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Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

Intervento [1]

di Oberdan Forlenza

 

Ringrazio la rivista per l’organizzazione di questo convegno e mi scuso innanzi tutto del ritardo col quale sono giunto, ma i problemi del quotidiano a volte tengono lontani da più piacevoli momenti di riflessione e anche sicuramente più distesi momenti di riflessione, quali quello rappresentato da questa mattina. Uno dei problemi l’ha già detto il dottor Gherpelli, c’è un po’ di fibrillazione nel settore dei lavoratori addetti ai servizi socialmente utili, ma questa è semplicemente una di quelle, diciamo così, tante "cosette quotidiane" che si trova ad affrontare chi deve, purtroppo o per fortuna, avere a che fare, oltre che con gli scenari e le prospettive, anche con un quotidiano che deve inevitabilmente andare avanti.

La riflessione che la rivista sollecita è quella sul nuovo ministero, sulle sue prospettive e sulle sue possibilità, sulla integrazione innanzi tutto tra il settore dei beni ed il settore delle attività culturali.

Siamo ormai a cinque mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo e dalla istituzione del nuovo ministero, siamo quasi ad un anno dal d.lg. 112/1998, che in qualche misura delineava una serie di funzioni distinguendo, con uno sforzo definitorio notevole, quelle funzioni tipicamente statali, perché escluse dalla stessa delega conferita con la l. 59/1997, da quelle che invece sono, possono essere esercitate di comune accordo. Uso volutamente questo vocabolo, questa espressione non tecnica, "di comune accordo con le regioni e gli enti locali". Mi sembra tra l’altro che questo dato esca del tutto riconfermato dal disegno di legge costituzionale che il consiglio dei ministri ha varato martedì scorso, dove cioè viene ancora una volta ribadita la esigenza di mantenere allo Stato, dovrebbe essere il secondo comma del nuovo art. 117; viene nuovamente ribadita l’esigenza di mantenere allo Stato l’iniziativa, la potestà legislativa in materia di tutela dei beni culturali.

Vorrei partire, però, in questa riflessione da una considerazione di fondo. Credo che il dato più forte da segnalare in relazione agli ultimi anni - dato che viene molto spesso dimenticato - è un recupero di centralità degli istituti, delle istituzioni addette ai beni culturali, del problema beni culturali e attività culturali nel nostro paese rispetto al passato.

Se noi non cogliamo il momento essenziale, la ricollocazione nell’ambito delle politiche pubbliche del problema beni culturali, evidentemente qualcosa ci sfugge - è evidente che poi abbiamo non uno, ma cento, ma mille problemi quotidiani - ma sicuramente il recupero di centralità dell’importanza della questione beni e attività culturali nell’ambito delle politiche pubbliche, io credo che sia sicuramente il dato più forte e più caratterizzante degli ultimi anni.

Questo ha consentito un fervore normativo di notevole spessore, poi ovviamente come tutti i discorsi di carattere normativo variamente giudicabile; ha consentito un recupero di risorse economiche non indifferente rispetto alle politiche sparagnine, se non regressive, degli ultimi anni, degli anni precedenti; ha consentito l’interrogarsi su questa che è una risorsa del nostro paese, una specificità e una risorsa del nostro paese; ha consentito anche - lo commentavamo prima con il prof. Cammelli, scambiando qualche battuta -, ha consentito anche di considerare, di accorgersi che esiste anche un grande problema che è anche un grande banco di prova per la nostra amministrazione, che è alle porte, e che è rappresentato dall’anno giubilare.

Ora noi riflettiamo sull’istituzione del ministero, riflettiamo sulla sua organizzazione periferica, riflettiamo sull’integrazione tra beni ed attività culturali, ma non dobbiamo dimenticare, da un lato, appunto l’aspetto di centralità che si è recuperato, ma dall’altro lato, diciamo così, la grossa prova alla quale questa amministrazione viene ad essere chiamata.

