Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, preparato da giuristi e commentato da giuristi, non può non interessare chi, come la scrivente, si occupa professionalmente di "architettura del paesaggio" perché tiene, in una facoltà di architettura, l'insegnamento della relativa disciplina.
Il Codice, nella Parte III, esordisce con la definizione di paesaggio data nell'art. 131:
"Ai fini del presente Codice per paesaggio si intende una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.
La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili".
Nei successivi art. 134 genericamente e 136 più precisamente, dice quali siano i beni paesaggistici o, meglio, quali siano i beni cui applicare vincolo paesaggistico, così elencandoli:
"Le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente Codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza, i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; le bellezze panoramiche considerate come quadro e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze".
All'art. 135 indica chi deve tutelare e valorizzare il paesaggio ma, soprattutto, pianificarlo:
"Le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente tutelato e valorizzato. A tal fine sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati piani paesaggistici. Il piano paesaggistico definisce, con particolare riferimento ai beni di cui all'art. 134, le trasformazioni compatibili sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile".
All'art. 138 comma 1 stabilisce le procedure:
"Su iniziativa del direttore regionale, della regione o degli altri enti pubblici territoriali interessati, la commissione indicata all'art. 137, acquisisce le necessarie informazioni attraverso le Soprintendenze e gli uffici regionali e provinciali, valuta la sussistenza del notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui all'art. 136, e propone la dichiarazione di notevole interesse pubblico. La proposta è motivata con riferimento alle caratteristiche storiche, culturali, naturali, morfologiche ed estetiche proprie degli immobili o delle aree che abbiano significato e valore identitario del territorio in cui ricadono o che siano percepite come tali da popolazioni e contiene le prescrizioni, le misure ed i criteri di gestione indicati all'art. 143, comma 3".
La definizione dell'art. 131 apre varie questioni.
Se paesaggio è quella parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano contemporaneamente dalla natura e dalla storia umana o, anche, dalle reciproche interrelazioni tra natura e storia umana, la domanda è: esiste una parte di territorio, sull'intero pianeta, in cui questo non avvenga o non sia mai avvenuto? Con esclusione del deserto (volendo chiosare Morris) e delle vette più alte dell'Himalaya (dove potrebbero non esserci tracce umane significative), il discrimine tra ciò che può e non può essere paesaggio starebbe nella parola omogeneità.
Il comma successivo sembra confortarci individuando, forse, nella locuzione manifestazioni identitarie percepibili il parametro per chiarire che cosa si intenda per omogeneità, con il suffragio dell'art. 138 dove, nel definire le procedure per l'apposizione di vincoli e norme di tutela, si richiede che la proposta (sia) motivata con riferimento alle caratteristiche storiche, culturali, naturali, morfologiche ed estetiche proprie degli immobili o delle aree che abbiano significato e valore identitario del territorio in cui ricadono o che siano percepite come tali dalle popolazioni. In altri termini, se quanto contenuto in una determinata porzione di territorio viene percepito da parte della popolazione come manifestazione della propria identità culturale, allora quella stessa porzione diventerebbe omogenea per rapporto al suo valore identitario e, quindi, potrebbe essere dichiarata paesaggio.
Ma l'elencazione dei beni paesaggistici proposta all'art. 136, mi ributta nello sconforto quando parla di cose immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità ideologica o di complessi di cose immobili con un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale o di ville e giardini e parchi che si distinguono per la loro non comune bellezza o di bellezze panoramiche considerata come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze, a causa:
- dell'uso reiterato del termine "bellezza", che rimette in gioco quella scelta estetica, da lungo tempo espulsa dai piani regolamenti e dalle valutazioni perché considerata "soggettiva", quindi, opinabile. Vi si è rinunciato in nome di meno rischiosi parametri "obiettivi", il cui carattere giuridico-meccanicistico e non tecnico ha prodotto - negli enti preposti al controllo e nell'utenza - il convincimento che un comportamento corretto debba rispondere solo a indici, vincoli e divieti. Potrebbe accadere, però, che "bellezza" subisca una mutazione come "qualità", altro termine caduto in disuso e reintrodotto da pochi anni sotto forma di una misurazione parametrica affidata a società accreditate che, per mestiere, certificano qualunque prodotto purché risponda ai requisiti da esse fissati;
- del binomio valore estetico e tradizione, che incardina vieppiù la regola non scritta di attribuire valore solo alla tradizione e mai alla innovazione o alla contemporaneità;
- dell'espressione "considerate come quadri", che apre un ampio capitolo sul tipo di immagini (quadri?) diffuse dai mezzi di comunicazione di massa e, attraverso essi, entrate a far parte dell'immaginario collettivo come stereotipi;
- dell'elenco contenuto nell'art. 142 (Aree tutelate per legge) dove, essendo indicati siti naturali e mai siti artificiali (ad eccezione dei parchi archeologici), si attribuisce valore solo "alla natura" in una nazione fondata, per tradizione, sulla cultura urbana e sull'identificazione (talvolta persino esagerata) delle genti con il proprio campanile.
