Sommario: 1. Nozione di bene culturale e strumenti di tutela nel disegno di legge di riforma. - 2. Regimi di appartenenza e alienabilità. - 3. Il "possesso di antichità".
1. Nozione di bene culturale e strumenti di tutela nel disegno di legge di riforma
Il settore dei beni culturali vive un momento caratterizzato da numerose istanze di riforma, volte a sollecitare innovazioni legislative che, senza compromettere l'esercizio della tradizionale funzione di tutela, rilancino e sostengano le iniziative di valorizzazione del patrimonio esistente.
Si tratta di una tendenza riscontrabile non solo nel nostro ordinamento, ma anche in altri Stati dell'Unione europea, a conferma del fatto che le recenti politiche intraprese a livello comunitario nell'ambito del settore cultura hanno favorito la nascita di confronti e dibattiti destinati ad influenzare anche le scelte interne.
Risulta di notevole interesse, pertanto, soffermarsi sull'esperienza di un ordinamento, quello greco, a noi vicino non solo dal punto di vista geografico, ma anche per la comunanza di problematiche inerenti la gestione di un patrimonio storico - artistico che non ha eguali al mondo.
L'occasione è rappresentata dalla proposizione di un disegno di legge di riforma dell'intera materia che, dopo un difficile iter parlamentare, sembra prossimo ad essere definitivamente licenziato. Ormai da quarant'anni l'ordinamento greco è in attesa di un testo in grado di sostituire ad una normativa frammentaria, datata e lacunosa una disciplina caratterizzata da organicità, completezza ed efficacia: grazie al lavoro svolto negli ambienti istituzionali ed alla costante elaborazione concettuale posta in essere dai giuristi si è, ormai, ad un passo dalla realizzazione di tale obiettivo [1].
L'ultima versione del disegno di legge, datata 22.05.01, contiene una riformulazione organica di tutte le norme attualmente in vigore - comprese quelle aventi ad oggetto le disposizioni comunitarie [2] -, oltre a prevedere una tutela più rigida dal punto di vista penale e l'introduzione di una definizione di bene culturale che non si riduca ad un mero elenco, ma sia incentrata sulla natura dell'interesse oggetto di tutela.
Proprio quest'ultimo aspetto rappresenta una novità di rilievo, dal momento che la legge 9/24 agosto 1932, n. 5351 (G.U. n. 275), testo fondamentale nella disciplina della materia, si limita a fornire all'interprete un elenco poco omogeneo di opere d'arte, omettendo di chiarire quale sia l'essenza della nozione di bene culturale, nonché la natura del valore protetto.
Con le nuove disposizioni, il legislatore si appresta, invece, ad introdurre una definizione elastica, suscettibile di acquisire i contenuti che di volta in volta, a seconda della sensibilità culturale caratterizzante un dato momento storico, le scienze specialistiche, quali la storia dell'arte, l'architettura etc., vorranno attribuirle. In merito a quest'ultimo aspetto, vengono in rilievo l'art. 1, comma 2 e l'art. 2 del disegno di legge i quali, nell'economia dell'intero testo legislativo, svolgono il compito di delineare i concetti fondamentali, l'ambito oggettivo di applicazione, nonchè il contenuto delle definizioni utilizzate nelle successive norme. In particolare, dal combinato disposto della lett. a) e della lett. e) dell'art. 2 si evince come tramite l'espressione "beni culturali", costituenti il "patrimonio culturale" del Paese, il legislatore intenda fare riferimento e, quindi, accordare tutela, a "tutte le testimonianze dell'attività individuale e collettiva dell'uomo", incluse le espressioni, le conoscenze e le attività che costituiscono elementi di cultura popolare e tradizionale, quali miti, costumi, tradizioni orali, danze, musica (c.d. beni culturali immateriali) [3].
Si tenta, in tal modo, di superare la concezione meramente estetica ed elitaria del bene culturale, sottesa alla nozione di antichità di cui alla l. 5351/32, per proiettarsi in una dimensione storicistica, in cui la porzione di realtà diviene oggetto di tutela in quanto specchio della civiltà umana, frammento e testimonianza di un momento di crescita nella storia di un popolo, indipendentemente dalla presenza di un rilevante valore artistico.
