Sommario: 1. I beni soggetti al regime autorizzatorio. - 2. Gli effetti dell'autorizzazione sulla demanialità del bene. - 3. I due elementi fondamentali della disciplina: innanzitutto, le condizioni richieste per il rilascio dell'autorizzazione. - 4. Segue: la conformazione dell'utilizzo del bene alienato, ovvero il valore delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione nei confronti del privato acquirente. - 5. La scarsa portata garantistica della disciplina predisposta, connessa alla mancanza di sanzione per il non rispetto delle indicazioni contenute nell'autorizzazione. - 6. Quadro riassuntivo: le categorie tipologiche di beni culturali pubblici e il relativo regime di alienabilità.
1. I beni soggetti al regime autorizzatorio
Al di fuori delle categorie di beni culturali per cui è espressamente prevista l'inalienabilità dall'art. 54 e a parte il regime provvisorio previsto sempre da tale articolo, gli articoli 55-57 predispongono per gli altri beni pubblici un regime di alienabilità "controllata". Occorre dunque verificare le modalità di tale controllo, che vede come momento regolativo fondamentale l'autorizzazione ministeriale, per coglierne poi la diversità di contenuti in relazione alla normativa precedente, comparandone in particolare la potenziale efficacia in ordine alle garanzie per l'assolvimento della funzione culturale dei beni in oggetto in rapporto alla disciplina previgente, contenuta nel d.p.r. 7 luglio 2000, n. 283 - i cui contenuti sono stati descritti nel commento all'art. 54 -.
Con riguardo all'oggetto della disposizione, occorre rilevare una particolarità, che si evince dalla seconda parte del comma 3, art. 55, che concerne il rapporto fra l'intensità dell'interesse storico-artistico dei beni alienabili e la loro permanenza nella sottoposizione al regime di tutela anche successivamente al passaggio di proprietà. Da un lato, infatti, l'impostazione del Codice conferma la diversa graduazione di interesse che necessita per la sottoposizione alla disciplina di tutela di beni storico-artistici appartenenti ad enti pubblici e privati senza scopo di lucro - per cui è sufficiente un interesse cosiddetto semplice, ossia non meglio specificato, ex art. 10, comma 1 - e invece di beni di "privati", ossia persone fisiche e società - per cui occorre un interesse "particolarmente importante" ex art. 10, comma 3, lett. a) -. Ora, quando beni appartenenti alla prima tipologia di proprietari passano in mani private, se l'interesse storico-artistico presente in essi non dovesse essere "particolarmente importante", ossia non sufficiente per la sottoposizione al regime di tutela in seguito a dichiarazione ex art. 10, comma 3, lett. a), essi dovrebbero esserne esclusi.
Al contrario, e con norma notevolmente garantista, il Codice dispone per i beni pubblici alienati una sorta di "conversione automatica" della "verifica" ex art. 12 nella "dichiarazione dell'interesse" di cui all'art. 13: l'art. 55, comma 3, infatti, rinviando al comma 7 dell'art. 12, richiama la disposizione secondo cui tale accertamento compiuto sul bene pubblico "costituisce dichiarazione ai sensi dell'art. 13". Ciò comporta che assurgano allo status di beni culturali e vengano assoggettati a tutela beni immobili divenuti privati anche se non presentino quell'interesse storico-artistico particolarmente importante normalmente richiesto per essi, ma invece un interesse di intensità minore. Più in generale, poi, la previsione dell'art. 12, comma 7, opera con riferimento a tutti i beni sottoposti a "verifica", non solo quindi per i beni culturali immobili degli enti territoriali, in quanto applicabile ai beni di tutti gli enti indicati dal primo comma dell'art. 10. Con questa disposizione, così, nessun bene culturale appartenuto ad un ente territoriale, ad un altro ente pubblico o a un ente privato senza scopo di lucro, neppure quelli meno "importanti", vengono lasciati privi di tutela e garanzia, nonostante in linea di principio essi non sarebbero stati classificati come beni culturali se la loro appartenenza fosse stata privata fin dall'origine.