Sono personalmente convinto - e in qualche misura però questo aspetto si riallaccia a quella visione distorta del passato e si capisce, si comprende, con la visione distorta del passato, che, scusatemi, ma parto da un tema se volete di gestione quotidiana, ma che invece poi diventa un grande problema di politica anche in questo settore - che il problema giubileo sia stato, ad esempio, sottovalutato.

Ci troviamo alle porte dell’anno 2000 con una grande opera di riforma dell’amministrazione avviata e contemporaneamente forse con il momento più impegnativo che questa amministrazione deve vivere, che è esattamente coincidente con il momento della sua evoluzione e riorganizzazione.

Si tratta evidentemente di un problema non da poco, che deve farci rifuggire da massimalismi, da fughe in avanti, da intellettualismi e illuminismi di vario genere, ma che si deve portare molto ma molto coerentemente e se volete anche, come devo dire, pacatamente sul piano dei problemi reali, perché noi abbiamo un grande problema; il grande problema rappresentato dal super afflusso che avremo nel 2000 e nel 2001 che, si diceva prima, con le risorse ordinarie di questo ministero non è possibile affrontare, ma dico di più, che molto probabilmente il sistema di siti culturali del paese non può reggere.

Abbiamo bisogno di fare due cose: da un lato, preparare le strutture ad una domanda molto ma molto maggiore di quella che già oggi si vive; dall’altro quella, però non meno importante della prima, di - come dire - diffondere la consapevolezza che nonostante tutti gli sforzi che possono essere fatti, che potranno essere fatti, i siti culturali, i musei, i beni culturali nel loro complesso non saranno di per sé visibili a chiunque li vorrà vedere nell’anno 2000.

Questa è una consapevolezza che noi dobbiamo raggiungere, perché noi ci impegneremo, noi ci stiamo già impegnando, apriremo nuovi spazi, prolungheremo gli orari, aumenteremo l’offerta, ma esiste un limite di compatibilità al di là del quale non si può andare perché noi non ci troviamo di fronte a beni fungibili e consumabili.

Ci troviamo di fronte a beni infungibili e non consumabili, per cui esiste un limite logico, obiettivo, di compatibilità nell’utilizzazione, nella valorizzazione, per usare il linguaggio del d.lg. 112/1998, del bene culturale che non può essere superato e questa è una consapevolezza che noi dobbiamo diffondere, perché quando noi avremo, guardate i numeri sono veramente da far paura, almeno i numeri delle previsioni, nonostante tutti gli sforzi fatti, le file davanti ai musei, non è un problema di disorganizzazione, perché quel museo, quel sito ha un numero e quel numero non può essere superato, Pompei ha un numero e quel numero, probabilmente, non può essere superato.

Guardate, sono problemi che stanno venendo fuori nelle riunioni che si tengono in questi giorni su qualche cosa che può sembrare banale, ma è il sistema di prenotazione in vista dell’anno 2000. Per poter organizzare, scusatemi ma io vorrei dare un attimo qualche informazione, come dire, un po’ pratica, per far comprendere dove cala, su che cosa si cala il discorso normativo.

Per poter organizzare il sistema di prenotazioni per l’anno 2000 noi dobbiamo conoscere quanto stanno aperti i musei, il che coinvolge anche problemi di non poco momento di carattere sindacale, ma questi li lascio sullo sfondo, però dobbiamo sapere che un certo museo è aperto dalle ore tot alle ore tot per x giorni all’anno, ma dobbiamo sapere anche una seconda informazione, quante persone possono entrare in quel museo scontando una apertura dalle ore x alle ore y, dopo di che su quello verificare la percentuale di prenotabilità, perché, questo è un mio giudizio personale, non tutto lo stock di possibili ingressi potrà essere prenotato. Noi corriamo il rischio di cadere in un sistema di monopolio dell’accesso ai luoghi d’arte italiani, ma per far questo abbiamo un monitoraggio, un’individuazione dei limiti di compatibilità e, consentitemi di dirlo, ho l’impressione che ciò nonostante noi non potremo riuscire a rispondere alla domanda, per la semplice ragione che l’offerta al di là di un certo punto perde di elasticità.

