Il paesaggio come realtà etico-culturale [*]
di Carla BarbatiRiflettere sul tema del paesaggio quale realtà etico-culturale non può dirsi consueto per l'analisi giuridica, la cui attenzione è stata, sin qui, e tuttora continua ad essere, attratta da altri profili, che riguardano in via più immediata le modalità della sua salvaguardia, le competenze che essa può o deve coinvolgere, gli interessi "altri" con i quali essa deve o non deve comporsi, le misure idonee a garantire l'effettività delle tutele previste. Valutare il paesaggio come realtà etico-culturale significa porsi, dunque, non tanto al di fuori di questo dibattito, quanto interessarsi di quelli che se ne possono considerare i presupposti. In questo senso, d'altro canto, lo stesso giudice costituzionale ha operato riferimenti espressi a questa valenza del paesaggio [1], così come molte altre discipline, che si occupano del tema, da tempo parlano e discutono della sua dimensione etico-culturale. In effetti, accostarsi al paesaggio, considerandolo in questo suo possibile significato, richiede all'analisi giuridica di misurarsi con saperi "altri", discostandosi da quello che costituisce il proprium del cosiddetto metodo giuridico. Ogni riferimento all'etica, anche nell'endiadi etico-culturale, rende infatti necessario confrontarsi con elaborazioni che precedono le scelte del diritto positivo, chiedendo di essere, da questo, recepite, ossia tradotte in strumenti capaci di dare ad esse riconoscimento, se non realizzazione. Compito sempre difficile e complesso per le norme tanto che è, spesso, affidato all'interprete, anche delle sedi istituzionali o amministrative, ossia a chi le applica, darne una lettura capace di fare emergere questi significati ulteriori, ma da esse per lo più sottesi anziché dichiarati.
Non sorprende, dunque, che il legislatore, nelle differenti occasioni in cui si è occupato del tema "paesaggio", non abbia mai operato riferimenti espliciti ad un suo "valore" o, come altrimenti può dirsi, ad una sua dimensione etico-culturale. L'assenza di un richiamo espresso non significa, tuttavia, che questa valenza del paesaggio non sia riconosciuta dal legislatore né, tantomeno, che essa sia disconosciuta. Certo è che, per verificare quanto la dimensione etico-culturale del paesaggio sia già presente alla consapevolezza del legislatore e, di conseguenza, per verificare "se" e "quanto" gli strumenti oggi disponibili, per la sua disciplina e per la sua salvaguardia, siano adeguati ad esprimerla, occorre, innanzi tutto, cercare di capire in che cosa essa consista o possa farsi consistere. E' appena il caso di precisare che ogni risposta a simili interrogativi ben difficilmente può aspirare a possedere caratteri di univocità e definitività, stante il soggettivismo interpretativo al quale sono esposte le categorie concettuali di riferimento.
Ciò che si può offrire, in questa sede, è pertanto un tentativo o, comunque, una proposta di lettura, formulata avendo riguardo a quei saperi "altri" che, come si diceva, si sono occupati del paesaggio, da sempre oggetto di studio da parte di differenti scienze sociali: urbanisti, architetti, storici, geografi, economisti, linguisti, critici d'arte, filosofi, oltre che, ma solo in fine, giuristi [2].
Con queste cautele, si può, innanzi tutto, dire che vi sono alcune prime risposte "facili" a tali quesiti. Sono le risposte che provengono da quella branca dell'etica, che è la cosiddetta teoria del valore, ed alla cui stregua il paesaggio è, appunto, un valore, un bene, il quale, secondo quell'altra branca dell'etica, che è la cosiddetta teoria dell'obbligazione, crea doveri di comportamento, obblighi di astensione, ossia impone misure volte alla sua salvaguardia.