2. Gli effetti dell'autorizzazione sulla demanialità del bene
Il comma 3 dell'art. 55 dispone che il rilascio dell'autorizzazione "comporta la sdemanializzazione" del bene. Ciò si pone in linea con quanto previsto dall'art. 829 del codice civile, che richiede per il "passaggio dei beni dal demanio al patrimonio" disponibile una "dichiarazione dell'autorità amministrativa". La natura giuridica del cosiddetto atto di sdemanializzazione è stata tradizionalmente intesa come meramente dichiarativa della cessazione della volontà della P.A. di utilizzare il bene destinandolo all'uso pubblico secondo la funzione che lo caratterizza - ciò vale necessariamente per i solo beni del demanio accidentale -. Nella concreta destinazione, oltre che nella proprietà in capo a un ente territoriale, infatti si ravvisa l'elemento che segna l'inizio dello status della demanialità accidentale, non nel formale atto di classificazione, atto dichiarativo che si limita ad accertare tale status; altrettanto si può dire per la cessazione della demanialità, ove il provvedimento di sclassificazione è dichiarativo della volontà di direzionare l'utilizzo del bene per finalità non più propriamente "demaniali". Occorre poi rilevare come per la particolare tipologia di beni demaniali costituita dai beni culturali la effettiva destinazione all'uso pubblico non sia l'elemento caratterizzante che ne giustifica l'inclusione in detta categoria, quanto piuttosto la funzione in sé del bene, anche se slegata dall'effettiva fruizione collettiva. In ogni caso, alla volontà di vendere il bene evidenziata dalla richiesta di autorizzazione ben può corrispondere il presupposto per la cessazione della demanialità.
Così, l'autorizzazione prevista dall'art. 55 può senz'altro essere considerata come la "dichiarazione dell'autorità amministrativa" richiesta dall'art. 829 cod. civ.; essa produce dunque l'effetto del passaggio del bene dal demanio al patrimonio disponibile.
3. I due elementi fondamentali della disciplina: innanzitutto, le condizioni richieste per il rilascio dell'autorizzazione
Gli elementi che sopra ogni altro assumono rilevanza nella disciplina sull'alienazione dei beni culturali pubblici sono due, entrambi preordinati a svolgere un ruolo di garanzia per l'assolvimento della funzione culturale connaturata ad essi. Si tratta anzitutto delle condizioni richieste per il rilascio dell'autorizzazione, condizioni che si differenziano a seconda delle diverse tipologie di beni e in relazione ai soggetti titolari. In secondo luogo, poi, del valore delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione nei confronti del privato acquirente, punto centrale della conformazione della condotta di utilizzo del bene dopo la vendita.
Quanto al primo elemento, si può notare una diversificazione tra il livello di garanzia predisposto dal Codice per l'assolvimento della funzione culturale dei beni demaniali rispetto a quanto richiesto per gli altri beni culturali pubblici e appartenenti a enti privati senza scopo di lucro.
Nella valutazione che il ministero deve compiere in ordine all'an del rilascio dell'autorizzazione, infatti, vi è un nucleo comune che riguarda tutti i beni: l'indicazione, nella richiesta, della "destinazione d'uso in atto" e del "programma degli interventi conservativi necessari" - art. 57, comma 1 -. Alla base di tale valutazione, dunque, si collocano i due aspetti maggiormente significativi per la vita di un bene culturale, la destinazione in essere e lo stato di conservazione.
Vi è invece una decisa differenziazione tra le condizioni richieste per il rilascio dell'autorizzazione riguardante i beni appartenenti ai diversi soggetti dell'ordinamento.
Per i beni culturali immobili demaniali, appartenenti cioè agli enti territoriali, le condizioni necessarie per il rilascio dell'autorizzazione alla loro vendita sono di certo le più garantistiche: si richiede infatti che vengano comunque assicurate la "tutela e la valorizzazione dei beni" e che il "pubblico godimento" cui il bene è assoggettato in costanza di proprietà da parte degli enti territoriali non sia pregiudicato in seguito all'alienazione - art. 55, comma 2, lett. a) -. Ancora, è richiesto che l'autorizzazione ministeriale indichi positivamente le "destinazioni d'uso" cui può essere adibito l'immobile, specificando che tali destinazioni debbono essere "compatibili con il carattere storico-artistico" del bene e "tali da non recare danno" alla sua "conservazione" - art. 55, comma 2, lett. b).