Ciò detto, non è scontato che i suddetti beni siano riconosciuti dalle popolazioni insediate come facenti parte della loro irrinunciabile identità. Infatti, chi stabilisce ciò che ha o non ha valore sono le Soprintendenze, la cui politica (ammesso che ci sia e sia decifrabile) entra, di solito, in conflitto con le politiche delle altre amministrazioni e con gli interessi (non sempre ignobili) della gente comune. Non è, poi, inconsueto che le controversie derivate da questo conflitto si risolvano, in sede giudiziaria, contro chi ha negato visti e autorizzazioni poiché:
- le motivazioni sottostanti l'apposizione del vincolo, spesso, contraddicono comportamenti precedenti, tenuti in circostanze analoghe:
- il vincolo viene apposto in forme che appaiono puramente vessatorie (e talvolta lo sono) poiché si limita a "vietare" senza mai "suggerire" quali potrebbero essere le attività eventualmente ammissibili;
- il vincolo compare, spesso, a tutelare in ritardo ambiti già largamente compromessi sui quali, quando sarebbe stato tempestivo e utile, non era stato esercitato alcun controllo;
- il potere di controllo e le modalità del suo esercizio non derivano quasi mai da criteri generali fissati, per esempio, dal confronto e dall'accordo tra gli attori che devono agire su un determinato territorio; né dalla misurazione della congruenza tra azioni e obiettivi; né da valutazioni di sistema, essendo, invece, affidati al giudizio estemporaneo dell'uno o dell'altro funzionario.
Ci sono molteplici esempi a supporto di queste considerazioni - tanto ovvie da apparire banali - che potrebbero comporre un elenco infinito. Basti citarne, in questa sede, uno solo che riguarda l'isola di Lipari (la maggiore dell'arcipelago) e che ha occupato, per alcune settimane durante l'estate del 2004, le prime pagine dei quotidiani nazionali. In deroga al piano paesaggistico e in barba al riconoscimento Unesco dell'arcipelago come bene universale, la regione siciliana aveva deciso (sic nei giornali!) di sanare la costruzione abusiva o di autorizzare la costruzione di otto alberghi. In realtà, l'informazione non era precisa, ma se lo fosse stata non sarebbe diventata una notizia.
Per capire, bisogna descrivere in breve il contesto e ciò che ne ha connotato lo sviluppo negli ultimi venti (venticinque) anni. Durante tale periodo tutti gli enti pubblici preposti (da quelli locali a quelli regionali) hanno avallato una modificazione strutturale dell'arcipelago così inappropriata da averne snaturato i caratteri, sebbene nello stesso arco temporale vigesse su tutte le isole il divieto assoluto, con poche eccezioni, di nuova edificazione, e fosse autorizzata la sola ristrutturazione di immobili esistenti a condizione che si mantenesse lo "stile eoliano".
Tale prescrizione è riuscita, da sola, a produrre un effetto più disastroso dell'abusivismo: la proliferazione di pinnacoli, di archi e tettoie, di mensole e balconi baroccheggianti, di "colorini" improbabili e finte decorazioni (anche in edifici multipiano, pubblici e privati) ha trasformato l'arcipelago (prima Vulcano, poi Stromboli e Panarea, subito dopo Salina e Lipari, prossimamente Alicudi e Filicudi) nella Disneyland del basso Tirreno, senza i pregi del prototipo e con tutti i difetti del pittoresco più trito.