In base a questo approccio, vi sarebbe, dunque, da dire che l'essere il paesaggio "realtà etico-culturale" è immanente al suo riconoscimento, anche legislativo, come bene da salvaguardare, attraverso l'adozione di misure a ciò dirette. Questa prima lettura aggiunge, però, poco all'analisi che possa dirsi significativa anche per le riflessioni della sede giuridica. Soprattutto, non fornisce indicazioni utili a valutare le soluzioni approntate (o da approntare) a questo fine, né aiuta ad individuare i cosiddetti "interessi paesaggistici", a definire quale sia il ruolo/peso da riconoscere ad essi, nell'ineliminabile confronto e bilanciamento con "altri" interessi egualmente incidenti sul territorio, come sono quelli ambientali e urbanistici o, come può altrimenti dirsi, con espressione che ripete le scelte lessicali del più recente Costituente, del "governo del territorio", né aiuta ad identificare quale sia il "paesaggio" da salvaguardare. In sostanza, non contribuisce a dare risposta a quesiti che, anche per l'analisi giuridica, rappresentano questioni risalenti e, per molti aspetti, tuttora aperte, ben espresse, fra l'altro, da quella che è indicata come la "polisemia" del concetto di paesaggio o, come altre discipline preferiscono dire, la "plasticità semantica" dello stesso [3].
Per rispondere a questi interrogativi occorre, allora, fare un passo indietro o, forse meglio, in avanti. Occorre, in sostanza, andare all'origine di queste letture e di queste valutazioni del paesaggio, chiedendosi perché il paesaggio sia un "bene", un "valore", appunto, una "realtà etica" o "etico-culturale". E, qui, si può andare molto indietro nel tempo, sino alle origini del sapere occidentale, ricordando la cultura greca classica, per la quale, come testimonia Senofonte nell'Economico, il gentiluomo di campagna, colui che si dedicava all'agricoltura era, anche per Socrate, il kalos kagathos, ossia l'uomo bello e buono, in quanto agiva sullo spazio in cui si sviluppa la vita umana, uno spazio che è totalità etica ed estetica; Cicerone che, nel De natura deorum, ricorda tra le arti necessarie quelle che vedono l'uomo creare nella natura quasi un'altra natura; Ovidio, per il quale, nelle Metamorfosi, la trasformazione del caos in cosmo si deve all'intervento delle Muse che conducono l'uomo a porre ordine nella natura.
Ma si può pensare, venendo a tempi più recenti, anche ad Ambrogio Lorenzetti, con le sue allegorie del Buon Governo e del Malgoverno, i cui effetti si vedono, quanto alle campagne, nella presenza o assenza di ciò che può definirsi un paesaggio. In sostanza, già in questi precedenti è rintracciabile la ragione che ha spinto la filosofia moderna a riconoscere nel paesaggio una "realtà etica", nel senso appunto kantiano, in quanto opera dell'uomo sulla natura, dunque espressione dell'azione libera dell'uomo che, come tale, ne richiama la responsabilità, la scelta, appunto l'etica. Premessa di quello che sarebbe, poi, diventato l'esito cui è giunta la filosofia contemporanea, secondo la quale il paesaggio è una realtà non solo estetica, ma anche etica, perché risultante dell'incontro fra uomo e natura. Di più, in quanto frutto della creazione non di un solo uomo, ma di un intero popolo, il quale crea il proprio paesaggio, incidendovi l'impronta di sé, è anche realtà etico-culturale [4]. Tesi che trovano evidenti corrispondenze anche in quelle letture, proprie dell'analisi giuridica, volte ad individuare nel paesaggio la "forma del paese" [5] oppure, ed anche, la "proiezione culturale del territorio" [6], espressione della sua identità ambientale. Un paesaggio, dunque, per dirla con gli storici dell'architettura del paesaggio, che diventa "manifestazione sintetica delle culture che si sono succedute sul territorio" e che, perciò, si qualifica come bene al quale si connettono altri beni culturali, anche immateriali, come i fenomeni etnografici, la memoria orale, il patrimonio linguistico dialettale [7], proponendosi, a questi effetti, come realtà etica, secondo il significato originario di ethos, appunto, luogo, dimora e perciò, anche, espressione del genius loci, nel senso in cui ne parlò, fra gli altri, J. Wolfgang Goethe [8].
Letture che non possono dirsi estranee alla consapevolezza del legislatore. Al contrario, è facile trovarle sottese anche alle indicazioni offerte sia dal legislatore interno più recente, ossia dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004 e succ. modifiche, spec. artt. 2 e 131), sia, ed ancor prima, dal legislatore comunitario e, segnatamente, dalla Convenzione europea del paesaggio, laddove si riconosce il proprium del paesaggio nell'essere frutto ed espressione dell'intersezione fra natura e storia umana, ossia ed anche "manifestazione identitaria" [9].