L'autorizzazione va poi chiesta per vendere i beni culturali mobili degli enti territoriali e tutti i beni culturali degli altri enti pubblici, le collezioni o serie di oggetti e le raccolte librarie degli enti pubblici non territoriali e delle persone giuridiche private senza scopo di lucro - art. 57, comma 4 -. Per il suo rilascio occorre che dall'alienazione non derivi danno alla conservazione e non venga menomato il pubblico godimento in essere. Si chiede poi che detti beni non rivestano interesse per le raccolte degli enti territoriali - con un collegamento di finalità con la norma che prevede l'assoluta inalienabilità di qualsiasi tipo di bene inserito in tali raccolte pubbliche, al fine di salvaguardarne l'unitarietà: art. 54, comma 2, lett. b) -.
In ultimo, per il rilascio dell'autorizzazione all'alienazione della generalità dei beni culturali delle persone giuridiche private senza scopo di lucro si richiede che non derivi un "grave danno" alla loro conservazione e pubblico godimento - art. 57, comma 5 -.
La parte più significativa della normativa in esame appare la graduazione del livello di garanzia richiesto per autorizzare la vendita delle diverse tipologie di beni culturali pubblici o appartenenti a enti non profit. Il livello minimo è quello previsto per i beni degli enti privati senza scopo di lucro, il "grave" danno ai due aspetti già indicati dall'art. 24, comma 1, della legge 1 giugno 1939, n. 1089, conservazione e pubblico godimento. A livello intermedio di garanzia si collocano i beni pubblici non demaniali: le condizioni delineate per essi sono simili a quelle appena richiamate, salvo il fatto che il danno a tali aspetti non deve essere neppure lieve.
Di tutt'altro tenore e contenuto la disciplina che riguarda i beni culturali demaniali alienabili, cioè gli immobili storico-artistici in generale. Il Codice infatti recupera, anche se in maniera incompleta, le condizioni che erano state proposte dal d.p.r. 283/2000, abrogato dall'ultimo articolo del Codice. Così, è indicata come imprescindibile non solo la garanzia per la "tutela", ma anche per il pubblico godimento e la "valorizzazione" dei beni - che nell'accezione datane all'art. 6 dello stesso Codice comprende anche attività dirette a promuoverne la conoscenza nonché ad "assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica" dei beni stessi -. L'indicazione positiva delle destinazioni d'uso cui è possibile adibire il bene successivamente al passaggio di proprietà, poi - ripreso dal d.p.r. 283/2000, art. 7, comma 1, lett. b) -, rappresenta un momento particolarmente significativo. Il passaggio dal divieto di usi incompatibili - contenuto con previsione generale per tutti i beni culturali nell'art. 21, comma 2, del Testo unico ed ora nell'art 20 del Codice -, riconducibile alle limitazioni amministrative alle facoltà dei privati attraverso cui storicamente era stato ricostruito il regime di tutela, a una regolazione che stabilisca in anticipo e in positivo gli usi compatibili appare di forte spessore in quanto momento regolativo di conformazione della condotta del futuro proprietario privato, strumento idoneo ad rendere la proprietà privata del bene compatibile con l'esplicarsi della vocazione propria del bene culturale, quand'anche in mani non più pubbliche.
Ma se di importante significato è l'esplicito riferimento alla valorizzazione, oltre che alla tutela, come impegno che deve essere "assicurato" con l'alienazione, occorre d'altronde rilevare come il regolamento di delegificazione emanato a seguito dell'art. 32 della legge 448/1998 andasse decisamente oltre, con la previsione dell'obbligo di stilare un "programma" contenente gli "obiettivi di tutela e valorizzazione" - che l'acquirente era tenuto a realizzare in tempi determinati - e della connessa clausola risolutiva espressa in caso di inadempimento dell'impegno assunto - artt. 7 e 11 d.p.r. 283/2000 -.
4. Segue: la conformazione dell'utilizzo del bene alienato, ovvero il valore delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione nei confronti del privato acquirente
L'obbligatorietà delle prescrizioni conformative della condotta di utilizzo del bene contenute nell'autorizzazione ad alienare, appena viste, nei confronti dell'acquirente costituisce certamente il fulcro attorno al quale ruota tutto il sistema di garanzia che il bene culturale demaniale venduto continui ad essere asservito alla propria funzione, in primis la destinazione alla fruizione da parte della collettività, garanzia che la disciplina previgente assicurava.