L'eccesso immotivato di divieti - insieme alla mancanza di programmi finalizzati al turismo di massa o di nicchia, in assenza di scelte politiche almeno di medio profilo culturali - ha poi fomentato un abusivismo diffuso, incontrollabile perché fatto di tante piccole trasgressioni.
Gli otto alberghi, di cui alla discussa iniziativa del governo siciliano, hanno la stessa bassa qualità del contesto appena descritto e contravvengono, in generale, per modeste addizioni a costruzioni esistenti e non localizzate, peraltro, in aree di pregio.
Questo, naturalmente, non giustifica il reato, che è stato pur tuttavia commesso, né assolve il governo siciliano dalle sue responsabilità, ma non può essere sbandierato come causa dell'eventuale ripensamento dell'Unesco, organizzazione che pone sotto il suo alto patronato luoghi o situazioni ritenute uniche per i loro particolari valori estetici e storici (in senso lato, perché possono appartenere anche alla contemporaneità).
E questi valori unici le isole Eolie non li hanno persi, perché, per fortuna, non sono legati - a differenza di quel che recita il Codice nella parte oggetto di queste note - alla conservazione e alla tutela, ma a particolari sistemi di relazioni tra macroelementi naturali e artificiali, minerali e vegetali, materiali e immateriali, che valgono non in sé, quanto piuttosto per la loro reciproca posizione o per gli effetti che producono. In altri termini, i valori unici delle isole Eolie derivano dal paesaggio, la cui scala prescinde - ripeto per fortuna - dalla trivialità del pinnacolo o del balconcino o dell'addizione di troppo (abusivi, sanati, autorizzati che siano), Dipendono, invece:
- da regole imposte dalla natura: la posizione delle isole tra di loro; l'origine vulcanica; la qualità della luce solare; i colori (cioè la temperatura e la profondità) del mare; i venti dominanti che hanno sagomato la linea di costa;
- da regole imposte dall'uomo: la scelta della localizzazione e la costruzione degli insediamenti e delle opere di difesa (dal clima, dal mare, da altri uomini); la capacità di interpretare e rappresentare la collettività insediata attraverso l'insieme delle opere; l'uso del suolo;
- da regole imposte dal mito (antico o moderno): la capacità evocativa dei luoghi.
In altri termini, il problema non sta tanto nell'impedire nuove costruzioni o nell'imporre uno stile, quanto piuttosto nel garantire la qualità formale delle singole costruzioni in rapporto all'insediamento, perché continui ad essere, nel suo complesso, rappresentativo e identificabile alla scala del paesaggio; nel garantire usi e modificazioni del suolo compatibili alla stessa scala; nello scegliere le strategie migliori per favorire l'accessibilità e lo sviluppo economico, come oggi li intendiamo, necessari anche alla conservazione del bene culturale; nel valorizzare, attraverso immagini memorabili, il significato simbolico dei luoghi.
Tutto questo comporta un atteggiamento normativo e gestionale affatto diverso da quello tratteggiato nella legge in questione che:
- sottende una filosofia ancora legata all'attribuzione di indici e vincoli (uguali, peraltro, su tutto il territorio nazionale);
- ignora le strategie di sistema, nel quale le cose non solo valgono in sé, ma soprattutto perché stanno insieme ad altre e in un certo modo;
- persevera nel non dare alcun valore alla comunicazione, sempre necessaria e fondamentale laddove si parli di identità collettiva.
Per sostenere queste ultime affermazioni, vorrei fornire ancora degli esempi, diversi tra loro e però ugualmente significativi.
Primo esempio.
Per i parchi archeologici, riportati nell'elenco delle aree tutelate per legge, non viene fornita spiegazione né indicati parametri circa la natura e la consistenza di una tutela di tipo paesaggistico.
Se si considera che essi - in quanto beni culturali - sono comunque soggetti a ogni sorta di vincoli e prescrizioni piuttosto restrittive (a pari di tutte le altre aree consimili) e che nella formulazione della norma nulla di nuovo è aggiunto, si deve supporre che la loro presenza nella Parte III del Codice serva, banalmente, a introdurre un ulteriore vincolo - non meglio identificato - la cui definizione sarà, come sempre, affidata ad un piano che verrà.
In realtà, un ragionamento da fare ci sarebbe, originato - per quanto mi riguarda - da considerazioni riferite all'ambito regionale ma estensibile, nel metodo, anche ad altri ambiti.