Ecco questo è uno dei problemi reali con i quali l’amministrazione in questo momento si sta misurando. Un’amministrazione che non è più il vecchio ministero per i Beni culturali e ambientali, è il nuovo ministero per i Beni e le Attività culturali, ma se da un lato, sulla scrivania, vi è la riorganizzazione dell’amministrazione centrale e periferica del ministero, dall’altro lato vi è, diciamo così, vi sono i compiti contingenti quanto si vuole, ma sicuramente di non poco spessore, forse ripeto l’impegno più gravoso cui questa amministrazione è stata mai chiamata nella storia repubblicana, che è sull’altro lato del tavolo e le due cose non sono estranee l’una all’altra, perché noi abbiamo una grande riorganizzazione da fare, ma abbiamo anche da fare in modo che una macchina che va riorganizzata sia comunque messa in condizione di poter affrontare, non solo la gestione quotidiana del 1999, ma anche gli impegni straordinari dell’anno 2000.

Ora stiamo attuando, diciamo così, la organizzazione del ministero. Ci vorrà ancora qualche mese, prima dell’estate sicuramente vi sarà il regolamento che ai sensi dell’art. 17 della l. 400/1988 si intende, disegnerà la organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali. Vi è da dare adempimento ad alcuni istituti che sono previsti dal d.lg. 112/1998; tra qualche giorno si insedierà la commissione per la definizione della alienabilità dei beni del demanio storico artistico, si tratta di una conseguenza dell’art. 32 della legge finanziaria, che in qualche misura, anzi sicuramente deve toccare anche il codice civile, ma su questo ritorniamo tra un attimo. Vi sono delle intese di programma con regioni importanti, come la Lombardia, che stanno andando avanti; vi è un fervore di rapporti tra l’amministrazione centrale e le regioni e le autonomie locali che in questi giorni sicuramente si sta vivendo con, diciamo così, un problema nuovo, quello cioè di indirizzare questa serie di iniziative - non sono affatto pochi gli accordi in questo momento in discussione con singoli enti locali- di inquadrare questo fervore di iniziative in una politica, in uno schema generale.

Ritorniamo per un attimo al clima del d.lg. 112/1998 e all’attuazione del d.lg. 112/1998. Io credo che debba essere considerata veramente una cosa notevole la, diciamo così, individuazione, nell’ambito di quell’indistinto che era il concetto di tutela dei beni culturali, di una serie di altre funzioni, la valorizzazione, la gestione, la promozione - quelle definizioni di cui si fa carico appunto il d.lg. 112/1998 - abbiamo cioè ritagliato a livello normativo - certo adesso dottrina e giurisprudenza daranno il loro contributo - abbiamo cercato di tracciare un confine mobile tra concetti che interagiscono, evidentemente, ma che esiste tra tutela, da un lato, e altre funzioni che non si sottraggono alla tutela, ma che ferma la tutela e compatibilmente con la tutela e la conservazione del bene ne consentano la gestione, la valorizzazione, la promozione delle attività connesse, che è altro settore di cui parla il d.lg. 112/1998.

Ed allora sul problema della tutela e della connessa conservazione anche personalmente resto convinto che la scelta ancora ribadita martedì scorso dal governo col disegno di legge costituzionale, di una definizione, di una allocazione a livello centrale dell’attività di tutela sia una scelta non solo giusta, ma inevitabile, così come ritengo assolutamente giusta e altrettanto inevitabile la scelta compiuta col d.lg. 112/1998 di mantenere un momento unitario nazionale di definizione delle politiche per le attività culturali.

Vi sono in ballo dei concetti troppo grandi perché questo non possa, non solo essere considerato giusto - il che ovviamente è un giudizio di valore e come tale opinabile - ma addirittura inevitabile, perché evidentemente noi non possiamo non avere un momento di tutela del nostro patrimonio coordinato dal centro.