Il riconoscimento di questi valori, da parte del legislatore attuale, non può, tuttavia, considerarsi un "punto di arrivo", esito di nuove acquisizioni. In esso, pur essendo facile riscontrarvi il recepimento di quelle letture del paesaggio, promosse dagli "altri" saperi, che di esso si sono occupati, è possibile ravvisare anche una sorta di "ritorno al passato". In particolare, un ritorno alla concezione che del paesaggio o, ancor meglio, di ciò che oggi definiremmo "bene paesaggistico", accompagnò quella che fu la prima legge con la quale in Italia si intervenne a salvaguardia di questi valori: la legge 16 luglio 1905, n. 411, "Per la conservazione della pineta di Ravenna". La sua approvazione si dovette grazie, anche, all'opera di Luigi Rava, all'epoca ministro dell'Agricoltura, per il quale doveva essere solo il primo atto di avvio per una più generale legge "per la conservazione delle bellezze naturali, che si connettono alla letteratura, all'arte, alla storia d'Italia". Nel presentare il disegno di legge alla Camera, l'8 aprile 1905, Rava sottolineava come "il culto delle civili ricordanze" si esprimesse non solo "nelle solenni opere consacrate nel marmo e nel bronzo", ma anche nei monti, nelle acque, nelle foreste, ossia in "tutte quelle parti del patrio suolo, che lunghe tradizioni associarono agli atteggiamenti morali ed alle vicende politiche di un grande paese" [10].
Non solo, anche il decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1940, n. 1357, per l'applicazione della legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, a proposito delle c.d. "bellezze d'insieme", ne riconduceva il valore estetico e tradizionale alla "spontanea concordanza e fusione fra l'espressione della natura e quella del lavoro umano" (art. 9, comma 2, sub 4). Un "ritorno al passato" tramite il quale si supera, dunque, quella concezione meramente, o essenzialmente, estetico-culturale del paesaggio che si venne affermando, successivamente, e che, in alcune letture che se ne diedero, trovò una propria legittimazione, o comunque una sorta di sanzione-riconoscimento, nella scelta costituzionale di collocarne la tutela nell'art. 9 Cost., unitamente a quella del patrimonio storico-artistico. Indicazione che trovò recepimento anche nell'opera della Commissione d'indagine Franceschini, per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, alla quale si dovette l'attrazione del paesaggio nel concetto di bene culturale ambientale, "risultante dalla fusione dei profili estetico-naturalistici con quelli storico-artistici dell'interazione della cultura dell'uomo sul territorio, nel quadro della più ampia nozione di testimonianza avente valore di civiltà" [11].
Una valenza estetico-culturale del paesaggio che acquisì, poi, specie per opera delle interpretazioni del giudice costituzionale, la capacità di qualificare e distinguere gli interessi paesaggistici da altri, incidenti sul territorio. Basti, in proposito, ricordare, fra le tante, la sentenza 20-29 dicembre 1982, n. 239, con la quale la Corte costituzionale evidenziò come proprio la scelta del Costituente di tutelare il paesaggio, unitamente al patrimonio storico-artistico, nell'art. 9, valesse ad evidenziarne il valore estetico-culturale, facendo di entrambi l'espressione di beni (culturali), la cui protezione doveva "contribuire all'elevazione intellettuale della collettività" [12], perciò distinti, e da distinguere, dall'urbanistica e dall'ambiente con la cui disciplina, come riconoscerà successivamente lo stesso giudice, avrebbe comunque dovuto coordinarsi.
E', dunque, rispetto a queste letture ed interpretazioni, di un tempo "intermedio", che gli attuali riconoscimenti legislativi rappresentano un passo in una direzione diversa, volta, appunto, a riconoscere nel paesaggio un bene non solo per i valori estetico-culturali che esprime, ma anche in ragione del suo porsi come proiezione culturale del territorio, manifestazione identitaria. Una lettura che, peraltro, non contrasta con quanto enunciato nell'art. 9 della Costituzione, dove l' "aggancio" del paesaggio al patrimonio storico-artistico si può ritenere non valga tanto a sottolinearne un'identità, anche di valori, che diventi identità di disciplina, ma serve, semmai, ad evidenziare le intime connessioni tra patrimonio storico-artistico e territorio, secondo le tesi espresse, in quella medesima epoca, anche dagli storici e dai critici d'arte [13]. Scelta, questa, del Costituente o, comunque, interpretazione di una scelta che sembra agevole riconoscere anche nelle indicazioni del recente legislatore, laddove questi colloca nel comune alveo del patrimonio culturale sia i "beni culturali" sia i "beni paesaggistici". Non solo; sempre la scelta legislativa di non menzionare, come espressione del patrimonio culturale, anche il "paesaggio" (ma solo i "beni paesaggistici") sembra confermare la possibilità di assumere il "paesaggio" come categoria concettuale più ampia, che comprende ma non si risolve nei beni paesaggistici [14].