Sul versante degli strumenti di tutela, la novità di maggior rilievo, nell'ambito del disegno di legge, è costituita dall'introduzione di una norma giuridica espressa a garanzia della tutela della cornice ambientale: l'art. 17 - rubricato "Zone di tutela circostanti ai monumenti" - prevede, infatti, rigorosi limiti alla possibilità di edificare nelle zone adiacenti e contigue ai monumenti, ai siti archeologici e ai luoghi storici, per scopi estranei alla realizzazione di opere finalizzate alla valorizzazione degli stessi.
Si tratta di una disposizione volta a codificare un orientamento giurisprudenziale che, in assenza di dati normativi di livello ordinario, ha, finora, assicurato la conservazione del contesto in cui il bene culturale è inserito, basandosi su un'interpretazione teleologia e sistematica dell'art. 24 Cost., il quale dispone, al comma 1, dispone che: "La protezione dell'ambiente culturale e naturale rappresenta un obbligo dello Stato. Esso è tenuto ad adottare speciali misure, di carattere preventivo e repressivo, al fine di garantirne la conservazione". Il comma 6 dello stesso articolo continua: "I monumenti, così come i siti e gli elementi storici sono sotto la protezione dello Stato. La legge fissa le misure restrittive della proprietà privata, necessarie per la realizzazione di tale protezione, così come le modalità dell'indennizzo in favore dei proprietari lesi" [4].
Nonostante dalla formulazione letterale emergesse un intento programmatico, la giurisprudenza ha infatti attribuito a tale disposizione un valore immediatamente precettivo, fondando su essa l'opera di aggiornamento delle ormai datate previsioni della legge di tutela.
Partendo dall'ampia definizione "ambiente culturale", la giurisprudenza ha notevolmente esteso il contenuto oggettivo della nozione legislativa di "antichità", facendovi rientrare, oltre al singolo bene, mobile o immobile, gli elementi caratterizzanti lo spazio circostante, in una prospettiva di tutela del contesto, ovvero della cornice ambientale, che forma un tutt'uno con l'opera d'arte [5].
Ciò, sul presupposto che il significato e il valore intrinseco di un bene culturale non siano pienamente godibili e penetrabili al di fuori della realtà nella quale esso è stato pensato e realizzato: il contesto ambientale, lungi dall'essere un elemento statico e neutrale, contribuisce ad arricchire l'opera d'arte di un valore unico ed irripetibile, e, interagendo con essa, finisce col rifletterne la misteriosa luce.
In tal senso, tutela dei contesti vuol dire garanzia di un loro permanere intatti, cura del loro intimo equilibrio estetico, ovvero, nel caso di beni mobili, continuità nella collocazione del bene nel luogo che, storicamente e culturalmente, è in grado di esaltarne il significato [6].
Nell'intento di assicurare una forma di tutela quanto più ampia possibile ai beni culturali, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è spinta fino ad affermare la prevalenza dell'art. 24 Cost. su altre disposizioni dello stesso rango, e, in particolare, sull'art. 17, il quale dispone: "La proprietà privata è posta sotto la protezione dello Stato".
Nell'ambito della legislazione di tutela del patrimonio culturale, il precipitato di quest'ultima norma è rinvenibile nell'art. 51 l. 5351/32, il quale, nella formulazione originaria, prevedeva che ogni individuo, al quale le opere di trasformazione del proprio terreno fossero precluse in ragione del vincolo storico - artistico, avesse facoltà di chiederne alla p.a. l'espropriazione. Qualora, nel termine di due anni dalla presentazione dell'istanza, il procedimento espropriativo non avesse avuto inizio, il cittadino era autorizzato ad intraprendere l'edificazione delle opere progettate.
E' evidente come, in caso di inerzia delle competenti autorità amministrative - dovuta, per avventura, alla carenza di fondi in bilancio da corrispondere al privato come indennizzo, o a qualsiasi altra ragione - la tutela vincolistica apprestata dalla legge risultasse del tutto priva di efficacia, venendosi a creare una situazione di sostanziale e pericolosissimo vuoto normativo.
A tale anomalia ha posto rimedio il Consiglio di Stato, dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 51 l. 5351/31, in quanto apertamente in contrasto con le previsioni dell'art. 24 Cost.: il supremo consesso rileva come il sistema normativo di tutela dei beni culturali, così come disegnato nella Carta Costituzionale, "non possa avere un'efficacia limitata nel tempo", essendo volto a garantire la conservazione e lo sviluppo dell'ambiente culturale per le generazioni future [7].