La tutela, che non è semplicemente la metodica di restauro, ma il momento di tutela, la definizione degli strumenti di tutela e conservazione del patrimonio non può che avere una prospettiva nazionale. Il momento della gestione e della valorizzazione - è qui l’importanza delle definizioni contenute nel d.lg. 112/1998 - è un momento diverso; ora quando il sindaco di un paese dell’Emilia mi viene a dire che la locale soprintendenza non ce la fa a tenere aperto per le visite il suo castello e si offre, diciamo così, per una convenzione per la gestione di questo bene, ma è del tutto evidente che non solo non vi deve, ma non vi può essere chiusura da parte dell'amministrazione centrale ad ipotesi di questo tipo, non c’è la possibilità, non è un discorso teorico, non è una scelta di principio.

E' del tutto evidente che l’amministrazione centrale non può assicurare la fruibilità di tutti i singoli beni di cui è ricco il patrimonio culturale, storico e artistico nazionale, in tutti gli 8000 comuni del nostro paese, con risorse proprie. Questo non è assolutamente possibile, e allora il discorso sulla valorizzazione e sulla gestione dei beni, se si depura, deve essere depurato da un momento di scelta fintamente ideologica, perché diventa un discorso molto pratico; non può che essere un discorso che va sostenuto, un problema che va risolto insieme all’ente locale - poi parleremo un attimo del capitolo privati- ma che va sostenuto insieme a chi vede quel bene quotidianamente, ne vede le potenzialità, ne giudica le potenzialità e che quel bene quindi può consentire venga ad essere non solo meglio gestito, ma soprattutto, non è un discorso puramente di gestione economica, meglio offerto alla fruizione della collettività.

Ecco perché credo che molte delle questioni si sono anche stemperate in quest’ultimo anno, non esiste un fronte e non può esistere un fronte di contrapposizione Stato centrale, regione ed autonomie locali. Deve invece esistere una ripartizione in concreto tra cose che si possono fare insieme e cose che probabilmente è meglio che stiano collocate da un’altra parte.

Dicevo della tutela, ma ancora una volta sul discorso della tutela si è ribadita nuovamente la scelta della inalienabilità del bene. Ora io vi risparmio il percorso giuridico della vicenda della alienazione possibile dei beni dall’art. 24 della l. 1089/1939, passando per il codice civile e giungendo alle diverse fibrillazioni sulla l. 127/1997, però c’è qualcosa che non funziona nel discorso dell’alienazione dei beni culturali. Scusatemi - consentitemi di dirlo - c’è qualcosa che al di là della riflessione giuridica, non funziona e non funziona nell’approccio. Quando quella norma è stata inserita in un veicolo, che per altro faceva un po’ trasparire anche l’intenzione recondita dietro la norma; quando quella norma è stata inserita e poi è stata diversamente scritta in senato ed è stata così poi definitivamente approvata giustamente, ma -dicevo- quando, per effetto di un emendamento, quella norma è stata in un primo momento - la norma che prevedeva nuovamente l’alienabilità dei beni- è stata approvata, dietro quella norma, la ratio non manifesta, ma neanche tanto occulta, di quella norma era un problema di cassa.

Ora noi non possiamo pensare che il problema della alienabilità del bene culturale sia posto o/e risponda esclusivamente ad esigenze di cassa, ci possono sicuramente essere dei modi migliori perché un bene culturale venga gestito meglio, ma non è possibile, come dire, sostenere un automatismo o se preferite impostare un problema in termini: esigenza di cassa - vendita del bene culturale. Questa è una visione alla quale noi, o almeno chi vi parla, si rifiuterà sempre. Non è possibile, perché non è una visione culturale ed allora l’art. 10 del decreto legislativo istitutivo del ministero oggi prevede una pluralità di modi di gestione dei beni, dalla costituzione di persone giuridiche alle quali può partecipare il ministero stesso, agli accordi con le regioni e gli enti locali e con gli stessi privati, alla concessione in uso del bene culturale.