In Sicilia le aree archeologiche sono, nella quasi totalità, localizzate in zone collinari e in posizione di controllo dei principali accessi terrestri e marini, a testimonianza di un principio insediativo che si è mantenuto, potremmo dire, inalterato sino alla prima metà del XX secolo; che ha costruito una precisa e chiara struttura territoriale ed un'altrettanto precisa e chiara struttura di paesaggio, basata sull'avvistamento di una "vetta" all'altra e sulla "modellazione" delle sommità collinari come basamento delle città.
Da questo punto di vista, Segesta e Selinunte (per citarne due) valgono non perché sono siti archeologici piuttosto perché contribuiscono - insieme ad Alcamo, a Salemi, a Calatafimi o al "Grande Cretto" di Burri (ruderi di Gibellina) - a formare l'identità dell'isola su un arco di trenta secoli di storia, visibili hic et nunc e non ai bordi di un passato troppo lontano per essere percepito come proprio dagli "indigeni" e come presenza attiva attuale e localizzata dagli "esogeni".
Dunque, la presenza delle aree tutelate per legge nella Parte III non dovrebbe servire per ribadirne il regime vincolistico, ma per sottolineare la necessità di considerare quelle aree - naturali o artificiali che siano - come nodi del complesso sistema del paesaggio; e per introdurre, come carattere precipuo del piano paesaggistico, la individuazione delle reti di cui fanno parte e i criteri e le risorse per potenziare quelle reti. Questo sarebbe innovativo e congruente con il significato e valore identitario del territorio.
Di tutto ciò non c'è traccia nel nuovo Codice che si limita ad aggiornare nominalisticamente la legge del '39. Inoltre, l'introduzione - in aggiunta ai troppi esistenti - di un altro strumento pianificatorio (il piano paesaggistico) di "tipo tradizionale", non farà altro che rendere più complicati i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione e sempre meno affezionati gli utenti ai propri luoghi e cultura.
Secondo esempio.
Palermo nasce su un piccolo promontorio con giacitura est/ovest, circondato da due fiumi confluenti a mare in un'unica foce, probabilmente abitato in epoca preistorica, ma sicuramente abitato da popolazioni fenici sin dal VII secolo a.C.
Il promontorio è attraversato longitudinalmente da una strada (oggi corso Vittorio Emanuele), che si è mantenuta pressoché uguale - nel tracciato - dalle origini a tutte le fasi di crescita e di trasformazione della città. La sua importanza consiste non solo nell'essere stata elemento generatore del tessuto urbano e modello - per la Sicilia occidentale - del rapporto mare/città/monte, ma anche nell'essere stata dispositivo attraverso cui le entità "città" "monte" "mare" "sole" hanno costruito il paesaggio di Palermo.
La configurazione attuale risale alla seconda metà dell'ottocento, quando la via fu rettificata e prolungata fino al mare, con pendenza costante, da porta Nuova a porta Felice.
Perché è dispositivo di paesaggio.
Ha una lunghezza che consente all'occhio umano di vedere con chiarezza inizio e fine, coincidenti simbolicamente con il sorgere e il tramontare del sole; ha una sezione trasversale molto stretta e una cortina "continua" di fronti; ha una pendenza costante che consente di accelerare o decelerare la fuga prospettica a seconda che si vada verso mare o verso monte.
Tutto questo fa si che scendendo da porta Nuova verso porta Felice la linea d'orizzonte del mare, altissima all'inizio, vada abbassandosi, man mano che il cammino procede, fino a raggiungere la sua quota "reale".
Al contrario e all'inizio della salita, il monte dietro porta Nuova incombe sulla città, per sparire dietro la porta e mostrarsi solo per quella parte che il fornice consente, quando si guadagni circa i due terzi del percorso. Il sole modifica la percezione del mare e del monte in ragione della sua altezza e al variare delle stagioni.
Gli edifici pubblici e privati (in gran parte sei-settecenteschi, ma ce ne sono di più antichi) che formano gli isolati ai bordi di corso Vittorio Emanuele sono vincolati e tutelati, in quanto beni culturali, da varie disposizioni. Pur tuttavia questo non è bastato a tutelare il paesaggio, perché nessuna norma ha tenuto conto di alcune semplici considerazioni.