Orbene, per la nuova disciplina dette "prescrizioni" e "condizioni" "sono riportate nell'atto di alienazione" - art. 57, comma 2 -: l'avente causa, quindi, vi si obbliga contrattualmente. Ovviamente, poi, l'atto di alienazione viene trascritto e unitamente ad esso viene menzionata nella nota di trascrizione l'autorizzazione ministeriale, che costituisce requisito di validità dell'atto di vendita: le condizioni di utilizzo indicate dal ministero nell'autorizzazione, dunque, divengono opponibili anche ai successivi acquirenti. Fin qui, allora, la conformazione della condotta di utilizzo del bene da parte di qualsiasi futuro proprietario è formalmente assicurata, con l'obbligatorietà di questa sorta di "scheda" di utilizzo preventivamente determinata [1] non dissimile dal "programma di tutela e valorizzazione" previsto dal d.p.r. 283/2000, abrogato.
5. La scarsa portata garantistica della disciplina predisposta, connessa alla mancanza di sanzione per il non rispetto delle indicazioni contenute nell'autorizzazione
La nuova disciplina, però, si presenta svuotata di uno dei contenuti di garanzia più significativi che la normativa previgente aveva immaginato: il controllo successivo all'alienazione del comportamento dei titolari del bene venduto, in particolare in ordine all'orientamento effettivo di esso alla fruizione collettiva. A fronte della clausola penale e della clausola risolutiva espressa del negozio di trasmissione della proprietà in caso di non rispetto delle condizioni poste dal ministero per l'alienazione - che dunque comportava il venir meno del contratto di vendita e il ritorno del bene "in mano pubblica" -, il Codice non prevede alcuna sanzione collegata all'inadempimento delle indicazioni sopra viste. Nulla è previsto, infatti, in aggiunta alle generali prescrizioni dell'art. 20 - il divieto di adibire beni culturali ad usi incompatibili con il loro carattere storico-artistico -, alla sanzione penale di cui all'art. 170 - "uso illecito", che punisce chi "destina i beni culturali" "ad uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico" -; inoltre, nessun potere di vigilanza specifico è attribuito al ministero in ordine al rispetto delle condizioni contenute nell'autorizzazione al di là del generale potere di controllo su tutti i beni culturali.
Evidente dunque risulta la diversa intensità di garanzia che era offerta, rispetto alla norma codicistica esaminata, dalla normativa regolamentare abrogata, la quale predisponeva un meccanismo di controllo effettivo sull'utilizzo e il godimento collettivo del bene ex demaniale, fulgido esempio di ciò che di ottimo si poteva recepire e della bontà dell'occasione perduta. Le prescrizioni delineate dal Codice, infatti, essendo prive della correlata sanzione appaiono un impianto di garanzia proclamato ma non reso realmente operante, a tutto discapito dell'interesse pubblico protetto dall'art. 9 Cost.
6. Quadro riassuntivo: le categorie tipologiche di beni culturali pubblici e il relativo regime di alienabilità
Sembra utile, in chiusura, tracciare un breve quadro, a mero titolo di ricapitolazione, che riassuma lo stato attuale della disciplina riguardante l'alienabilità delle varie tipologie di beni culturali appartenenti agli enti pubblici.
Innanzitutto, vi sono gli archivi, da sempre considerati inalienabili: dal cod. civ., prima - art. 823, che li classifica come beni demaniali -, dal Testo unico, poi - art. 55, comma 4, che parla di archivi degli enti pubblici e dei singoli documenti di tutti enti pubblici -, fino ad arrivare alla disciplina attuale, l'art. 54, comma 1, lett. d), del Codice. Gli archivi, dunque, considerati sia unitariamente come universalità di mobili che nell'individualità dei singoli documenti che li compongono, se appartenenti agli enti territoriali e agli altri enti pubblici sono ugualmente dichiarati assolutamente inalienabili.