Altre cose dice su questo il d.lg. 112/1998 e per questa parte l’art. 10 di istituzione del ministero ne costituisce quasi attuazione, ma questo è un discorso diverso, risponde a quella logica della gestione dei beni culturali al meglio nell’aumento della fruizione da parte dei cittadini, che noi credo accettiamo e che nessuno ha mai messo in discussione, perché sarebbe addirittura stupido discutere di questo, ma non si può pensare ad un discorso puramente di cassa, problema di cassa dell’ente locale - vendita del bene culturale.

Ecco quindi qual è la logica di quello che ancora oggi credo sia l’art. 32 dopo i vari spostamenti nell’ambito della legge finanziaria, art. 32 sul quale - se mi consentite, io profitterei di questa occasione per dire una sola cosa di carattere più squisitamente tecnico e lo dico in questa sede, ma è rivolto ai miei colleghi di altre amministrazioni - l’amministrazione dei beni culturali ritiene la norma dell’art. 32 speciale e come tale prevalente rispetto ad analoghe norma di cessione di beni contenute nella stessa legge finanziaria. Penso all’art. 19, che è la norma che è nelle disposizioni relative alle finanze, sulla possibilità di cessione dei beni del demanio statale, e penso all’art. 44 relativo alle modalità di cessione dei beni del ministero della Difesa, perché nella legge finanziaria noi in questo momento abbiamo tre norme sulla cessione: una generale dell’art. 19, una specifica per il ministero della Difesa, l’art. 44 e poi il problema posto dall’art. 32 che ribadisce con forza e chiarezza la inalienabilità dei beni salvo che alle condizioni che saranno previste da un regolamento che sarà redatto entro il 1999.

Questa norma ribadisce quindi il sistema del codice civile, salvo la individuazione delle eccezioni che, appunto, saranno contemplate dallo stesso regolamento. Si tratta di un regolamento di delegificazione peraltro; quindi lascia una certa possibilità di movimento, ma nel momento in cui questa norma ribadisce questo concetto, questa norma è assolutamente speciale rispetto agli stessi artt. 19 e 44 che sono contenuti nella legge finanziaria. Ciò significa, lo traduco in soldoni, che non è possibile cedere nulla, neanche da parte del ministero della Difesa e neanche da parte del ministero delle Finanze, nulla che ovviamente appartenga al demanio storico e artistico dello Stato, delle regioni e degli enti locali, così come inquadrato, definito dagli artt. 823 e successivi del codice civile.

Un punto ancora, prima di concludere, riguarda il rapporto con i privati: ora, questo è un punto che meriterebbe una riflessione a sé, una tavola rotonda a sé, un convegno a sé e forse addirittura un corso di studi a sé, però anche su questo occorre, come dire, affrontare l’argomento con estrema pacatezza, ma anche con un profilo estremamente concreto.

Ognuno di noi o almeno molti di noi di una certa generazione hanno esperienze assembleari, ora vi sono quegli argomenti che, mi sembra Kundera nel suo romanzo sulla lentezza dice che sono sostanzialmente dei ko ideologici, sono di quegli argomenti che ti pongono nell’alternativa che se dici che sei contrario ovviamente sei retrogrado, ma se dici che sei favorevole non affronti un problema o ti si creano altri problemi, è un po’ la domanda del tipo se qualcuno vuole la pace o vuole la guerra.

Ora è difficile porre una domanda in questo modo e, voglio dire, almeno oggi e almeno, voglio dire, nel comune sentire della maggioranza dei cittadini italiani. E' difficile avere una risposta che sia per la guerra e non per la pace evidentemente, è un po’ questo tipo di domanda.