La giurisprudenza pone, pertanto, la protezione del patrimonio culturale tra i fini superiori dello Stato, quale dovere primario, insuscettibile di subire deroghe o eccezioni. La tutela del diritto di proprietà, pur costituzionalmente garantita, deve cedere il passo, davanti all'esigenza di assicurare uno sviluppo edilizio compatibile con il rispetto della memoria storica. Essendo del tutto inaccettabile la possibilità di una "reviviscenza" della libertà edificatoria, a seguito del trascorrere di un breve lasso di tempo, l'unica forma di protezione ammissibile per il privato risulta essere la corresponsione di un indennizzo - in applicazione dell'art 24, comma 6 Cost. - nel caso in cui le restrizioni al diritto in questione siano talmente gravi da svuotarlo di contenuto [8].
2. Regimi di appartenenza e alienabilità
Nella redazione del disegno di legge, è stata mantenuta la distinzione, rilevante ai fini del riconoscimento del valore storico - artistico, tra i beni culturali anteriori al 1830, e quelli venuti alla luce successivamente a tale data: se i primi sono in modo automatico assoggettati alle disposizioni di tutela, per i secondi è necessaria l'adozione di un provvedimento ministeriale, all'esito di un procedimento cui i soggetti interessati hanno facoltà di partecipare (artt. 6 e 7).
In verità, con riferimento ai beni culturali mobili, occorre introdurre un'ulteriore distinzione: i beni anteriori al 1453 (anno della presa di Costantinopoli da parte dei Turchi) sono senz'altro definiti antichità e come tali costituiscono oggetto di tutela. Al contrario, per quelli posteriori a tale data - a meno che non si tratti di reperti archeologici rinvenuti in seguito a scavi oppure distaccati da monumenti, di icone ed altri oggetti religiosi datati sino al 1830 - è richiesto il riconoscimento ministeriale (art. 18).
E', dunque, rilevabile una differenza tra i procedimenti di individuazione basata sull'età del bene, piuttosto che, come avviene nel nostro ordinamento, sui regimi di appartenenza? In realtà, così non è, visto che il riferimento temporale ha un rilievo decisivo proprio in ordine a questi ultimi.
La scelta effettuata dall'ordinamento greco relativamente al regime di appartenenza delle c.d. "antichità" - le quali rappresentano, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, la parte più cospicua del patrimonio culturale nazionale - risulta, infatti, improntata ad un criterio rigidamente pubblicistico. L'art. 2 della l. 5351/32 prevede che: "tutte le antichità esistenti in Grecia appartengono allo Stato. Conseguentemente, la loro ricerca e la loro tutela in musei pubblici compete allo Stato".
Dunque, secondo questa disposizione, ogni bene di interesse storico - artistico anteriore al 1830 è di esclusiva spettanza statale, come tale incommerciabile ed incedibile [9]. Affermando in modo così deciso e perentorio l'esclusiva proprietà pubblica delle antichità, il legislatore ha probabilmente voluto sottolineare il senso dell'appartenenza di tali beni al popolo greco, in contrapposizione al dominatore straniero; non è escluso che, oltre a ciò, vi sia stata anche l'intenzione, da parte di uno Stato neonato, di fondare la propria forza e la propria autorevolezza su un elemento, il patrimonio storico - artistico, di notevole impatto sulla coscienza popolare e di indubbio rilievo a livello internazionale.
La disciplina fin qui illustrata sembra ormai destinata a subire profonde modifiche: le previsioni contenute nel disegno di legge di riforma sono infatti volte a razionalizzare la configurazione giuridica dei regimi di appartenenza, eliminando inutili rigidità.
La riserva di titolarità pubblica sarà limitata (con alcuni correttivi per quanto riguarda i beni mobili) ai beni culturali anteriori al 1453; per le restanti categorie gli articoli 7 e 19 dispongono, invece, che il diritto di proprietà sia esercitato secondo le condizioni ed i requisiti previsti dalle successive norme.
Ciò, in attuazione di una tendenza di politica legislativa intesa ad individuare, all'interno del cospicuo patrimonio storico - artistico, un gruppo di beni degni di essere collocati, per caratteristiche intrinseche, su un livello superiore, in ordine ai quali calibrare una disciplina giuridica ad hoc, differenziata e più rigorosa rispetto a quella riguardante le altre categorie.