Dal punto di vista del paesaggio, il fatto che i bordi di corso Vittorio Emanuele siano formati da edifici di alta qualità architettonica è assolutamente ininfluente (potrebbero essere, paradossalmente, sostituiti da quinte teatrali). Mentre, sono importantissimi: l'altezza dei fronti per rapporto alla larghezza della strada, la lunghezza, la regolarità e la pendenza del tracciato; la visuale libera di mare e monte lungo l'asse.
Se queste condizioni vengono meno, quel paesaggio non esiste più e, con esso, sparisce anche uno degli elementi più forti dell'identità di Palermo.
Ed è avvenuto, non perché sia stato disatteso qualche vincolo, bensì perché:
- subito dopo la seconda guerra mondiale è stata modificata la linea di costa, versando nell'acqua le macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti, con l'esito di allontanare il mare dal fronte urbano (nessuna amministrazione ha mai preso in considerazione l'idea di rimuovere il riempimento);
- all'inizio degli anni settanta, a seguito di una distruttiva tempesta di Grecale, l'ente Porto decise di costruire il molo nord, con una lunghezza tale da ostruire la vista del mare attraverso porta Felice (nessuno si è posto il problema di controllare la dimensione del manufatto in base a una rosa di considerazioni);
- negli anni ottanta una giunta municipale illuminata decise di piantare un palmeto davanti porta Felice (non sempre gli alberi sono "buoni");
- nel 2004 si è avviato il completamento della cosiddetta "villa a mare" in tutta l'area prospiciente il centro storico (un prato "all'inglese", che si rifiuta giustamente di attecchire, impedisce da alcuni mesi di accedere al mare);
- da sempre il traffico, tutt'altro che ben organizzato, riempie costantemente il corso di veicoli in marcia lenta o addirittura fermi.
Probabilmente ci sono fatti che ho tralasciato, però l'elenco dovrebbe essere sufficiente.
Dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni, si sono avvicendate molte e varie amministrazioni comunali; sono state prodotte norme e leggi, a livello regionale, che hanno aumentato - qui più che altrove - i poteri del sindaco o che hanno riformato gli uffici delle Soprintendenze, in modo da renderle sempre più specialistiche e sempre più legate al territorio. Eppure, il problema del rapporto tra Palermo e il suo mare - nei termini in cui, e per l'ultima volta, era stato affrontato e mirabilmente risolto nella seconda metà dell'ottocento - non è mai stato neppure sfiorato. Si fa, piuttosto, un inutile chiacchiericcio sulla questione di una presunta perdita del mare da parte della città, quasi che si ignorasse un dato fondamentale della cultura urbana mediterranea (in Sicilia è particolarmente evidente): il mare è orizzonte lontano, è antagonista della città; non può, pertanto, essere contiguo a parti urbane di pregio, se non nelle aree portuali o nei pressi delle fortezze o a certe condizioni molto restrittive.
D'altra parte, il progetto di riforma dei suoli, affidato nel 1853 al Basile dall'Intendenza della provincia di Palermo, e la deputazione delle strade e che ha avuto come esito l'attuale e straordinario corso Vittorio Emanuele e un'altra serie straordinaria di trasformazioni urbane (piazze Pretoria, Bellini, Santo Spirito, Marina per citarne alcune), oggi non potrebbe nemmeno essere concepito a causa delle norme vigenti, nazionali e regionali.
Ed è ancor più grave il fatto che gli abitanti ignorino quale siano i caratteri e la qualità del paesaggio della loro città e, quindi, non immaginino neppure che potrebbe essere recuperato ancora e con poco sforzo. Anni di demagogia amministrativa, giudiziaria, politica e di cattiva informazione hanno reso anche i più avvertiti incerti nel riconoscere le radici della propria cultura, distratti di fronte le sue manifestazioni visibili; diffidenti verso l'ipotesi di praticare procedure basate su piccole ma continue modificazioni. Di contro, hanno indotto in altri un comodo appiattimento su attese messianiche.
Ma mi sono limitata a fornire esempi legati alla Sicilia, notoriamente gravata da una fama non buona. Si potrebbe ritenere, perciò, che altrove le cose vadano diversamente.
Sicché, segnalando di nuovo l'aspetto più lacunoso del Codice - mancanza totale di attenzione alla comunicazione e alle modalità con cui le informazioni devono essere diffuse - vorrei parlare ora di una questione legata alla città di Firenze che ha prodotto, inopinatamente, effetti negativi su gran parte della altre città italiane.