Allora il discorso dei privati. Certo io sono partito da una riflessione sul giubileo, perché ho posto con chiarezza la necessità di risorse aggiuntive, come possiamo pensare che da solo il bilancio dello Stato o se volete il bilancio pubblico allargato possa far fronte alla gestione, alla valorizzazione? Ma prima di arrivare a questi due punti, alla stessa tutela dei beni culturali, noi non sappiamo quanto costa addirittura in termini assoluti, salvo che per approssimazione, quanto costerebbe mantenere sotto il profilo della conservazione, in piena efficienza tutto il nostro patrimonio artistico, ma è sicuramente tanto ed è sicuramente superiore alle disponibilità finanziarie dell’amministrazione, nonostante le risorse aggiuntive che sono state trovate.

Tra l’altro la prossima settimana saranno presentati i primi risultati dei cantieri aperti sulla base delle risorse lotto, che sono tanti e tuttavia il problema è più grande ed allora ecco la famosa domanda: ma se queste risorse aggiuntive arrivano dai privati, siete o non siete d’accordo? La domanda, consentitemi, è mal posta, perché così posta la domanda ha una risposta del tutto scontata, ed è: siamo sicuramente d’accordo, che è un po’ la formula elegante e migliorata del vecchio adagio che "a caval donato non si guarda in bocca", ma sul discorso dei privati, delle risorse aggiuntive provenienti da privati, noi dobbiamo fare una riflessione, che è conseguenza di quella tale attenzione, di quella tale centralità del problema beni culturali dalla quale sono partito ed allora cominciamo un attimo a sezionare il problema, perché questa è una soluzione, ma è anche un problema.

Il discorso del rapporto con i privati è una questione che pone dei problemi collaterali, un problema grande che però pone dei problemi collaterali, piccoli, ma li pone. Primo problema, come devo dire, conseguenze di carattere fiscale dell’intervento dei privati, perché un momento, noi di quali interventi economici stiamo parlando? Stiamo parlando del, qualcuno suggerisce, di non usare più questa parola, ma usiamola ancora per una volta per comprenderci, stiamo parlando del mecenatismo puro e semplice o stiamo parlando di una scelta di investimenti dei privati di carattere puramente economico connessa al risparmio fiscale? Perché quando si parla di questo argomento un po’ di chiarezza occorre farla, ora io non sono un economista e per questo il primo a non aver chiarezza sono io, ma spero di comunicare il senso di questa riflessione, perché se si parla di mecenatismo in senso puro e storico, secondo quel concetto che ciascuno di noi abbina alla parola, insomma siamo nella logica, ben venga chiunque voglia fare il mecenate.

Quando invece noi entriamo nel discorso, che poi è quello un po’ più reale, che è quello, come dire, della connessione automatica tra risparmio fiscale ed intervento economico, scelta economica del privato, su questo occorre fare delle riflessioni, perché, certo di mecenatismo puro e semplice non si tratta più, è ad un certo punto una forma di incentivazione al privato a dirigere parte delle sue risorse, qualcosa in più di quello che ovviamente pagherebbe in imposte alla tutela, alla conservazione dei beni culturali. Questo punto però ci induce ad una prima riflessione: se noi dobbiamo incentivare la scelta autonoma del privato, collegata col risparmio fiscale, la prima domanda che io vi pongo è questa: il problema non sarà innanzi tutto dovuto al fatto che nella allocazione nell’ambito della finanza pubblica delle risorse destinate alla conservazione dei beni culturali derivanti dal prelievo fiscale, c’è una scarsa considerazione per i beni culturali medesimi? Perché attraverso il giro del risparmio fiscale, noi in realtà implicitamente prendiamo atto del fatto che nella destinazione di tutta questa, diciamo così, ricchezza drenata sotto forma di prelievo fiscale, in realtà c’è una destinazione inferiore al dovuto all’amministrazione dei beni culturali.

Secondo, c’è un altro problema: ci vogliono delle norme quadro, perché evidentemente a fianco al problema fiscale c’è un altro problema che è quello della visibilità dell’intervento, qui Gherpelli un po’ lo sconta questo problema e comunque lo conosce bene come lo stesso prof. Leon , ma in realtà c’è il problema della visibilità dell’intervento. Ora, salvo che non si tratti di realtà locali modeste nella grandezza, non è un giudizio di valore, in realtà l’intervento del privato grande, del privato significativo tende a privilegiare il grande momento di conservazione, quello visibile.