Si tratta, in definitiva, di un intervento volto a razionalizzare l'estensione della riserva pubblica di proprietà, per consentire il coinvolgimento dei privati nelle gestione di quei beni culturali, per i quali non siano ravvisabili esigenze di tutela "avanzata". La ragione di tale scelta risiede nella consapevolezza, ormai maturata nelle autorità pubbliche, di non poter garantire in ogni caso un'adeguata conservazione del patrimonio storico - artistico, a causa delle sempre carenti risorse finanziarie ed operative. Il mondo dei privati rappresenta, sotto questo profilo, una valida alternativa, un terreno dal quale attingere non solo capitali, ma anche risorse umane e capacità imprenditoriali, da impiegare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Venuti meno la titolarità statale ed il conseguente divieto di alienazione per un rilevante numero di beni culturali, si moltiplicheranno le opportunità, per privati cittadini, imprese ed associazioni, di divenirne proprietari. Ciò costituirà un'autentica rivoluzione, dal momento che, finora, l'unica ipotesi normativamente prevista di cessione dei beni in oggetto, era rappresentata dall'art. 53 della l. 5351/32, a tenore del quale le antichità giudicate "superflue" per i musei e le altre collezioni dello Stato possono essere scambiate con altre, provenienti dalla Grecia o dall'estero, o anche vendute [10].
In verità, questa norma non ha mai trovato applicazione, a causa dei notevoli contrasti suscitati in dottrina dalla nozione stessa di "antichità inutile": la maggior parte dei giuristi ha, infatti, osservato che i beni culturali, in quanto testimonianze aventi valore di civiltà, non possono mai essere qualificati come superflui e che, in ogni caso, tale giudizio, per sua natura non definitivo, in quanto legato ad un dato momento storico e suscettibile, pertanto, di mutare successivamente, rivela non trascurabili profili di soggettività.
Al di là delle difficoltà applicative, la stessa ratio della norma è, oggi, in via di superamento: la diffidenza nei confronti della proprietà privata, all'origine della convinzione secondo cui solo un bene culturale di scarso pregio può essere ceduto ad un privato, viene soppiantata dalla volontà di realizzare partnerships con soggetti, anche privati, in grado di agire in modo efficace per assicurare la conservazione dei beni culturali ed incrementarne la fruibilità.
Sotto questo profilo, degno di nota, per i suoi elementi di rottura con il passato, è il comma 4 dell'art. 2, il quale precisa e completa, in una prospettiva maggiormente attuale, il precetto costituzionale di cui all'art. 24, comma 1 Cost. Dopo aver affermato che la tutela del patrimonio culturale del Paese costituisce dovere dello Stato, responsabilità e diritto di tutti, la norma enuclea i contenuti di tale funzione, individuandoli nella salvaguardia della memoria storica e, con previsione del tutto nuova, nella "valorizzazione" dell'ambiente culturale.
La collocazione tra le disposizioni fondamentali di un testo legislativo non settoriale, bensì destinato a disciplinare in modo organico la materia, connota di un valore di forte centralità questa norma; è dunque possibile prevedere che nell'immediato futuro l'ordinamento greco predisponga strumenti giuridici volti ad accrescere la fruibilità dei beni culturali, anche tramite forme di collaborazione con i privati.
Anche l'istituto del "possesso di antichità" da parte dei privati, disciplinato dall'art. 5 l. 5351/32, rientra nell'ambito del disegno legislativo di riordino della materia. La configurazione che emerge dagli articoli 19b e 24, ad esso dedicati, è caratterizzata da un maggior rigore rispetto al passato.
La stessa denominazione "diritto di possesso" è sostituita da quella di "licenza di possesso", al fine di sottolineare l'elemento, forse, di maggiore novità dell'istituto, ovvero la sua natura di provvedimento concessorio. Alla luce della normativa del 1932, il consolidamento della situazione possessoria in capo allo scopritore/acquirente non è subordinato all'esercizio di un'attività discrezionale da parte della pubblica amministrazione, essendo a tal fine sufficiente l'effettuazione di una regolare e tempestiva denuncia. In tal modo, il livello di tutela legislativa sembra, nel complesso, subire una flessione, a causa dell'incapacità dello Stato di acquisire, in concreto, il bene al proprio patrimonio, in assenza di una convergente volontà del privato [11].