In sostanza, proprio il riconoscimento del paesaggio come "realtà etico-culturale", che sembra sottesa anche alle disposizioni del codice, ne amplia la nozione, consentendo di comprendere nella sua salvaguardia anche quanto, in sostanza, va oltre la mera "tutela", intesa come conservazione, dei beni paesaggistici. Tuttavia, proprio questa sua latitudine ripropone, anziché risolvere, l'antica questione della sua delimitazione, ossia dei criteri in base ai quali individuare e distinguere gli interessi paesaggistici, nel rapporto e nel confronto con altri interessi contermini; in particolare, con quelli alla tutela dell'ambiente ed al governo del territorio, ma, come si dirà, non solo con questi. Temi da sempre controversi e non solo per l'analisi giuridica, ma anche per le altre discipline che, ad esso, si sono accostate, tanto che, proprio dalle loro elaborazioni ed acquisizioni, possono derivare indicazioni utili al legislatore ed all'interprete chiamato a confrontarsi con la latitudine della nozione.
Quanto ai rapporti tra paesaggio e ambiente, infatti, anche per le analisi filosofiche, che- come si è visto- più delle altre parlano del paesaggio come realtà etico-culturale, se il paesaggio è forma antropica, l'ambiente, come wilderness, può entrare in tensione con esso. Tuttavia, a questi studi ed, in particolare, a quelli di Rosario Assunto si deve anche l'avere individuato i possibili criteri di composizione fra queste due categorie, proponendo due idee di paesaggio. Da un lato, il paesaggio il cui esserci è il risultato di un processo operativo umano; dall'altro, quello il cui essere estetico risulta da ciò che si potrebbe definire un conferimento di senso, ossia una scoperta, grazie alla quale diventano oggetti estetici quelli che prima erano semplici cose di natura [15]. Una distinzione, dunque, che offre il fondamento teorico e concettuale a quella pluralità di significati del termine paesaggio, che diventa, anche nell'art. 142 del Codice, paesaggio-ambiente-luogo geografico.
Quanto ai rapporti tra paesaggio e governo del territorio, la linea di distinzione, pure riconosciuta e tracciata, nel passato, dal giudice costituzionale ed anche dal giudice amministrativo, è ancor più sottile, spesso invisibile, ossia è di quelle linee che evocano non già separazione né contrapposizione di ambiti, ma, semmai, reciproca integrazione, a fronte di quello che, per parafrasare una locuzione, coniata dal giudice costituzionale, ad altri fini, rappresenta un "inestricabile intreccio di interessi". Ed anche a questo proposito, forse, sono le acquisizioni più recenti di un "altro" sapere, ossia della scienza della pianificazione a fornire criteri orientativi utili o, comunque, utilizzabili, laddove afferma la necessità di pervenire ad uno "statuto dei luoghi", che conduca a definire piani e programmi con i quali si individuano le invarianti di un territorio, ossia i suoi caratteri identitari permanenti (i "beni paesaggistici") per poi fissare le regole che governano la trasformazione [16], ossia quella che, per usare un'espressione diffusa in dottrina e in giurisprudenza [17], può definirsi la "tutela dinamica" del paesaggio e, con esso, del territorio.