In secondo luogo vi sono le raccolte dei musei, delle pinacoteche e biblioteche appartenenti agli enti territoriali, dunque demaniali, che sono rientrate dapprima nella previsione dell'art. 24 della legge 1089/1939, che parlava genericamente di "cose di antichità e d'arte", ma subito riassorbite nella previsione degli artt. 822 e 823 cod. civ.; successivamente, sia il Testo unico - comb. disp. artt. 54 e 55 - che il Codice - art. 54, comma 1, lett. c), espressamente - ne affermano l'inalienabilità senza possibilità di deroga.
Diverso il regime applicabile ai beni mobili archeologici. Essi rientrano nel patrimonio indisponibile - ex art. 826, comma 2, cod. civ. e 91 del Codice in commento - in modo "provvisorio", ossia tra il momento del ritrovamento e quello della valutazione da parte degli organi ministeriali, che devono stabilire se essi presentino o meno interesse storico-artistico. Qualora l'interesse sia accertato, si porrà la questione della loro collocazione: i reperti inseriti in raccolte museali andranno a classificarsi per ciò stesso come demaniali e seguiranno il regime di inalienabilità proprio delle raccolte museali. Altri di questi beni potranno essere ceduti al proprietario dell'immobile in cui sono stati rinvenuti, o al concessionario o allo scopritore, a titolo di premio per il ritrovamento - art. 92, comma 4, Codice -, divenendo così beni culturali privati, alienabili secondo le disposizioni di cui all'art. 59 del Codice.
Un breve cenno conviene fare ai beni culturali che non sono espressamente richiamati dalle norme del Codice, ossia dei beni culturali mobili non inseriti in raccolte museali, sempre di proprietà pubblica. Qualora essi siano adibiti ad uso di arredo di immobili destinati a un pubblico servizio, in base all'art. 826, comma 3, cod. civ., saranno da collocarsi all'interno della categoria del patrimonio indisponibile, non in quanto beni che presentano un interesse culturale, ma in quanto rientranti nella strumentalità all'esercizio di un servizio pubblico. Essendo patrimonio indisponibile, essi risultano inalienabili in costanza di destinazione. Ancora, restano fuori da qualsiasi previsione espressa i beni culturali mobili che fanno capo ad enti territoriali e che sono adibiti ad usi diversi dal precedente; si presume che essi debbano rientrare nelle previsioni del primo comma dell'art. 826 e del primo comma dell'art. 828 cod. civ., ossia che rientrino nel patrimonio disponibile dell'ente. Essi sembrano dunque doversi assimilare, quanto al regime di alienabilità applicabile, ai beni comuni di proprietà degli enti in parola, ferma restando in ogni caso la sottoposizione al regime speciale di tutela, applicabile a prescindere dall'appartenenza a tutti i beni culturali e tendente proprio a rendere effettivo e oggettivo l'assolvimento della funzione connaturata ad essi. Per essi dunque il legislatore richiede la necessaria autorizzazione ministeriale all'alienazione ex art. 56, comma 1, lett. a) del Codice.
Quanto agli immobili culturali demaniali, vi sono categorie specificamente indicate, riconoscibili in base a criteri di ordine formale, che sono assolutamente inalienabili - così secondo il d.p.r. 283/2000 e ora secondo l'art. 54 del Codice -; gli altri sono alienabili tramite l'autorizzazione ministeriale. Tra questi ultimi, si nota poi, rientra ora quella categoria di immobili che presentano un interesse particolarmente importante di genere relazionale o indiretto, ossia "a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere", che prima il d.p.r. 283/2000 dichiarava assolutamente inalienabili.
In ultimo, vi sono i beni culturali mobili e immobili degli enti pubblici non territoriali, che sono in generale alienabili con autorizzazione ministeriale, salvo però che non rientrino nelle tipologie di beni per cui l'alienazione è esclusa, ossia gli archivi e i singoli documenti che ne fanno parte - art. 54, comma 2, lett. c) del Codice -, i beni inseriti in raccolte demaniali - art. 54, comma 2, lett. b) -, i beni immobili di interesse particolarmente importante in quanto documentanti l'identità delle istituzioni - art. 54, comma 2, lett. d) -.
[1] Come più in generale suggerisce M. Cammelli, Il quadro, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Bologna, 2003, 23.