Tale anomalia è destinata a scomparire nel nuovo testo legislativo, il quale prevede che con delibera del Ministero della Cultura, su parere del Consiglio archeologico, è possibile "cedere" ad una persona fisica o giuridica una "licenza di possesso" di un'antichità mobile anteriore al 1453 (art. 19b). La stessa terminologia legislativa è evidentemente mutata, in conseguenza della nuova ratio e della nuova natura dell'istituto.
Il rilascio del provvedimento concessorio avviene a seguito di una valutazione circa l'esistenza delle condizioni richieste dalla legge, rispetto alla quale la "denuncia" dello scopritore ha una valenza di semplice atto di iniziativa.
L'"intuitus personae" acquista un rilievo decisivo ai fini dell'adozione del provvedimento: spetta infatti all'autorità amministrativa verificare che il richiedente non sia stato condannato o non sia sottoposto a procedimenti legali per una serie di reati normativamente previsti, e che sia in grado di assicurare una conservazione ed una protezione adeguata del bene (art19b, comma 2, lett b) e c)).
A ben vedere, l'elemento di maggiore rilievo nella nuova configurazione dell'istituto risiede, però, nel fatto che il ministero della Cultura può negare il rilascio della licenza di possesso qualora il bene sia di "grande valore scientifico o artistico" e, in ragione di ciò, si renda necessaria una tutela diretta da parte dello Stato (art. 19b, comma 2, lett. a).
In realtà, vi è di più, in quanto la norma si spinge fino a disciplinare un'ipotesi di revoca della licenza, qualora il pregio del bene emerga a seguito di una valutazione a posteriori degli uffici competenti (art. 19b, comma 4).
In definitiva, la nuova veste giuridica dell'istituto sembra poter assicurare una maggiore tutela delle antichità, dal momento che il possesso da parte del privato non consegue, automaticamente, alla denuncia del ritrovamento, ma è il risultato di una scelta della pubblica amministrazione, resa in esito ad un'istruttoria che ha ad oggetto il riscontro dell'esistenza delle adeguate condizioni di tutela del bene, in relazione alla rilevanza del valore culturale.
Dunque, se relativamente alle antichità posteriori al 1453, il potere pubblico sembra ritrarsi, al fine di consentire l'ingresso dei privati nell'attività di gestione, per ciò che riguarda, invece, i beni storico artistici anteriori a tale data, si rileva un innalzamento del livello normativo di tutela, tramite la razionalizzazione degli istituti giuridici esistenti.
[1] I giuristi hanno ripetutamente sottolineato l'esigenza di tradurre in disposizioni normative i risultati dell'elaborazione della nozione di bene culturale. Per tutti, A. Grammaticaki - Alexiou, The status of cultural property in Greek private international law, in Revue Hellenique de droit international, N. Sakkoulas, 1994,139 ss. Sul versante istituzionale, la prima autorità a muoversi in tal senso è stata Ioannis Katis, direttore generale delle antichità, il quale, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, intraprese la preparazione di un progetto di legge, più volte rielaborato, mai tradotto in un testo normativo vigente. Da allora, numerose proposte normative sono stata presentate dai personaggi succedutisi alla guida del ministero della cultura (E. Venizelos, E. Papazoi, T. Pangalos), ma l'iter parlamentare di tali testi non è mai giunto al termine.
[2] Con P.D. 423 / 1995 la Grecia ha dato attuazione al Regolamento 3911/92 del Consiglio, sull'esportazione dei beni culturali; inoltre con P.D. 133/1998 è stata incorporata nella legislazione interna la direttiva del Consiglio 93/7, sulla restituzione dei beni culturali illecitamente fuorusciti dal territorio nazionale.
[3] La traduzione in lingua italiana del testo normativo qui commentato è disponibile in Dalla tutela alla valorizzazione dei beni culturali in regime di appartenenza pubblica: ordinamenti a confronto, a cura di Luisa Campobasso, in corso di pubblicazione su Collana Interreg II Italia - Grecia, Università degli Studi, Lecce.
[4] Si noti come la formulazione di queste norme sia rimasta immutata, anche a seguito della recente riforma costituzionale, attuata dal VII parlamento greco, con legge Z/2001 /A-2001.
