Memorie di un commissario
di Franco La Polla
Non essendo un giurista posso solo parlare della mia esperienza come membro della Commissione ministeriale per il Cinema nell'arco di due anni e mezzo, dal 1999 al 2002 (data in cui il nuovo governo ci esautorò dalla carica senza peraltro nemmeno avvertirci della cosa: lo apprendemmo dai giornali). Naturalmente quell'esperienza contribuì a un rafforzamento o a un mutamento delle mie opinioni in merito alla situazione del cinema italiano, ai finanziamenti ad esso, alle incentivazioni, ai vicoli ciechi nei quali è bene prevenire esso si infili, ed anche in merito al meccanismo di selezione nel quale mi sono ritrovato ad operare.
Partirei anzi proprio da quest'ultimo. In breve, ogni singolo membro della Commissione era tenuto a leggere ogni singola sceneggiatura regolarmente pervenuta al ministero e di seguito a scrivere su un modulo già approntato i suoi giudizi sull'originalità dell'idea, il trattamento dei personaggi, la bontà dell'opera nel suo insieme (era necessario persino accennarne la trama) ed infine esprimere un giudizio definitivo: positivo o negativo. I singoli giudizi finali venivano comparati e in caso di parità il voto del Segretario ministeriale (nel caso specifico, la dott. Rossana Rummo) veniva valutato per due. Ovviamente non tutto era così meccanico. Ricordo vivacissime discussioni relative a film che, pur avendo matematicamente ottenuto la maggioranza dei voti, non avevano affatto convinto coloro che contro di essi avevano votato. E talvolta tali discussioni contribuivano a spostare l'opinione di qualcuno che, incerto, aveva votato positivamente. Oppure il contrario.
Tuttavia, quel che più conta mi sembra un'altra cosa. L'intera operazione era disperata, nel senso che, come sa chiunque si occupi in qualche modo di cinema, giudicare la finanziabilità di un film dalla sua sceneggiatura è cosa da navigati produttori, non certo da critici e professionisti, per quanto esperti. Sappiamo tutti che nemmeno nel cinema hollywoodiano (il più rigoroso in merito alla fedeltà alla sceneggiatura originaria) il prodotto finale combacia con la sceneggiatura inizialmente proposta. Di una sceneggiatura si può apprezzare l'idea narrativa, il dialogo brillante e ritmico, la capacità di approfondire psicologicamente questo o quel personaggio. Ma i valori visivi, l'iconografia, la scenografia, il montaggio e tutto quello che fa del film un film non è nel copione: esso verrà dopo, in fase di produzione e di post-produzione.
Insomma, si comprende bene perché ho definito disperata l'impresa che eravamo stati chiamati a compiere, mese dopo mese, anno dopo anno. D'altra parte, bisogna ammetterlo: non ci può essere altro modo di giudicare (o di indovinare, se preferite) la bontà di un film che ancora non esiste se non in intenzioni e parole. Ma la situazione era ancor più complessa e difficile. Tutta la nostra attività si era retta su qualcosa che soltanto la parola malinteso può definire.
Mi spiego: la nostra Commissione era stata a suo tempo istituita (molto prima che vi arrivassi io) per finanziare progetti cinematografici di qualità che non avrebbero ottenuto facilmente finanziamenti privati. In altre parole, l'obiettivo della Commissione era quello di individuare copioni che lasciassero sperare, una volta realizzati, in pellicole di una sensibile qualità estetica, il tipo di film che si presenta nei festival internazionali, magari con pochi estimatori, ma inattaccabili dal punto di vista del valore culturale.
Sappiamo bene che raramente cassetta e valore culturale vanno a braccetto. Ragion per cui non avrebbe dovuto meravigliare se quei film non recuperavano le spese sul mercato: questo faceva parte del gioco. E invece ai tuoni della destra (irragionevoli, ma politicamente prevedibili) si aggiunsero subito quelli della sinistra, che chiedeva ugualmente non si sperperasse il denaro pubblico. Il fatto è che nessuno stava sperperando niente: noi ci attenevamo alla lettera del nostro compito. Dovevamo scommettere su una serie di sceneggiature vagliate sulla base delle nostre competenze, quando tutti sanno che nessuno può prevedere il successo o il fallimento commerciale di un film da farsi. Già eravamo gravati dal peso di dover scegliere opere di valore estetico sulla semplice base di un copione; se a questo si aggiunge che quelle stesse opere, secondo quel che scriveva buona parte della stampa, avrebbero dovuto anche portare a casa del denaro, si comprende in che razza di vespaio ci ritrovavamo.