Pertanto, e volendo qui tentare alcune considerazioni conclusive, se può avere un significato, anche per l'analisi giuridica, riconoscere nel paesaggio una "realtà etico-culturale", ossia muovere da questo "altro" presupposto, nel senso e con i significati ad esso assegnati dalle scienze sociali che se ne sono maggiormente occupati, questo ben può individuarsi nella circostanza che il concetto stesso di "paesaggio", così inteso, reca in sé vicinanze o interferenze fra interessi (e forse, anche valori), le quali vanno sin oltre quelle più dibattute per giungere ad interessare anche quei "beni culturali", la cui tutela e la cui valorizzazione, al di là dell'essere disciplinate nel medesimo corpo normativo, rispondono a logiche e a criteri non solo differenti, ma pensati come se, questi beni e gli interessi ad essi correlati, mai fossero destinati o chiamati ad intersecarsi. Interferenze e connessioni che, in quanto sembrano immanenti al paesaggio nella sua dimensione etico-culturale, ossia "nella natura delle cose", così come non dipendono da scelte legislative neppure possono essere superate o risolte da un legislatore, il cui intervento non sembra valutabile nella sua capacità di tracciare confini netti e certi, ma semmai in quella e per quella di tenere conto delle interferenze e delle sovrapposizioni esistenti, delineando assetti che di ciò siano consapevoli e che forniscano gli strumenti ma, soprattutto, i criteri per il governo di quella che è una elevata complessità di settore e di settori.
Al contempo, sempre questa dimensione, ampia, "etico-culturale", del paesaggio suggerisce che "altre" siano le differenze che devono cercarsi e che dovrebbero guidare non solo il legislatore, ma anche, e forse soprattutto, coloro dai quali dipende il governo delle integrazioni e delle connesse complessità di settore, ossia da tutti i soggetti istituzionali o, comunque, pubblici chiamati ad interpretare e ad attuare le indicazioni normative, nelle potenzialità che esprimono e nelle possibilità che aprono, anche in relazione alle singole realtà territoriali. Sono le differenze tra il paesaggio ed i "beni paesaggistici", avvertite da taluni [18], ma rimaste inesplorate nelle loro potenzialità e nei loro significati, quasi "taciute" nel dibattito più frequente, sia teorico sia istituzionale nonché le differenze "tra i beni culturali", tracciate dal legislatore, ai fini della loro tutela, ma molto meno riconosciute, o immediatamente riconoscibili, agli effetti della loro "valorizzazione". Differenze la cui percezione, più compiuta e consapevole, vi è da chiedersi se non possa, essa, favorire e, ancor di più, consentire quello sviluppo integrato dei territori che si affida, anche, al "patrimonio culturale", in tutte le sue componenti: quelle dei beni paesaggistici e quelle dei beni culturali.
Note
[*] Relazione tenuta al convegno "Diritto al paesaggio e diritto del paesaggio", Lampedusa, 21- 23 giugno 2007 e destinata alla pubblicazione negli Atti dello stesso.
[1] E' questo il caso, fra le altre, della sent. 14-18 ottobre 1996, n. 341, al cui pt. 4 cons.dir. si legge, appunto, che: "Questa Corte ha più volte ricordato che il paesaggio costituisce, nel nostro sistema costituzionale, un valore etico-culturale (...) nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni e, in primo luogo, lo Stato e le regioni, ordinarie o speciali, in un vincolo reciproco di cooperazione leale (sentenze n. 379 del 1994, n. 302 del 1988, n. 359 e n. 94 del 1985, n. 239 del 1982 e n. 141 del 1972)".
[2] Per una rappresentazione di sintesi delle principali risultanze alle quali è giunta l'analisi che del paesaggio è stata effettuata da queste altre discipline, cfr. C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, Il Mulino, 2007.
[3] Di "plasticità semantica" del concetto di paesaggio parla G. Dematteis, Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio, Milano, D'Angeli, 1995, spec. pp. 43 ss. Quanto alla polisemia della nozione, anche giuridica di paesaggio, cfr. le analisi di P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, n. 2, pp. 363 ss.
[4] Sul punto, si rinvia soprattutto agli studi di M. Venturi Ferriolo, ed in particolare al suo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Roma, Editori Riuniti, 2002, nonché a quelli precedenti di R. Assunto, Il paesaggio e l'estetica, Giannini, Napoli, 1973 (I ed.), ult. ed., Novecento, Palermo, 2006. Entrambi gli studiosi sottolineano, peraltro, il ruolo avuto, in proposito, dal pensiero del filosofo Jaochim Ritter, del quale cfr. Paesaggio, uomo e natura nell'età moderna, a cura di M. Venturi Ferriolo, Guerrini e associati, Milano, 1994.