[5] Tale aspetto è sottolineato in Helen Trova, La tutela del patrimonio culturale nell'ordinamento greco, in I beni culturali, a cura di L. Mezzetti, Padova, 1995, 339. Il filone giurisprudenziale cui si fa riferimento nel testo ha avuto inizio con la sentenza Cons. Stato 2801/91, poi seguita da numerose pronunce con le quali è stata fatta applicazione dello stesso principio.
[6] A tal proposito, occorre ricordare che la Grecia è tuttora in attesa della restituzione dei marmi del Partenone, distaccati dal tempio e portati in Inghilterra, nel 1799, da lord Thomas Elgin, ambasciatore inglese presso la corte ottomana di Costantinopoli, su autorizzazione del sultano Selim III. La vicenda, insuscettibile di trovare soluzione sul piano giuridico, dal momento che non di trafugamento si trattò, ma di una mutilazione autorizzata dalle autorità, deve essere affrontata sul piano politico, sensibilizzando la coscienza collettiva al rispetto dell'identità culturale altrui.
[7] Il Consiglio di Stato ha avuto occasione di pronunciarsi sulla controversa vicenda dapprima con sentenza n. 1364/81; in seguito, a causa della complessità e delle notevoli ricadute in termini economici dei principi affermati, la trattazione dell'intera questione è stata rimessa all'Assemblea plenaria, la quale, in diverse occasioni, ha confermato il carattere incostituzionale dell'art. 51 (sent. 3893/81, 1061/82, 2989/84).
[8] Il principio dell'indennizzabilità del sacrificio imposto al privato a causa del vincolo storico artistico è stato, invece, più volte negato dalla giurisprudenza costituzionale italiana (Corte Cost., sent 29 maggio 1968, n. 56, in Foro It., 1968, I, 1361; sent. 26 aprile 1971, n. 79, in Foro It., 1971, I, 1164)., sul presupposto che l'asservimento dei beni culturali all'interesse pubblico non sia il risultato di una scelta discrezionale dell'amministrazione, bensì del legislatore, con riferimento ad intere "famiglie" di beni. Si parla, a tal proposito, di "vincoli conformativi", per evidenziare come i limiti all'utilizzazione non si pongano in contrasto con le caratteristiche intrinseche del bene, discendendo, piuttosto, direttamente da esse.
[9] Come rilevato da P. Pantos, Greece and greek legislation about antiquities, in Cultural property: return and illicit trade, Athens, 2002, 15 ss. la disposizione non fa altro che ribadire il contenuto dell'art. 1 della seconda legge greca sulle antichità (2646/24.07.1899), la quale, probabilmente sotto l'influenza delle severa legislazione francese, stabiliva: "Tutte le antichità sono proprietà dello Stato".
[10] Il successivo articolo delinea il procedimento volto a dichiarare l'inutilità del bene: la pronuncia finale spetta al Consiglio archeologico, il quale decide secondo la regola dell'unanimità. Nel caso in cui un consenso unanime non si raggiunga, e la maggioranza si schieri contro la dichiarazione di inutilità, la decisione risulta definitiva. In caso di maggioranza favorevole alla dichiarazione di inutilità, invece, vi è l'obbligo, per il ministro della Cultura, di convocare 3 efori, in vista di una loro partecipazione ad una sessione del consiglio: l'inutilità è allora dichiarata se vi sono nove voti in suo favore.
[11] A seguito della "denuncia", le antichità sono esaminate dal Servizio archeologico, al quale compete effettuarne una stima circa il reale pregio storico artistico. Nel caso in cui non riveli, sotto tale profilo, un particolare interesse, il bene è lasciato al libero uso del possessore; in caso contrario, è acquistato dallo Stato. Nel caso in cui il privato non acconsenta alla transazione, la fattispecie a formazione progressiva del "possesso" di beni culturali verrà a completarsi, in quanto il bene, formalmente in regime di proprietà pubblica, sarà, in effetti, conservato e gestito dal privato. Dunque, non vi è un obbligo, per il cittadino, di cedere l'antichità allo Stato, ben potendo egli non solo mantenerne il possesso, ma anche trasferirlo a terzi (l'unica eccezione a tale regola è rinvenibile nel caso in cui si tratti di un antiquario).