Chi abbia non meno di cinquant'anni ha studiato su manuali di storia dell'arte i cui materiali iconografici provengono quasi esclusivamente dallo straordinario e vastissima archivio Alinari.
In quelle immagini gli edifici, soprattutto, sono così rappresentati: senza scala, poiché manca qualunque riferimento di misura (una figura umana, per esempio); decontestualizzati, poiché non è dato di capire in quale ambito si trovino né a quale fascia climatica appartengono, privati come sono delle ombre, bidimensionali, poiché rappresentati frontalmente e dalla sola facciata principale.
Questo tipo di fotografia - corroborato dalla cultura locale che ebbe il suo apice nella scuola longhiana di storia dell'arte - divenne il "modello" per rappresentare i monumenti di qualunque città italiana (gran parte dei quali mal si prestano a un simile trattamento) anche nelle guide turistiche e fino ai giorni nostri.
Gli esiti sono stati molteplici e largamente negativi, proprio perché non è indifferente - e oggi lo sappiamo bene - il modo in cui le immagini vengono costruite e offerte al grande pubblico: una sorta di "toscanocentrismo" della cultura italiana, sicché tutto ciò che non è fiorentino o almeno toscano è considerato come appartenente, comunque, a sub culture o a culture di provincia; la difficoltà a orientarsi, non avendo gli strumenti per collocare le cose nel tempo e nello spazio; l'impossibilità a identificare i luoghi che sono strutture complesse (un certo ghiacciaio o una certa cupola, tranne che per pochi esperti, sono del tutto simili a qualunque ghiacciaio o a qualunque cupola se non vengono messi in relazione a tutto il resto).
La stessa Firenze si configura, nell'immaginario collettivo, come un insieme di oggetti; lo stesso fiume Arno, che pure è veicolo di costruzione di paesaggi e quindi di identificazione della città, vive solo perché è attraversato dal ponte Vecchio. Mi piacerebbe controllare quanti dei milioni di turisti che visitano la città ogni anno o degli stessi abitanti hanno contezza dell'incredibile relazione che lega il palazzo della Signoria, la galleria degli Uffizi, la serliana che conclude la piazza allungata sul fiume, l'Arno, il palazzo Pitti e il giardino di Boboli, tipico rapporto alla scala del paesaggio che è visibile solo se qualcuno lo individua, lo rappresenta, lo comunica.
E, tuttavia, Firenze possiede icone che in qualche modo ne sintetizzano i caratteri generali; è conosciuta in tutto il mondo; è infine radicata, proprio per la sua notorietà presso altri, nella coscienza dei suoi abitanti. Ma se non si possiede un archivio Alinari, sia pure con i limiti e le conseguenze descritti, o uno strumento analogo che abbia veicolato e sedimentato l'immagine di una città, diventa difficile ritrovare le caratteristiche storiche, culturali, naturali, morfologiche ed estetiche proprie degli immobili o delle aree che abbiano significato e valore identitario del territorio in cui ricadono o che siano percepite come tali popolazioni.
Ritorniamo, infine, al tema principale, va detto che la definizione di paesaggio, introdotta nel nuovo Codice, ricalca quella contenuta nella Convenzione sul paesaggio (firmata da ottanta paesi a Firenze, nel settembre del 1999 e preceduta dalla prima Conferenza internazionale sul paesaggio di Roma), ma anche che vi si adegua, formalisticamente, senza svilupparne i contenuti. Sebbene da oltre venti anni si parli di paesaggio in termini di nuova frontiera della cultura contemporanea, non pare che sia stato fatto - da parte di chi ha redatto il Codice - il tentativo di esplorare la materia o di cogliere l'occasione per introdurre, negli apparati giuridici, i germi di una mentalità diversa, approfittando di norme che governano la risorsa economica più importante del nostro paese e che, quindi, avrebbero trovato largo consenso.
Nonostante la titolazione e l'enfasi data alla sua promulgazione, non è realistico pensare - si ribadisce - a un cambio di rotta rispetto alla precedente legge del '39.
Queste note vorrebbero provare a suggerire, attraverso una chiave di lettura non giuridica, possibili diverse prospettive.