Ma c'è un'ulteriore complicazione, ed è probabilmente uno dei nodi attualmente più importanti per tentare di risolvere i problemi del nostro cinema. La distribuzione. Dato quanto sopra, e dato e non concesso che alcuni dei film di cui si diceva avrebbero potuto portare a casa del denaro, questo sarebbe stato possibile soltanto attraverso una capillare rete di distribuzione. Ma, è cosa nota, la distribuzione nel nostro Paese è una smagliatura che attende di essere riparata. Come possono sperare di ottenere attenzione e, magari con la simpatia della stampa, sfondare verso il pubblico delle sale titoli che non hanno avuto la possibilità di essere mostrati praticamente a nessuno? La ricerca preventiva di una seria distribuzione è condizione preliminare a qualunque operazione di finanziamento del buon cinema nel nostro paese: questo è bene metterselo chiaro in testa. Diversamente, ogni qualsivoglia tentativo sarà destinato al fallimento.
Ma un altro punto va chiarito senza ambiguità: la produzione. Si dice spesso che il cinema italiano manca di autori, di registi, di attori e via dicendo. E' possibile. Ma ciò che più gli manca sono i produttori. Sono cioè le persone che rischiano in proprio nella convinzione della bontà di un'idea cinematografica. Il meccanismo di cui sopra ha involontariamente incoraggiato la sparizione della figura del produttore. Di quello vero, dico, ché un produttore il film l'ha sempre, ma grazie all'eventuale finanziamento ministeriale egli è soltanto il gestore del denaro concesso dallo Stato. E talvolta un gestore nemmeno molto onesto (vi sono titoli finanziati che non sono mai stati realizzati).
Questo è un punto centrale. La quasi totalità del finanziamento necessario concesso dallo Stato ha portato il produttore ad impegnarsi per pochissime centinaia di milioni di lire al massimo, rendendo ridicola la sua partecipazione alle spese. Per questo il governo subentrato ha pensato bene di ventilare la possibilità che lo Stato finanzi al massimo per il 50% il film: cosa che mi trova molto d'accordo.
Meno d'accordo sono sull'altra ventilata decisione, quella di finanziare solo film di registi che abbiano girato in precedenza pellicole che hanno portato un qualche utile economico. Con una clausola del genere: a) si premiano opere e registi senza alcun valore culturale (ad es., la serie "Natale a..."); b) si escludono gli esordienti, quasi sempre giovani.
Una cosa che la Commissione nella quale ho operato aveva chiara in mente (ma che non era affatto chiara a giornalisti e commentatori) era questa: noi eravamo lì per aiutare i film (i copioni) che non avrebbero facilmente trovato finanziamento altrove e che con molta probabilità non sarebbero nemmeno stati successi di cassetta, ma che si proponevano come opere esteticamente e culturalmente sostanziose. Per questo quando scoppiò il caso Muccino cademmo tutti dalle nuvole. Quel signore si era molto adontato del fatto che il suo copione non era stato finanziato e aveva lanciato su televisione e giornali una campagna di discredito nei confronti della Commissione dopo che il suo film, "L'ultimo bacio", realizzato con altri capitali, si era rivelato un successo di botteghino. Ora, a prescindere dal fatto che personalmente continuo a pensare che "L'ultimo bacio" sia un film culturalmente trascurabile, è pur vero che esso ha dimostrato di saper camminare con le sue gambe senza alcun sussidio statale. Dunque, avevamo visto giusto nel non finanziarlo. Gli è che purtroppo destra e sinistra hanno da tempo abbracciato la logica industriale secondo la quale ogni investimento monetario vuole un profitto monetario, senza pensare che l'immagine del nostro Paese all'estero attraverso film presentati (e magari premiati) a importanti festival è anch'essa un profitto, e di gran peso, nel gioco degli scambi e delle conoscenze culturali internazionali.
In breve, i casi sono due: o paurosamente lasciamo che il falso moralismo di chi chiede meno finanziamenti al cinema e più ospedali (lo ha affermato anche un prestigioso corsivista di "Repubblica") abbia la meglio, e in quel caso riusciremo ad esportare unicamente quel che abbiamo, cioè i De Sica/Boldi e i Pieraccioni; oppure riprendiamo la sostanza della Commissione veltroniana con la correzione finanziaria di cui si diceva (max. 50%), implicitamente incoraggiando il ritorno di una figura chiave che in passato, da Lombardo a Cristaldi, è stata l'anima del miglior cinema nazionale.