[5] Del paesaggio come "forma del territorio o dell'ambiente, creata dalla comunità umana che vi si è insediata, con una continua interazione della natura e dell'uomo", parla A. Predieri, voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 506 ss.
[6] In questo senso, P. Carpentieri, op. cit., p. 407.
[7] Così, C. Tosco, op. cit., p. 120 e p. 104.
[8] Cfr. sul punto gli scritti raccolti nel volume AA.VV. Arte, scienza e natura in Goethe, Torino, Trauben, 2005.
[9] Quanto al Codice dei beni culturali e del paesaggio, basti ricordare, appunto, quanto enunciato, dapprima, nell'art. 2, ove si dichiarano "beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all'articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio (...), e nell'art. 131. Questa disposizione, significativamente intitolata a "Salvaguardia dei valori del paesaggio", dopo le modifiche apportate con il d.lg. 157 del 24 marzo 2006, dichiara che: "Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti del territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana e dalle reciproche interrelazioni". Per un commento a queste disposizioni, cfr. R. Rotigliano, Commento all'art. 2, e S. Civitarese Matteucci, Commento all'art. 131, in M. Cammelli (a cura di), con il coordinamento di C. Barbati e G. Sciullo, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, Il Mulino, II ed., 2007, pp. 58 ss. e 521 ss. Quanto alla Convenzione europea del paesaggio (Cep), firmata a Firenze il 20 ottobre 2000, nel suo glossario, si qualifica il paesaggio come "una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni" (art. 1, lett. a). Nel suo art. 5, poi, si dichiara l'impegno delle Parti della convenzione a riconoscere il paesaggio come "componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità". Per un'analisi delle scelte, in materia di paesaggio, operate con la Cep, cfr. G. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, Il Mulino, 2007 e, in particolare, D. Sorace, Paesaggio e paesaggi della Convenzione europea, ivi, pp. 17 ss.
[10] Per queste citazioni e per la documentazione dei discorsi resi alle Camere, cfr. il volume di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana. Dibattiti storici in Parlamento, Senato della Repubblica. Archivio storico, Bologna, Il Mulino, 2003, spec. pp. 19 ss. e 429 ss.
[11] Così, P. Carpentieri, op. cit., pp. 369-370, a proposito dei lavori di questa Commissione d'indagine istituita con legge 26 aprile 1964, n. 310.
[12] Cfr. pt. 6 considerato in diritto.
[13] In questo senso, possono ricordarsi le tesi espresse da Roberto Longhi, il quale, già nel 1938, sottolineava come la tutela del patrimonio artistico non potesse essere separata da quella dei contesti territoriali ed ambientali, ma anche le posizioni di Giuliano Urbani, Direttore, dal 1973, dell'Istituto centrale del restauro, anch'egli difensore della "indissolubilità tra patrimonio artistico e territorio". Per la documentazione di queste tesi, si rinvia alle citazioni, più estese, che ne effettua C. Tosco, op. cit., pp. 94-95.
[14] In questo senso, cfr.,. appunto, l'art. 2 del d.lg. 42/2004 e succ. mod., il cui primo comma stabilisce, appunto, che "Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici".
[15] R. Assunto, op. cit., pp. 22 ss.
[16] In questo senso C. Tosco, op. ult. cit., p. 101, il quale, peraltro, ne trae conseguenze "altre" da quelle, maggiormente attente alle "esigenze" più urgenti dell'analisi giuridica, ipotizzate nel testo. In particolare, secondo l'A., i caratteri identitari permanenti che caratterizzano lo spazio antropico comprendono, esemplificativamente, anche "i sistemi ambientali, le morfologie insediative, le tipicità produttive". Si tratta, per l'A., di quelle invarianti strutturali che richiederebbero non solo prescrizioni vincolistiche, ma promozione e tutela, in quanto "si radicano (...) nella storicità dei luoghi".
[17] In questo senso, cfr. A. Predieri, op. cit., p. 507. In questo senso, anche Corte cost., sent. 29 marzo-1 aprile 1985, n. 94.
[18] Per una rappresentazione delle potenzialità di questa distinzione, cfr. P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G.F. Cartei, Convenzione europea, cit., pp. 135 ss.