprodotto allo scopo di essere diffuso.
Sottrarlo a questi rischi significa, pensiamo, ricollocarlo come prodotto culturale orientato alla fruizione e al contempo alla produzione di nuovi linguaggi e nuovi modi di espressione.
In che modo le politiche pubbliche potranno interagire virtuosamente con i mutamenti strutturali in atto nella società?
Riteniamo che se - come afferma Michele Trimarchi - il fulcro delle politiche pubbliche per la cultura deve essere il cittadino fruitore e la sua crescita in termini di possibilità e capacità di accumulare conoscenze, la Repubblica (in tutte le sue articolazioni) dovrà agire per governare i cambiamenti e non, come talvolta accade, per addomesticarli.
Note
[1] C.L. Ragghianti, Cinematografo rigoroso, in "Cine-Convegno", I, 1933, n. 4-5; poi in C.L. Ragghianti, Arti della visione, vol. I. Einaudi, Torino, 1979.
[2] M. Reale, Sull'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte di Benedetto Croce, in La Cultura. Rivista di filosofia, letteratura, storia, 3, 2003, Il Mulino, Bologna, p 425
[3] Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1941
[4] Salta facilmente agli occhi che i più accalorati protagonisti del dibattito sulla artisticità del cinema furono proprio i critici d'arte: Ragghianti, Brandi, Arnhaim, Panofsky e molti altri. La natura essenzialmente visuale (prima che essere anche sonora) del cinema, chiamò a raccolta proprio coloro che possedevano la strumentazioni critica e tecnica di indagine delle immagini, che, fino ad allora, erano state immagini statiche e che improvvisamente avevano preso a muoversi senza mutare, secondo alcuni, la loro natura.
[5] C. Brandi, Dialoghi di Elicona: Carmine o della pittura, Roma, Scialoja, 1945; Roma, Editori Riuniti, 1992.
[6] Ibidem, pag. 193.
[7] Ibidem, pag. 199.
[8] Ibidem, pag. 199.
[9] W, Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi 1966.
[10] Ibidem, nota. 10 pag. 49.
[11] Voce Prototipo in T. De Mauro, Dizionario della lingua italiana on line, Paravia.
[12] E. Panofsky, Style and Medium in the Motion Pictures, in Bulletin of the Department of Art and Archaeology Princeton Univ.(1934), poi in Critique, New York. I, 3, 1948, pp. 5-28, trad. it. Stile e tecnica del cinema, in Tre saggi sullo stile: Il barocco, il cinema, la Rolls-Royce, Electa, Milano, 1996.
[13] Cfr. F. Peretti, G. Negro, Economia del cinema, Etas, Milano, 2003 (I ed.) e in particolare cap. 2 L'evoluzione del settore cinematografico in Europa e negli Stati Uniti.
[14] E. Panofsky, Tre saggi, pag. 115.
[15] Ibidem, pag. 115.
[16] M. Cordaro, Il concetto di originale nella cultura del restauro storico e artistico, in Restauro e tutela. Scritti scelti (1969-1999) Graffiti, Roma, 2003, (II ed.) già pubblicato in Il cinema ritrovato. Teoria e metodologia del restauro cinematografico, a cura di G.L. Farinelli e N. Mozzanti, Grafis Edizioni, Bologna, 1994, pp. 11-16.
[17] Usiamo il termine "stato" in analogia con l'incisione.
[18] Facciamo riferimento al caso di film rimontati o per i quali il montaggio del regista e quello del produttore non coincidono.
[19] Il tema dell'autorialità e della definizione dell'autore che per i beni culturali "tradizionali" non pone di norma particolari problemi, diventa invece centrale nel caso del cinema e tanto più nel caso di opere "collettive" vale a dire di film a episodi. Si dovrà considerare il pregio "collettivo" dell'opera o quello riferibile ai singoli episodi? Si sottoporrà a tutela l'opera solo a distanza di 50 anni dalla scomparsa di tutti i registi/autori, o si potrà procedere a tutelare ogni singolo episodio in maniera autonoma? In assenza di una chiara individuazione della figura dell'autore di opere cinematografiche da parte delle norme di tutela, ci si deve necessariamente riferire ad una disciplina esterna ed in particolare, per ovvie ragioni di affinità, a quella del diritto d'autore. La legge 633/41 definisce all'articolo 3 le opere collettive (senza tuttavia includervi le opere cinematografiche) e all'articolo 10 quelle coautoriali (vedi infra). Il che, comunque non scioglie le questioni relative alla prassi della loro tutela.
[20] Ma avremmo anche potuto citare l'icastica frase "Lupo ululì, castello ululà".
[21] Lo spirito di questo articolo che sembra affermare la consustanzialità tra l'intuizione creativa e l'esistenza dell'opera a prescindere dalla sua realizzazione tecnica appare incredibilmente prossima al pensiero crociano ed all'esegesi compiuta dal Ragghianti a cui abbiamo accennato in precedenza.