L’esempio è banale, ma sicuramente il grande intervento privilegia il Colosseo rispetto alla chiesetta di campagna e allora questo ha bisogno di regole da un lato, perché occorre, come dire, che nell’ambito delle politiche pubbliche a questo punto si delinei un regime di priorità; ma c’è un secondo problema, se esiste un problema di visibilità, questo significa un’altra cosa che a parte quello che abbiamo detto sub a) vale a dire il problema fiscale, esiste un valore aggiunto che il privato consegue dal suo intervento e che è un valore aggiunto economicamente valutabile, che è esattamente il ritorno di immagine che gli deriva da quell’intervento di carattere economico ed allora, ci sarebbero altri addentellati di questo discorso.

Devo avviarmi alla conclusione. Quello che io voglio sottoporre alla vostra riflessione è questo: noi abbiamo bisogno di risorse aggiuntive, abbiamo bisogno che si crei un grande patto di fiducia non solo tra istituzioni pubbliche, Stato, regioni, enti locali, ma tra le istituzioni pubbliche e i soggetti privati che con le istituzioni pubbliche possono e sono in grado di collaborare, però abbiamo bisogno anche di, come dire, entrare bene in questo problema, perché questo problema non è facilmente inquadrabile nel senso di istituzioni pubbliche sorde alla buona volontà di privati ovvero di privati che tanto vorrebbero intervenire, ma non trovano i canali per poter intervenire. Qui è un problema generale che occorre affrontare ed è quello di capire come e a che condizioni tutto ciò possa avvenire, se si tratta di mecenatismo c’è un certo modo di impostare il discorso, ma se si tratta di collaborazione pubblico - privato con quei due aspetti, ameno quei due aspetti, ripeto ce ne sono altri, che io prima illustravo, allora il discorso è molto diverso e assume aspetti e qui uso volutamente il termine in senso tecnico, e assume aspetti di carattere contrattuale, vale a dire di regolazione di obbligazioni di contenuto patrimoniale.

C’è un altro punto sul quale vorrei concludere e che a questo si ricollega ed è il problema della gestione dell’immagine dei beni culturali. Esiste questa miniera, noi siamo abituati dalla coppia che si sposa e si fa fotografare davanti al bene culturale, alla riproduzione dell’immagine di cui lo Stato è proprietario, a una sorta, come dire, di non considerazione, si tratta di cose e non di beni mobili, sono cose prive di valore economico ecco, l’immagine del bene culturale non può più essere considerata priva di valore economico, assolutamente, allora cominciamo a riflettere anche su quest’altro argomento, non è un’immagine priva di valore economico, esiste uno statuto proprietario del bene, questo bene è in proprietà di qualcuno, fa parte di un demanio di un ente territoriale, il diritto all’immagine su quel bene è un diritto che appartiene al proprietario di quel bene.

Non è un concetto nuovo, è un concetto sul quale già si fonda la legge Ronchey di qualche anno fa, probabilmente è un concetto però sul quale si deve ancora lavorare, perché probabilmente uno dei limiti della attuazione deriva dalla frammentazione della cessione dei diritti e da una scarsa considerazione del valore economico di quei diritti e allora che i privati si accordino con lo Stato.

Anzi lancerei un appello a una partecipazione maggiore dei privati insieme allo Stato, ma consentitemi di dirlo in conclusione che in tutti questi aspetti sia lo Stato innanzi tutto a fare il privato, vale a dire a considerare, a sfruttare, a gestire al meglio quelle che sono le sue potenzialità, perché altrimenti guardate continuiamo a ragionare di concetti e poiché la gestione non è assistita da idee di intervento pubblico chiare, la gestione va per suo conto mentre i concetti restano nel limbo delle idee.



Nota
[1] Testo non rivisto dall'autore.


copyright 1999 by Società editrice il Mulino


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